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IN RICORDO DI GUSTAVO PANSINI – DI DOMENICO NICOLAS BALZANO

IN RICORDO DI GUSTAVO PANSINI – DI DOMENICO NICOLAS BALZANO

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IN RICORDO DI GUSTAVO PANSINI

di Domenico Nicolas Balzano

Il testo dell’intervento dell’Avv. Domenico Nicolas Balzano, già Vicepresidente dell’Unione Camere Penali Italiane, svolto nel corso dell’incontro in ricordo di Gustavo Pansini, presso il Tribunale di Torre Annunziata il 23 settembre 2025.

Il primo agosto, quando, improvvisa e inattesa, giunse e subito si diffuse la tristissima notizia della scomparsa del Professor Gustavo Pansini, tutti i penalisti d’Italia condivisero un lutto profondo e il medesimo sentimento di dolore e di mestizia.

Ogni camera penale, partecipando al lutto collettivo, abbrunò la sua insegna, nel ricordo e nel rimpianto del primo amato e indimenticabile Presidente.

Parve a tutti chiaro e ciascuno ne fu da subito consapevole che non era scomparsa soltanto l’eminente figura di un sommo avvocato e di un prestigioso giurista, che, nel Foro e dalla cattedra, aveva recato lustro alle due toghe e dato onore all’avvocatura e agli atenei, ma un pezzo, forse il più significativo, certamente il più suggestivo, della storia recente dell’avvocatura penale moderna.

Gustavo Pansini era stato, infatti, il primo presidente dell’Unione.

Nel tempo in cui ciò avvenne, esistevano già camere penali, qualcuna anche da epoca remota, ma erano divise e, dunque, più ricche di entusiasmo, che di capacità d’incidere.

Lungimiranti avvocati di quell’epoca, profetici, autentici padri fondatori, pensarono che fosse opportuno raccoglierle in un accordo federativo nazionale, nel quale, poi, successivamente accogliere le altre camere penali, che avessero chiesto di aderirvi o che fossero nate, in modo da concedere ai penalisti una possibilità di divulgazione dei valori e della cultura dell’avvocatura e di interlocuzione politica con tutti i poteri, altrimenti interdette e impossibili.

Pensarono che così facendo finalmente l’avvocatura penale potesse edificare il proprio tempio, nel quale raccogliersi per celebrare i propri riti, tenere le proprie adunanze, organizzare le proprie battaglie e ne realizzarono un primo modello, il quale, però, frutto dell’entusiasmo, ma anche della fretta, appariva in quel momento ancora nudo. Deserte le navate, spogli e spenti gli altari, rozze le colonne senza capitelli.

La folla indugiava sul sagrato ed esitava ad accedere all’interno, dubitando che in quel luogo, per come in quel momento si presentava, si potessero celebrare riti autorevoli.

Ma quando, levando in alto lo sguardo, s’avvide che, scolpite sul frontone, erano le parole eterne dell’avvocatura: libertà, strenuo patrocinio degli ultimi e dei vinti, inflessibile opposizione ad ogni arbitrio, abuso, sopruso, prepotenza o tirannia, da qualsiasi potere proveniente, che insidiassero il diritto dei cittadini o ne minacciassero la libertà, pensò che, se quelli erano i valori ai quali veniva dedicato il tempio, si poteva entrare, confidando che la forza della passione e la purezza della fede prevalessero sull’assenza di arredi e paramenti.

E così fu.

Ma perché ciò potesse avvenire era indispensabile individuare un primo ministro del Culto, che conoscesse, e, se necessario, sapesse correggere, integrare, emendare e, soprattutto predicare, la liturgia corretta.

La scelta cadde sul Professore Pansini.

Io sono convinto che venne ispirata dal Dio dell’Avvocatura, questa divinità non necessariamente laica, alla quale nessuno ha obbligo di credere, ma che, io penso, presieda i destini dell’Avvocatura e nei momenti decisivi ne orienti determinazione e condotte.

La scelta fu così saggia che non potette che essere ispirata dall’alto. E quel congresso, all’unanimità, senza dissensi o titubanze, acclamò Gustavo Pansini, primo Presidente dell’Unione.

L’Unione era nata, ma non c’era nulla.

Precaria la sede, inesistente la segreteria, assenti quei pur minimi strumenti di ausilio, indispensabili per il funzionamento.

C’erano soltanto l’entusiasmo e la gigantesca statura intellettuale e morale di un uomo straordinario.

Furono sufficienti.

Ma un grande lavoro attendeva quell’uomo nei campi.

Vi si accinse con inesausto ardore. Dissodò le zolle, tracciò i solchi, con ampio gesto vi gettò i semi, irrigò con amorevole premura i germogli e, quando poi, messi feconde garantirono, e ancora assicurano, raccolti copiosi, il pensiero, memore e riconoscente dei penalisti, beneficiari di tanta sopravvenuta ricchezza, si rivolse a quell’uomo che aveva compiuto il miracolo.

L’Unione, poi, è cresciuta.

Ci sono stati altri presidenti, doveroso farne menzione.

L’ultimo è qui oggi tra noi, per recare la voce del cordoglio suo personale, della sua giunta e dell’intera avvocatura nazionale.

Oggi l’Unione conta 130 camere penali, che coprono l’intero territorio nazionale e, riconosciamolo con orgoglio, ha una capacità di divulgazione della propria cultura e di interlocuzione politica che non è riservata ad alcuna associazione professionale di altre categorie.

Però, se è merito di più di uno, nulla di quello che oggi l’Unione è, e che in questi anni è stata, sarebbe stato possibile senza l’opera straordinaria di Gustavo Pansini.

Egli dell’Unione officiò il rito battesimale e cominciò a scrivere la storia.

Scrivere, peraltro, una storia in precedenza inesistente o riscrivere una storia meritevole di essere corretta ed integrata, sino a diventare una storia nuova, era nel suo destino, non meno che nella sua vocazione.

Lo ha fatto, come vi ho detto, nella creazione dell’Unione, lo aveva già fatto, nella trasformazione dell’avvocatura.

Egli appartenne ad una generazione che entrò nei palazzi di giustizia nella seconda metà degli anni Cinquanta o nella prima metà degli anni Sessanta del trascorso secolo.

L’avvocatura appariva una vecchia matrona, ancor nobile, ma dal volto segnato da rughe, che minacciavano dilatarsi e approfondirsi. Era ricca di tradizione e onusta di glorie, ma le une e l’altra sembravano più un limite, che una risorsa.

Aveva necessità di una revisione radicale, estesa e profonda.

Come provvedervi? Alcuni, miopi e fortunatamente inascoltati e negletti, predicavano che la tradizione venisse archiviata e si scrivesse il futuro principiando da un presente senza antenati.

Altri, ben più lucidi e tra essi in prima linea Pansini, invece, osservavano che la tradizione non è un insieme di miti, storie e leggende, peraltro in gran parte ignoti a coloro che li denigravano, ma un compendio di principi, valori ideali, grazie ai quali l’Avvocatura era nata, vissuta e senza i quali non avrebbe potuto continuare ad esistere.

Occorreva soltanto che quei valori venissero declinati in un idioma diverso.

L’avvocatura cambiò tunica, depose gli abiti sontuosi, i pepli che ne avevano ricoperto le membra, si disfece di monili e belletti che ne avevano abbellito il sembiante.

Cambiò abito, ma non cambiò anima e passione.

Ricca di tutto quello che era stato e di tutto quello che doveva continuare ad essere, irruppe prepotente nella modernità, ove ancora è radicata e si espande.

Il miracolo fu quello di coniugare, in una sintesi che sembrava impossibile, tutto quello che si doveva conservare con tutto quello che si poteva innovare.

Quest’opera, oggi in gran parte dimenticata, per la scomparsa di coloro che ne furono protagonisti ed artifici, o anche perché sopraffatta da eventi sopravvenuti che l’hanno cancellata, fu in quel tempo miracolosa.

E Pansini vi giganteggiò, recandovi la linfa vitale di tre suoi straordinari talenti.

Il talento dell’avvocato, il talento dell’oratore, il talento del giurista, che però non rimasero divisi tra loro, come avviene nella più gran parte di coloro, che pur li posseggono.

Si fusero, formando un insieme che concorse a definire il profilo di una personalità professionale, culturale e morale, irriproducibile e originalissima.

Egli fu non grande, ma sommo avvocato.

Chi osservasse che è stato sommo avvocato moderno, dovrebbe riflettere sul fatto che quel compendio di valori lo avrebbe reso sommo in tutte le epoche e in tutte le generazioni.

Ma a noi interessa approfondire il profilo di modernità dell’avvocato Pansini.

Fulmineo, addirittura profetico nelle intuizioni, determinato nelle risoluzioni, abile nell’eludere le infinite insidie che propongono i dibattimenti e, anzi, nel tradurle in condizioni di vantaggio per la tesi difensiva.

Aveva una stupefacente capacità, tipica dei geni della toga, di cogliere nelle vicende più intricate o tra le pagine degli incartamenti più ponderosi i tratti essenziali.

Aveva l’ambizione dell’essenziale e il ripudio del superfluo. Componeva, scomponeva e ricomponeva i fatti.

Ne individuava segmenti, che saldava tra loro in linee rettilinee, che non era possibile recidere, e proponeva tesi inespugnabili, rappresentate le quali era possibile con scarse prospettive di successo contraddirle, mai rinnegarle.

Dialettico sobrio, ma costruttore di ragionamenti inespugnabili.

Fu in questa sua attitudine insuperabile e, credo oggi, dopo aver ascoltato in più di mezzo secolo tanti avvocati, insuperato.

Ma fu anche grande oratore.

Mi è difficile dire se fu grande oratore perché grande avvocato o grande avvocato perché grande oratore.

L’eloquenza, peraltro, era anch’essa in crisi, una crisi che si perpetua. Secondo alcuni esponenti dell’ultima o della penultima generazione di colleghi, sarebbe addirittura da ripudiare, avviando il processo penale verso un suo destino di processo scritto.

Altri però si oppongono, dicendo che gli avvocati penali hanno sempre parlato, hanno sempre avuto come unica ricchezza, cifra identitaria della loro qualità professionale: la parola; perché, peraltro, solo la parola ha questa straordinaria virtù di saper coniugare pensiero e passione, una luce della mente e un palpito del cuore.

E per affrontare i dibattimenti penali il cuore è anche più necessario della mente. Esso rivela alla mente quello che la mente da sola non riuscirebbe a scoprire.

Un grande oratore, sì.

Io l’ho ascoltato tante volte. Da giovane, quando sapevo che in un’aula avrebbe discusso il Professore Pansini, accorrevo.

Ebbi sempre lo sgomento di un qualcosa che non poteva essere emulato o pareggiato.

Discuteva in modo pacato, sobrio, fermo nel tono e perentorio nel contenuto.

Non aveva necessità di urlare, tanto ferma era la voce e tanto denso il contenuto di quello che diceva. Ma quando qualche volta giungeva a cospetto di un’ingiustizia che stava per maturare, allora la sua voce diventava ancora più ferma, la sua vibrazione più netta, come volesse riprodurre l’eco di un vento che sibila tra le forre e nelle valli. L’ingiustizia lo indignava.

Ebbe anche voce straordinaria.

Un appassionato di musica lirica ed esperto delle voci lo avrebbe qualificato un baritono chiaro, senza le note acute, talvolta querule dei tenori; senza le note gravi, spesso cupe, dei bassi.

E oltretutto con una capacità tutta sua, nella melodia della sua voce, una capacità che non ho riascoltato in alcun altro, di arrotondare tutti i suoni.

Ogni sillaba diventava una nota.

Tutte le note venivano iscritte in un pentagramma, direbbe un musicologo, con un intervallo di terza, dal re al sol: mai troppo in alto, mai troppo in basso, mai al di sopra, mai al di sotto del primo o dell’ultimo rigo del pentagramma.

Ascoltarlo era una delizia per la mente, ma era un infinito piacere anche l’ascolto.

Grande oratore, sobrio e moderno, ma grande oratore per questa sua stupefacente capacità di tradurre immediatamente in parola il pensiero.

Il pensiero precorre la parola, non sono che rapidi istanti, ma il pensiero nasce e poi cerca la parola che deve esprimerlo. Qualcuno la trova subito, qualche altro con qualche ritardo.

In Pansini questo non avveniva.

Pensiero e parola, frutto di una genesi contestuale, nascevano insieme ed egli parlava così come se stesse respirando, senza alcuna fatica, e chi lo ascoltava poteva, dunque, astenersi dal far lui la fatica dell’ascolto e bearsene.

Grande oratore, ma anche grande giurista.

E a questo punto bisognerebbe forse fare una specificazione, so che ci sono grandi giuristi in aula, non vorrei che se ne turbassero.

I giuristi sono una singolare categoria di intellettuali alla quale guardare quasi sempre con ammirazione e qualche volta con sospetto.

Taluno di essi, altero per un primato che ritiene aver conseguito nell’Ateneo, trascorre dalla cattedra alla sbarra ed è persuaso che la profondità della preparazione e la vastità della cultura che gli hanno garantito lo scettro negli Atenei siano destinati a diventare dote che rendono l’avvocato ancora più prestigioso.

Questo non sempre è vero, ci sono eccezioni. Pansini è una di queste. Ma non sempre avviene, perché si può essere grandi giuristi e non essere grandi avvocati, ed è ovvio.

Si può anche essere grandi giuristi, fare l’avvocato e non essere grandi avvocati giuristi, giacché questa è un’altra categoria, del tutto autonoma.

Il cattedratico difficilmente rinunzia ad una costruzione astratta. Il fatto non è l’oggetto di una riflessione, ma un pretesto dal quale levarsi per la costruzione di architetture, splendide sotto il profilo speculativo, ma irrilevanti quanto alla soluzione del processo. In Pansini, invece, è stato anche già detto, l’avvocato preesisteva ad ogni altra figura e la dominava: era il direttore d’orchestra che affidava gli spartiti e anche quando disponeva che parti solistiche venissero eseguite da prestigiosi strumentisti, l’oratore e il giurista li manteneva, però, sotto la sua osservazione e non consentiva suonassero sinfonia diversa da quella che egli imponeva.

Il fatto, per lui, non era il pretesto per la costruzione di diritto.

Egli ravvisava, capace come nessun altro di una sintesi tra fatto e diritto, l’essenza del problema. Scorgeva nel fatto il profilo del diritto e dunque il diritto si inverava nel fatto e il fatto si illuminava alla luce del diritto e tutto si fondeva in una esposizione innanzi alla quale non si sapeva se rimanere stupefatti o increduli.

Grande giurista, dunque, ma grande avvocato giurista.

Peraltro, egli non era glossatore pedante ed anonimo e ancora meno, come oggi molti presunti giuristi che vestono toga pretenderebbero, sterile assemblatore ottuso di massime della Cassazione. Non ne aveva necessità.

Egli aveva cultura giuridica tale da consentirgli di astrarre dalle singole norme, alle quali pure guardava con attenzione, i principi, di correlarli in una organizzazione culturale sistematica coerente e, poi, risalendo dalla norma al principio e discendendo dal principio alla norma, illuminare quest’ultima non con l’interpretazione più recente della Cassazione, ma alla luce dei principi che sono universali, eterni ed immutabili.

In questo, forse, fu anche favorito dal fatto di appartenere ad una nobile tradizione familiare.

Se uno studioso di Araldica Forense volesse un giorno dedicare un libro alla ricostruzione dell’albero genealogico delle più illustri famiglie dell’avvocatura italiana, dovrebbe dedicare un ampissimo capitolo alla famiglia Pansini.

Gustavo non sarebbe stato quello che è stato se non fosse stato figlio di Giovanni, altra formidabile tempra di avvocato rivoluzionario.

In un’epoca nella quale il diritto processuale languiva ai margini, come appendice secondaria del diritto sostanziale e reclamava dignità d’insegnamento accademico autonomo, Giovanni Pansini, primo tra tutti gli avvocati del Novecento, intuì come la procedura non fosse la selva nella quale scorgere eccezioni, ma una miniera inesauribile di strategie difensive. Perché chi la conosceva davvero e l’aveva assimilata, sapeva orientarsi nel ludo processuale, assumendo sempre le determinazioni più lucide.

Gustavo mutuò questo insegnamento e lo perfezionò, ma con la sua scomparsa non si è estinta la famiglia Pansini.

Oggi i figli, in dubbio se perpetuarne l’attività nel Foro o nell’ateneo, si sono distribuiti i compiti.

Giovanni e Gabriella, prestigiose tempre di formidabili avvocati, continuano nel Foro la gloria dei Pansini.

Carla, la pensosa e preziosa Carla, più incline al rigore e al silenzio degli studi, che non al clamore dei ludi giudiziari, ne perpetua l’attività nell’insegnamento e dalla cattedra, ma non si limita a questo.

Ha ereditato il compito di perseverare in un’altra battaglia.

Tutti sapete, ed è stato anche ricordato, che Gustavo Pansini fu uno dei promotori, uno degli apostoli del nuovo codice di procedura e credo che la sua massima amarezza, quella che ha avvelenato gli ultimi tre decenni della sua esistenza, sia stata quella di ravvisare come la creatura del suo amore, quella alla cui nascita aveva collaborato, fosse stata, da prassi giurisprudenziali, interpretazioni distorte e troppo disinvolte, resistenze culturali, trasfigurata. Un volto era diventato una maschera e questa si era ridotta a una smorfia e ad un ghigno, non più riconoscibile e altra cosa, a tal punto da essere diventata inemendabile.

L’avvocatura di oggi, dando seguito ad una preziosa intuizione del suo attuale presidente, Francesco Petrelli, è ritornata donde tutto nacque, in un congresso di giuristi e di avvocati, che si tenne nel lontano 1961 nella prestigiosa sede della Fondazione Cini, sull’isola di San Giorgio, perla della laguna veneziana.

E lo ha fatto per render noti i risultati che ha già prodotto una commissione che ha istituito, con l’ambizioso fine, non solo di scrivere per intero il codice di procedura penale accusatorio e liberale, ma almeno di proporre al legislatore modelli, per una legge delega, che trasformi il processo penale, quale oggi è diventato.

Di quella commissione fa parte Oliviero Mazza, che è venuto oggi da Milano – grazie – per partecipare a questo momento di memoria e di cordoglio, e ne fa parte Carla Pansini, che di quella commissione ne è la perla. Auguri di buon lavoro.

Ma ritorniamo per un momento a Gustavo Pansini.

Ne avevo deviato per comporre un ritratto familiare, non so se ne avessi il diritto, forse ne ho abusato, disattendendo le tue indicazioni. Fino a questo momento, ne ho proposto solo un ritratto parziale, neppure uno di quei profili rinascimentali, una guancia in luce e un’altra in ombra, ma uno schizzo, sghembo e confuso. Ma lo renderei ancora più monco, se non facessi cenno alla cifra più autentica della vera e incommensurabile grandezza di Gustavo Pansini.

L’Avvocatura è professione intellettuale, sebbene nelle recenti generazioni qualcuno si impegni a dimostrare il contrario.

È attività elettivamente riservata a donne e uomini colti.

Ma non è solo cultura, non è sfoggio di bravura, non è vastità di preparazione o profondità di riflessione.

L’avvocatura non è solo una mente che pensa, è un cuore che soffre, che piange, che prega, quando è necessario, per quel povero sventurato che si affida ad essa.

L’avvocatura è grande nel cuore, senza il quale non può essere grande nella mente.

E Pansini, che fu grandissimo avvocato, fu, nella condivisione dei grandi valori eterni, dei principi immutabili dell’avvocatura, ancora più grande, non perché gentiluomo, certamente impeccabile, ma questa è la grandezza morale di connotazione laica. Lui fu la massima espressione morale dell’avvocatura moderna.

Visse tutta la dignità, la fierezza e la nobiltà di questa professione.

Vedete la testimonianza della lettera ad Armando Spadaro che è stata riportata. Si doleva il Pubblico Ministero della nuova architettura imposta dal codice di procedura penale, che disponeva che lo scranno del Pubblico Ministero venisse allineato a quello della difesa ed egli, che era stato sempre difensore dello Stato, non tollerava che le due funzioni potessero essere equiparate.

Pansini, attingendo ispirazione, uomo anche di straordinaria cultura letteraria, da uno scritto di Dostoevskij, gli rispose, più fiero e fermo che indignato, che era l’avvocatura, semmai, a dover tollerare con qualche sacrificio questa equiparazione e che sarebbe stata ben lieta se i due banchi fossero stati separati, a conferma del fatto che, per l’intera sua esistenza, l’avvocatura era stata viatico di libertà, mentre le Procure, più di qualche volta, strumento di oppressione.

L’avvocatura se ne inorgoglì. Si sentì rappresentata e tutelata, perché, alla fine, questo fu Gustavo Pansini, punto di riferimento e fonte di insegnamento, modello e monito, cattedra e faro.

Era la grande quercia, era quella grande quercia che sovrasta il bosco con la sua altezza e lo protegge all’ombra della sua chioma.

Immagine di vigore che si crede immortale, si spera immortale.

E oggi, invece, percossa dalla folgore, la gran quercia è caduta e tutta la selva ne geme. Muti gli uccelli che cinguettavano sui rami, mesti i cespugli e gli arbusti che alla sua ombra trovavano asilo, protezione e rifugio e perfino il merlo innamorato, che ad ogni ritorno della stagione dei fiori e poi per tutta la estate successiva, dalle sue chiome diffondeva il suo canto d’amore, dal primo agosto lo ha sospeso, non avendo note di allegrezza o di festa da diffondere.

Il gran popolo del bosco rende omaggio al suo sovrano caduto e si chiede con profonda mestizia chi prenderà quel posto. Quale albero sostituirà quella quercia? Forse il faggio dal tronco già vigoroso? Forse quel pino elegante ed altero? O quella quercia più giovane che però promette irrobustire il tronco ed espandere la chioma?

Nessuno potrà prendere quel posto.

La zolla di terreno nella quale affondavano quelle radici resterà vuota, ma non sarà vuoto di disperazione, ma vuoto di trasformazione.

Quel tronco non è crollato sul terreno per marcirvi, s’è adagiato sul muschio odoroso e già le edere lo circondano, lo abbracciano e lo abbelliscono e le foglie di tutte le piante del bosco, che nell’imminenza dell’autunno, sono sul punto di distaccarsi dai rami, pregano le brezze di sospingerle verso quel tronco per fargli corona e completare così il monumento.

Un’immagine di vigore si sarà così trasformata. La morte alla fine, nulla distrugge, tutto trasforma in un’immagine che può anche essere di bellezza. Il pellegrino nel bosco, che prima sostava ammirato innanzi al vigore della quercia, adesso raffrenerà ancora il passo frettoloso per ammirare questo monumento della natura, così denso di memoria.

E come il popolo del bosco si interroga, altrettanto fa il popolo delle toghe. Anch’esso si chiede chi prenderà il posto di Gustavo Pansini e anch’esso conclude che quel posto non potrà essere occupato, resterà vuoto ma, non potendo confidare sulla collaborazione della natura per erigere un monumento naturale, si appella a quelle che sono invece le sue risorse.

Dal primo agosto ciascuno di noi è impegnato a parlare di Pansini ai giovani, perché a loro volta ne parlino ai giovani che verranno e così via, in modo che, nel flusso eterno delle generazioni e del tempo, nulla del ricordo di questo uomo sommo vada disperso o dimenticato. L’avvocatura si ribellerà alla tirannia dell’oblio e così occuperà lo spazio vuoto lasciato da Pansini.

Tanti ricordi potrebbero essere citati, non lo farò, però un aneddoto consentite che io vi rammenti, poi ve ne spiegherò il perché.

L’ultima volta che ci siamo incontrati, mi trattenne in amorevole colloquio su un terrazzino della sua casa. Quando giunse il momento di prendere congedo, si levò e mi disse diamoci un bacio.

Non era mai successo e non sapevamo che non ci saremmo più rivisti.

Ma quando le guance si avvicinarono, mi bisbigliò nell’orecchio, non so se qualcuno se ne avvide o lo percepì: “alla mia morte non voglio che si pianga”.

Me ne turbai. Quale profezia di sciagura imminente, che peraltro non sembrava prossima, gliele ispirò. Me lo sono chiesto più volte dopo il primo agosto, non ne ho ancora parlato con alcuno, neppure ai figli ne ho fatto menzione e se oggi lo dico è solo per chiedere perdono.

Non ti abbiamo accontentato, non siamo stati capaci di non piangere, ma non perché io non abbia comunicato il tuo desiderio, ma perché è stato così atroce il nostro dolore, che non avremmo potuto non piangere. Ma adesso formulo un voto, che non è solo sogno, auspicio o speranza, ma è declinazione spontanea dell’animo mio e credo dell’animo di tutti.

Le tante lacrime, davvero tante, che furono versate, e che ancora oggi vengono versate per te, si trasformino tutte in fili d’oro, che intrecciati dalle agili dita sapienti della memoria e dell’amore, tessano la grande tela della rimembranza, della riconoscenza e della devozione, avvolti nella quale vivremo l’illusione di esserti ancora accanto.

Ma non è forse soltanto un’illusione. La forza irresistibile del desiderio trasforma in reale quello che è soltanto sogno destinato a svanire all’alba. E io, in questo momento, suggestionato e commosso, intravedo una figura, sempre più nitida, percorrere le nebbie e le nubi, vestita d’azzurro e di cielo, entrare in quest’aula, sedersi al banco della Presidenza e alta, benedicente, paterna, presiedere l’Assemblea. “L’ombra sua torna, che era dipartita”.

E io, adesso, che ti vedo lì, sì, ti vedo io e ti vedono anche gli altri, ci sei, per noi ci sarai sempre.

Ti chiedo scusa, non perché avresti avuto diritto ad una cerimonia più augusta e solenne, perché nessuna avrebbe potuto equiparare questa così intima e toccante, ma perché avevi diritto ad un ricordo affidato ad oratore assistito da prestigio di parola, facondia di eloquenza e dovizia di cultura.

Ma Torre Annunziata ha scelto me, memore della profondità del legame che mi univa a te.

E allora scusami se non ho potuto fare quello che tu meritavi.

La Camera Penale di Torre Annunziata, l’ultima tua Camera Penale, quella che avevi scelto per trascorrere gli ultimi anni – gli amori tardivi, se spontanei, sono i più tenaci – ti ha offerto tutto quello che aveva.

Sono foglie, ma non caduche ed effimere, come quelle che si staccano dai rami. Sono foglie d’amore e con esse compone la corona, che depone ai piedi del tuo monumento. E convoca il coro. Ne faranno parte i tuoi figli se vorranno, tutti i penalisti di Torre, tutti i penalisti campani, tutti i penalisti italiani, tutti i penalisti di ieri che hai ritrovato, quelli di oggi che hai conosciuto, quelli di domani che di te sapranno da noi. E anche accademici spogli di alterigia.

E quel gran popolo, alteri ed umili, aristocratici e plebei, vesti sontuose e panni sdruciti, che, avendoti chiesto un patrocinio, hanno ricevuto da te solidarietà, comprensione e aiuto nella sofferenza. Questo coro non ti dice addio, giacché la cerimonia non è stata di congedo ma di rinascita dell’amore e ti stringe in nodi così stretti che la falce perfida del destino dell’uomo non potrà recidere.

Sia questo abbraccio il viatico che ti accompagni nel lungo viaggio che hai intrapreso nell’infinito e nel mistero.

Grazie, grazie, grazie per quel che ci hai insegnato e per quanto ci hai donato e scusaci se non sempre siamo stati capaci di ricambiarlo con pari prodigalità.ma sii certo che la tenacia incrollabile della memoria e la forza invincibile dell’amore vinceranno la morte. Te lo giuro. A nome di tutti te lo giuro. E così sarà.

Professore sei stato con noi e resterai per sempre tra noi.