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LA MANCATA INDICAZIONE DI REDDITI DERIVANTI DA ATTIVITÀ ILLECITA INTEGRA IL REATO DI OMESSA DICHIARAZIONE – DI EDOARDO VITTORIO LAZZARO

LA MANCATA INDICAZIONE DI REDDITI DERIVANTI DA ATTIVITÀ ILLECITA INTEGRA IL REATO DI OMESSA DICHIARAZIONE – DI EDOARDO VITTORIO LAZZARO

LAZZARO- LA MANCATA INDICAZIONE DI REDDITI DERIVANTI DA ATTIVITÀ ILLECITA INTEGRA IL REATO DI OMESSA DICHIARAZIONE.pdf

LA MANCATA INDICAZIONE DI REDDITI DERIVANTI DA ATTIVITÀ ILLECITA INTEGRA IL REATO DI OMESSA DICHIARAZIONE

THE FAILURE TO INDICATE INCOME FROM ILLEGAL ACTIVITIES INTEGRATES THE OFFENCE OF FAILURE TO SUBMIT A DECLARATION

di Edoardo Vittorio Lazzaro*

Cass. pen., Sez. III, sent. 14 giugno 2022 (data ud. 20 gennaio 2022), n. 23079, Pres. Aceto – Est. e Rel. Andronio

Omessa dichiarazione – redditi di provenienza illecita – sussiste.

(Art. 5 D.Lgs. 74/2000)

«Qualora risultino accertati redditi di natura diversa – e a fortiori qualora si tratti di redditi di derivazione illecita – a meno che non siano assoggettati a provvedimenti ablatori contestuali, essi dovranno essere dichiarati dal contribuente, costituendo conseguentemente base imponibile soggetta agli adempimenti fiscali stabiliti dalla legge».

Con la sentenza annotata la Corte di cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui i redditi di provenienza illecita, qualora non siano assoggettati a provvedimenti ablatori contestuali, devono essere inseriti nelle dichiarazioni fiscali, integrando altrimenti il reato di omessa dichiarazione, di cui all’art. 5 D.Lgs. 74/2000.

With the annotated sentence, the Court of cassation affirmed the principle of law according to which the income from illegal activities, if not subject to contextual ablatory measures, must be included in tax declarations, otherwise it would constitute the offence of failure to submit a declaration, pursuant to Article 5 of Legislative Decree 74/2000

Sommario: 1. Introduzione al giudizio. – 2. L’omessa dichiarazione. Cenni. – 3. Lo sviluppo della decisione. – 4. Conclusioni.

  1. Introduzione al giudizio.

Il caso in esame trae origine da un’imputazione per il reato tributario di cui all’art. 5 D.Lgs. 74/2000, omessa dichiarazione.

In particolare, l’imputato, in qualità di legale rappresentante di una società, aveva posto in essere un reato di truffa ai danni di un proprio cliente, ottenendo un profitto di rilevante quantità, non meglio specificato dalla sentenza della Corte di legittimità.

Successivamente lo stesso ometteva di presentare la dichiarazione dei redditi, relativa al periodo di imposta 2012, per la somma ottenuta illecitamente, evadendo l’I.R.P.E.F. per oltre 340.000 euro.

L’imputato veniva condannato in primo grado dal Tribunale di Monza nel 2020 e proponeva appello. La Corte d’Appello di Milano, chiamata a pronunciarsi sul gravame proposto, lo rigettava, aderendo all’impostazione accusatoria.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, lamentando, come unico motivo di ricorso, l’erronea interpretazione dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000 in relazione all’art. 67 T.U.I.R. «sul rilievo che non si potrebbe intendere il combinato disposto delle due norme nel senso della sottoponibilità ad imposizione fiscale della somma versata dal [cliente] al ricorrente e si potrebbe, conseguentemente, ritenere raggiunta la soglia di punibilità prevista per l’integrazione della fattispecie in contestazione».

Secondo la difesa, tuttavia, non sussisteva il reato di omessa dichiarazione in quanto il profitto del reato sarebbe stato soggetto ad un obbligo di restituzione e di risarcimento, tale da escluderne la natura di addizione patrimoniale: tale importo, dunque, non avrebbe potuto essere considerato nel calcolo della base imponibile, né essere soggetto all’obbligo di dichiarazione.

  1. L’omessa dichiarazione. Cenni.

Prima di affrontare la decisione del Supremo Consesso è opportuno fornire brevi cenni sul reato di omessa dichiarazione.

Il reato previsto dall’art. 5 del D.Lgs. 74/2000 conclude il capo I della legge, dedicato ai delitti in materia di presentazione della dichiarazione fiscale. In particolare, l’art. 5 punisce la condotta del contribuente che non presenti la dichiarazione e, dunque, ometta di denunciare al fisco i propri redditi.

L’omessa dichiarazione è un reato omissivo proprio[1] – anche se non mancano posizioni che la ritengono un reato omissivo improprio, seppur minoritarie in dottrina[2] –, che si consuma nel momento in cui scade il termine ultimo per la presentazione di una dichiarazione fiscale. Esso è pertanto un reato istantaneo, che si consuma al termine del novantesimo giorno successivo allo spirare del termine per presentare la dichiarazione[3].

Il reato in esame, inoltre, è un reato proprio, poiché la fattispecie può essere integrata soltanto da quei soggetti che siano tenuti all’obbligo di presentazione di una dichiarazione fiscale, oppure dal sostituto d’imposta. Nel tempo la giurisprudenza ha ampliato la categoria di soggetti, facendovi rientrare, ad esempio, anche l’amministratore di fatto[4] ed il fallito[5].

Come molti dei reati tributari, è prevista una soglia di punibilità, fissata dal Legislatore in cinquantamila euro per ciascuna imposta evasa. Si noti che, per integrare la fattispecie di reato, è sufficiente che sia superata la soglia per una sola delle imposte dovute, creandosi un’ipotesi di concorso di reati nel caso in cui con un’unica dichiarazione si superi la soglia per più imposte.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo, è opportuno distinguere l’omessa dichiarazione del contribuente – prevista al comma 1 dell’art. 5 – da quella del sostituto d’imposta – comma 2.

La prima, infatti, è punita solo a titolo di dolo specifico, e precisamente con il dolo specifico «di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto», come confermato immediatamente dopo l’introduzione della L. 74/2000 dalla giurisprudenza di legittimità[6].

La seconda, al contrario, è punita a titolo di dolo generico, non essendo necessario che sia dimostrata la consapevolezza della finalità del sostituito di evadere le imposte.

Infine, a norma dell’art. 12-bis del D.Lgs. 74/2000 è possibile sottoporre il sequestro preventivo della somma evasa e, in caso di condanna, è sempre ordinata la confisca, anche per equivalente, dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato.

  1. Lo sviluppo della decisione.

Secondo il Collegio la censura devoluta in sede di legittimità era manifestamente infondata poiché – oltre a non confrontarsi con gli atti di causa e con le argomentazioni contenute nel provvedimento impugnato – non collimava con i più recenti arresti giurisprudenziali sul tema.

Proprio con riferimento a quest’ultimo punto, la Corte ha richiamato un’altra sentenza della Terza Sezione, la n. 18575 del 19 giugno 2020[7], la quale afferma che il reato di dichiarazione infedele dei redditi ai fini I.R.P.E.F. di cui all’art. 4 D.Lgs. 74/2000 sussiste anche qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, salvo che i relativi proventi siano stati assoggettati a sequestro o confisca penale nello stesso periodo di imposta in cui si è verificato il presupposto impositivo, dal momento che solo in tale ipotesi i provvedimenti ablatori determinano, in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito imponibile.

In particolare, nella sentenza appena citata si chiarisce la ragione per cui anche i redditi provenienti da attività illecita debbano essere sottoposti a tassazione. Tale ragione si rinviene nell’art. 14 co. 4 della L. 537/1993, norma ampiamente spiegata da una recente sentenza della Sesta Sezione della Corte di cassazione, la n. 13936 del 2022[8], che ha affrontato il tema della disciplina della tassazione dei proventi illeciti nel sistema delle imposte dirette.

Il timore che la tassazione fornisse elementi di legittimazione delle attività illecite ha indotto tradizionalmente la dottrina e la giurisprudenza[9] ad affermare l’incompatibilità tra la previsione di un fatto come illecito e la sua imponibilità[10].

Successivamente, in ragione degli eventi occorsi nella prima metà degli anni Novanta (primo fra tutti lo scandalo “Tangentopoli”), la L. n. 537 del 1993, art. 14 co. 4, ha previsto – in ragione di «un principio generale d’intassabilità [cui] si è inteso contrapporre un principio di segno opposto»[11] – che «nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria».

Ai sensi di questa norma l’imponibilità dei proventi da attività illecita dipende da due condizioni: (i) dalla possibilità di ascrizione ad una delle categorie reddituali previste dal sistema delle imposte dei redditi, secondo quanto stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6; (ii) dalla mancata soggezione dei proventi illeciti a provvedimenti ablativi penali (sequestro o confisca).

Si noti che la disposizione non stabilisce una classificazione peculiare dei proventi da attività illecita, bensì li riconduce alle regole ordinarie di identificazione del reddito imponibile. In seguito, con una norma di interpretazione autentica[12] dovuta alle difficoltà di classificazione dei proventi illeciti nelle categorie reddituali delineate dal D.P.R. n. 917 del 1986, il Legislatore ha stabilito che laddove manchi la classificabilità oggettiva dei proventi illeciti in una delle categorie reddituali delineate dal T.U.I.R., questi debbano essere considerati redditi diversi[13]. Anche la giurisprudenza di legittimità ha riaffermato questo principio[14].

Inoltre, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità civile, i proventi da attività illecite sono esclusi dalla base imponibile soltanto qualora il provvedimento ablatorio sia intervenuto nel medesimo periodo d’imposta in cui si è consolidato il reddito[15]; se, infatti, l’ablazione interviene nello stesso periodo di imposta, viene meno il presupposto del possesso del reddito prima dell’insorgenza dell’obbligo dichiarativo.

Secondo l’interpretazione della giurisprudenza di legittimità civile, pertanto, in tema di imposte sui redditi, l’esclusione originaria dei proventi da attività illecite dalla base imponibile ai sensi della L. 537/1993, art. 14 co. 4, ove sottoposti a sequestro o confisca penale, opera a condizione che il provvedimento ablatorio sia intervenuto, al più, entro la fine del periodo di imposta cui il provento si riferisce, e non anche in caso di eventi posteriori alla realizzazione del presupposto impositivo, con i conseguenti obblighi di dichiarazione e di versamento, per i quali si pone solo una questione di diritto al rimborso dell’imposta versata divenuta indebita[16].

Qualora, invece, si crei una divaricazione di periodo d’imposta tra la percezione del reddito e l’applicazione della confisca o del sequestro, le imposte devono essere versate sui proventi conseguiti dall’illecito penale.

Con la sentenza in commento la Corte di legittimità, sulla scorta di questo ragionamento, ha affermato che il principio enucleato nella sent. n. 18575/2020 si potesse applicare anche con riferimento all’art. 5 D.Lgs. 74/2000.

Pertanto, nel caso di specie, dato che nessun provvedimento ablatorio era stato emanato nei confronti delle somme ricavate dal reato posto in essere dall’imputato a danno del proprio cliente, tali somme dovevano essere indicate nella dichiarazione dei redditi.

La Corte ha anche voluto specificare che la somma doveva essere indicata in dichiarazione nella categoria dei redditi diversi, poiché non si trattava tanto di un prestito lecitamente conseguito e non restituito, quanto più del profitto del reato di truffa.

  1. Conclusioni.

La decisione della Corte, seppur molto breve, è di rilevante portata sistematica in quanto consentirà la contestazione del reato di omessa dichiarazione anche nel caso in cui le somme provenienti da reato siano occultate e non dichiarate nella dichiarazione fiscale.

Infatti, anche i proventi illeciti costituiscono un arricchimento patrimoniale e dunque un reddito imponibile per il soggetto che li percepisce e devono essere tassati – qualora non sia possibile ricondurli in una delle categorie reddituali – come redditi diversi.

In conclusione, è opportuno svolgere un’ultima breve considerazione, e cioè chiedersi se la sentenza abbia effettuato un’analogia in materia penale.

L’opinione di questo autore è che tale ipotesi sia da escludere in quanto la Corte di cassazione non ha esteso la disciplina contenuta nella norma incriminatrice di cui all’art. 5 D.Lgs. 74/2000, oltre alle ipotesi espressamente previste. La Corte, piuttosto, ha utilizzato la legislazione in materia tributaria e la relativa giurisprudenza per chiarire che cosa si intenda con la locuzione «imposte sui redditi o sul valore aggiunto», contenuta nell’art. 5, ricomprendendovi anche i proventi illeciti.

*Praticante avvocato in materia penale

[1] v. ad es. E. Musco, F. Ardito, Diritto penale tributario, II ed., Zanichelli, 2013, p. 184.

[2] U. Nannucci, A. D’Avirro, La riforma del diritto penale tributario – d.leg. 10 marzo 2000 n. 74, Cedam, 2000, p. 253. L’omessa presentazione della dichiarazione fiscale, infatti, dovrebbe essere seguita dalla mancata corresponsione delle imposte dovute.

[3] Come previsto dall’art. 5 co. 2 D.Lgs. 74/2000.

[4] Cass. pen., Sez. III, 28 aprile 2011, n. 23425, in C.E.D. Cass. n. 250962.

[5] Cass. pen., Sez. III, 1° dicembre 2010, n. 1549, in C.E.D. Cass. n. 249351.

[6] Cass. pen., Sez. un., 15 gennaio 2001, n. 35, in C.E.D. Cass. 2001, n.m. sul punto.

[7] Cass. pen., Sez. III, 19 giugno 2020, n. 18575, in C.E.D. Cass. 279500.

[8] Cass. pen., Sez. VI, 11 aprile 2022, n. 13936, n.m.

[9] ex plurimis, Cass. pen., Sez. un., 12 novembre 1993, n. 2798, in C.E.D. Cass. n. 196258.

[10] Cass. pen., sent. 13936/2022 cit.: «ulteriori argomenti posti a fondamento dell’esclusione di tale forma di imposizione erano ravvisati nella mancata previsione, da parte del legislatore fiscale, dell’attività illecita tra le fonti di reddito e nell’inidoneità del reddito illecito, ad essere oggetto di “possesso”, in quanto già destinato ad essere assoggettato alla confisca e ad obblighi di restituzioni».

[11] Relazione ministeriale di accompagnamento alla L. 24 dicembre 1993, n. 537, citata dalla sent. 13936/2022.

[12] D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 34 bis, convertito dalla L. n. 248/2006.

[13] Si prendano come esempio i proventi ottenuti dallo sfruttamento della prostituzione, attività che costituisce reato: essi rappresentano certamente una forma di arricchimento per lo sfruttatore, ma sono inidonei ad essere ricondotti nella categoria dei redditi di impresa. cfr. L. Montalti, L’imponibilità fiscale dei proventi di attività illecita, in www.dirittoconsenso.it, 21 maggio 2021.

[14] Cass. civ., Sez. trib., 19 ottobre 2018, n. 26440, in C.E.D. Cass. n. 651402.

[15] ex multis Cass. civ., Sez. V, ord., 5 novembre 2019, n. 28375, in C.E.D. Cass. n. 655895.

[16] ex plurimis, Cass. civ., Sez. V, ord. n. 28375/2019, cit.; Sez. V, 20 dicembre 2013, n. 28519, C.E.D. Cass. n. 629332; Sez. V, 20 gennaio 2010, n. 869, in C.E.D. Cass. n. 611631; Sez. V, 19 novembre 2009, n. 7411, in C.E.D. Cass. n. 246095.