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IN RICORDO DI GIOVANNI ARICÒ – DI GIORGIO FIDELBO

IN RICORDO DI GIOVANNI ARICÒ – DI GIORGIO FIDELBO

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IN RICORDO DI GIOVANNI ARICÒ

di Giorgio Fidelbo

Il ricordo dell’Avv. Giovanni Aricò, scomparso in gennaio, tenuto dal Dott. Giorgio Fidelbo, presidente della VI Sezione penale della Corte di cassazione, nel corso della commemorazione tenutasi il 9 febbraio di quest’anno.

Ho conosciuto l’avv. Aricò quando sono arrivato in Corte di cassazione come consigliere nel 2005; il mio è un ricordo di lui come avvocato, non posso dire di avere conosciuto l’uomo Aricò, così come lo ha ricordato l’avvocato Fabrizio Merluzzi; però sapevo del suo grande dolore e presto ho capito, osservandolo e ascoltandolo nelle aule della Corte, quanto il lavoro e la passione per la sua professione potesse rappresentare una cura per la sua sofferenza.

L’avvocato Aricò amava il lavoro che faceva, un lavoro in cui credeva, un lavoro per la “giustizia”.

Credo che non ci sia un magistrato di questa Corte che non abbia negli occhi l’immagine dell’avvocato Aricò che discute nella stessa mattinata un numero incredibile di ricorsi, uno diverso dall’altro, dall’associazione mafiosa al reato tributario, spostandosi da un’aula all’altra, senza mai mostrare un segno di stanchezza, sempre sorridente e gentile con tutti e discutendo tutti i ricorsi con la stessa tensione e con la stessa grande capacità.

Ricordo che prima di entrare in aula i presidenti più anziani, commentando i ricorsi che sarebbero stati trattati quel giorno, spesso dicevano “oggi c’è Aricò”, quasi un avvertimento ai componenti del collegio di prestare massima attenzione: la discussione di Aricò era considerato un evento da non perdere.

Giovanni Aricò incarnava l’avvocato di cassazione, anche perché “abitava” la Corte di cassazione.

 Va però detto che era avvocato a tutto tondo e spesso nelle sue difese – quando, scusandosi, non riusciva ad evitare fuoriuscite dal tema della decisione – l’ho sentito dire che si sentiva “relegato” quasi “emarginato” a Piazza Cavour, perché sosteneva che lì il processo arriva “moribondo”, perché “il vero processo si fa nel merito” e la Corte di cassazione non sempre è in grado, con gli strumenti di cui dispone, di “riparare” a certe ingiustizie. Insomma, si percepiva talvolta che in Cassazione un po’ soffriva, forse perché era consapevole del fatto che anche una buona difesa in cassazione non può certo recuperare tutti gli sbagli o gli errori fatti in precedenza, dai giudici e dai difensori.

Ma nello stesso tempo ha sempre avuto piena consapevolezza del ruolo della Corte di legittimità.

È stato vero avvocato di cassazione, nella misura in cui non ha mai dato l’impressione di voler forzare il giudizio di legittimità, rispettando la funzione della Corte di cassazione, pur nella consapevolezza dei limiti della sua giurisdizione: i suoi ricorsi erano asciutti, essenziali, puntati alla questione in cui effettivamente credeva, sintetici nella loro efficacia. Quando deducevano vizi di motivazione il ricorso si complicava (ma è noto che si tratta del vizio più difficile da dedurre, anche per le tagliole che noi giudici abbiamo messo sul suo percorso), ma le sue argomentazioni consentivano di cogliere immediatamente il punto di vista della difesa nella critica alla motivazione della sentenza, con un linguaggio fluido e  coerente, sempre appoggiato a elementi ben evidenziati; le critiche alla sentenza impugnata, pur aspre e vigorose, erano sempre contenute e rispettose del lavoro del giudice di merito, quasi a volerlo scusare di non aver capito. Da questo suo modo di scrivere, sempre garbato, veniva fuori il suo essere un gentiluomo prima ancora di essere avvocato e un avvocato che conosceva il difficile “mestiere del giudice”.

Quello che da qualche anno manca alla Corte di cassazione sono le sue discussioni in aula. Se ne avverte la mancanza. Erano discussioni in cui affrontando le questioni poste nel ricorso riusciva nello stesso tempo a comunicare ai giudici il suo pensiero sulla “giustizia”, sul processo penale, sul rapporto giudici-avvocati. Non parlava solo del ricorso, parlava anche della “giustizia”. Erano discussioni che il collegio, in ogni formazione, ascoltava con attenzione e interesse, perché avevano il dono della “leggerezza”, nel senso inteso da Italo Calvino nelle sue Lezioni Americane, toglievano peso alla gravità del processo, ma nello stesso tempo erano appassionate, talvolta cariche di tensione, perché si vedeva – come lui stesso talvolta ripeteva – che vi era sempre il “timore di fallire”, cioè di non essere compreso dai giudici. Ho sempre avuto la sensazione che questo fosse per lui il fallimento di una difesa: il non essere compreso o meglio il non essere stato in grado di farsi comprendere. E infatti ricordo che spesso puntando gli occhi su ciascuno dei componenti del collegio, con il suo sorriso, diceva “non è vero che i giudici non ascoltano, bisogna mettersi nella condizione di essere ascoltati”, frase che aveva anche l’effetto di destare l’attenzione anche del giudice più distratto in quel momento.

Nelle sue difese si avvertiva la serietà e passione che metteva nel suo lavoro, forse anche il tormento quando, rivolto a noi, diceva, sospirando, che “il migliore avvocato è quello che fa meno danni”, una frase piena di umiltà e nello stesso tempo di consapevolezza della difficoltà del lavoro del difensore, una frase dovrebbe essere presa in prestito anche da altri protagonisti del processo, giudici e pubblici ministeri.

Giovanni Aricò era un avvocato che aveva fiducia nei giudici e nella loro funzione e spesso diceva che se non avesse avuto tale fiducia non avrebbe potuto svolgere la sua attività di avvocato e proprio il rispetto che professava nei confronti dei suoi interlocutori gli consentiva di parlare con estrema franchezza e in modo diretto con i giudici.

Dicevo che si sente la mancanza in Corte delle sue discussioni: ricordo che gli avvocati di altri processi, anche se avevano terminato la loro difesa, si trattenevano in aula per ascoltare Giovanni Aricò, il quale una volta resosi conto di avere un pubblico iniziava a rivolgersi anche alle persone che si trovavano dietro le transenne dell’aula, contorcendosi nel tentativo di non voltare le spalle alla Corte e iniziando una lotta con la toga che gli scivolava giù, con il giovane collaboratore a fianco che cercava di riposizionarla sulle spalle.

Cosa è stato Giovanni Aricò per questa Corte? Credo che abbia rappresentato il tipo di difensore ideale presso quella che dovrebbe essere una Corte Suprema. Un avvocato che conosceva la Cassazione, che conosceva i suoi giudici, che misurava il valore di ogni componente dei numerosi collegi con cui si confrontava, che conosceva le cancellerie, un avvocato che si sentiva parte di questa “istituzione” e che teneva ad essa, al suo funzionamento, senza per questo essere indulgente con essa, in un rapporto leale, mai conflittuale. Un avvocato consapevole del ruolo fondamentale della difesa nel processo di legittimità, una difesa tecnica di alto livello, specializzata, che partecipa alla funzione propria di una Corte Suprema. Un avvocato che non è mai sceso in guerra nel processo, ma che svolgeva fino in fondo il suo ruolo nel rispetto degli altri protagonisti del processo.

Che Corte di cassazione avrebbe voluto Giovanni Aricò? Non ho avuto mai occasione di parlare con lui di questo, ma mi piace pensare, avendolo visto difendere in Cassazione per quasi venti anni, che avrebbe voluto una Corte che fosse davvero in grado di assicurare anche quella funzione di nomofilachia che la nostra Corte svolge oggi con troppa fatica, assediata  da troppi ricorsi;  senza per questo rinunciare ad una Corte che assicurasse la tutela dei diritti e un processo giusto, cioè una Corte che fosse anche giudice di terza istanza: si, perché lui credeva nella Cassazione come l’ultimo baluardo a tutela della legalità del processo. Insomma, la mia sensazione è che non avesse in mente una Corte Suprema funzionale solo e soltanto a svolgere un ruolo di giudice della nomofilachia – in questo era molto avvocato -, ma una Corte che continuasse ad essere giudice dei diritti.

Del resto, oggi il DNA della nostra Corte è costituito dagli artt. 65 ord. giud. e 111 Cost., che ne fanno un giudice che assicura accanto all’uniformità e alla prevedibilità del diritto, la tutela dei diritti.

Ma garantire questa doppia funzione in una Corte di cassazione descritta come “vertice ambiguo”, comporta come conseguenza una Cassazione assediata, assediata da troppi ricorsi.

Sono anni ormai che si sta tentando di rimediare a questa situazione patologica e la recente riforma Cartabia non sembra si sia occupata della Cassazione, a cui ha dedicato poche disposizioni, certamente non in grado di introdurre una seria prospettiva di riforma.

Ebbene, voglio dire che se la Corte fosse frequentata da avvocati della levatura professionale di Giovanni Aricò forse non ci sarebbe necessità di riformarla.

L’idea da anni oggetto di discussioni, anche nell’avvocatura e nell’accademia, è quella di prevedere una diversa selezione degli avvocati cassazionisti, creando una classe di legali altamente specializzati nel difendere davanti alle Corti Supreme. Mi rendo conto che è un tema difficile, forse divisivo per la stessa avvocatura, ma forse bisognerebbe discuterne seriamente.

A me sarebbe piaciuto discuterne con Giovanni Aricò, che per me ha rappresentato il modello ideale di avvocato cassazionista, mi sarebbe piaciuto discutere di come rendere questa Corte migliore, discutere con lui perché di questa Cassazione conosceva tutto, pregi e difetti. Ma lui diceva che non aveva tempo per i convegni, aveva troppo da lavorare.

Questo incontro in cui stiamo ricordando insieme, avvocati e magistrati, un grande avvocato, spero segni l’inizio di un percorso di dialogo sulla Cassazione tra magistrati, avvocati e università, proprio sull’esempio e nel ricordo di Giovanni Aricò che tanta energia ha speso per questa istituzione. Un dialogo che deve iniziare al difuori degli schieramenti e delle correnti, tra persone che hanno davvero a cuore il destino di questa istituzione.

L’assenza di Giovanni Aricò dalle aule della Corte di cassazione è coincisa con il periodo della pandemia e, quindi, con l’ingresso del rito cartolare in cassazione. Non so cosa pensasse l’avvocato Aricò di questa novità procedurale. Io, pur essendo favorevole a questo rito in Corte di cassazione – anche se avrebbe potuto essere meglio disciplinato – devo confessare che avrei sempre richiesto d’ufficio la discussione orale per non privarmi delle discussioni dell’avvocato Aricò.