L’INTERDIZIONE PERPETUA DAI PUBBLICI UFFICI EX ART. 317-BIS C.P. AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE – DI STEFANO BISSARO
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L’INTERDIZIONE PERPETUA DAI PUBBLICI UFFICI EX ART. 317-BIS C.P. AL VAGLIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE
THE PERPETUAL BAN FROM PUBLIC OFFICE, EX ART. 317-BIS C.P., UNDER SCRUTINY BY THE CONSTITUTIONAL COURT
di Stefano Bissaro*
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Con questo contributo, l’A. analizza la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di cassazione sull’art. 317-bis c.p., ragionando, in particolare, del contenuto delle censure prospettate con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dei possibili esiti del giudizio e delle eventuali ricadute di sistema della decisione della Corte costituzionale.
With this paper, the A. analyzes the question concerning the constitutionality of art. 317-bis of the Criminal Code raised by the Court of Cassation, focusing, in particular, on the content of the doubts presented with reference to Articles 3 and 27 of the Constitution, the possible outcomes of the judgment and the potential systemic implications of the Constitutional Court’s decision.
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SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive – 2. I termini della questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di cassazione – 3. An, quantum e quomodo della misura interdittiva, tra rigorismi sanzionatori ed esigenze di individualizzazione – 4. (Segue) … tra rime obbligate, possibili ed (im)probabili – 5. Qualche riflessione conclusiva: la “silenziosa primavera della Costituzione penale”, T. S. Eliot e il futuro delle pene interdittive perpetue…
- Considerazioni introduttive
Con una certa frequenza, negli ultimi anni, all’attenzione della Corte costituzionale vengono portate questioni di legittimità aventi ad oggetto istituti centrali per il diritto penale (sia sostanziale che processuale); la Corte è, così, spesso chiamata a misurarsi direttamente con la portata e l’ambito di applicazione delle principali garanzie penalistiche, riferibili al combinato disposto di cui agli artt. 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost.
L’elenco di tali questioni è davvero lungo ed eterogeneo, e non è questa la sede per richiamare tutti i più recenti e significativi interventi del Giudice costituzionale nella materia penale[1]; interessa, nondimeno e proprio al fine di introdurre la specifica questione oggetto delle seguenti riflessioni, tracciare sinteticamente il contesto in cui si inseriscono questi pronunciamenti, cercando di mettere fuoco, sia pur per brevi cenni, le coordinate che hanno contraddistinto, in subiecta materia, la recente attività della Consulta.
Da questo angolo visuale, gli ultimi tracciati della giurisprudenza costituzionale in materia penale restituiscono, in primo luogo, una rinnovata e, per certi versi, anche inedita attenzione della Corte verso la dimensione garantista di alcuni tradizionali corollari del principio di legalità scolpito dall’art. 25, secondo comma, Cost.
In tempi recentissimi, per esempio, chiamata a sciogliere una complessa questione concernente il rapporto tra il divieto di analogia e l’attività interpretativa del giudice[2], la Corte ha svolto alcune importanti considerazioni sull’origine, storica e culturale, del principio di tassatività e sulle interazioni tra quest’ultimo, la riserva di legge e il principio della separazione dei poteri[3]: ci si riferisce alla sentenza n. 98 del 2021 con cui la Corte ha ribadito con fermezza che dall’art. 25, secondo comma, Cost. discendono dei veri e propri imperativi costituzionali, che si rivolgono, ad un tempo, al legislatore e al giudice del caso concreto e che sono volti ad assicurare la calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali delle scelte d’azione dei consociati e quindi, in ultima istanza, la libera autodeterminazione individuale. Affermazioni, queste, che si riallacciano idealmente con le trame motivazionali delle due storiche pronunce rese dalla Corte nell’ambito della nota vicenda Taricco, con cui – e non è banale ricordarlo[4] – il principio di legalità penale è stato innalzato al rango di principio supremo dell’ordinamento, per la parte che garantisce proprio la determinatezza e l’irretroattività sfavorevole delle norme penali.
Importanti elementi di novità hanno interessato, nella più recente giurisprudenza costituzionale, anche il perimetro applicativo di siffatte garanzie: la sentenza n. 32 del 2020[5], in particolare, ha definitivamente aperto la breccia nel muro che, per lungo tempo, ha tenuto separati il diritto penale sostanziale, da una parte, e l’esecuzione penale, dall’altra, rimeditando l’orientamento che solo in relazione al primo predicava l’operatività della garanzia dell’irretroattività sfavorevole. Questa svolta, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, ha tratto una linfa determinante dalla giurisprudenza della Corte EDU: la sentenza Del Rio Prada c. Spagna[6] aveva, infatti, già chiarito che la regola generale per cui le modifiche che incidono sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva, ex art. 7 CEDU, va eccettuata per tutti quei casi in cui sia in gioco una ridefinizione o modificazione sostanziale della portata applicativa della pena imposta dal giudice.
A ben vedere, il confronto con la giurisprudenza della Corte EDU ha consentito, negli ultimi tempi, un significativo passo in avanti anche con riguardo all’estensione della garanzia della retroattività in bonam partem, la quale, dopo una fase iniziale di incertezza e di serrato confronto a livello dottrinale e giurisprudenziale, è stata di recente affermata anche con riferimento alle sanzioni amministrative punitive[7]. La progressiva contaminazione tra i modelli di legalità nazionale ed europeo ha determinato, di recente, anche il superamento di un ulteriore baluardo della materia penale, ovverosia la flessibilità del giudicato a fronte di una sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità[8]: con la sentenza 68 del 2021[9], la Corte ha, infatti, dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 30, comma 4, l n. 87 del 1953, in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida disposta con sentenza irrevocabile.
In generale, l’esame della giurisprudenza conferma l’idea che la Corte abbia, negli ultimi tempi, inteso con massimo rigore il compito che la Costituzione le assegna al fine di armonizzare le scelte del legislatore con il volto costituzionale del magistero punitivo statale.
Rispetto alle scelte di dosimetria sanzionatoria del legislatore, per esempio, la Corte – con un indirizzo che può già dirsi consolidato – ha convintamente superato il tradizionale orientamento che ne limitava il sindacato ai casi in cui fosse evocato un valido tertium comparationis[10]. A partire della nota sentenza n. 236 del 2016, in particolare, la Corte ha intrapreso un importante cammino che ha consentito di valorizzare tutte le potenzialità insite nel principio di proporzionalità della pena, di cui al combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost.[11]. Sul piano processuale, inoltre, questo indirizzo si caratterizza per il superamento della teoria dalle rime obbligate: a differenza del passato, la Corte non sembra più arrestarsi in presenza di una pluralità di soluzioni alternative alla misura sospettata di illegittimità, accontentandosi, per giungere ad un dispositivo di accoglimento, dell’esistenza di «punti di riferimento, già rinvenibili nel sistema legislativo» idonei a coprire, sia pur provvisoriamente, il vuoto lasciato dall’ablazione della grandezza dichiarata incostituzionale[12].
E questo nuovo corso, per quanto più interessa in questa sede, ha riguardato, a partire dalla sentenza n. 222 del 2018[13], anche l’universo delle pene accessorie, rispetto alle quali la Corte ha affermato con vigore le medesime esigenze di proporzionalità e individualizzazione da sempre riferite alle sanzioni principali ex art 17 c.p.
È noto, però, che tra le garanzie che fondano la cd. Costituzione penale, in una chiave di sistema, vi è anche la riserva di legge, che, assegnando il monopolio delle scelte di criminalizzazione al legislatore, finisce inevitabilmente per limitare gli spazi di manovra dello stesso Giudice costituzionale; ben si comprende, allora, come tutti i più recenti interventi della Corte, pur giustificati dall’esigenza di armonizzare il sistema ai principi costituzionali (individualizzazione, proporzionalità, personalità, offensività) si siano dovuti confrontare, in modo più o meno problematico, con essa: non deve quindi sorprendere che proprio la materia penale abbia rappresentato il terreno di sperimentazione della nuova – ma forse già in via di consolidamento – tecnica decisoria della sospensione del giudizio, con rinvio a nuovo ruolo e richiesta di intervento al legislatore.
Per la prima volta, nel celebre caso Cappato, con l’ordinanza n. 207 del 2018 poi seguita dalla sentenza n. 242 del 2019[14], con riferimento all’incriminazione delle condotte di agevolazione al suicidio, ex art. 580 c.p.; modello poi replicato con l’ordinanza n. 132 del 2020, cui ha fatto seguito la successiva sentenza n. 150 del 2021[15], in materia di diffamazione a mezzo stampa; ed, infine, con la recentissima ordinanza n. 97 del 2021[16], con cui la Corte ha rinviato all’udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale in tema di ergastolo ostativo. Esempi diversi, sul piano delle norme oggetto di scrutinio e dei parametri costituzionali evocati, che però, attraverso il comune ricorso alla innovativa tecnica decisoria del rinvio, sottolineano l’attenzione che la Corte – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale con il legislatore e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni – ha più volte dimostrato rispetto alle rationes sottese al principio della riserva di legge di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.[17].
Tanto premesso, nelle seguenti pagine, dopo aver brevemente illustrato il contenuto della recente ordinanza di rimessione della Corte di cassazione, si tenterà di ragionare intorno ai diversi profili implicati dalla questione di costituzionalità sollevata, cercando di tenere in considerazione anche le eventuali ricadute di sistema del prossimo pronunciamento della Consulta.
- I termini della questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di cassazione
Nel contesto giurisprudenziale descritto in premessa, si inscrive coerentemente la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte di cassazione sull’art. 317-bis c.p., per ritenuto contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.[18].
Ora, va ricordato che la norma impugnata, nella versione antecedente alla riforma Spazzacorrotti (che ne ha ulteriormente aggravato la portata afflittiva), prevede, per taluni reati contro la pubblica amministrazione, l’automatica applicazione della sanzione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, ove all’imputato sia stata inflitta in concreto una pena superiore o uguale ai 3 anni di reclusione. Con l’art. 317-bis c.p., in questo modo, il legislatore ha delineato un trattamento derogatorio in peius rispetto alla disciplina generale di cui all’art. 29 c.p., valida a prescindere dal titolo specifico di reato, la quale individua nel limite dei cinque anni la soglia di pena capace di innescare un analogo meccanismo interdittivo.
La scelta legislativa si giustifica, come è facile intuire, con l’esigenza di reagire con fermezza a fronte di fenomeni delinquenziali in grado di generare un forte allarme sociale: l’intenzione del legislatore, più precisamente, è quella di contrastare, attraverso la previsione di una sanzione interdittiva sine die, condotte lesive di beni di rilievo collettivo, dotate di un intrinseco disvalore in quanto idonee a compromettere i requisiti di integrità e affidabilità necessari per l’assunzione dei pubblici uffici.
Orbene, ancorché si tratti di una questione di legittimità avente ad oggetto una versione del 317-bis c.p. attualmente non in vigore, la recente ordinanza della Corte di cassazione, come peraltro dimostrato dai diversi commenti già a disposizione[19], sollecita l’interesse dall’osservatore sotto molteplici punti di vista.
Andando con ordine, è utile richiamare, per cenni, i fatti oggetto di scrutinio nel giudizio principale: per aver accettato, in qualità di pubblico ufficiale, somme di denaro da privati cittadini al fine di omettere o ritardare taluni controlli fiscali, ad un luogotenente della Guardia di finanza il Tribunale di Brescia ha applicato una pena pari ad anni quattro e mesi quattro di reclusione, ai sensi dell’art. 319 c.p.; lo stesso imputato, inoltre, è stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, proprio in applicazione della previsione di cui all’art. 317-bis c.p., nonché dichiarato incapace di contrattare con la pubblica amministrazione per un tempo corrispondente alla durata della pena principale applicatagli.
Il giudice a quo, condividendo la prospettazione della difesa, che aveva incentrato il ricorso in Cassazione sull’incompatibilità costituzionale della misura interdittiva perpetua ex art. 317-bis c.p., ha quindi ritenuto di sollevare questione di legittimità su quest’ultima previsione, denunciandone, come si dirà meglio oltre, il contrasto con il principio di ragionevolezza, di proporzionalità e del finalismo rieducativo, di cui agli artt. 3 e 27 Cost.
Nel rimettere la questione alla Corte costituzionale, la Cassazione si è anzitutto confrontata con il profilo relativo alla rilevanza della questione chiarendo, in poche ma efficaci battute, come il giudizio principale non possa essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione di legittimità costituzionale circa le modalità di applicazione della pena accessoria.
Sintetica, ma del tutto condivisibile, è anche la successiva affermazione con cui la Suprema Corte ha escluso la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 317-bis c.p.: quest’ultima previsione, infatti, prevede in modo esplicito, come effetto automatico correlato ad una condanna superiore ai tre anni di reclusione, la pena accessoria perpetua e non vi è dunque spazio per correzioni ortopediche in via ermeneutica. Soluzione che appare coerente con quanto di recente ribadito dalla Corte proprio nella citata sentenza n. 96 del 2021: «l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo»[20].
Molto più articolate ed approfondite risultato le considerazioni che la Cassazione ha proposto sul versante della non manifesta infondatezza al fine di sostenere le censure formulate in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.
La frizione con i principi di personalità della responsabilità penale e di finalizzazione della pena alla risocializzazione del condannato si apprezza, secondo il giudice a quo, in una duplice prospettiva:
- l’automatismo e l’indefettibilità dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici (l’an della misura);
- la fissità e perpetuità della sanzione (il quantum – quomodo della stessa).
Si tratta di prospettive che, nella lettura del rimettente, si saldano tra loro in modo unitario, dando vita ad un meccanismo ingiustificatamente rigido che non appare compatibile con il volto costituzionale della sanzione penale[21].
Per il giudice a quo, ad essere frustrata irrimediabilmente è, nello specifico, l’esigenza di individualizzazione della pena, per come intesa sulla base degli approdi raggiunti dalla giurisprudenza della Corte: l’art. 27 Cost. esige, infatti, che – nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice – la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravità, oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; ciò che comporta, almeno di regola, la necessità dell’attribuzione al giudice di un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore[22].
È bene sottolineare come il rimettente, sul punto, non ignori la circostanza che simili rilievi siano stati nel tempo formulati dalla Corte con riguardo alle pene principali e solo di recente – secondo un percorso di ermeneusi, che lo stesso giudice a quo, definisce «per nulla scontato e affatto concluso»[23] – estesi anche alle pene interdittive, a lungo configurate solo come effetti penali della sentenza di condanna cui «conseguono di diritto» e, come tali, sottratti a qualsiasi discrezionalità giudiziale che investa l’an della loro applicazione, il quomodo o il quantum della loro durata.
Per approfondire questo profilo, la Cassazione ha giustamente chiamato in causa la storica sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018 e il suo immediato seguito giurisprudenziale[24], osservando come attraverso tali pronunciamenti sia possibile tratteggiare una sorta di statuto delle pene accessorie-interdittive, avvicinabile a quello proprio delle pene principali, «sebbene il contenuto afflittivo dell’interdizione sia elaborato in modo autonomo dal sistema e contrassegnato da una funzione marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa»[25].
È utile ricordate che, con la sentenza n. 222 del 2018, la Corte ha dichiarato illegittimo l’art. 216, ult. comma, r.d. n. 267 del 16 marzo 1942, nella parte in cui prevedeva che la condanna per uno dei fatti di bancarotta da essa contemplati comportasse, per una durata fissa di anni dieci, l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità, per la stessa durata, di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. L’intervento correttivo della Corte, in quest’occasione, ha determinato l’inserimento nella previsione dell’avverbio sino, con la contestuale trasformazione della pena accessoria da fissa in pena di durata. E non è banale osservare, a tal riguardo, come la Corte non si sia limitata a censurare, dal punto di vista costituzionale, la fissità delle sanzioni accessorie previste dall’art. 216, ma si sia spinta «sino a indicare che la loro durata [debba essere] determinata discrezionalmente dal giudice per rendere davvero effettiva l’individualizzazione della sanzione accessoria, che altrimenti sarebbe raggiunta solo a metà»[26]. Ed è proprio nella sentenza n. 222 del 2018 che la Corte ha affermato con chiarezza che «se la regola è rappresentata dalla discrezionalità, ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) è per ciò solo indiziata di illegittimità», precisando inoltre come «tale indizio potrà essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda proporzionata all’intera gamma dei comportamenti tipizzati»[27].
Comportamenti che, secondo il rimettente, possono essere oggettivamente molto diversi, dal punto di vista del grado di lesione dei beni giuridici oggetto di tutela, proprio con riferimento all’art. 319 c.p. contestato all’imputato nel caso da cui ha tratto origine l’odierna questione di costituzionalità: la fattispecie incriminatrice da ultimo richiamata, per la sua ampiezza, può in effetti abbracciare sia il caso del pubblico ufficiale che abbia ricevuto una somma di denaro per aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio, sia il caso dell’«accettazione di una promessa di futura dazione come corrispettivo per ritardare il compimento di un atto dovuto, ritardo non prodottosi per la subitanea emersione dell’accordo illecito o anche per la resipiscenza del pubblico ufficiale»[28].
In tutti questi casi, a prescindere da una valutazione calibrata sulle specificità delle singole condotte, opera la regola dettata dall’art. 317-bis c.p., e cioè che, se la pena principale rimane sopra i tre anni di reclusione, trova automatica applicazione la pena accessoria perpetua della interdizione dai pubblici uffici, senza che al giudice del caso concreto sia consentito un margine di apprezzamento.
Né, per la Suprema Corte, possono venire in rilievo quegli ulteriori congegni normativi capaci di adeguare la complessiva risposta sanzionatoria alla gravità, oggettiva e soggettiva[29], del fatto di reato: quanto all’art. 62-bis c.p. – che, come noto, consente al giudice, con una certa ampiezza di manovra[30], di riconoscere le circostanze attenuanti generiche – il giudice a quo ha rilevato, in modo assorbente, come non sia «matematicamente possibile scendere, anche in tale evenienza, al di sotto dei tre anni di reclusione» e che non vi sia spazio, quindi, per disinnescare il meccanismo interdittivo dell‘art. 317-bis c.p.; quanto, invece, all’art. 323-bis c.p., che prevede specifiche ipotesi attenuanti nel settore dei delitti contro la pubblica amministrazione, la Cassazione ha osservato che il caso di specie «non possa essere considerato di particolare tenuità, considerata la disponibilità che l’imputato ha mostrato a favore di un noto imprenditore locale e delle sue società, attraverso la collaborazione della titolare di uno studio di consulenza contabile; e che non siano stati acquisiti positivi elementi neppure per ritenere applicabile la circostanza ex comma 2, concedibile a fronte di una condotta collaborativa dell’imputato volta ad evitare ulteriori attività criminose, ad assicurare la prova di altri reati o di altrui responsabilità e il sequestro delle somme conseguite a titolo di profitto del reato»[31].
Per il giudice a quo, insomma, si è in presenza di una rigidità applicativa, frutto della struttura della fattispecie, che non può che generare risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto all’intera gamma dei comportamenti tipizzati, e, dunque, in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
Del resto, ad avviso del rimettente, proprio il caso di specie sarebbe emblematico di una tale rigidità: all’imputato è stata, infatti, applicata una pena superiore al minimo edittale dell’art. 319 c.p. (precisamente, 8 anni di reclusione), diminuita prima per l’attenuante dell’art. 62 n. 6 c.p. (perchè l’imputato ha risarcito il danno cagionato) e poi per la scelta del rito abbreviato, per un fatto «che non si attesta tra le condotte più gravi, per non essendo apprezzabile come di particolare tenuità, in relazione alle specifiche e concrete modalità della condotta».
In sintesi, il punto di vista del giudice a quo sembra potersi riassumere cosi: per i casi più gravi, che si discostano quoad poenam ampiamente dal minimo edittale stabilito dall’art. 319 c.p., la previsione della misura interdittiva perpetua è giustificata dal disvalore insito nella condotta realizzata dal funzionario corrotto; per i casi più lievi, invece, rientranti nel perimetro applicativo dell’attenuante dell’art. 323-bis c.p., la possibilità di mitigare la rigidità della complessiva risposta sanzionatoria attraverso la trasformazione da perpetua a temporanea della misura accessoria prevista dall’art. 317-bis c.p. rende meno evidente (e, probabilmente, superabile) il vulnus denunciato. Per la Suprema Corte, in definitiva, la tenuta costituzionale dell’art. 317-bis c.p. entra in crisi proprio rispetto alle condotte, del tipo di quella oggetto di accertamento nel giudizio principale, che esprimono un coefficiente di lesività, per così dire, intermedio: sufficientemente grave da escludere l’applicabilità dei rimedi di favore presenti nel sistema (come l’art. 323-bis c.p.), ma non così gravi da giustificare l’inflizione di una sanzione interdittiva perpetua.
A questo punto, la Cassazione formula una considerazione di estremo rilievo nell’economia dell’ordinanza di rimessione: è vero che l’interdizione prevista dall’art. 317-bis c.p., così come qualsiasi altra pena accessoria, rispetto a quella principale-detentiva, «è marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa, imperniata sulla interdizione del condannato da quelle attività che gli hanno fornito l’occasione per commettere gravi reati»[32]; è vero, però, che essa non può essere concepita in rapporto esclusivamente all’autore ed alla sua pericolosità, strettamente intesa, o semmai alla capacità a delinquere, ma deve, comunque, essere concepita in relazione al fatto commesso e, quindi, alla sua gravità e non può sottrarsi, in quanto pena, alla necessità di individualizzazione del trattamento sanzionatorio ed all’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti.
Per il giudice a quo deve infine aggiungersi che le pene accessorie in generale e quella interdittiva in particolare incidono in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, tra cui la perdita di capacità elettorale e il diritto elettorale, attivo e passivo, compromettendone in settori amplissimi la sfera giuridica e riducendo drasticamente la sua possibilità di esercitare attività lavorative in una prospettiva perpetua. È dunque sul terreno della compatibilità con la funzione di rieducazione del condannato che la misura dell’interdizione perpetua rileva l’altro suo aspetto di frizione con il sistema costituzionale, e con i descritti principi di proporzionalità e individualizzazione, tanto più grave ove si rifletta che essa incide sulla capacità giuridica generale dell’individuo, contraddicendo quelle ragioni (la flessibilità e precisione, ovvero la specificità della misura, ritagliata sull’attività alla quale si riferisce l’illecito) che giustificano, in chiave di prevenzione speciale, il ricorso alla misura interdittiva[33].
Sulla base di tutti questi argomenti, la Suprema Corte arriva quindi ad affermare apertis verbis che i connotati della pena accessoria prevista dall’art. 317-bis c.p. restituiscono l’immagine di una norma sanzionatoria priva dei requisiti, costituzionalmente obbligati, di proporzionalità e ragionevolezza e quindi in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.
- An, quantum e quomodo della misura interdittiva, tra rigorismi sanzionatori ed esigenze di individualizzazione
In diversi passaggi dell’ordinanza di rimessione, come visto, la Suprema Corte ha fatto riferimento ad una eccessiva rigidità applicativa della pena accessoria perpetua prevista dall’art. 317-bis c.p., il quale finisce per dar vita ad un congegno sanzionatorio del tutto indifferente agli elementi strutturali del trattamento punitivo delineati dalla Costituzione.
Ora, per meglio comprendere il significato delle censure sopra sinteticamente esposte è, però, opportuno tenere distinti i diversi profili che caratterizzano il dubbio di costituzionalità prospettato dalla Cassazione; profili che – all’evidenza – sono intimamente correlati gli uni con gli altri, ma che riguardano aspetti differenti del vulnus denunciato e che quindi meritano di essere partitamente esaminati[34].
Il primo profilo investe il carattere indefettibilmente automatico dell’interdizione dai pubblici uffici ex art. 317-bis c.p.: trattasi, infatti, di una sanzione che, ai sensi dell’art. 20 c.p., in quanto accessoria, consegue di diritto alla condanna come effetto penale della stessa, la cui applicazione pertanto sfugge a qualsiasi valutazione giudiziale di segno diverso. L’unico presupposto applicativo, ulteriore alla condanna, è rappresentato dal raggiungimento di una soglia per la pena principale inflitta all’imputato: misura che il legislatore aveva individuato, al tempo di realizzazione delle condotte contestate nel caso di specie, nei tre anni di reclusione e che la recente legge n. 3 del 2019 ha abbassato ai due anni di reclusione.
Nell’economia dell’ordinanza, questo profilo dell’automatismo applicativo non viene considerato e valorizzato in sé ma per come esso si salda con quello della fissità e perpetuità della sanzione prevista dall’art. 317-bis c.p.[35]. Ancorché nel petitutm formale il giudice a quo faccia riferimento all’applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici esplicitandone il carattere “automatico”, è allora possibile ritenere che l’automatismo disegnato dal legislatore all’art. 317-bis c.p. non formi oggetto di uno specifico ed autonomo dubbio di costituzionalità: esso rappresenta, piuttosto, un argomento a sostegno dei denunciati elementi di contrasto con i canoni della ragionevolezza e della finalità rieducativa, di cui agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.[36].
In questa prospettiva, pertanto, il caso di specie sembra porsi nel medesimo solco della già citata sentenza n. 222 del 2018, con cui la Corte aveva rilevato che il profilo dell’automatismo nell’applicazione delle sanzioni accessorie previste dall‘art. 216 l. fall. fosse stato menzionato dal giudice a quo, anche in quel caso, soltanto in un fugace passaggio nella parte conclusiva della motivazione dell’ordinanza di rimessione, senza costituire «oggetto di alcuno speciale vaglio critico nel contesto generale dell’argomentazione»[37]. Questa precisazione aveva poi portato la Corte ad affermare che il riferimento all’obbligatorietà delle pene accessorie previste dall’art. 216 l. fall., contenuto nel dispositivo dell’ordinanza, dovesse essere inteso come riferito unicamente al carattere obbligatorio della loro durata (decennale), e non già all’obbligatorietà della loro applicazione nel caso concreto.
Su un piano più generale, tali considerazioni in ordine al carattere automatico dell’interdizione dai pubblici uffici si intrecciano con quell’importante filone della giurisprudenza costituzionale che ha interessato le pene accessorie della perdita o della sospensione della responsabilità genitoriale.
Sinteticamente, si può ricordare che, con la sentenza n. 31 del 2012, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’art. 569 c.p., nella parte in cui stabiliva che alla condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato conseguisse automaticamente la perdita della potestà genitoriale; tale soluzione normativa, ad avviso della Corte, precludeva al giudice la possibilità di valutare l’interesse del minorenne nel caso concreto, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.; e ciò anche in considerazione dell’impossibilità per il giudice, creata dalla medesima disposizione allora censurata, di assumere una determinazione che gli consentisse di tenere nel debito conto il preminente interesse morale e materiale del minore nel caso concreto.
Con la sentenza n. 7 del 2013, la Corte costituzionale ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 569 c.p., nella parte in cui stabilisce che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di soppressione di stato, previsto dall’articolo 566, comma 2, del codice penale, consegua di diritto la perdita della potestà genitoriale, così precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto.
In tempi più recenti[38], percorrendo i medesimi itinerari argomentativi, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 574-bis, comma 3, c.p., nella parte in cui prevede(va) che la condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di sottrazione e mantenimento di minore all’estero comportasse (necessariamente) la sospensione dell’esercizio della responsabilità genitoriale, anziché la possibilità per il giudice di disporre (o non) la sospensione medesima.
Da queste decisioni, come è stato osservato in dottrina, si può ricavare un principio importante: la regola generale dell’automatica applicazione delle pene accessorie, dettata dall’art. 20 c.p., non gode – sempre e comunque – di uno statuto di assoluta inderogabilità; tali pronunce, tuttavia, sembrano allo stesso tempo suggerire anche l’idea che questa regola in tanto possa essere superata, a favore di un modello fondato su una valutazione discrezionale del giudice, in quanto sia presente un interesse meritevole di maggior considerazione rispetto a quello di uguaglianza, che sottende la regola generale ex art. 20 c.p. Un tale interesse, come noto, è stato individuato dalla Corte, nelle sentenze prima richiamate, nel cd. Best interest of the child, ovverosia nel principio per il quale tutte le decisioni concernenti il minore devono sempre ricercare «la soluzione ottimale ‘in concreto’ per l’interesse del minore, quella cioè che più garantisca, soprattutto dal punto di vista morale, la miglior ‘cura della persona’»[39].
Non può dimenticarsi, invero, che tutte queste pronunce hanno avuto ad oggetto pene accessorie con caratteri peculiari rispetto alle altre pene previste dal codice penale, come l’art. 317-bis c.p.: incidendo su una relazione, infatti, tali sanzioni sono fatalmente destinate a colpire direttamente, accanto al condannato, anche il minore, che di tale relazione è il co-protagonista[40]. Circa la possibilità di individuare anche con riferimento all’art. 317-bis c.p. un interesse dotato di una forza in grado di prevalere sulle logiche dell’uguaglianza sottese alla regola generale dell’art. 20 c.p. è quindi ragionevole dubitare, proprio in ragione del fatto che l’interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall’art. 317-bis c.p. sembra caratterizzarsi per un orizzonte punitivo, per così dire, soltanto unipersonale, colpendo in via diretta unicamente il destinatario della stessa. In alte parole, questo filone giurisprudenziale che, prima facie, potrebbe essere valorizzato per censurare l’automatismo insito nell’art. 317-bis c.p., è chiamato a confrontarsi, in concreto, con gli anzidetti elementi di peculiarità che ne rendono difficile la trasposizione in contesti normativi differenti.
In ordine al profilo dell’automatica applicazione della sanzione prevista dall’art. 317-bis c.p. è utile, ancora, segnalare che un eventuale accoglimento allargato anche a questo profilo dell’an della misura potrebbe determinare un quadro di risulta squilibrato e poco coerente con il principio di uguaglianza: l’introduzione di un coefficiente di discrezionalità per l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ai sensi dell’art. 317-bis, da una parte, e la perdurante esistenza di un modello fondato sull’automatismo dell’art. 20 c.p. per tutte le altre ipotesi non interessate dalla declaratoria di incostituzionalità. Squilibrio, peraltro, che potrebbe risultare ancor più difficile da accettare, sul piano costituzionale, se solo si considera che proprio il settore dei delitti contro la pubblica amministrazione, in ragione della rilevanza degli interessi coinvolti, ha indotto il legislatore ad introdurre una disciplina di maggior rigore.
In ogni caso, non v’è chi non veda come un intervento della Corte che trasformi da automatico a discrezionale il meccanismo applicativo della misura in parola avrebbe un impatto davvero significativo a livello sistematico, ben più rilevante di quello concretizzatosi con la già citata sentenza n. 222 del 2018 che ha inciso “soltanto” sul quantum della misura sospettata di incostituzionalità. Si potrebbe, quindi, ritenere, con il supporto della più recente giurisprudenza della Corte, che una tale richiesta – assumendo il carattere di una «novità di sistema»[41] – sia tale da collocarsi al di fuori dell‘area del sindacato di legittimità, investendo una questione che deve essere rimessa alle eventuali e future soluzioni di riforma, affidate in via esclusiva alle determinazioni del legislatore.
Il secondo profilo che viene implicato dall’ordinanza qui in esame riguarda, più direttamente, il contenuto della misura interdittiva prevista dall’art. 317-bis c.p.
Come osservato in sede di primo commento[42], anche da questo punto di vista il giudice a quo non è sembrato costruire un autonomo motivo di censura, svolgendo solo considerazioni cursorie utili per puntellare gli ulteriori argomenti spesi a sostegno dell’incostituzionalità in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.
La perdita del diritto di elettorato attivo e passivo e degli altri diritti politici, di ogni pubblico ufficio e della capacità di assumere o acquisire qualsiasi diritto, ufficio, servizio, qualità tra quelli elencati dall’art. 28 c.p., si estenderebbe, secondo la prospettiva condivisa dal giudice a quo, in maniera irragionevole ben al di là delle necessità sottese alla funzione di prevenzione speciale negativa, cui le sanzioni interdittive dovrebbero tendere. La definitiva desocializzazione ed emarginazione del condannato è, a ben vedere, insita quasi naturaliter nella previsione di una sanzione perpetua, caratterizzata da una incidenza cosi larga e profonda sulle possibilità di relazione del soggetto.
L’ordinanza, come anticipato, affronta questo profilo a margine dei principali rilievi, quasi a voler riconoscergli un peso specifico inferiore: lo introduce, emblematicamente, con la formula per cui «non va trascurat[a]» la circostanza che, per la sua durezza, la scelta legislativa contraddice quelle ragioni che giustificano, in chiave di prevenzione speciale, il ricorso alla misura interdittiva.
Su questo secondo profilo, è condivisibile la posizione di chi ha ragionato nei medesimi termini appena esposti con riguardo all’automatismo sotteso all’art. 317-bis c.p., e cioè che in discussione ci sia una questione meritevole di una attenta valutazione – ed eventualmente di riconsiderazione – in sede legislativa. Si tratta, in effetti, di un intervento che sembra fuoriuscire dai confini di spettanza della Corte costituzionale: in caso di accoglimento di una simile censura rivolta direttamente al contenuto della sanzione interdittiva, la Corte non potrebbe sfuggire da una serie articolata e complessa di valutazioni, dal contenuto necessariamente discrezionale, in merito alla tipologia e all’afflittività delle limitazioni che discendono dall’applicazione dell’interdizione.
Quanto al terzo ed ultimo dei profili che caratterizzano la questione di costituzionalità in parola – quello cioè che ha ad oggetto il carattere fisso e perpetuo dell’interdizione de qua – è possibile formulare le seguenti considerazioni.
Questo profilo costituisce senz’altro il nucleo principale delle motivazioni portate a sostegno della denunciata illegittimità costituzionale. Ad avviso di chi scrive, peraltro, tale profilo, oltre a costituire quello meglio argomentato dal rimettente, rappresenta, anche alla luce di alcuni importanti precedenti e al netto di quanto si dirà nel prossimo paragrafo, la sponda più solida su cui anche la Corte, ove volesse percorrere la strada dell’accoglimento, potrebbe costruire le proprie argomentazioni a sostegno della declaratoria d’incostituzionalità.
In questa prospettiva, infatti, gli spunti contenuti nell’ordinanza di rimessione risultano piuttosto convincenti ed è, pertanto, difficile contestare la conclusione del giudice a quo nella parte in cui afferma che la necessità di sanzionare in modo particolarmente severo i pubblici ufficiali resisi responsabili di infedeltà, anche mediante la comminazione, per le condanne non inferiori a tre anni di reclusione, di una pena accessoria più severa rispetto a quella prevista dalle regole generali, avrebbe dovuto essere soddisfatta nel rispetto dei principi di proporzionalità e individualizzazione del trattamento sanzionatorio[43].
- (Segue) … tra rime obbligate, possibili e (im)probabili
Il cuore della trama dell’ordinanza, come visto[44], ha ad oggetto il carattere della fissità della sanzione interdittiva prevista dall’art. 317-bis., ciò che, in effetti, rappresenta il profilo a più alta chance di valorizzazione da parte della Corte costituzionale, in ragione degli importanti precedenti evocati e della solidità degli argomenti spesi dal giudice a quo sul punto.
Tuttavia, qualora dovesse condividere le argomentazioni che militano a favore dell’incostituzionalità, alla Corte spetterebbe un compito piuttosto difficile, rappresentato dalla individuazione di una grandezza «già rinvenibile nel sistema legislativo» idonea a sostituirsi all’art. 317-bis c.p.[45].
La risposta alla domanda che i Giudici costituzionali si erano posti in occasione della sentenza n. 222 del 2018, a cui avevano come noto dato risposta affermativa – e cioè se al riscontrato vulnus ai principi costituzionali la Corte possa davvero porre rimedio –, non sembra essere così scontata nel caso di specie.
In proposito, è utile segnalare che il giudice a quo, da parte sua, non manca di confrontarsi con il tema del risultato dell’auspicato intervento correttivo: in questo senso, nell’ordinanza viene precisato che l’ablazione della norma dal sistema sanzionatorio non lascerebbe scoperta l’attuazione della funzione sanzionatoria e special-preventiva realizzata attraverso la previsione dell’art. 317-bis c.p., potendo trovare applicazione, in caso di condanna per il reato di cui all’art. 319 c.p., le disposizioni generali, in materia di pene accessorie.
Più nel dettaglio, in caso di accoglimento, si prefigurano per il rimettente due possibili alternative, entrambe frutto della riespansione delle regole generali, valide, come detto, a prescindere dalla tipologia di delitto.
Da una parte, ai sensi dell’art. 29 c.p., la interdizione perpetua dai pubblici uffici troverebbe applicazione per il funzionario corrotto nell’ipotesi in cui sia stata inflitta una pena non inferiore a cinque anni di reclusione (ovvero, in caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, la interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque).
Dall’altra e in alternativa, sulla base dell’art. 31 c.p., che riguarda l’ipotesi d’interdizione in conseguenza di una condanna per delitti commessi con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, potrebbe trovare applicazione, a prescindere dall’entità della condanna, l’interdizione temporanea. In questo diverso caso, trattandosi di sanzione accessoria non predeterminata in modo fisso dal legislatore, varrebbero i principi affermati dalle Sezioni Unite, nella già citata sentenza Suraci: l’interdizione, in altre parole, sarebbe determinata in concreto dal giudice in base ai criteri stabiliti dalla legge agli artt. 132, 133 e 133-bis c.p., «nell’esercizio dei criteri di discrezionalità che concorrono all’attuazione dei principi di proporzionalità ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio calibrato sul singolo condannato»[46].
Il rimettente, in definitiva, esclude che l’intervento della Corte costituzionale possa determinare vuoti normativi ovvero produrre un risultato concreto incoerente o inappagante, dal punto di vista del rispetto dei principi costituzionali in gioco.
Da questo punto di vista, però, è forse possibile dubitare del fatto che la questione sollevata dalla Cassazione sia, per davvero, immune da qualsivoglia criticità: vi sono alcuni elementi – correlati alla tipologia di previsione oggetto di impugnazione e al tipo di censura che viene prospettata dal rimettente – che rendono probabilmente più difficoltoso, rispetto al precedente del 2018, un intervento correttivo della Corte.
Ragionando intorno alle modifiche normative conseguenti all’accertamento dell’incostituzionalità, sembra possibile individuare, in linea teorica, almeno quattro diverse ipotesi.
Anzitutto, il canone della fissità e della perpetuità della sanzione interdittiva prevista dall’art. 317-bis c.p. potrebbe essere sostituita dalla Consulta con una regola che agganci la durata della pena accessoria all’entità temporale della pena detentiva concretamente inflitta. Si tratta di una soluzione che il giudice a quo non prende esplicitamente in considerazione ma che merita di essere esaminata, anche perché proprio questa era stata la richiesta rivolta alla Corte costituzionale in occasione della questione poi decisa con la sentenza n. 222 del 2018. In quel caso, però, come già ricordato, facendo leva sugli artt. 217 e 218 l. fall., la Corte aveva infine riformulato la previsione della durata fissa di dieci anni delle pene accessorie per i fatti di bancarotta con la previsione della loro durata fino ai dieci anni. I Giudici costituzionali, più in particolare, avevano escluso di poter seguire la traccia suggerita dal rimettente e cioè di ancorare meccanicamente la durata della sanzione accessoria a quella della sanzione detentiva concretamente inflitta sulla base di due argomenti principali: in primo luogo, quella soluzione avrebbe sostituito l’originario automatismo legale con un diverso automatismo; in secondo luogo, perché avrebbe precluso al giudice del caso concreto una valutazione disgiunta da quella che presiede alla commisurazione della pena detentiva, in contrasto con l’idea che le due tipologie di sanzioni abbiano una finalità solo in parte coincidente. Questi stessi argomenti potrebbero essere quindi valorizzati per escludere, anche con riferimento al caso di specie, l’opzione di una sanzione interdittiva, ex art. 317-bis c.p. parametrata sull’entità della sanzione detentiva inflitta al funzionario infedele[47].
Quanto invece agli artt. 29 e 31 c.p.[48] – che la Cassazione esplicitamente candida a ricoprire lo spazio lasciato libero dal censurato art. 317-bis c.p. – è possibile rilevare, in primo luogo, che la riespansione della prima previsione non sembra risolvere tutti i problemi denunciati dal rimettente, posto che le regole ospitate nella parte generale del codice sono – al pari dell’art. 317-bis c.p. – fondate su un automatismo e implicano l’irrogazione di una sanzione in ipotesi anche perpetua; l’unica differenza, infatti, come già si è osservato, riguarda la soglia oltre la quale può scattare la misura interdittiva che l’art. 29 c.p. individua, a livello generale, nella condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni. In secondo luogo, con riferimento all’art. 31 c.p., è stato già evidenziato in dottrina che l’applicazione di una sanzione interdittiva temporanea della durata massima di cinque anni, anche a fronte di una condanna ad una pena principale molto più severa (fino a dieci anni, ad esempio, nell’ipotesi in cui il delitto sia la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, ex art. 319 c.p.) non sembra coerente con l’idea che la pena accessoria, alla luce del suo precipuo scopo di prevenzione speciale-negativa, sia di regola più gravosa rispetto a quella principale[49].
L’ultima soluzione in astratto percorribile è quella che suggerisce di seguire anche in questo caso le medesime cadenze manipolative della citata sentenza n. 222 del 2018, vale a dire introducendo, all’interno dell’art. 317-bis c.p., la locuzione fino: questa soluzione, però, come è stato evidenziato in dottrina[50], sembra porre più problemi di quelli che mira a risolvere, consegnando al giudice del caso concreto una discrezionalità infinita, con l’unico beneficio rappresentato dall’obbligo di adeguata motivazione. Da questo specifico angolo prospettico, pertanto, il precedente del 2018 non sembra offrire spunti risolutivi; in quel caso, del resto, la previsione impugnata prevedeva già un limite massimo determinato – i dieci anni, appunto – che manca invece nell’art. 317-bis oggetto di scrutinio davanti alla Corte.
Orbene, tutte queste considerazioni mettono in guardia circa le difficoltà che si incontrano ove, pur condividendo gli argomenti portati dal rimettente a sostegno della declaratoria di incostituzionalità, si debbano ricercare quei «punti di riferimento già presenti all’interno dell’ordinamento» idonei a sostituirsi alla grandezza considerata illegittima.
Sintetizzando, è quindi possibile ritenere che il problema della questione di costituzionalità che qui si commenta non riguarda il se dell’intervento della Corte, ma il come: ciascuna delle strade in astratto percorribili porta con sé, infatti, in modo più o meno marcato, alcune criticità.
In questo contesto, probabilmente, sono proprio le due soluzioni prospettate in modo esplicito dal giudice a quo – che chiamano in causa, come visto, ai fini della sostituzione dell’art. 317-bis c.p., gli artt. 29 e 31 c.p. – che si presentano come preferibili e, come tali, forse, ipotizzando una decisione di accoglimento, più probabili: esse, infatti, pur non risolvendo del tutto i problemi di costituzionalità denunciati, in qualche misura ne attenuano la gravità[51].
E tuttavia, non si può dimenticare, in proposito, che nella giurisprudenza costituzionale può dirsi già consolidato il principio per cui, a fronte di una decisione non obbligata della Corte, resta sempre «ferma la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell’ambito della propria discrezionalità, altra – e in ipotesi più congrua – soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali»; e che, però, in tanto l’intervento manipolativo della Corte si giustifica, in quanto le soluzioni già esistenti, individuate per colmare la lacuna conseguente alla declaratoria d’incostituzionalità della previsione impugnata, siano «esse stesse immuni da vizi di illegittimità, ancorché non costituzionalmente obbligate»[52].
Si tratta, in buona sostanza, di capire se e quanto, nel caso di specie, i Giudici costituzionali decideranno di confermare o rimeditare queste importanti affermazioni di principio… tra rime obbligate, rime possibili e rime (im)probabili, la questione appare, allo stato, più che mai aperta!
- Qualche riflessione conclusiva: la “silenziosa primavera della Costituzione penale”, T. S. Eliot e il futuro delle pene interdittive perpetue…
Tenendo da parte le criticità prima evidenziate ed immaginando, quindi, un esito coerente con il petitum avanzato dalla Corte di cassazione, è possibile svolgere qualche considerazione conclusiva, prestando attenzione alle ricadute di sistema di una eventuale decisione di accoglimento.
A tal riguardo, è stato da taluno rilevato come l’abbassamento della soglia di pena principale cui corrisponde la misura dell’interdizione dai pubblici uffici, determinato dalla legge n. 3 del 2019 (cd. Spazzacorrotti) «non sembra lasciare molto scampo alla disposizione, qualora la Corte dovesse ravvisare una sproporzione tra il complessivo trattamento sanzionatorio e la (modesta) portata offensiva dei minori fatti corruttivi, sanzionati con una ridotta pena principale»[53]. È stato cioè evidenziato come l’odierna questione di costituzionalità – pur riguardando direttamente, come più volte precisato, l’art. 317-bis c.p., nella versione precedente alle ultime modifiche – potrebbe avere rilevanti riflessi anche sulla vigente disciplina, la quale, altro non fa che esacerbare le criticità già presenti nel sistema sanzionatorio dei delitti contro la pubblica amministrazione[54].
Sulla base di queste premesse, è stato da più parti prefigurato un ricorso allo strumento della illegittimità consequenziale[55], ai sensi dell’art. 27 l. 87 del 1953[56], per colpire anche l’attuale versione dell’art. 317-bis c.p., la quale, peraltro, oltre a prevedere una soglia ancora più bassa per l’applicazione dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, contempla l’ulteriore misura dell’incapacità a contrarre con la P.A., il cd. Daspo per i corrotti, anch’esso di carattere perpetuo.
Non è questa la sede per ragionare funditus dell’ambito di applicazione dello strumento dell’illegittimità consequenziale; è sufficiente notare, però, che esso rappresenta un’opzione che ha ricevuto importanti riscontri anche nella più recente giurisprudenza costituzionale e proprio in materia penale: ci si riferisce, in particolare, alla sentenza n. 253 del 2019, in tema di ostatività penitenziaria, con cui la Corte ha dato applicazione all’art. 27 l. 87 del 1953 per evitare di compromettere «la stessa coerenza intrinseca dell’intera disciplina di risulta»[57]. Esigenza, questa, che la Corte non potrebbe sottovalutare ove decidesse, superando le criticità evidenziate nel paragrafo precedente, di pronunciarsi nel senso dell’accoglimento. Sarebbe difficile immaginare, infatti, come risultato dell’intervento della Consulta, uno scenario in cui, da una parte, scompare, perché ritenuto costituzionalmente illegittimo, l’art. 317-bis c.p., nella versione precedente alla riforma del 2019, e, dall’altra, rimane in vita una versione della medesima sanzione interdittiva ancora più distante dalle logiche della proporzionalità e della personalizzazione imposte a livello costituzionale.
In questa prospettiva, ben si comprende come la questione che a breve dovrà essere decisa[58] possa rappresentare una preziosa occasione per misurare la complessiva tenuta costituzionale di alcune delle più rilevanti e qualificanti scelte di politica criminale effettuate dal decisore politico in materia penale.
Non può ignorarsi, infatti, come proprio l’irrigidimento dello strumentario repressivo determinato dalla legge n. 3 del 2019, nel settore dei delitti contro la pubblica amministrazione, sia stato presentato, all’opinione pubblica, come l’unico vero antidoto contro il morbo della corrutela[59]; senza potersi dilungare oltre, è utile qui ricordare che tali riforme sono state spesso accompagnate, dalle forze politiche che ne hanno sostenuto l’approvazione, da una narrativa profondamente asimmetrica rispetto ai principi costituzionali del finalismo rieducativo e della necessaria individualizzazione della risposta sanzionatoria, posti dall’art. 27 Cost. E non è privo di significato ricordare che, in questa complessa stagione, la dottrina ha tentato di alzare un argine, fondato sui predetti principi costituzionali, per ribadire il carattere irrinunciabile di alcune garanzie individuali[60]; e che, in questo stesso contesto, ha conosciuto la propria genesi il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo[61], elaborato e condiviso da moltissimi studiosi (non solo penalisti), i quali si sono stretti, compatti, intorno all’idea che fosse necessario rispondere ad alcune tendenze legislative – come quelle poi formalizzate nella legge Spazzacorrotti proprio con riguardo alle sanzioni interdittive – con massima urgenza e in modo fermo.
Per queste ragioni, pertanto, la questione di costituzionalità in commento potrebbe forse essere accostata a quella categoria di questioni che esibiscono una valenza, anche di tipo simbolico, che trascende i confini della specifica normativa oggetto di scrutinio.
Proprio la materia penale, peraltro, negli ultimi anni, ha offerto al dibattito giurisprudenziale e scientifico una serie significativa di tali questioni – “aventi caratura ordinamentale”[62] –, la cui risoluzione ha necessariamente implicato, da parte della Corte, prese di posizione su principi generali e tematiche di rilievo sistematico. Con questo particolare accento, possono essere richiamate, oltre a quelle in materia penitenziaria in parte già richiamate, le recentissime questioni sul regime prescrizionale introdotto dal legislatore durante la pandemia COVID-19[63].
Nel medesimo orizzonte si inserisce anche la già citata sentenza n. 32 del 2020 che la migliore dottrina penalistica ha commentato in modo assolutamente adesivo: con linguaggio enfatico, è stata, non a caso, evocata l’immagine di una silenziosa primavera della Costituzione penale, per sottolineare l’importanza di fronteggiare l’avvento e il consolidamento delle ideologie populistiche, particolarmente odiose se propugnate nel settore penalistico[64].
E questo originale spunto, in conclusione delle riflessioni qui proposte, richiama alla mente l’incipit del celebre poemetto The Waste Land di T. S. Eliot, per il quale il sopraggiungere della primavera «genera lillà dalla terra sterile, confonde memoria e desiderio, risveglia radici torpide».
Che sia un legislatore più avveduto o, in sostituzione di esso, una Corte costituzionale coraggiosa a decidere di correggere improvvide scelte legislative del passato è un’alternativa densa di implicazioni in chiave sistematica[65], che però non sposta, dal punto di vista sostanziale, la necessità di riaffermare – in una materia particolarmente sensibile come quella dei delitti contro la pubblica amministrazione – la primazia dei principi costituzionali che discendono dagli artt. 3 e 27 Cost.
Parafrasando proprio T.S. Eliot, allora, un eventuale intervento della Corte, in questo ambito e con questi fini, non potrebbe dirsi poi così cruel…
*Dottore di ricerca in diritto costituzionale
[1] Sul tema, v., per tutti, V. Manes – V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino 2019.
[2] Su cui, in particolare, F. Venturi, La Corte Costituzionale torna sul divieto di analogia in malam partem in materia penale: canoni di tecnica ermeneutica e indicazioni di politica criminale nello scenario della crisi della legalità, in Diritticomporati.it, 2021; per i riflessi della decisione sul diritto amministrativo punitivo, v., in particolare, M. A. Sandulli, Incostituzionalità dell’interpretazione analogica “creativa” in malam partem (nota a Corte cost. 14 maggio 2021 n. 98), in Giustiziainsieme.it, 2021.
[3] Sul tema, v., ex multis, M. D’Amico, Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore in materia penale, in Rivista AIC, 2/2016; e M. D’Amico, La Corte costituzionale dinanzi al principio di legalità penale e l’alibi della discrezionalità del legislatore: problemi e prospettive, in Principio di legalità penale e diritto costituzionale (a cura di) I. Pellizzone, Giuffrè, 2017, p. 3 ss.
[4] In proposito, si segnalano i contributi raccolti in AA.VV., I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, (a cura di) A. Bernardi, Jovene 2016); e in AA.VV., Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza n. 24/2017 della Corte costituzionale, (a cura di) A. Bernardi e C. Cupelli, Jovene 2017.
[5] A commento della quale, v., in particolare, V. Manes – F. Mazzacuva, Irretroattività e libertà personale: l’art. 25, secondo comma, cost., rompe gli argini dell’esecuzione penale, in Sistemapenale.it, 23 marzo 2020.
[6] Cfr. Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, § 89.
[7] Cfr., in particolare, Corte cost., sent. n. 63 del 2019, con nota di M. Scoletta, Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della Corte costituzionale, in Archivio Dirittopenalecontemporaneo.it, 2019.
[8] Si tratta, peraltro, di una questione molto complessa che la Corte aveva in precedenza risolto in termini opposti: cfr. Corte cost., sent. n. 43 del 2017; con note di v. M.C. Ubiali, Illegittimità sopravvenuta della sanzione amministrativa “sostanzialmente penale”: per la Corte costituzionale resta fermo il giudicato, Dir. pen. cont., 3, 2017, p. 293 s.; A. Chibelli, L’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni “sostanzialmente penali” e la rimozione del giudicato di condanna: la decisione della Corte Costituzionale, ivi, 4, 2017, p. 15 s.; M. Belletti, La declaratoria di incostituzionalità della sanzione amministrativa non produce l’estensione dell’effetto retroattivo, in Quad. cost., 2, 2017, p. 503 s.; N. Canzian, Le sanzioni amministrative «incostituzionali» fra CEDU e Costituzione: coesistenza, e non assimilazione, ivi, 2, 2017, p. 378 s.
[9] Per completezza va detto che, in questo caso, l’accoglimento è stato argomentato dalla Corte costituzionale sulla base del solo art. 3 Cost., con contestuale assorbimento degli ulteriori parametri evocati; a commento della decisione, v. M. Scoletta, La revocabilità della sanzione amministrativa illegittima e il principio di legalità costituzionale della pena, in Sistemapenale.it, 20 aprile 2021; e A. Pisaneschi, La sentenza 68 del 2021. Le sanzioni amministrative sostanzialmente penali ed il giudicato, in Osservatorio AIC, fasc. 4/2021
[10] Sul tema, v., ancora, M. D’Amico, Corte costituzionale e discrezionalità del legislatore in materia penale, cit.; V. Manes, Proporzione senza geometrie, in Giur. cost., 2016, p. 2108, P. Insolera, Controlli di costituzionalità sulla misura della pena e principio di proporzionalità: qualcosa di nuovo sotto il sole?, in Ind. pen., 2017, 191; e S. Leone, Sindacato di ragionevolezza e quantum della pena nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista AIC, 4/2017.
[11] Su cui, da ultimo, F. Viganò, La proporzionalità della pena, Giappichelli, 2021.
[12] Non è questa la sede per interrogarsi sulle implicazioni, anche di tipo sistematico, di questo nuovo indirizzo: ci si limita a segnalare, in proposito, le preziose riflessioni recentemente proposte da N. Zanon, I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, in Federalismi.it, fasc. 3/2021.
[13] A commento della quale, v., in particolare, S. Leone, Illegittima la pena accessoria fissa per il reato di bancarotta fraudolenta. Una decisione “a rime possibili”, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1/2019.
[14] Su cui, per tutti, M. D’Amico, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019), in Osservatorio AIC, fasc. 1, 2020.
[15] Cfr. G. L. Gatta, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schema-Cappato’ e passa la palla al Parlamento, rinviando l’udienza di un anno, in Sistema Penale, 2020; e R. Pinardi, La Corte ricorre nuovamente alla discussa tecnica decisionale inaugurata col caso Cappato, in Forum di Quaderni Costituzionali, 3, 2020.
[16] A commento della quale, v., in particolare, E. Dolcini, L‘ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistemapenale.it, 25 maggio 2021.
[17] In particolare, per quanto riguarda la ratio democratica del principio di legalità, v., per tutti, M. D’Amico, Art. 25, in Aa.Vv., Commentario alla costituzione (a cura di) R. Bifulco – A. Celotto – M. Olivetti, Torino, 2006 e G. Marinucci – E. Dolcini, Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2001.
[18] Si tratta, precisamente, dell’ordinanza del 30 dicembre 2020, iscritta nel Reg. Ord. 22/2021 e pubblicata nella G.U. n. 9 del 3 marzo 2021.
[19] Tra cui, per esempio, A. Galluccio, Interdizione perpetua dai pubblici uffici: una pena fissa incostituzionale?, in Diritto penale e processo, 7/2021; G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’), in Sistemapenale.it, 21 maggio 2021; M. Zaniolo, Alla Corte Costituzionale la questione sulla legittimità dell’art. 317 bis c.p.¸ ante l. 3/2019, nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna per il reato di cui all’art. 319 c.p., in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 1; e I. Scordamaglia, Interdizione perpetua dai pubblici uffici per funzionario infedele: la S.C. dubita della legittimità costituzionale, in IlPenalista, 5 febbraio 2021.
[20] Cfr., anche, Corte cost., sent. n. 115 del 2018.
[21] Cfr., in particolare, Corte cost. sent. nn. 50 del 1980, 341 del 1994, 68 del 2012 e 236 del 2016.
[22] Cfr., in particolare, Corte cost., sent. n. 112 del 2019.
[23] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 5.
[24] Cfr., in particolare, SS. UU., n. 28910 del 28/02/2018, ric. Suraci, Rv. 276286, con nota di S. Finocchiaro, Le Sezioni Unite sulla determinazione delle pene accessorie a seguito dell‘intervento della Corte costituzionale in materia di bancarotta fraudolente, in Archivio Dirittopenalecontemporaneo.it, 15 luglio 2019.
[25] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 5.
[26] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 6
[27] Cfr. Corte cost., sent. n. 222 del 2018, Considerato in diritto n. 7.1.1.
[28] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 8.
[29] Questa possibilità, laddove concretamente percorribile, è sovente valorizzata dalla Corte per escludere i profili di illegittimità di volta in volta denunciati con riguardo all’eccessiva severità di una scelta sanzionatoria: al riguardo, v., da ultimo, Corte cost., sent. n. 55 del 2021 e sent. n. 143 del 2021.
[30] Anche di recente la Cassazione ha ribadito che “le circostanze attenuanti generiche hanno anche la funzione di adeguare la sanzione finale all’effettivo disvalore del fatto oggetto di giudizio, nella globalità degli elementi oggettivi e soggettivi, atteso che la specificità della vicenda può richiedere un intervento correttivo del giudice che renda, di fatto, la pena rispettosa del principio di ragionevolezza, ai sensi dell’art. 3 Cost., e della finalità rieducativa, di cui all’art. 27, comma terzo, Cost., di cui la congruità costituisce elemento essenziale” – cfr. Cass., Sez. II, sent. n. 5247 del 15/10/2020, (dep. 10/02/2021), Rv. 280639.
[31] Per la Cassazione, inoltre, “a meno dell’attenuante del fatto di particolare tenuità di complessa e rara applicazione giurisprudenziale, le descritte circostanze attenuanti sono tutte costruite sull’attività post delictum del reo e, pertanto, estranee al giudizio di gravità del reato sul quale è strutturata la pena edittale e, quindi, la soglia della pena di anni tre di reclusione a partire dalla quale scatta la pena interdittiva in perpetuo” – Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 9.
[32] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 10.
[33] Cfr., ancora, Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 11, ove vengono messe in luce le differenze con il sistema delle misure interdittive previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001: qui “si tratta di un congegno sanzionatorio in cui convivono aspetti e funzioni diverse che non sono ben armonizzati tra loro e sul quale, a ben vedere, pesano il marchio infamante connesso alla natura stessa della interdizione come espulsione del cittadino dalla fruizione dei diritti politici, il connotato di effetto penale della condanna, che ne delinea la struttura nel sistema del codice penale, nonché l’ampliamento della funzione di prevenzione che, invece, nel corso degli anni, il legislatore positivo è venuto assegnando all’istituto di una pena accessoria, come quella perpetua, di per sé fissa che non consente di calibrarne l’applicazione sulla gravità della violazione commessa e sul giudizio di pericolosità in concreto della persona condannata, essendo meccanicamente collegata ad una pena, quella di tre anni di reclusione, non espressiva di un giudizio di particolare gravità del fatto”.
[34] Da questo punto di vista, si condivide l’impostazione seguita da G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti, cit.
[35] In generale, per una precisa ricostruzione della giurisprudenza costituzionale formatasi sugli automatismi legislativi, v. L. Pace, L‘adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Ed. Scientifica, 2020.
[36] Per G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’), cit., p. 55-56, si tratta di un profilo solo accennato dalla Suprema Corte che avrebbe potuto essere oggetto di un maggior approfondimento: proprio l’automatica ed indefettibile applicazione delle pene accessoria rappresenta uno dei maggiori profili di tensione con il principio di individualizzazione della pena, se si considera che è preclusa al giudice ogni possibilità di bilanciamento tra gli interessi coinvolti nella specifica vicenda delittuosa.
[37] Cfr. Corte cost., sent. n. 222 del 2018, Considerato in diritto n. 6.
[38] Cfr. Corte cost., sent. n. 102 del 2020.
[39] Cfr. Corte cost., sent. n. 11 del 1981.
[40] Cfr. Corte cost., sent. n. 102 del 2020, Considerato in diritto n. 5.2.
[41] Cfr. Corte cost., sent. n. 112 del 2019, Consulta n. 5.
[42] Cfr. G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 59.
[43] Lungo questa direzione argomentativa, invero, il problema di compatibilità con il combinato disposto di cui agli artt. 3 e 27 Cost. sembra alla fine riguardare direttamente il (solo) carattere della fissità; la circostanza che la sanzione interdittiva in commento sia – anche – perpetua rappresenta, in qualche misura, un elemento secondario, che si aggiunge a quello principale rappresentato dalla non graduabilità in concreto della sanzione. In termini più generali, peraltro, è utile ricordare che, da lungo tempo, anche la dottrina osserva come “il superamento dell’automatismo con la conseguente attribuzione al giudice del potere di individualizzare costituisce il passaggio obbligato di una riforma che, in piena aderenza con le indicazioni che si traggono dal dato costituzionale, consentirebbe a tali pene di svolgere efficacemente la funzione cui, naturalmente, sono deputate” – cfr., in particolare, S. Larizza, (voce) Pene accessorie, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, p. 434.
[44] Per A. Galluccio, Interdizione perpetua dai pubblici uffici: una pena fissa incostituzionale?, cit., p. 938-939, il cuore della questione di costituzionalità è costituito non tanto dal contrasto con il principio rieducativo di una interdizione dai pubblici uffici avente carattere di perpetuità; bensì dalla distonia rispetto al sistema legale delle sanzioni di una pena insensibile alla commisurazione del giudice nel caso concreto.
[45] A tal riguardo, è utile richiamare anche la recentissima sentenza n. 185 del 2021, con cui la Corte costituzionale ha affermato che “l’esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l’espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di insostenibili ‘vuoti di tutela’ per gli interessi protetti dalla norma incisa (sent. n. 222 del 2018)”. In questo caso, per il Giudice costituzionale, il “deficit di tutela conseguente all’ablazione della norma denunciata non attinge […] a quei livelli che rendono indispensabile la ricerca – e l’indicazione, da parte del giudice rimettente (sentenze n. 115 del 2019 e n. 233 del 2018) – di soluzioni sanzionatorie alternative, costituzionalmente adeguate, suscettibili di essere sostituite, ad opera della [stessa] Corte, a quella sospettata di illegittimità costituzionale, in attesa di un intervento legislativo”. A commento della decisione, v., L. Tomasi, Nuove prospettive per il sindacato costituzionale sulla proporzionalità del trattamento sanzionatorio, in Sistemapenale.it, 4 ottobre 2021.
[46] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 8 aprile 2020 (dep. 30 dicembre 2020), n. 37796, p. 13. Proprio riferendosi al caso del giudizio principale, la Suprema Corte ha poi rilevato come l’eventuale accoglimento comporterebbe che, in presenza del reato di corruzione commesso in violazione dei doveri di ufficio, a fronte di una condanna ad una pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione (come quella applicata nel caso di specie), il giudice potrebbe infliggere la sanzione dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, in una misura che, entro il limite legale di durata della pena accessoria temporanea di cui all’art. 28 c.p., “non sarebbe automatica e rigida, ma determinata secondo i poteri discrezionali del giudice, sulla scorta dei principi enunciati dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite Suraci”.
[47] In senso opposto, si potrebbe viceversa rilevare che, così facendo, si garantirebbe una risposta finale che, pur determinata sulla base di un diverso automatismo, comunque tiene conto della gravità del fatto di reato e, in questo modo, delle esigenze di personalizzazione della sanzione.
[48] Sul punto, per G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 62-63, “si potrebbe avanzare, tuttavia, un dubbio circa la normativa effettivamente applicabile, in ragione dei rapporti intercorrenti tra la disciplina ‘generale’ dell’interdizione dai pubblici uffici (art. 29 c.p.) e quella fondata sulla condanna per un delitto commesso con abuso di poteri o violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio (art. 31 c.p.)”.
[49] Del resto, si potrebbe anche sostenere che, a fronte di una condotta particolarmente grave, la stessa previsione di una misura interdittiva di tipo perpetuo rappresenti una risposta proporzionata, sul piano oggettivo e soggettivo, al disvalore del fatto; come già detto, è lo stesso giudice a quo che, in qualche modo, sembra riconoscere che il vero problema di compatibilità con il principio di ragionevolezza e del finalismo rieducativo non riguarda le condotte espressive di un coefficiente di offensività particolarmente intenso, bensì quelle che si attestano ad un livello, per così dire, intermedio.
[50] Così, ancora, G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’, cit, p. 64.
[51] Da un diverso angolo visuale, non si può ignorare il fatto che, proprio seguendo la strada suggerita dal rimettente, si finirebbe per mettere nel nulla la scelta legislativa di trattare con maggiore severità i condannati per delitti contro la pubblica amministrazione; scelta, quest’ultima, che, in disparte le sue concrete modalità di attuazione, difficilmente può dirsi sprovvista di ragionevoli giustificazioni sul piano politico-criminale.
[52] Cfr., in particolare, Corte cost., sent. n. 222 del 2018, Considerato in diritto 8.1.
[53] Cfr. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 65.
[54] Cfr., ancora, Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 65; nello stesso senso, più di recente, A. Galluccio, Interdizione perpetua dai pubblici uffici: una pena fissa incostituzionale?, cit., p. 939, per cui l’ordinanza pare atta a gettare un’ombra di incostituzionalità anche in relazione alla recentissima e controversa formulazione dell’art. 317-bis c.p.; osserva, ancora, l’A. che la nuova fattispecie – più severa e più rigida – contiene in sé tutti gli elementi che hanno instillato nella Cassazione il dubbio di costituzionalità di cui si discute, ed anzi, per certi versi, li accentua. In generale sul tema, v., per tutti, F. Palazzo, Il volto del sistema penale e le riforme in atto, in Diritto penale e processo, 2019, I.
[55] Per C. Mirabelli, Presidente emerito della Consulta: “una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale potrebbe colpire anche le disposizioni successivamente emanate dal legislatore, la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata” – cfr. P. Maciocchi, Interdizione perpetua dai pubblici uffici, i dubbi alla Consulta, in Ristretti.org, 31 dicembre 2020; nello stesso senso, per G. Rapella, Pene accessorie e principi costituzionali: alla Consulta il compito di esprimersi sulla legittimità dell’interdizione perpetua del funzionario infedele (nella versione antecedente alla riforma ‘Spazzacorrotti’, cit., p. 65, per il quale “in un simile scenario, pare ragionevole aspettarsi l’applicazione dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, che riconosce alla Consulta il potere di dichiarare ’quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata’, con conseguente ablazione anche della riformata disposizione”.
[56] Sul tema, v., per tutti, A. Morelli, L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della tutela, Rubettino, 2008.
[57] Cfr. Corte cost., sent. n. 253 del 2019, Considerato in diritto n. 12.
[58] L’udienza pubblica è calendarizzata per il 9 novembre 2021.
[59] Cfr., in particolare, V. Manes, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in Archivio Dirittopenalecontemporaneo.it, 2/2019.
[60] Sul tema, v., ex multis, D. Pulitanò, Tempeste sul penale. Spazzacorrotti e altro, in penalecontemporaneo.it, 26 marzo 2019.
[61] Consultabile alla pagina: https://dirittodidifesa.eu/chi-siamo/il-manifesto/.
[62] Cosi la traccia di discussione del seminario preventivo organizzato dall’Università di Ferrare alla vigilia della questione poi decisa dalla Corte costituzionale con l’ordinanza n. 97 del 2021; sia consentito qui il rinvio M. D’Amico e S. Bissaro, Il “commiato” dell’ergastolo ostativo? La parola spetta ora alla Corte, in G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi (a cura di), Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, in Forum di quaderni costituzionali, 2020, IV, 99 ss.
[63] Cfr. Corte cost., sent. n. 278 del 2020 e sent. n. 140 del 2021.
[64] Cfr. V. Manes – F. Mazzacuva, Irretroattività e libertà personale: l’art. 25, secondo comma, cost., rompe gli argini dell’esecuzione penale, cit.
[65] Sul tema, v., ancora, N. Zanon, I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, in Federalismi.it, cit.