QUALI CRITERI PER LA SELEZIONE DELLE SENTENZE DA MASSIMARE? – DI LADISLAO MASSARI
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QUALI CRITERI PER LA SELEZIONE DELLE SENTENZE DA MASSIMARE?
di Ladislao Massari*
Occorre un ripensamento dell’organizzazione del massimario della Cassazione, cuore pulsante della nomofilachia, più trasparente, democratico e proiettato verso il futuro.
Guardarsi alle spalle, per poi constatare il presente ed infine proiettarsi nel futuro.
Metodologia d’analisi classica che sembra appropriata anche nell’approccio ab externo di un avvocato penalista, spettatore del funzionamento della massimazione delle sentenze di legittimità e pur sempre però fruitore del sapere giurisprudenziale, tanto più quando lo stesso si propone sempre più insistentemente come protagonista nella gerarchia delle fonti (e non già come mero “formante”).
Fruitore ed inevitabilmente propulsore di interpretazioni e di stimoli ermeneutici nel percorso non sempre lineare della law in action.
La scelta problematica dei criteri di selezione delle sentenze da cui estrarre i principi di diritto dettati dal giudice di legittimità, nella sua più tangibile e propria funzione nomofilattica, passa attraverso la constatazione del passato nel funzionamento dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Suprema Corte di Cassazione.
Un passato remoto ma profondamente significativo che si ritrova nelle parole del Presidente D’Amelio che nel 1931 scriveva “… non già che la giurisprudenza della Corte debba irrigidirsi in una serie di massime da riprodursi quasi meccanicamente ogni volta che si presenti alla Corte la stessa legge da interpretare… La giurisprudenza, come ogni organismo vivente, è soggetta ad evolversi… Quello che invece debbono ad ogni costo evitarsi sono le difformità prodottesi incoscientemente, cioè senza che il collegio sappia che vi sia stata altra decisione di altra sezione o della stessa in senso contrario”[1].
La nomofilachia quale espressione di una esigenza di coerenza, di uniformità, di interpretazione chiara della lettera e dello spirito della legge.
Un passato dei criteri di classificazione delle massime della giurisprudenza di legittimità penale che vive ancora nelle indicazioni contenute nei decreti dei Presidenti Brancaccio (11.7.1991 e 27.5.1992), Marvulli (decreto del 23.1.2004) e Lupo (decreto del 4.3.2011), in diretta esecuzione dell’art. 26 del d.m. 30.09.1989, n°. 334 (per cui “con decreto del Presidente della Corte di Cassazione sono stabiliti i criteri per la individuazione delle sentenze dalle quali devono essere tratte le massime e per la redazione delle stesse”).
Sin dai momenti fondativi dell’Ufficio del Massimario, dunque, che ci si interroga sulle competenze e sulle modalità nella individuazione delle sentenze da massimare: se infatti nei primi anni 90 erano i Presidenti del collegi di legittimità a segnalare le decisioni meritevoli di tracciare il percorso della nomofilachia, nell’accentramento pressochè esclusivo della propulsione, con il decreto Marvulli si è invece – come noto – distribuito nelle competenze del Direttore del Massimario, oltre che del Vicedirettore delegato e del magistrato coordinatore, il compito di selezionare le decisioni da considerare con “autonomo apprezzamento” (artt. 2 e 3).
Con il decreto Lupo poi si è inteso contemperare le precedenti modalità di selezione delle sentenze da massimare nella interlocuzione preziosa tra Presidenti dei collegi ed Ufficio del Massimario, in una pur sempre richiamata “autonoma valutazione” da parte di quest’ultimo (art. 1, comma 2).
Ma è sugli aspetti di contenuto che appare più interessante soffermarsi: la scelta nel passato doveva ricadere sulle decisioni portatrici di “principi giurisprudenziali inediti”, nel mentre quelli “già affermati” e consolidatisi nel corso del tempo non avrebbero dovuto trovare continuo ed inutile richiamo, se non “dopo un certo lasso di tempo” che fosse diversamente parametrato rispetto alla rilevanza del principio. L’esigenza era dunque quella di censire nell’immediato eventuali orientamenti contrastanti, e dunque incompatibili con la uniformità cui doveva tendere la nomofilachia, al fine di sollecitare l’intervento dirimente delle Sezioni Unite.
E se nel decreto Marvulli “la massima … deve rappresentare la sintesi della decisione e della ragione che la sorregge”, con il presidente Lupo si è affermato che “la massima deve rappresentare la sintesi del principio affermato e, solo ove necessario, della ragione che lo sorregge”, così prediligendosi la sintesi, la chiarezza e la brevità. Indicazioni non a caso che si ritrovavano anche nel Protocollo per la redazione delle sentenze penali datato 11.01.2012 e sempre a firma del Presidente Lupo.
Il passato dunque può descriversi come un percorso volto alla realizzazione della funzione della Corte di Cassazione come “organo supremo della giustizia” che “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo” secondo le parole di Calamandrei[2]. E l’Ufficio del Massimario avrebbe dovuto quindi trasmettere tale visione della più alta funzione del giudice di legittimità attraverso la selezione di sentenze dalle quali estrarre massime che restituissero alla giurisprudenza di legittimità “il suo scopo ultimo”, ovvero “uno scopo di coordinamento tra funzione legislativa e funzione giudiziaria che attiene più che alla fase di applicazione del diritto al caso concreto alla fase di formazione e formulazione del diritto” (sempre nelle parole di Calamandrei).
Ma tale percorso ha dovuto inevitabilmente fare i conti con i numeri, con la valanga di ricorsi e con la conseguente poderosa produzione di sentenze, di modo che il giudice di legittimità ha spesso dovuto accantonare la sua funzione nomofilattica per divenire giudice di terza istanza, nella compressione dello ius consitutionis in favore dello ius litigatoris.
E ci si avvicina così al presente, nella individuazione di strumenti di sopravvivenza del giudice di legittimità sotto assedio: smaltire i ricorsi significa inevitabilmente ridurre il tempo da dedicare alla nomofilachia, in un quadro interpretativo reso ancor più complesso dal pluralismo delle fonti e dalle inevitabili interlocuzioni con le Corti sovranazionali, in ragione delle necessità di rispondere alle migliaia di ricorrenti che si rivolgono alla Suprema Corte. Ed è così che si adottano strumenti di difesa necessari: motivazioni semplificate, spoglio di inammissibilità, preclusioni della cd. “doppia conforme”, risposte stringate e spesso che si rifugiano nella pressoché automatica ripetizione di una sorte di format decisorio per categorie ed argomenti.
Il diritto giurisprudenziale sviluppa così inevitabili anticorpi per poter resistere alla minaccia concreta della confusione, della disomogeneità, del disordine legato alla moltitudine delle impugnazioni; anticorpi che troveranno poi riconoscimento normativo seguendo un percorso sempre più frequente di impulso della giurisprudenza rispetto al legislatore.
La riforma Orlando, la riforma Cartabia e financo la recente novella Nordio introducono strumenti di selezione, di riduzione e di limitazione all’accesso alla strada del ricorso di legittimità e da ultimo anche semplicemente di accesso alle aule del palazzo di piazza Cavour (con le recenti modifiche degli artt. 610 e 611 c.p.p. e con il triste definitivo tramonto della pubblicità delle udienze).
Un arsenale di strumenti necessario per ridurre il numero dei ricorsi e, conseguentemente, il numero delle sentenze, con indirette ricadute sullo stesso funzionamento del Massimario in sede penale.
E pur implementando la dotazione organica dell’Ufficio (per come con il D.L. n°. 69 del 2013 conv. in l. n°. 98 del 2013 e poi, emblema della Suprema Corte sotto assedio, con il D.L. n°. 168 del 2016, nell’applicazione dei componenti del Massimario nei collegi per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali di legittimità) il risultato non pare essere cambiato in modo sensibile.
Oggi il Massimario si occupa dell’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, condotta allo scopo di creare le condizioni di un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte di Cassazione), necessaria per il migliore esercizio della funzione nomofilattica. Così si legge nel § 78 della Tabella di organizzazione per il triennio 2020-2022 (ma anche in quelle immediatamente precedenti).
I criteri per la selezione delle sentenze da massimare e la verifica delle soluzioni adottate sono di competenza del Direttore dell’Ufficio del Massimario, d’intesa con i vicedirettori e sentiti i coordinatori e nel rispetto delle linee guida dettate dal Primo Presidente di concerto con il Presidente Aggiunto e i presidenti di sezione (§79.5)
Al § 81 si indicano i criteri di organizzazione per il settore penale:
Le copie dei provvedimenti emessi dai collegi delle sezioni penali ordinarie della Corte sono trasmesse all’Ufficio del Massimario e del Ruolo, per la selezione di quelli da massimare. Non vanno trasmesse le sentenze con motivazione semplificata e le ordinanze emesse dalla Settima sezione, salvo diverso avviso del presidente del collegio.
Nella selezione dei provvedimenti da massimare, si tiene conto delle segnalazioni delle decisioni di maggior interesse che i presidenti dei collegi effettuano attraverso la compilazione di una scheda in cui sono espressi i principi di diritto da massimare e le ragioni per cui si ritiene che il provvedimento debba essere massimato, ferma restando l’autonoma valutazione dell’Ufficio circa l’effettiva esigenza di massimazione e l’individuazione dei principi di diritto. Lo spoglio avviene, in particolare, secondo i criteri individuati dal Primo Presidente.
Ed ancora utile per comprendere in concreto l’attuale funzionamento dell’Ufficio del Massimario è la “Sintesi dei criteri della massimazione civile e penale” (a cura di Francesca Costantini e Paola D’Ovidio del 29.10.2021), ove si legge espressamente che l’individuazione dei principi di natura nomofilattica ha lo scopo di “garantire una capillare informazione”.
Si richiama il lavoro di squadra nel monitoraggio di “tutti i provvedimenti depositati dalle Sezioni civili e penali della Corte di cassazione (fatta eccezione come detto, per la massimazione penale, per le ordinanze della Settima Sezione) al fine di estrarre le pronunce che “hanno natura nomofilattica”[3].
La massima viene così definita quale “enunciazione sintetica del principio di diritto affermato dalla Corte e posto a fondamento della decisione assunta – senza che assumano rilievo eventuali affermazioni solo incidentali od obiter dicta, in ciò distinguendosi dagli abstracts pubblicati da diverse riviste, che riportano la notizia di decisione ed il caso esaminato ma non necessariamente ne estraggono il principio di diritto”.
Nella attività di spoglio, di tutte le sentenze, ordinanze e decreti delle sezioni ordinarie civili e penali e delle Sezioni Unite della Cassazione, con autonomo apprezzamento dell’Ufficio del Massimario, vengono individuati “i principi di diritto enucleabili dalle decisioni che formeranno oggetto di massimazione”.
Quali i criteri attuali dunque? Si legge nel citato documento: “
1. Criteri sostanziali.
Lo spoglio e la massimazione sono indicati nei casi di:
a) risoluzione da parte delle Sezioni Unite di un contrasto di giurisprudenza o di una questione di massima di particolare importanza;
b) novità del principio;
c) difformità rispetto ai precedenti;
d) utilità della conferma del principio per la sua rilevanza, il tempo trascorso dalla più recente enunciazione o la fruibilità in casi analoghi e reiterati;
e) rilevanza della fattispecie, anche per il particolare impatto sociale della questione, l’interesse che suscita o la reiterazione del caso.
È invece escluso lo spoglio e la massimazione del principio costituente:
a) ripetizione di una norma (massima pleonastica);
b) definizione di una nozione (massima accademica);
c) formulazione di una nozione (massima accademica);
d) passaggio intermedio funzionale alla enunciazione della ratio decidendi (massima frammentale);
e) enunciazione di principi in via incidentale (massima ultronea);
f) divagazione rispetto alla ratio decidendi (obiter dictum).
Il principio che ripeta una norma, definisca una nozione o segni un passaggio intermedio, può eventualmente essere massimato solo quale premessa, unita alla ratio decidendi.
L’enunciazione successiva alla ratio decidendi non può essere massimata neppure quando si tratti di una ratio pregiudiziale di rito (inammissibilità o improcedibilità del ricorso).
b) Criteri temporali.
Il principio già massimato da oltre cinque anni che conservi rilevanza o in linea generale o per la diversità od analogia della fattispecie può essere nuovamente massimato con una “Massima conforme”.
Il principio già massimato oltre l’anno precedente, ma entro il quinquennio, può essere nuovamente richiamato con la formula “non massimata conforme”. Questa indicazione è utilizzata solo per la massimazione civile.
La valutazione dell’opportunità della massimazione conforme (MC o NMC), quando ricorrano i criteri temporali sopraindicati, è condotta tenendo conto della lontananza temporale dell’ultimo precedente e della esistenza della eventuale coesistenza di contrasti o disomogeneità interpretative.
A prescindere dall’intervallo temporale trascorso, è sempre possibile la reiterazione del principio mediante una “massima con fattispecie” ove sia opportuno segnalarne la peculiarità, nonché ove sia necessario evidenziare il consolidarsi di un nuovo principio.
Le condizioni temporali sopra indicate possono essere derogate anche con riferimento a principi di recente affermazione in via di consolidamento, ovvero di principi già consolidati ma sui quali sia intervenuta qualche pronuncia contrastante o sintomatica di orientamenti in via di evoluzione”.
Sin qui dunque lo stato dell’arte, nella indicazione – almeno formale – di una scelta di campo che vedrebbe il monitoraggio di tutte le decisioni emesse dalla Suprema Corte (con le limitazioni per il penale già indicate) ed una selezione fondata su criteri sostanziali e temporali.
Ma nell’autonomia della valutazione dell’Ufficio del Massimario, sia pure nel lavoro di squadra e di condivisione con i vertici della giurisprudenza di legittimità, può dirsi dunque esistente una certa discrezionalità nella selezione delle decisioni da massimare e dunque da proporre quali “annunci di giurisprudenza futura” (efficace espressione richiamata dal prof. Micheletti, riportando un risalente precedente della Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione[4])?
Può cioè negarsi, sulla base dei citati meccanismi di selezione, l’esistenza di una sorta di discrezionalità nomofilattica?
Un esempio.
La sentenza delle Sezioni Unite Filardo (n°. 29541 del 16.07.2020 relatore Beltrani) in tema di distinzione tra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, riporta in un obiter dictum, la seguente affermazione (pag. 41): “Deve, …, ritenersi non consentito il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 cod. proc. pen. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale” (espresso richiamo se ne fa in Cass. Sez. 4, n°. 17681 del 4.4.2024[5]). Una massimazione di tale “principio di diritto” non sarebbe stata necessaria, posto l’autorevole consesso e la “originalità” della statuizione in parte qua?
Dalla predetta decisione, infatti, non solo vengono estrapolate le massime inerenti alla specifica questione oggetto dell’intervenuto contrasto giurisprudenziale (sul criterio distintivo tra le due fattispecie di reato, sull’elemento psicologico e sul concorso del terzo), ma anche su apparenti obiter dicta in ordine alla preclusione della deduzione del vizio di motivazione in relazione a questioni di diritto ovvero della violazione dell’art. 192 c.p.p. nell’ambito della lettera c) dell’art. 606 c.p.p., piuttosto che della lettera e).
Nulla si legge della “originale” e per chi scrive eterodossa affermazione che nega la possibilità di dedurre la violazione della carta fondamentale o della convenzione edu (anche attraverso le decisioni della Corte di Strasburgo) nell’ambito delle previsioni dell’art. 606 c.p.p. ed al di fuori di eventuali questioni di legittimità costituzionale. Non si è forse allora scelto in questo caso di non massimare?
Ed ancora, può davvero ritenersi che, pur a fronte della citata implementazione dei componenti del Massimario, sia davvero possibile una analisi completa ed approfondita di “tutti” i provvedimenti emessi e non si debba al contrario volgere lo sguardo al futuro, e dunque alle nuove tecnologie, al fine di ottenere davvero uno screening così esaustivo e diffuso?
Si valutino le tecniche di redazione delle sentenze (per vero altrettanto utile sarebbe poi soffermarsi sulle tecniche di redazione degli atti difensivi) nella necessità di adottare quella che il prof. Viganò definisce efficacemente “fase genetica della regola giurisprudenziale”: il giudice dovrebbe sin da subito pensare alla propria decisione come un potenziale precedente, in grado di contribuire alla progressiva costruzione di un futuro diritto vivente e di influenzare di conseguenza le decisioni di altri giudici chiamati a risolvere casi analoghi.
Questa esigenza di chiarezza e di precisione delle regulae iuris vale “in massimo grado per la giurisprudenza di legittimità, alla quale spetta il compito di assicurare l’uniforme applicazione della legge penale nell’intero ordinamento”; per vero il prof. Viganò individua alcuni esempi di fallimento della funzione nomofilattica “imputabili proprio all’insufficiente precisione del principio di diritto enunciato dalla Cassazione – a volte anche nella sua più autorevole composizione a sezioni unite – che lascia di fatto senza guida i giudici successivi”[6].
La standardizzazione nella redazione delle sentenze consentirebbe una più semplice gestione nella fase della massimazione, posto che il principio di diritto potrebbe di fatto essere facilmente indicato già in sede di decisione nella consapevolezza della citata regola giurisprudenziale. Sentenze che piuttosto che soffermarsi sui “motivi” che, per come efficacemente si legge nella relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2023 della Prima Presidente della Corte di Cassazione, rimandano qualcosa di psicologico, devono indicare in concreto le “ragioni”, ossia gli argomenti tra principio di statuizione e principio di giustificazione.
Un esempio potrebbe essere tratto dalle sentenze della Corte Edu, nella loro ordinata sequenza argomentativa, resa ancor più “disciplinata” dall’utilizzo in sede di redazione del testo della decisione di un unico applicativo informatico che garantisce in termini di uniformità ed omologazione[7]. Non diversamente dalla redazione del ricorso, su modelli standardizzati obbligatori anche per il ricorrente: i vincoli grafici e dimensionali del formulario introduttivo rendono più semplice la gestione del procedimento sin dalla sua fase genetica e di delibazione di ricevibilità.
L’applicazione degli strumenti dell’AI[8] avrebbe così facile ingresso, nell’opera di filtro pur sempre controllata dai magistrati del Massimario e che sarebbe implementata dalle nuove tecnologie nella realizzazione piena della trasparenza digitale.
C’è forse differenza tra i criteri predeterminati per l’attività di spoglio e di successiva selezione delle sentenze da massimare e l’algoritmo posto a base del funzionamento di un programma di intelligenza artificiale? Qui non si tratta di sostituire le competenze, le esperienze e le professionalità di magistrati che in modo artigianale, scientificamente rigoroso e con dedizione ed impegno estraggono il succo del sapere di legittimità; al contrario si deve volgere lo sguardo alla possibile implementazione degli strumenti a disposizione, nella consapevolezza che sarà sempre l’uomo a scegliere ed a determinare la validità di un principio di diritto e la esistenza di un contrasto interpretativo meritevole di maturare verso decisioni dirimenti delle Sezioni Unite. Tanto in linea con le recenti indicazioni che vengono dal regolamento UE 2024/1689 sull’AI nel richiamo proprio ai principi di affidabilità e di antropocentrismo.
Non solo.
Il futuro impone trasparenza e democrazia.
Trasparenza nella massima pubblicità delle regole di funzionamento dell’Ufficio del Massimario, nella consapevolezza che se è certamente fondamentale la diretta interlocuzione all’interno della Cassazione, nel fitto interscambio con le singole sezioni della Suprema Corte, nella più corretta ed efficace funzione nomofilattica e di costante indicazione degli indirizzi ermeneutici e dei profili interpretativi problematici, ugualmente determinante è il dialogo esterno con tutti gli operatori del diritto. La preoccupazione è per quella tendenza delle decisioni del giudice di legittimità che appare talvolta più orientata a “fare dottrina” che invece a rivolgersi al cittadino (ed al suo difensore) non già quale giudice di terza istanza, ma pur sempre nella più piena estrinsecazione dello ius constitutionis, preannunciando al contempo la giurisprudenza futura, nella sua chiarezza e prevedibilità.
Democrazia ed uguaglianza non sembrano principi richiamati in modo enfatico e fuori luogo.
Destinatario finale del diritto vivente è il cittadino, ancor più in un sistema di civil law che quotidianamente appare sotto assedio di tendenze sempre più centripete verso il vortice dello stare decisis; “c’è Cassazione” si sente sempre più spesso anche nella discussione degli avvocati come nelle sentenze dei giudici di merito. Il ragionamento dei provvedimenti giudiziari sembra sempre più fondarsi sull’interpretazione della legge attraverso la esclusiva lente del giudice di legittimità, nella ricerca però del precedente che viene spesso “forgiato” impropriamente al fine di sostenere la “propria ragione”. Nella molteplicità delle massime, e talvolta nella poliedricità delle motivazioni, è agevole pescare il precedente attraverso un cherry picking che trascura il ragionamento e si fa scudo dell’autorevolezza della provenienza.
Si valutino due recentissime decisioni della Suprema Corte (medesimo relatore), una in ambito sostanziale e l’altra in sede processuale (o quasi).
Dapprima la nota decisione di legittimità (Cass. Sez. 6, n. 28594 del 26.03.2024) secondo cui costituisce causa di esclusione della colpevolezza il mutamento di giurisprudenza “in malam partem”, nel caso in cui l’imputato, al momento del fatto, poteva fare affidamento su una regola stabilizzata, enunciata dalle Sezioni unite, che escludeva la rilevanza penale della condotta e non vi erano segnali, concreti e specifici, che inducessero a prevedere che, in futuro, le stesse Sezioni unite avrebbero attribuito rilievo a quella condotta, rivedendo il precedente orientamento in senso peggiorativo.
Si è così sostenuto che “più un sistema tende ad assicurare maggiore uniformità alla giurisprudenza, più il mutamento giurisprudenziale finisce per “avvicinarsi” ad una modifica legislativa, senza tuttavia avere gli effetti di questa”; ed ancora si è detto che “il rispetto dei requisiti qualitativi di accessibilità e conoscibilità della norma, della prevedibilità della decisione giudiziale, della conoscibilità delle conseguenze delle proprie azioni, è conseguente al grado di precisione non solo del testo di legge, ma anche alla stabilizzazione dell’orientamento ermeneutico interno che quella disposizione scolpisce nella sua portata. Non si tratta di equiparare il diritto vivente alla legge, quanto, piuttosto, di riconoscere al primo un ruolo, una funzione che interferisce con la ragionevole prevedibilità delle decisioni future” (in tal senso, anche testualmente, Sez. U, Rizzi, citata in seguito).
Il cittadino deve essere messo così nelle condizioni di conoscere per prevedere, “in un contesto unitario tra diritto e processo, tra legalità sostanziale e processuale, tra esigenza di certezza e tutela dell’affidamento incolpevole, tra responsabilità e colpevolezza”. Perché, sia pure parafrasando l’autorevole ed innovativa decisione, legge e diritto “stanno e cadono insieme”.
Ma anche nella decisione delle Sezioni Unite del 26.10.2023, n°. 8052, Rizzi, si afferma emblematicamente che “Il divieto previsto dall’art. 240-bis cod. pen., introdotto dall’art. 31 legge 17 ottobre 2017, n. 161, di giustificare la legittima provenienza dei beni oggetto della confisca c. d. allargata o del sequestro ad essa finalizzato, sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale, si applica anche ai beni acquistati prima della sua entrata in vigore ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo tra il 29 maggio 2014, data della pronuncia delle Sezioni Unite n.33451/2014 ric. Repaci, e il 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017”.
Ancora una volta il diritto giurisprudenziale si pone “insieme” alla legge in un equilibrio di forze che impone quanto meno analoga prevedibilità, conoscibilità e trasparenza.
Il diritto che vive attraverso le decisioni dei giudici di legittimità (dalla prima definizione nel 1974 da parte della Corte Costituzionale) deve allora poter democraticamente essere disponibile per il cittadino attraverso le forme di divulgazione e di pubblicità che più possano garantirne la conoscenza; è nella prevedibilità della interpretazione giurisprudenziale, così come nella auspicabile chiarezza e certezza del precetto normativo (soprattutto di quello penale), che si declina il principio costituzionale dell’uguaglianza presidiato dall’art. 3 della carta fondamentale.
Ed allora in questa esigenza di democrazia e di condivisione informativa, richiamando le splendide parole del presidente De Amicis “occorre certamente evitare, dunque, il rischio di una concentrazione del monopolio interpretativo in una sede verticistica, per giunta slegata da qualsiasi rappresentatività, con l’ulteriore pericolo di ridurre lo spazio del contraddittorio sulle questioni di diritto, preservando comunque il bene rappresentato da quella “preziosa dialettica” con i giudici di merito che può indurre la Cassazione a rivedere e perfezionare i propri indirizzi ermeneutici”. Ed ancora “un pericolo che va evitato raccogliendo e sedimentando i contributi fondamentali che possono essere offerti dalla dottrina e dalla classe forense nella consapevolezza, da un lato, della dimensione dialogica dello ius dicere, dall’altro, della centralità della funzione “regolativa” dei conflitti assunta dalla giurisdizione rispetto al passato …”[9]
E’ veramente da escludere, allora, che nel funzionamento dell’Ufficio del Massimario, questa condivisione di stimoli, di interpretazioni, di esperienze, di elaborazioni scientifiche, questa vocazione ad “intercettare orientamenti, posizioni dottrinali, novità normative e giurisprudenziali” al fine di giungere alla “sintesi coerenziatrice”[10] utile per “delineare in modo organico e coerente le linee evolutive della giurisprudenza di legittimità destinata alla diffusione e alla discussione nella comunità di giuristi”[11], non possa vedere anche il coinvolgimento diretto dell’Accademia e degli Avvocati?
Se l’ordinamento giudiziario (legge n°. 303/1998) e la Costituzione (art. 106 co. 3) prevedono la presenza di consiglieri di Cassazione che provengano dall’università e dall’avvocatura per meriti insigni, potendo “apportare alla giurisdizione di legittimità un contributo di elevata qualificazione professionale” (art. 2 comma 2 lg. n°. 303/1998), perché mai non pensare alla apertura dell’Ufficio del Massimario anche all’attività di sostegno scientifico, pratico ed esperenziale di professionalità diverse dalla magistratura ordinaria per il percorso della nomofilachia non solo negli interna corporis della giurisprudenza di legittimità, ma anche all’esterno? Non sarebbe ancor più espressione di quella “Cassazione dialogante” e di quella “nomofilachia dialogica e plurale” così ben descritte dalla Prima Presidente nella relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2023?
Non v’è dubbio che ai sensi dell’art. 4 della già citata lg. n°. 303/1998 “il magistrato nominato ai sensi della presente legge può essere destinato esclusivamente alle funzioni giudicanti nell’ambito della Corte di Cassazione”; così come ai sensi dell’art. 115 dell’ordinamento giudiziario (per come più volte novellato, da ultimo nel 2022) “della pianta organica della Corte di cassazione fanno parte sessantasette magistrati destinati all’ufficio del massimario e del ruolo…”. Allo stato dunque vi sarebbe una preclusione normativa alla composizione mista del Massimario o forse meglio una mancata espressa previsione di componenti esterni alla magistratura.
Occorre allora un ripensamento dell’organizzazione del cuore pulsante della nomofilachia, più trasparente, democratico e proiettato verso il futuro.
Democrazia, in fondo, è partecipazione, condivisione e dialogo.
*Avvocato del foro di Brindisi, componente dell’Osservatorio Corte di Cassazione UCPI
[1] M. D’Amelio, La Corte di cassazione, in Enc. It., XI, Roma (1931), rist. 1941, p. 539.
[2] Emblematicamente citate proprio dal Presidente Lupo nello scritto “Il ruolo della Cassazione: tradizione e mutamenti” in Archivio Penale, 2012, pgg. 155-180.
[3] In termini analoghi si veda anche il Vademecum per lo spoglio e la massimazione, a cura di Giovanni Fanticini e Gennaro Sessa, del novembre 2023, con l’indicazione delle “prescrizioni ed indicazioni già predisposte nelle linee guida sulla massimazione e nel repertorio delle voci e delle abbreviazioni” in https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Vademecum_massimazione.pdf
[4] Cass. Sez. 3, n. 7455 del 23.02.1994, Di Chiara e poi richiamato ancora in Cass. Sez. 2, n. 19716 del 06.05.2010, Merlo, ove si legge: “…va ribadito che l’uniforme interpretazione della legge, significa uguaglianza di trattamento dei cittadini di fronte alla legge stessa, con l’ovvia conseguenza che la nomofilachia è diretta espressione del principio di uguaglianza consacrato nell’art. 3 della Carta fondamentale…la decisione delle Sezioni unite costituisce un annuncio implicito di giurisprudenza futura determinante affidamento per gli utenti della giustizia in generale e per il cittadino in particolare: sicché, in tale ipotesi, la funzione nomofilattica ha un peso dominante su altri valori e le sezioni semplici devono prenderne atto, salvo la riproposizione della quaestio a norma dell’art. 172 disp. att. c.p.p., comma 2”.
[5] Identico principio si rinviene in due decisioni della Seconda Sezione Penale (sempre relatore Beltrani): Cass. Sez. 2, n°. 12623 del 13.12.2019 e Cass. Sez. 2, n°. 677 del 10.10.2014. Ma anche Cass. Sez. 5, n°. 4944 del 10.02.2022. La massima: “È inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduce la violazione di norme della Costituzione o della CEDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall’art. 606 cod. proc. pen. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale. (In motivazione la Corte ha sottolineato, quanto alla censura riguardante la presunta violazione della CEDU, che le sue norme, per come interpretate dalla Corte EDU, rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all’art. 117, comma 1, Cost. sempre che siano conformi alla Costituzione e compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti)”.
[6] F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale”, in https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/Relazione_prevedibilita_Napoli_DPC_Vigano.pdf, pagg. 30 e segg.
[7] Sul punto, Matilde Brancaccio, Il linguaggio e la struttura delle sentenze della Corte EDU: differenze e similitudini tra modelli nazionali e modelli sovranazionali, in Cassazione Penale, 2023 (6), pgg. 2130 e segg.
[8] Si valutino le recenti sperimentazioni dell’Intelligenza Artificiale nel settore giustizia in alcuni paesi europei come Germania, Svezia e Lettonia, secondo quanto si legge nell’ultimo rapporto di valutazione sui sistemi giudiziari europei European judicial systems – CEPEJ Evaluation report – 2024 Evaluation cycle (2022 data) in https://www.sistemapenale.it/it/documenti/efficacia-e-qualita-della-giustizia-in-europa-pubblicato-il-rapporto-2024-cepej-sui-sistemi-giudiziari-europei.
[9] G. De Amicis, “Principi di diritto, massime e prevedibilità delle decisioni: la Corte di Cassazione tra stabilità e mutamento” in https://www.sistemapenale.it/it/articolo/de-amicis-principi-di-diritto-massime-e-prevedibilita-delle-decisioni-la-corte-di-cassazione-tra-stabilita-e-mutamento
[10] Per come definita dal Presidente Canzio.
[11] Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2023 della Prima Presidente Margherita Cassano, pg.25-26.