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LA GIURISPRUDENZA E I FUOCHI FATUI – DI ROBERTO RAMPIONI

LA GIURISPRUDENZA E I FUOCHI FATUI – DI ROBERTO RAMPIONI

RAMPIONI – LA GIURISPRUDENZA E I FUOCHI FATUI.PDF

di Roberto Rampioni*

Brevi note sul cd. “contraddittorio cartolare” e sul malinteso “patto corruttivo probatoriamente muto”.

  1. Di fatuo, le generazioni passate, conoscevano i fuochi, grazie ad un innocente passatempo estivo.

            Oggi, di innocente non sopravvive alcunché, ma le fatuità abbondano.

Ed anche nel disgregato mondo penalistico, sostanziale come processuale, sempre più di frequente sono enunciate allarmanti fatuità.

Favorite da una legislazione spesso inqualificabile, da una giurisprudenza non tanto creativa, quanto “di scopo”, ma anche da quella parte – ormai non minoritaria – della dottrina (rectius, dell’Accademia) che ha comodamente rinunciato ad assolvere alla propria funzione critico-contenitiva dell’area dell’illecito, pure e semplici fatuità vengono offerte per verità irrefragabili.

Oggi, del resto, secondo i canoni imperanti del populismo penale, basta vestirle – quelle fatuità – con una “immagine” e tradurle in uno slogan.

            Di simile recente “fioritura” due – almeno ad avviso di chi scrive – le espressioni emblematiche: sul fronte processuale, il “contraddittorio cartolare” nel processo penale; in quello sostanziale, il “patto corruttivo probatoriamente muto”.

2. Sul primo aspetto v’è, autorevolmente, chi, muovendo dall’assunto (non meglio specificato, né dimostrato) che i “risultati” del giudizio di Cassazione dell’epoca dell’emergenza – il processo scritto – sono “sicuramente positivi”, viene a sostenere che ciò, oggi, impone di interrogarci sulla praticabilità di “portare a regime” una simile “forma di processo”: un “contraddittorio cartolare”. Modello, del resto, non del tutto inedito per il giudizio di Cassazione, che – come pur si riconosce – individua il proprio nucleo essenziale in un «contraddittorio di tipo argomentativo»[1].

            “Forma” di contraddittorio – si assume – non incompatibile con l’art. 24 Cost. ed il precetto della Convenzione europea, i quali tutelerebbero «il diritto di difesa in quanto tale e non una sua particolare modalità di esercizio»: “l’oralità degli argomenti” non sta per “parola persuasiva” e dunque «le ragioni della sentenza impugnata e le ragioni del ricorso non cambiano se messe per iscritto o declamate in un’aula solenne». “Modello” di processo dettato, del resto, dalla necessità di «ridimensionare l’oralità», posti di fronte alla «drammaticità della reale ed effettiva situazione» in cui versa il giudice di legittimità (anche qui un’immagine ed una formula evocativa: la “Corte assediata”).

            La valorizzazione del rito camerale non partecipato – si prosegue– consentirebbe «maggiore efficienza, speditezza e contenimento delle risorse e dei tempi»” e scongiurerebbe il rischio di «un abbassamento del livello di qualità della giurisprudenza e della stessa capacità della Corte di legittimità di svolgere appieno la sua naturale funzione nomofilattica».

            In tale ottica – si rileva conclusivamente – l’opzione più “ragionevole” sarebbe quella di rimettere la decisione sulla scelta del rito partecipato al collegio o al suo presidente («…perché è il giudice, più di tutti, che riconosce e avverte il bisogno dell’oralità») in ragione della «qualità dell’oggetto del ricorso» e della «vocazione nomofilattica del giudizio». Individuazione dei contenuti specifici delle questioni da ritenere di “speciale importanza” che, peraltro, potrebbe essere operata, facendo ricorso ad una “base normativa di soft law”, «con un provvedimento del Primo presidente della Corte di Cassazione, adottato d’intesa con i rappresentanti dell’Avvocatura e della Procura generale, dando luogo ad una specie di “editto” in grado di operare una selezione dei ricorsi che meritano davvero la discussione orale».

            In materia, per vero, è già intervenuto il Consiglio di Stato che, affrontando il tema del contraddittorio cartolare (significativamente qualificato) “coatto” (rinveniente dalla decretazione di urgenza del 2020) – pur riconosciuta la differenza col contraddittorio “forte”, proprio del processo penale – ha segnalato criticamente che ogni contrazione del contraddittorio, quale che sia la sede giudiziale, si rivela incompatibile con gli stessi canoni dell’interpretazione conforme a Costituzione alla luce della portata dell’art. 111, 2° comma, Cost.; ma anche in contrasto con l’art. 24 Cost. che col riconoscere il diritto ad “una tutela adeguata ed effettiva della situazione sostanziale azionata” non può non garantire “l’interlocuzione diretta” con il giudice (e, in sede penale, anche con l’organo dell’accusa)[2].

Assunto, peraltro, corroborato dalla giurisprudenza della Corte EDU, che ha inteso,   da tempo, offrire un’interpretazione evolutiva dell’art. 6, par. 1, della Convenzione, per la quale, nel bilanciamento degli interessi pubblicistici e di quelli delle parti, solo in «alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare» è dato evitare la celebrazione di un’udienza pubblica, purché ciò sia «strettamente imposto dalle circostanze della causa»; più chiaramente, ciò sia imposto da “circostanze interne” allo specifico giudizio e non da generali circostanze esterne per quanto rilevanti[3].

            Senza contare  – avverte ancora il Consiglio di Stato – che il “processo cartolare” si pone, appunto, anche in contrasto con il principio di “pubblicità dell’udienza” che, «pur potendo cadere in presenza di particolari ragioni giustificative», deve in ogni caso essere motivato «da ragioni obbiettive e razionali» e, in tal senso, «l’assenza forzata, non solo del pubblico ma anche dei difensori, finirebbe per connotare il rito emergenziale in termini di giustizia “segreta” refrattaria ad ogni forma di controllo pubblico»[4].

3. In realtà, in argomento non può innanzitutto non riconoscersi che proprio il “contraddittorio argomentativo” è quello cui fa specifico riferimento l’art. 111, 2° comma, Cost. e che contraddistingue il giudizio di Cassazione. Qui, appunto, non si assiste alla formazione delle prove ed il contraddittorio è funzionale al ragionamento induttivo, ad un confronto che necessariamente interviene «sugli argomenti e la prova è presa in considerazione nell’ambito del controllo sulla motivazione e sulla correttezza logica delle inferenze che il giudice di merito ne ha tratto»[5].

            E, del resto, in omaggio ad una solo vagheggiata “efficienza” del sistema (ed al puro e semplice “contenimento di risorse e tempi”) non possono essere sacrificati quei principi, di rango costituzionale, informatori del processo penale (contraddittorio, oralità, pubblicità), evocati dal Consiglio di Stato. La Corte di Cassazione, se mai realmente “assediata”, non lo è solo in ragione della pervicace litigiosità avvocatesca, ma innanzitutto dal caos delle fonti, cui non è in grado di porre rimedio il riscoperto, mai vincolante, criterio nomofilattico; e poi – come negarlo – dalla crescente scarsa caratura delle statuizioni dei giudici dl merito.

            E la vera “efficienza” del sistema (correttamente intesa quale “livello elevato della qualità” delle decisioni) potrà essere recuperata, non con l’ulteriore “imbarbarimento” del rito (che nella prassi giudiziaria ha da tempo tradito l’originario impianto codicistico), né con il ricorso ad “editti” neppure prospettabili in un ordinamento che  – alla luce del principio di gerarchia delle fonti – voglia ancora riconoscersi quale Stato di diritto;[6] ma innanzitutto (sul fronte sostanziale) con una sapiente, sensibile contrazione della pressoché sconfinata area di intervento del giure penale[7]: contrazione, oltre che per via legislativa, attuata da subito attraverso l’abbandono di quell’atteggiamento culturale, di quel diffuso approccio interpretativo della fattispecie incriminatrice  in  chiave estensivo-analogica  che  caratterizza – vera e propria “ossessione” da vuoti di tutela – la cd. norma giurisprudenziale[8].

4. Intervenendo sul tema dei rapporti tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318) e corruzione propria (art. 319) – a margine di un noto caso giudiziario in fase di udienza preliminare – si è inteso rilevare che le conclusioni formulate dal GUP, con l’ordinanza oggetto di esame, sono tutt’altro che scontate, riflettendo «lo sforzo della recente giurisprudenza della Corte di Cassazione di delineare con chiarezza i confini e la struttura delle fattispecie» di cui si discute. Ordinanza – si soggiunge – che «ha altresì il merito di trasferire i risultati [dell’intento di chiarificazione perseguito] anche sul terreno della corretta formulazione dei capi d’imputazione nelle ipotesi in cui vengano in rilievo i delitti di corruzione»[9].

            Difficile intervenire, “a prima lettura“, su una materia processuale di particolare complessità (basti pensare alla funzione esercitata dal pubblico funzionario, almeno nello schema del contestato art. 318 c.p., quale  componente del CSM, e le figure, non definite, dei corruttori); materia, per giunta, caratterizzata da un elevato grado di “fluidità” della imputazione (tre le modifiche della contestazione operate nel corso dell’udienza preliminare dall’Ufficio di Procura, con esclusione da ultimo delle imputazioni ex artt. 319 e 319-ter c.p.).

            Le conclusioni sopra evocate ed il commento ad esse offrono, in ogni caso, una sufficiente (almeno in questa sede) base di riflessione (se si può ancora dire) tecnico-giuridica sui due temi, centrali, indicati nell’intitolato del commento qui citato: “fatto tipico” costitutivo del delitto di corruzione per l’esercizio della funzione e sua “contestazione”.

            Sulla “struttura” della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 318 c.p. e sulla “linea di confine” con la corruzione per atto contrario si segnala, innanzitutto, che l’ordinanza presa in esame si pone sulla scia della recente giurisprudenza di legittimità[10], coll’affermare che «ciò che accomuna le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p. è il divieto di “presa in carico” d’interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque, con un atto specifico; nella corruzione per l’esercizio della funzione, invece, la “presa in carico” realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivo e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo». La corruzione funzionale ha, dunque, natura di reato di pericolo, che sanziona la «violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrispondergli».

            La norma in esame – chiarisce il commentatore – «incrimina l’intesa programmatica tra il pubblico ufficiale e il privato, intesa che … può anche essere “muta” dal punto di vista probatorio». E così – si prosegue – al momento della contestazione dell’ipotesi di cui all’art. 318 c.p. può, quindi, non essere individuabile alcun specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere; è, cioè, possibile che a fronte della dazione di denaro … il pubblico ufficiale assuma «solo l’impegno di sorvegliare, di vigilare che gli interessi del privato, presi indebitamente in carico, non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo».

            E da una simile ricostruzione della struttura della norma si fa discendere, sul fronte processuale, che «nell’ambito di una contestazione per il delitto di cui all’art. 318 c.p… deve ritenersi del tutto fisiologica l’evenienza in cui non sia accertato il contenuto del patto corruttivo». Dunque, alcun difetto della imputazione e conseguente lesione del diritto di difesa in sede di contestazione, ove «non venga descritto l’oggetto dell’accordo corruttivo, rientrando tale evenienza, fisiologicamente, nel perimetro del fatto tipico della corruzione per l’esercizio della funzione».

            Non integrerebbe, pertanto, una violazione del diritto di difesa il generico riferimento nel capo d’imputazione all’asservimento della funzione del pubblico agente, senza individuazione degli specifici atti che il funzionario si sarebbe impegnato a compiere.

            Piuttosto, sostenere la genericità della prospettazione accusatoria equivarrebbe a sostenere – come affermato con l’ordinanza – che «la stessa norma incriminatrice sarebbe carente in punto di tassatività».

5. Come fondatamente si è inteso rilevare, la rubrica dell’art. 318 c.p., «riscritta con onestà intellettuale, dovrebbe essere “corruzione innominata” o, forse, con maggior schiettezza, “corruzione atipica”»[11].

            A seguito degli interventi di riforma è chiaramente divenuta una fattispecie incriminatrice propriamente espressiva di una “logica di autore”: si è regrediti dalla “fattispecie” al “tipo criminologico di autore” (il funzionario pubblico incline al favoritismo, all’affarismo).

            Una fattispecie dalla tipicità puramente «sintomatica»[12], segno di una eticizzazione del diritto che ne sconfessa il carattere propriamente laico; un prodotto legislativo judge made, cui è stata offerta una copertura legale postuma; un tipo legale “fluido” dalla portata applicativa amplissima, potendosi confondere con la mera violazione deontologica.

            Parafrasando Sciascia, “il corpo pagano lotta con la mente puritana”.

            È per ciò, verosimilmente che il commento al lavoro in esame parla di “sforzo” della recente giurisprudenza di «delineare con chiarezza i confini [ma non solo esterni] e la struttura della fattispecie» Se il tipo legale non descrive, e con “precisione”, il “fatto” nella sua materialità, una struttura non è rinvenibile ed i confini, conseguentemente, sfumano. Opera, dunque, quella della giurisprudenza non di “chiarificazione” – ampiamente consentita – ma di “scrittura” di un precetto nella sua formulazione legislativa affetto da “imprecisione” (dunque, da “non conoscibilità”, ovviamente preventiva) e da un grado di “indeterminatezza” che non consente il pieno esercizio del diritto di difesa in giudizio.

            Di qua, anche, le inevitabili incertezze come, a tratti, la confusione di piani.

            La mancata individuazione di uno specifico atto, quale oggetto del patto corruttivo, comporta sul piano della contestazione l’inquadramento del fatto storico nello schema dell’art. 318 cp, ma ciò non sembra possa correttamente avvenire nel caso in cui il funzionario assuma l’impegno di vigilare, sorvegliare che gli interessi del privato, indebitamente presi in carico, non siano danneggiati nel corso di un procedimento amministrativo “dato”. Qui, per vero, non si assiste ad una mera “intesa programmatica”[13] e l’accordo è ricollegabile al compimento di atti contrari ai doveri di ufficio. Come si è inteso statuire, «il limite esterno del nuovo reato di cui all’art. 318 cp, rispetto alla più grave fattispecie della corruzione propria, resta pur sempre l’ipotesi in cui si sia accertato un “nesso strumentale” tra la dazione promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri di ufficio»[14].

            E dal momento che nello schema dell’art. 319 cp il compimento dell’atto può anche essere semplicemente “promesso” e con lo scambio delle promesse il reato è pienamente integrato, parlare riguardo alla fattispecie incriminatrice in esame (che nella lettura offertane verrebbe a ricomprendere anche la “vecchia” corruzione impropria[15]) di reato di pericolo a confronto della corruzione propria, quale reato di danno, suscita perplessità. E’ forse per questo che la giurisprudenza da ultimo citata riconduce la disposizione de qua nel “vieto” novero dei reati di “pericolo presunto”; ipotizzando, peraltro, ancora più problematicamente, una sorta di “progressione criminosa” in termini di offesa tra i due fatti-reato[16], sebbene l’art. 318 c.p. – per come normativamente delineato – non possa essere posto a tutela, per quanto ulteriormente anticipata, del buon andamento ed imparzialità della P.A. Non è un caso che del tutto genericamente, quanto impropriamente (non foss’altro con riguardo al principio di proporzione), si evochi la “fedeltà”, “onestà” del pubblico ufficiale, il dovere di correttezza nell’assolvimento della funzione pubblica, ove non si torni a parlare di violazione del “prestigio” della P.A.[17]

            Non, dunque, sforzi interpretativi, ma creazione, tuttora sofferta ed incerta, della figura di illecito[18].

6. V’è, tuttavia, un punto che merita una ulteriore riflessione; un elemento della “improbabile” fattispecie incriminatrice che va rimarcato e preservato, quell’unico elemento suscettivo di integrare una pur esangue materialità del fatto[19].

            La giurisprudenza citata – ma anche il commento in esame – richiama pedissequamente l’assunto secondo cui «il nuovo criterio di punibilità risulta … ancorato al mero esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo …». E ancora più riduttivamente: «In definitiva, l’art. 318 cp contiene i divieti diretti al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli».

            Così operando, il lavorio creativo a livello interpretativo, in realtà, viene a consistere in (rectius, è finalizzato a) un “impoverimento”[20] ulteriore, una “riduzione” del fatto-reato; da un lato, nella dazione di una utilità da parte del privato, dall’altro, nella pura e semplice qualità di pubblico funzionario di chi quella utilità accetta: la mera accettazione di doni di marca tedesca. E per questa via la “intesa programmatica «può anche essere muta dal punto di vista probatorio» (?!), in quanto è «del tutto fisiologica (?!) l’evenienza in cui non sia accertato il contenuto del patto corruttivo». Conseguentemente – vien da dire, a specchio – ove non sia descritto l’oggetto dell’accordo corruttivo e si operi il generico riferimento all’asservimento della funzione di pubblico agente, la contestazione così formulata non risulterà lesiva dei diritti della difesa, in quanto in linea colla norma incriminatrice.

            Ragionare diversamente – si assume appunto – equivarrebbe a sostenere la carenza di tassatività della medesima norma.

            La infondatezza e la circolarità del discorso sono evidenti.

            Come si è inteso affermare, «ogni sottosistema di diritto penale emergenziale [cui ha dato vita ormai il fenomeno del contrasto alla corruzione] si propone…la semplificazione dell’accertamento, perché ciò complica la difesa e agevola le condanne. La semplificazione agognata è ottenuta, ad esempio, mediante l’espunzione dalla fattispecie degli elementi costitutivi più ostici sul piano probatorio-processuale»[21].

            Nello schema dell’art. 318 c.p. l’eliminazione dell’atto di ufficio con la novella del 2012 e, oggi, l’elisione per via interpretativa del patto corruttivo e dei termini di esso. Da ciò una forte compressione dell’istanza di precisione-determinatezza: «il tipo si smaterializza in fattispecie ampie e malleabili nelle mani del giudice e degli inquirenti»[22]. Così la cd. corruzione per asservimento – dopo (e nonostante) la trasformazione della corruzione per atto di ufficio in corruzione per l’esercizio della funzione – nelle pronunce giurisprudenziali per molto tempo ha pencolato tra la previsione dell’art. 318 e quella di cui all’art. 319. Solo a seguito dell’ultimo inasprimento sanzionatorio si è messo in atto quello “sforzo interpretativo” che, in modo formalmente più rispettoso della littera legis, mira a riportare il fatto del “funzionario a libro paga” all’art. 318 c.p. Ma quest’inasprimento della forbice edittale e la collocazione di simile fattispecie concreta nel quadro della corruzione per l’esercizio della funzione, evidenzia la assoluta irragionevolezza (sotto il profilo dei principi di offensività e di proporzionalità della pena) del tentativo – questo sì – di far meravigliosamente rientrare nell’area di applicazione di tale disposizione la pura e semplice dazione-accettazione di utilità.

7. E ciò, creativamente, pure sul versante sostanziale della tipicità (che chiama in causa anche il principio dell’in dubio pro reo).

            La disposizione, per come formulata, non sanziona penalmente la pura e semplice “accettazione di donativi” (e, dunque, la mera violazione del dovere di non venalità-fedeltà) ma, sempre nell’ottica di una concezione mercantile della corruzione, il mercimonio della funzione, l’asservimento di essa, sia pur solo in prospettiva, in quanto “mercato” non immediatamente legato ad un atto individuato ovvero individuabile.

            Significativa al riguardo la circostanza che in sede di novellazione la proposta iniziale di relazionare puramente e semplicemente “l’accordo” alla funzione (corruzione “in relazione” alla funzione) sia stata abbandonata e il testo finale richieda che il patto corruttivo venga in essere “per l’esercizio” della funzione. Dunque, non come ambiguamente e riduttivamente si pretenderebbe “in ragione” della funzione pubblica.

Ed un “per” da leggere in chiave finalistica, come la migliore dottrina ha rilevato[23]. Un “per” che sottolinea, rimarca l’appartenenza dei delitti di corruzione alla categoria dei reati propri “funzionali”; così, per la integrazione della fattispecie criminosa è necessario che il soggetto agente e, più precisamente, il corrotto faccia mercimonio dell’attività connessa all’esercizio delle sue mansioni pubblicistiche, rimanendo al di fuori della fattispecie ogni altra attività estranea a tali mansioni; «ciò peraltro è in linea con la nozione stessa di pubblico ufficiale quale delineata dall’art. 357 cp come novellato dalla riforma del 1990, che, abbandonando il criterio soggettivo e formale … ha esaltato la concezione oggettiva legata al concreto esercizio della pubblica funzione»[24]. Il comportamento oggetto del mercimonio, nel vecchio schema tipico come nel nuovo delitto di corruzione “per l’esercizio della funzione” (e non “in relazione all’esercizio della funzione”) deve, comunque, essere espressione della funzione pubblica esercitata dall’intraneus[25].

            È chiaro, innanzitutto, che una simile formulazione del precetto dà vita, sul piano strutturale, ad un reato a “dolo specifico”, dal momento che il pubblico ufficiale riceve il denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, “per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”; e come è stato fondatamente osservato, «si esprime così una finalizzazione necessaria del comportamento, senza che lo sia l’effettivo esercizio della funzione»[26]. Già simile particolare “disvalore di intenzione” – che deve caratterizzare la materialità del fatto – preclude la riportabilità allo schema legale dell’art. 318 c.p. la mera accettazione di utilità da parte del funzionario pubblico.

            Ora, in realtà, il dolo specifico oltre ad assolvere alla tipica funzione “selettiva” rispetto alle diverse forme di corruzione, qui assolve altresì alla fondamentale funzione “limitativa” della sfera di applicazione della fattispecie incriminatrice. Ed in tal senso si dovrà tenere a mente che lo “scopo” normativamente richiesto, non consiste puramente e semplicemente nella motivazione che sottende la condotta, ma al contempo nell’idoneità della condotta medesima a raggiungere il fine che i soggetti agenti perseguono. Per lo stretto collegamento esistente tra dolo specifico e tipicità del fatto, la condotta materiale dovrà atteggiarsi, per essere tipica, quale parziale concretizzazione di quel fine, in quanto momento “necessario” rispetto alla realizzazione del risultato “finale” tipizzato; la condotta, cioè, dovrà porsi in connessione condizionante con il contenuto finalistico descritto dalla norma penale, così da rendere tipico il comportamento materiale posto in essere.

            L’idea di scopo che muove i concorrenti necessari dovrà, pertanto, essere finalizzata all’esercizio (pur futuribile) della funzione, non risultando sufficiente per l’integrazione del tipo un comportamento materiale – la dazione-ricezione di utilità – connesso alla “posizione” del soggetto pubblico, “occasionato” dall’ufficio, dunque, lesivo di un generico dovere di correttezza, di non venalità.

            Per l’integrazione del delitto sarà necessario il confluire delle volontà su un oggetto concreto (pur non rientrante nella competenza esclusiva del pubblico agente e non esattamente individuato nella sua specificità), non potendosi ravvisare già l’oggetto del dolo in una del tutto indeterminata attività del funzionario.

            Si profila, dunque, chiaramente il ruolo fondamentale svolto, più in generale, dall’elemento finalistico sul piano della struttura delle varie forme di corruzione. La dazione-ricezione di un’utilità individua un comportamento neutro in sé considerato; la condotta tipica nello schema dei delitti di corruzione è, appunto, quella caratterizzata da un particolare contenuto intenzionale. Quel comportamento (messa a disposizione, attuale o futura, di un’utilità) per essere conforme al tipo legale dovrà, infatti, presentare un significato “retributivo”. Ora, la natura retributiva della prestazione patrimoniale, frutto dell’accordo corruttivo, anche nella corruzione per l’esercizio della funzione investe – innanzitutto – il momento intellettivo del dolo: il pubblico funzionario dovrà, in altri termini, essere consapevole che l’utilità si atteggia quale corrispettivo per una futura prestazione e dovrà al contempo condividere col privato tale idea di scopo; mentre la condotta dell’extraneus dovrà, dal canto suo, risultare qualificata dalla volontà consapevole che quanto si potrà eventualmente richiedere all’intraneus è legato alla retribuzione; le due autonome, convergenti condotte verranno, cioè, ad individuare uno “scambio”.

            Allorquando difetti un “collegamento finalistico” tra dazione-ricezione e funzione, la condotta nella sua materialità non presenterà rilevanza penale ai sensi dell’art. 318 c.p. Resterà sempre, pertanto, «l’esigenza di provare la proiezione dell’utilità verso un’attività funzionale»[27].

            Quella materialità, peraltro, dovrà consistere nel convergere di due intenzionalità, nel raggiungimento di un “accordo”, di un’intesa programmatica che – lungi dall’essere probatoriamente “muta” – non potrà che perfezionarsi attorno ad “un’area di interesse” prossima alla funzione esercitata.

            D’altra parte, ove si raggiunga un accordo, comprensibilmente, non potrà difettare “l’oggetto” di simile accordo. Si pattuisce sempre un qualcosa e qui i “termini” dell’intesa devono risultare collegati al futuribile esercizio della funzione.

            Assunto questo non revocabile in dubbio neppure da parte della, pur ancora incerta, giurisprudenza che: – nella «presa in carico degli interessi del privato a fronte della ricezione di utilità” individua la condotta del funzionario pubblico; – nella pattuizione fissa la materialità del fatto-reato, il cui perfezionamento deve essere necessariamente provato ed il cui oggetto attiene alla messa a disposizione della sua funzione o dei suoi poteri in relazione al compimento di possibili, futuri, non specificati atti vantaggiosi e favorevoli per il privato»[28].

            Coma ha statuito la S.C. – al di là della esemplificazione operata, come detto, quanto meno non appropriata – «si tratta di un accertamento che, sotto il profilo probatorio, deve essere compiuto caso per caso; potranno assumere rilievo la situazione concreta, le aspettative specifiche del corruttore, cioè il movente della condotta del corruttore – il senso ed il tempo della pretesa di questi –, la condotta in concreto compiuta dal pubblico agente, le modalità della corresponsione del prezzo. Deve essere accertato il “colore” del patto corruttivo, il suo oggetto specifico, la sua riferibilità o meno al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio; se il contenuto del patto non “attiene” al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio, la condotta è riconducibile all’art. 318 cod. pen. Il patto può essere probatoriamente muto, nel senso che non sia individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere»[29].

            Ed in tal senso si è inteso puntualizzare che « nell’art. 318 il denaro o l’utilità sono destinati a precostituire condizioni future e favorevoli nei rapporti con l’amministrazione»; e «l’avvenuta “rarefazione” dell’atto nell’art. 318 c.p. non ha determinato il venir meno della concezione mercantilistica della corruzione, dal momento che persiste il rapporto tra prestazione del privato e controprestazione del pubblico agente: nella corruzione di cui all’art. 318 c.p. deve comunque esserci un nesso sinallagmatico con l’esercizio di funzioni o poteri»[30]. Nel singolo caso concreto bisognerà, pertanto, accertare l’oggetto del patto corruttivo, non soltanto per verificare la sua riferibilità o meno al futuro compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio (e, dunque, differenziare l’area di operatività dell’art. 318 c.p. rispetto a quella dell’art. 319 c.p.), ma anche per distinguere la “intesa programmatica” penalmente rilevante dalla pura e semplice dazione-accettazione di utilità[31].

8. Altrettanto evidente il carattere circolare dell’affermazione secondo cui, ove non venga accertato l’oggetto dell’accordo corruttivo (“evenienza del tutto fisiologica”?!) e, non potendo questo essere descritto, la contestazione faccia generico riferimento alla mera dazione-accettazione di utilità da intendersi quale asservimento della funzione, una simile contestazione sarebbe da intendere come non lesiva dei diritti della difesa, in quanto “in linea” colla norma incriminatrice.

            Tesi questa inaccettabile. Sarebbe come dire che nel processo penale è sufficiente contestare la formula del tipo legale, senza descrivere il fatto storico (che la integra) nella sua materialità.

            E privo di significato è soggiungere: «ragionare diversamente equivarrebbe a sostenere la carenza di tassatività della norma». Che la norma difetti di precisione e determinatezza, si è detto; che sposti pericolosamente il suo baricentro dal fatto all’autore, è chiaro; la disposizione riesce a sopravvivere ai denunciati plurimi profili di illegittimità costituzionale nel limite in cui individui nel “patto corruttivo” (nell’accordo raggiunto dalle parti, fisiologicamente in ordine ad un oggetto, in ragione di un’area di interesse del privato che presenta un collegamento colla funzione esercitata dal pubblico funzionario), da accertare probatoriamente, la propria materialità.

            Il rispetto del canone della legalità stretta non ha nulla a che vedere – ove non si intenda operare maliziose equazioni – con gli obblighi relativi all’accertamento probatorio del “fatto” e la “traduzione” di esso in imputazione.

*Avvocato del Foro di Roma, Ordinario di Diritto Penale all’Università di Tor Vergata

[1] G. Fidelbo, Processo “scritto” e limiti all’oralità in Cassazione, in Sistema penale SP, n. 3, 2021, 1 s.

[2] Cons. Stato, Sez. VI, 16-21 aprile 2020, n. 2539.

Come si è inteso fondatamente rimarcare, A. Galletti-F. Galluzzo, Anche per il Consiglio di Stato sono insopprimibili i principi dell’oralità e del contraddittorio nel processo penale, in www.Penale.Dirittoeprocedura.it on line, 26 aprile 2020, 133 s., “ricorda ancora il Consiglio di Stato che la formazione della prova si realizza attraverso un contraddittorio che si sviluppa dinanzi al giudice chiamato a prendere una decisione anche sulla base delle espressioni, del tono della voce, dell’atteggiamento corporeo dei testimoni che necessariamente si perderebbero nei meandri delle piattaforme social (e ciò anche senza entrare nel merito delle più ampie preoccupazioni circa la tutela delle informazioni e della riservatezza); sulla base delle reazioni provocate dai difensori nel corso di una cross examination condotta con ritmo incalzante ed in tempo reale e non scandita magari da una connessione internet che va e viene”

[3] Per tutte, Corte EDU, 13 novembre 2007, Bocellari-Rizza c/Italia; Corte EDU, 26 luglio 2011, Paleari c/Italia.

[4] In argomento v. A. Marandola, Emergenza sanitaria. Contraddittorio cartolare “coatto”. Il contraddittorio cartolare “coatto” non è conforme a Costituzione; in Giur. it., 2020, 6, 1236.

[5] Così si direbbe, contraddittoriamente, G. Fidelbo, op cit., 3.

[6] M. Gallo, Le fonti rivisitate. Appunti di diritto penale, Torino, 2017, 105 s.; dello stesso Autore v. anche, La regola e il giudizio. Tra due ipotesi e il diritto penale vigente, Torino, 2016.

[7] In argomento, F. Sgubbi, Il diritto totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Bologna, 2019.

[8] In materia R. Rampioni, Diritto penale. Scienza dei limiti del potere punitivo, Torino, 2020.

[9] M. C. Ubiali, Caso Palamara: l’ordinanza del GUP di Perugia sui rapporti tra corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 cp) e corruzione propria (art. 319 cp) del componente del CSM e sui riflessi rispetto all’eccepita genericità e indeterminatezza del capo d’imputazione, in Sistema penale, 27 aprile 2021.

[10] Cass. pen., Sez. VI, 22 ottobre 2019 (12 giugno 2020), n. 18125

[11] V. Manes, Corruzione senza tipicità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1140.

[12] A. Gargani, Fattispecie sostanziali e dinamiche probatorie, Appunti sulla processualizzazione della tipicità penale, in AA.VV. Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, a cura di G. De Francesco-E. Marzaduri, Torino, 2016, p. 93.

[13] Cass. pen., Sez. VI, 23 settembre 2020, n. 1863.

[14] Così Cass. pen., Sez. VI, 11 dicembre 2018 (29 gennaio 2019) n. 4486, in Cass. pen., 2019, 3495 s.

[15] C.F. Grosso, Novità, omissioni e timidezze della legge anticorruzione in tema di modifiche al codice penale, in La legge anticorruzione, Prevenzione e repressione della corruzione, a cura di B. G. Mattarella-M. Pelissero, 2013, Torino, 9 s.

[16] Cass. pen., Sez. VI, 11 dicembre 2018, cit.

[17] In argomento L. Furno, Riflessioni a margine di Sez. VI, n. 4486/2018, nel prisma della recente legge cd. Spazza-corrotti e delle tre metamorfosi dello spirito, in Cass, pen., 2019, 350 s.

Sul tema dell’oggetto di tutela v. il recente lavoro di M. A. Bartolucci, L’indebita ricezione di utilità da parte del pubblico ufficiale: condotta criminalizzabile per se o solo elemento tipizzante del delitto di corruzione? in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, 132.

[18] L. Furno, op. cit., parla di contrasti in seno alla Sesta Sezione della S.C. difficilmente eludibili ed invoca, a sua volta, l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.

[19] In argomento v. da ultimo M.A. Bartolucci, op. cit., 119 s., il quale esclude la possibilità di sussumere l’indebita ricezione di utilità – “a prescindere da note ulteriori di illiceità o modalità specifiche di condotta” – nel tipo legale in considerazione. Più in generale, R. Rampioni, I reati dei pubblici ufficiali contro la PA, in AA.VV. Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, a cura di A. Fiorella, Torino, III ed., 2019, 823.

[20] V. N. D’Ascola, Impoverimento della fattispecie e responsabilità penale <<senza prova>>, Strutture in trasformazione del diritto e del processo penale, Reggio Calabria, 2008.

[21] V. Mongillo, Il contrasto alla corruzione tra suggestioni del <<tipo di autore>> e derive emergenziali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 967 s.

[22] V. Mongillo, op. cit., 999.

[23] C. F. Grosso, op. cit., 10.

[24] Cass. pen., Sez. VI, 4 giugno 2006, Battistella ed altri, in Cass. pen., 2007, 1605.

[25] In argomento Cass. pen., Sez. V, 4 ottobre 2019, n. 51474, in Cass. pen., 2020, p. 4183.

[26] M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, Milano, 2019, 216.

[27] S. Seminara, sub art. 318 cp, in Commentario breve al c.p., a cura di G. Forti-S. Seminara-G. Zuccalà, Padova, 2017, 1043.

[28] Così sempre Cass. pen., Sez. VI, 16-22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125/20.

[29] Cass. pen., Sez. VI, 16-22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125/20 (enfasi di chi scrive).

[30] G. Fidelbo, La corruzione “funzionale” e il contrastato rapporto con la corruzione propria, in Giustizia Insieme, 14 maggio 2020.

[31] In argomento v. M. C. Ubiali, Sul confine tra corruzione propria e corruzione funzionale: note a margine della sentenza della Corte di Cassazione sul caso “mafia capitale”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 662 s. Più puntualmente la stessa Autrice, Attività politica e corruzione, Sull’opportunità di uno statuto penale differenziato, Milano, 2020, 241 s.: “…è unanime tra i commentatori l’opinione secondo cui, per affermare la sussistenza della corruzione funzionale, sia comunque necessaria la prova dell’intercorso <<accordo illecito>> tra privato e pubblico agente. La corruzione, come reato bilaterale, si consuma infatti con il raggiunto accordo di almeno due protagonisti. Da un lato, nella corruzione antecedente, l’accordo è finalizzato all’esercizio ancora a venire della funzione (art. 318 c.p.) o al compimento futuro di un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.). D’altro lato, nella corruzione susseguente, il patto intercorso tra le parti è rivolto invece a remunerare l’esercizio già avvenuto della funzione (art. 318 c.p.), oppure un atto contrario ai doveri d’ufficio già posto in essere (art. 319 c.p.). Ciò che distingue le due forme di corruzione non è dunque la sussistenza di un accordo – che deve essere comunque presente – ma il fine a cui è rivolta la pattuizione, che nella corruzione funzionale consiste nel generico ed indeterminato asservimento della funzione pubblica agli interessi privati, mentre nella corruzione propria deve necessariamente avere ad oggetto un determinato (o determinabile) atto contrario ai doveri dell’ufficio”.