Enter your keyword

“IL PUBBLICO MINISTERO, POTERE E DEMOCRAZIA.  UN EQUILIBRIO NECESSARIO” – DI FABIO PINELLI

“IL PUBBLICO MINISTERO, POTERE E DEMOCRAZIA. UN EQUILIBRIO NECESSARIO” – DI FABIO PINELLI

PINELLI-IL PUBBLICO MINISTERO POTERE E DEMOCRAZIA UN EQUILIBRIO NECESSARIO.pdf

“IL PUBBLICO MINISTERO, POTERE E DEMOCRAZIA. UN EQUILIBRIO NECESSARIO”.

La relazione del Vice Presidente del CSM Avv. Fabio Pinelli

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la relazione tenuta dal Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Avv. Fabio Pinelli, nel corso dell’Inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, organizzata dall’Unione Camere Penali Italiane e svoltasi a Milano il 7 e l’8 febbraio 2025.

Viviamo un’epoca di grandi trasformazioni della società, dal punto di vista sociale, culturale, demografico, economico e, non da ultimo, degli stessi meccanismi di formazione del consenso e del modo di fare politica.

Anche il diritto – che nella società si radica – è stato interessato da profondi mutamenti che, dagli anni ’90 del secolo scorso fino ad oggi, hanno toccato in modo radicale il processo penale e il ruolo degli attori di questo processo.

Ventuno magistrati uccisi da terrorismo e mafia, le conseguenze politiche delle inchieste sulle corruzioni nei primi anni Novanta, l’interesse nel mondo politico a utilizzare le inchieste penali per la lotta politica e del mondo giornalistico darne un connotato scandalistico, hanno consegnato ad una parte della magistratura il convincimento di potersi costituire come protettrice permanente della Repubblica e di dover conseguentemente svolgere una missione di pulizia morale del Paese.

Luciano Violante ha avuto modo di sottolineare come, a partire da quegli anni, si manifestò una sorta di entusiasmo punitivo di massa, sollecitato dagli spiriti animali dell’antipolitica: demagogie, populismi, sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che fosse pubblico, beatificazione delle Procure, il processo e la pena come lavacri per l’intera società.

La comunicazione tv, specie quella delle reti commerciali, attivava l’entusiasmo punitivo mostrando gabbie, manette e cortei plaudenti ai PM e alla giustizia penale.

Questo convincimento fece ritenere a taluni magistrati che non dovessero limitarsi ad accertare eventuali responsabilità individuali, ma semmai essere titolari di un controllo diffuso di legalità, inteso come verifica preventiva che la legalità non fosse stata in ipotesi violata.

Ma attribuire al magistrato il controllo di legalità significa trasferire al potere giudiziario la sovranità propria del potere politico. Il controllo della legalità è, secondo i casi, compito della politica, della pubblica amministrazione e della polizia; compito del magistrato invece è, come abbiamo detto, l’accertamento delle responsabilità individuali.

Tutte le indagini penali, ricorda sempre Violante, anche quelle meno rilevanti, hanno un carattere totalizzante per la loro gravità simbolica: la superiorità infinita dell’inquirente rispetto all’inquisito, un nucleo etico, risalente all’antica confusione tra reato e peccato, il potere di stabilire il confine tra libertà e prigionia, la sacralizzazione delle vittime che chiedono, a volte in modo spettacolare, una giustizia modellata sulle proprie aspettative.

Nella parte della magistratura meno avvertita dei limiti costituzionali delle proprie funzioni, il clima di consenso dell’opinione pubblica e di annichilimento della politica generò l’idea di poter svolgere una funzione salvifica, sotto il grande ombrello (così grande da perderne i limiti e i confini) del Codice penale. Nella società cominciò a farsi strada l’idea che il magistrato potesse davvero sostituire il politico nel governo del Paese. I mezzi di comunicazione sfruttarono la popolarità delle inchieste, per farne argomento principe delle prime pagine e dei talk show. Nel mondo politico le inchieste cominciarono ad essere utilizzate nella lotta contro l’avversario. Attorno alla magistratura e alle sue indagini cominciò ad aggregarsi, verso la metà degli anni Novanta, una domanda di incidenza politica, che smascherasse le malefatte, vere o presunte, delle classi dirigenti. Questa domanda si radicò in parte della società, parte dei mezzi di comunicazione e parte dello stesso mondo politico.

Quello che accade dopo è frutto del radicamento di quella domanda.

La figura processuale che a seguito di tutto ciò si è modificata in questi anni è proprio quella del pubblico ministero.

Il pubblico ministero è diventato infatti un polo di attrazione.

Alle contingenze storiche, si è poi accompagnato un mutamento del modello strutturale del processo penale avvenuto con la Riforma Vassalli.

Questa Riforma, infatti, ha avuto certamente il pregio – almeno nell’intento del legislatore – di mettere al centro del processo penale il contraddittorio nella formazione della prova e la parità delle armi tra accusa e difesa, principi che sarebbero poi stati costituzionalizzati nel 1999 con la legge costituzionale sul “giusto processo” che ha riscritto l’art. 111 Cost.

Tuttavia, essa ha portato con sé anche l’idea di una metamorfosi del PM; una sorta di mutamento di specie del magistrato della pubblica accusa, con una visione del processo tendenzialmente come confronto di parti avversarie, che deve inevitabilmente sfociare in un risultato della contesa: la vittoria o la sconfitta. Nel processo come contesa vince il più bravo, non necessariamente chi ha ragione, e la verità storica degli accadimenti resta un attore non partecipante, la sussumibilità della condotta nella fattispecie tipica, una sfumatura interpretativa.

A questa progressivo mutamento di ruolo nel processo del pubblico ministero si è poi ulteriormente accompagnata la convergente crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale, divenuta una vera e propria ipocrisia costituzionale, impraticabile nella concreta vita giudiziaria, che ha finito per nascondere le scelte discrezionali compiute dalla pubblica accusa su an e quando della persecuzione penale.

Il pubblico ministero ha iniziato ad essere avvertito come dominus incontrollato delle stesse politiche criminali del Paese ed a guardarsi con maggiore preoccupazione e diffidenza il potere assunto dalla sua figura.

La crisi reputazionale della politica ha iniziato ad interessare anche la magistratura; troppe volte, in certa magistratura è emersa la prevalenza della dimensione del potere, sulla dimensione del servizio e questo i cittadini lo hanno percepito.

Non è quindi un caso che oggi il pubblico ministero sia divenuto il vero e proprio punto di attrazione del dibattito sulla giustizia penale e che, come emerge dallo stesso titolo di questo Congresso, esso sia visto come l’oggetto della ricerca di un (ri)“equilibrio necessario” dei poteri nella struttura democratica dello Stato.

Una riflessione.

È inevitabile, per certi aspetti fisiologico, che su riforme della portata di quella in discussione, che impattano sulla stessa architettura costituzionale, si sviluppi una dialettica di opinioni contrapposte. Essa è assai utile per non deflettere dai fondamentali principi di autonomia e di indipendenza della magistratura, nella doverosa e contestuale comprensione, però, delle esigenze che la riforma intende perseguire: l’idea che la distinzione funzionale tra pubblico ministero e giudice debba trovare un corrispettivo anche sul piano di una distinzione ordinamentale, al fine di una più compiuta attuazione dei principi costituzionali di parità delle armi tra accusa e difesa e di terzietà del giudice.

Le ragioni storiche che ho sommariamente tratteggiato e che possono al più essere un contributo per ricostruire l’evolversi di certe dinamiche sociali, non devono però mai divenire motore di istanze rivendicative incarnate dai cittadini nei confronti della magistratura, in un clima che non dà merito del giusto riconoscimento morale e sociale, dell’enorme lavoro compiuto quotidianamente dai magistrati al servizio del Paese. La delegittimazione della magistratura mina alla radice la salute della nostra democrazia.

Tutti noi abbiamo avuto consapevolezza nel tempo, di quale disastro sociale abbia comportato la demolizione della politica, una sfiducia pregiudiziale in tutto ciò che fosse pubblico e contenesse la parola “politica”. L’invocazione alla necessità di aprire “il Parlamento come una scatoletta di tonno”. La polverizzazione dei partiti politici come luoghi di crescita, di condivisione di valori, di ideali, di prospettiva del mondo, di confronto per i giovani, è stato un enorme danno per la democrazia. Ha comportato una carenza di partecipazione dei cittadini alla vita delle comunità, ha aumentato il senso di sfiducia nelle Istituzioni, ha favorito una democrazia per delega e incentivato i leaderismi.

Il sottosegretario di stato alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario nel distretto di Roma ha non solo puntualizzato che è in discussione una riforma della giustizia per i cittadini e non contro la magistratura, ma ha aperto al dialogo ed invitato la magistratura a non perdere l’opportunità di un confronto ancorché critico sui contenuti. La magistratura – mi permetto – accolga questo invito. Né va della salute della nostra democrazia, che ciascuno di noi ha il dovere di proteggere. Oggi il 60% della popolazione mondiale è guidata da governi non democratici. La democrazia non è scontata e non si trova in natura. E non esiste democrazia senza una magistratura libera, competente, autorevole, autonoma e indipendente.

L’avvocatura penale può avere una parte fondamentale soprattutto in questa fase, essere un interlocutore privilegiato nell’interesse del Paese, ponendosi così al centro del tavolo politico sulla giustizia.

L’importanza e la delicatezza dei valori costituzionali in gioco (autonomia e indipendenza della magistratura, da un lato, e giusto processo, parità delle armi e terzietà del giudice, dall’altro) comportano l’esigenza di evitare dunque reciproche chiusure emotive e irrazionali, mantenendo invece un atteggiamento di dialogo e di reciproca collaborazione tra tutte le istituzioni coinvolte, volto alla ricerca di un “necessario” equilibrio (come del resto ci ricorda lo stesso titolo congressuale: “equilibrio necessario”). Forse, sul versante politico, nella direzione del riequilibrio, potrebbe aiutare la discussione sulla possibile reintroduzione di una forma di immunità parlamentare, come del resto avevano pensato i nostri padri costituenti.

Mi rendo conto quanto sia divenuto difficile perseguire questo equilibrio in un clima attraversato da sempre più aspre tensioni, in cui il rifiuto del confronto e l’abbandono di occasioni di ascolto e dibattito è ormai sempre più spesso adottato dalla magistratura come forma di protesta.

Nella vita è facile parlare con chi la pensa come te. Il problema è l’opposto.

L’“equilibrio” deve essere ricercato non solo nei contenuti delle soluzioni riformiste, ma anche nella forma del dibattito su queste, nei limiti delle attribuzioni di ciascuno.

Da questo punto di vista, va altresì ricordato che sia alla magistratura, sia all’avvocatura spetta un “contributo di competenza”, non di “rappresentanza”, che è viceversa attribuito esclusivamente alla politica.

Un contributo di competenza in cui diventa essenziale anche la diversità di posizione processuale dell’avvocatura e della magistratura, in quanto consente – ove armonicamente articolata in dialogo – di fornire un quadro più completo dell’esperienza concreta del processo.

È a partire dall’esperienza concreta, infatti, che ogni intervento riformatore deve svilupparsi per essere realmente efficace.

La concentrazione del dibattito sulla sola “separazione delle carriere” rischia di dimenticare che la questione dell’architettura ordinamentale non esaurisce il problema da affrontare.

Quello che davvero è essenziale nella prospettiva di un miglioramento del servizio giustizia per i cittadini è per l’appunto il “ruolo” che si intende attribuire al pubblico ministero nella struttura processuale determinata dalla novella del 1999 sul “giusto processo”, alla luce del progetto riformatore.

C’è voluto molto tempo perché gli effetti di questo cambiamento fossero percepiti all’esterno, ma ormai i tempi sono divenuti maturi e questi cambiamenti portano ineludibilmente a un ripensamento dell’inquadramento istituzionale del pubblico ministero.

In effetti questo non può stupire: già nel 1991 Giovanni Falcone aveva affermato che “[c]on il nuovo codice di procedura penale il pubblico ministero può essere soltanto “parte” ed è quindi connaturale al suo ruolo il coordinamento delle indagini e la raccolta degli elementi a sostegno dell’accusa con la collaborazione della polizia giudiziaria” con la conseguenza che “[e]gli deve quindi adattarsi al suo nuovo ruolo di “non giudice” e trasformarsi in una sorta di avvocato della polizia. Sarà difficile ma bisognerà arrivarci” (v. G. Falcone – M. Padovani, Cose di cosa nostra, Milano, 1991, p. 164). Non credo sia auspicabile, nell’interesse dei cittadini, che il PM diventi un avvocato della Polizia.

Ma le frasi appena citate hanno un pregio indubbio: quello di lanciare una precisa e irretrattabile sfida intellettuale, ci chiamano a una più profonda riflessione su quale debba essere il ruolo del pubblico ministero nel nuovo contesto processuale “accusatorio”, nato dalla Riforma Vassalli.

Il processo accusatorio – quale esplicazione del giusto processo basato sul contradditorio nella formazione della prova, sulla parità delle armi e sulla terzietà del giudice – deve essere difeso come una conquista irrinunciabile di civiltà processuale.

E in questa difesa la riflessione sul ruolo del pubblico ministero nella formazione delle prove e nel suo rapporto con la difesa e con il giudice, diventa fondamentale.

Falcone se ne era accorto immediatamente dopo la Riforma Vassalli.

È dovuto invece passare molto più tempo perché questa esigenza diventasse generalizzata.

Ma ora ci siamo.

Non è detto che il pubblico ministero possa essere visto solo come un “avvocato della parte pubblica”, parte da trattare paritariamente con la difesa, ma sia semmai – come dice Bruti Liberati – sul modello francese, il primo gardien des libertes, la figura che si frappone tra la Polizia e il giudizio, rispetto anche alla pressione dell’opinione pubblica. Organo di “garanzia”, così enfatizzando il suo dovere – sempre più avvertito come inattuato nella pratica – di raccogliere anche le prove a favore dell’imputato.

Certo, nell’opera di ripensamento del ruolo del pubblico ministero, occorre fare attenzione a non caricare questa figura processuale di nuove funzioni che rischierebbero di ulteriormente allentarne il legame con il carattere “accusatorio” del processo in cui si inserisce.

Certamente, il pubblico ministero non può essere o divenire il difensore dei diritti sociali; poiché la magistratura – come dice il Procuratore Generale della Corte di Cassazione – non deve avere improprie finalità di redenzione sociale. I magistrati non devono indagare i fenomeni sociali, ancora Bruti Liberati, anche perché da lì il passaggio dal concorrente nel reato al “coinvolto”, persona “toccata indirettamente dall’indagine” (con tutto ciò che consegue sul piano del nuovo diritto della modernità tecnologica, la reputazione) il passo è breve. Ciò accrescerebbe il rischio di politicizzazione della magistratura e nuocerebbe alla salvaguardia di quell’“equilibrio necessario” tra istituzioni: tra chi detta le norme e chi le deve applicare.

Al contrario va accentuata la sua natura di “parte” d’accusa, più aderente alla concezione triadica del processo nella necessaria distinzione soggettiva – e non meramente funzionale – tra accusa, difesa e giudice.

Dunque, occorre non rinunciare a vedere il pubblico ministero nella fase iniziale del procedimento come “valutatore imparziale” della credibilità della notizia di reato per poi riconoscere, nella fase successiva all’esercizio dell’azione, che egli assume un ruolo d’“accusatore”, paritario (ma contrapposto) rispetto alla difesa.

Troppo spesso ci si dimentica infatti dell’importanza di quella che Cesare Musatti chiama la “legge psicologica dell’inerzia”, secondo la quale una volta adottato uno schema esplicativo della realtà si tende a sottovalutare le circostanze che lo smentiscono.

Così – come ci ricorda Glauco Giostra [Prima lezione sulla giustizia penale, p.64] – quando l’organo inquirente formula un’ipotesi per cercare la verità, sovente finisce per cercare non più la verità, ma la verità della sua ipotesi. Ha un’attenzione selettiva, una visione monoculare della realtà.

Forse questa la ragione profonda del fallimento pratico della disposizione processuale che vuole il pubblico ministero ricercare le prove a favore dell’indagato: un fallimento pratico che ha segnato profondamente un certo modo di interpretare il ruolo di pubblico ministero, nuocendo sull’autorevolezza dell’organo e sulla fiducia riscossa da questa figura nella percezione generale dei cittadini.

Peraltro, è opportuno riflettere altresì sulle possibili conseguenze indesiderate dell’accentuazione dei caratteri di mera “parte d’accusa” del pubblico ministero, anziché, come si dice con un ossimoro, di “parte imparziale”: ci si dovrebbe chiedere, infatti, quali sarebbero i residui margini di compatibilità di questa nuova visione del ruolo del pubblico ministero, con permanenza della previsione codicistica che lo obbliga a raccogliere anche le prove a discarico. Ed ancora, la sanzione processuale e disciplinare per l’eventuale mancata produzione (di occultamento non potrebbe più parlarsi) di eventuali elementi di prova raccolti a favore dell’imputato.

Diventa allora fondamentale che ogni sforzo riformatore e ogni contributo di scienza giuridica e di competenza professionale sia volto a costruire un sistema che, a fronte della congenita asimmetria strutturale del processo penale, attribuisca ad accusa e difesa equivalenti opportunità di influire sul convincimento giudiziale.

Ciò può avvenire solo riconoscendo all’accusato diritti per recuperare lo svantaggio iniziale nella formazione della prova, nella consapevolezza che il pubblico ministero, a un certo punto del procedimento, è divenuto irrimediabilmente “parte”.

Da qui, l’esigenza di un cambio di mentalità anche da parte del giudice che deve prendere le distanze da habitus interpretativi e valutativi che, in passato, hanno ad esempio contribuito al fallimento della riforma sulle investigazioni difensive. [Investigazioni difensive, rispetto alle quali, dovrebbe accompagnarsi una ulteriore riflessione da parte della stessa avvocatura sulla mancanza di autorevolezza da questa talvolta manifestata, forse per una non adeguata comprensione del diverso ruolo pubblico-istituzionale che l’avvocato assume nel frangente come pure è chiaramente desumibile dalle previsioni del codice deontologico in materia.]

Non si può infatti concentrare l’attenzione solamente sulla pubblica accusa, perché è dagli atteggiamenti interpretativi e valutativi del giudicante che dipendono le più importanti criticità in materia di misure cautelari, rispetto alle quali non pare naturale che faccia notizia, come accaduto anche recentemente, quando il giudice per le indagini preliminari non accoglie la richiesta del pubblico ministero.

Allo stesso modo è opportuno metabolizzare che proprio dagli atteggiamenti interpretativi e valutativi del giudice dipenderà la sorte dei rimedi che la Riforma Cartabia ha approntato sui passati difetti di filtro dell’udienza preliminare.

Condividiamo tutti insieme, politica, magistratura e avvocatura, la riflessione di una giustizia per i cittadini, di un diritto penale per i cittadini: quello che conta è la salvaguardia dello stato di diritto e la tutela dei loro diritti di libertà, non la supremazia della nostra o di altra visione.

Come dice Massimo Donini, “poteri divisi ma saperi condivisi”.

L’obiettivo è chiaro e riguarda ciascuno di noi: ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est, non esiste alcun vento favorevole per chi non sa a quale porto vuole approdare (Seneca – lettera 71 a Lucilio).

            Grazie.

Milano, 7.02.2025