LA PRIVATIZZAZIONE (E LA PRIVAZIONE) DEL PROCESSO – DI FRANCESCO PETRELLI E FABIO ALONZI
di Francesco Petrelli e Fabio Alonzi
«La tecnica è di gran lunga più debole della necessità».
Eschilo, Prometeo incatenato, v. 514
1. «La tempesta del coranavirus a un certo punto passerà, ma le scelte che facciamo in questi giorni per affrontarlo potranno cambiare le nostre vite per molte tempo». Questo monito, quasi profetico, che lo storico israeliano Yuval Noah Harari ha lanciato di recente, nel corso di un’intervista rilasciata ad un nostro quotidiano, invita a riflettere[1]. In particolare sollecita a interrogarsi sul peso che avranno per il nostro futuro le scelte che si stanno compiendo in questo momento per fronteggiare la grave crisi prodotta dalla pandemia. Ed invita implicitamente a non appiattirsi sulla logica emergenziale per la quale per combattere la “guerra” in atto è consentito il ricorso ad ogni strumento. Esortando, infine, alla cautela poiché le misure che in questo momento vengono adottate condizioneranno non solo gli assetti economici della nostra società, ma anche i suoi futuri equilibri democratici.
Le recenti proposte normative dettate per regolare la partecipazione o, per meglio dire, la celebrazione del processo al tempo del Covid-19 si possono considerare tra quelle scelte che appaiono capaci di riverberare i propri effetti nel futuro condizionando il nostro modo di intendere il processo penale[2].
La possibilità di celebrare un processo a “distanza”, come noto, non era ignota al nostro sistema che già la prevedeva per “garantire” la partecipazione al giudizio di persone, detenute, accusate di reati di stampo mafioso. Oggi l’emergenza sanitaria fa compiere un ulteriore salto di qualità. Ogni imputato detenuto deve intervenire da remoto. I difensori possono scegliere la stessa modalità quando lo ritengono opportuno. I giudici non decidono più nel segreto della camera di consiglio, ma ciascuno dalla propria postazione domestica internet, connessi tra loro nel web. Il pubblico assente.
Ciascuna di queste previsioni ha già sollevato numerose e condivisibili critiche[3], ciò su cui preme riflettere ora è la capacità destrutturante del processo che possiedono le nuove disposizioni.
Per il loro tramite il processo viene mutilato della sua dimensione simbolica pubblica. Sia perché viene delocalizzato in uno spazio artificiale privato sia perché questa nuova realtà estromette la presenza del pubblico.
Il processo inteso come rito implica uno spazio per la sua celebrazione: «il primo gesto che la giustizia pone in essere consiste nella delimitazione di uno spazio propizio al suo compimento; non si conoscono, in effetti, società che non abbiano dedicato a tale funzione un luogo speciale»[4]: reale, fisico. In origine presso le società arcaiche i luoghi del processo erano considerati come aree sacre a simboleggiare il loro essere distaccate dal mondo ordinario, profano. Quando Atena si assume l’onere di decidere le sorti di Oreste e ritiene inadeguate per decidere le logiche della vendetta, dando così i natali al processo penale moderno inteso come operazione logica, il primo gesto che compie è quello di istituire il tribunale, presso l’Areopago, dove la decisione dovrà essere assunta. Uno spazio pubblico delimitato da massi.
Nell’organizzazione di questo spazio nei secoli hanno influito differenti fonti di ispirazione (cosmologica, religiosa). Le diverse iconografie spaziali si sono tuttavia sviluppate sempre intorno all’idea di un luogo separato dal mondo esteriore, in cui regna un ordine diverso e speciale, nel quale viene bandita ogni violenza.
Anche quando ci si emanciperà dagli originari influssi e per dirla con Garapon, entra in scena un sacro interamente giudiziario[5], permane sempre intatta l’idea che i palazzi di giustizia e le aule di udienza che li compongono siano dei luoghi separati, chiusi, delimitati ma al tempo stesso pubblici. In ossequio alla funzione che gli stessi assolvono.
Al di là della loro dislocazione nel tessuto urbano delle città moderne, sempre più dal centro alla periferia, i palazzi di giustizia costituiscono ed indicano quello spazio pubblico in cui la società vede, e sa, che viene amministrata la giustizia.
Oggi questa dimensione simbolica pubblica rischia di venir abbandonata. Lo spostamento del processo, dal suo luogo di elezione fisico all’impalpabile realtà virtuale, colloca lo stesso in una dimensione “distopica”[6] in cui non appare più così evidente che si stia celebrando qualcosa che non appartiene solo alla sfera dei privati che sono coinvolti nel singolo giudizio. Lo spazio virtuale al quale si vuole ricorrere, privo di una precisa identità e di una propria simbologia, non possiede in sé quei connotati capaci di far comprendere all’esterno la dimensione pubblica del processo, che viene ridotto così ad una mera contesa tra privati.
L’esistenza di uno spazio fisico pubblico nel quale vengono celebrati i processi ricorda costantemente che in quei luoghi si sta esercitando quella funzione, imprescindibile per ogni società, di rendere giustizia. E proprio in quanto funzione pubblica necessita di un luogo pensato, organizzato e regolato per fare in modo che questa sua natura venga anche plasticamente percepita. Le nuove disposizioni che disciplinano questo nuovo processo virtuale estromettono infine la presenza del pubblico non garantendo quella partecipazione dei cittadini ai quali non dovrebbe mai essere sottratta la possibilità di accedere alle aule di giustizia.
La creazione di un non luogo virtuale dove celebrare i processi, fa saltare quella condizione di separazione tra i protagonisti del processo che invece risulta ben chiara nella collocazione spaziale degli stessi nell’aula di udienza. La sistemazione degli scranni riservati alle parti rispetto a quello del giudice, la distanza che separa l’uno dagli altri, lo spazio concesso ai testimoni e quello, ulteriormente delimitato, riservato al pubblico, rimanda alla funzione che ognuno di questi soggetti svolge nel processo.
Ciascuno di essi esercita una parte nella celebrazione del rito e a ciascuno è attribuito un proprio spazio, che unito a quello concesso agli altri si compone in un tutto unitario separato dal mondo esterno. Nell’aula di udienza ancor più che nei palazzi di giustizia si coglie la dimensione sacrale dello spazio giudiziario. Quella condizione di separatezza dal mondo esterno fa comprendere all’osservatore attento di trovarsi innanzi ad una realtà simbolica evocativa di senso. Perché il processo è un mondo simbolico che genera senso, ma genera anche ordine. «Lo spazio giudiziario incarna l’ordine, crea l’ordine, è l’ordine», così come efficacemente afferma Garapon il quale, citando Huizinga, ci ricorda come esso realizza così «nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea, limitata»[7].
Nel processo virtuale saltano invece quelle distanze che sino ad oggi hanno caratterizzato gli spazi giudiziari, per unire tutti i protagonisti del rito in una fittizia connessione. Non è casuale che la parola che indica il legame che tiene insieme i soggetti di una conversazione virtuale o di una video conferenza sia proprio connessione, un sostantivo che simboleggia la stretta unione che il medium crea tra i soggetti di questa relazione e che fa saltare così ogni mediazione. Quanto di più distante da quella naturale distanza che invece deve separare i protagonisti del processo e che si materializza così bene nell’aula di udienza. A garanzia di ognuno dei soggetti del processo.
Innanzitutto del giudice che nel mondo simbolico dell’udienza può vivere a pieno la sua posizione di terzietà rispetto alle parti ma anche e soprattutto dai fatti che deve giudicare, garantendogli quella visione di insieme e quel necessario distacco che è la prima garanzia di un giusto processo. Ma è garanzia per le parti stesse. Lo spazio vuoto che separa il giudice dalle parti rende esplicita non solo la posizione di assoluta equidistanza del primo, ma testimonia la circostanza che accusatore ed accusato possano godere delle stesse possibilità per far valere le proprie ragioni. La smaterializzazione del processo polverizza invece ogni distanza unendo innaturalmente i protagonisti del processo in un’unica indistinta entità virtuale.
La virtualizzazione del processo mortifica infine il contraddittorio che trova la sua più compiuta realizzazione nello spazio protetto dell’udienza ove è possibile instaurare quel rapporto immediato tra il giudice, le parti e la prova. L’assenza di mediazione è in questo caso fondamentale per fare in modo che si possano trarre da ogni singola fonte di prova, soprattutto di natura dichiarativa, quanti più elementi, non solo di natura cognitiva, utili per la decisione. Come ogni sapere, anche quello giudiziario, non può che nascere nella relazione diretta ed immediata tra chi la offre e chi la riceve[8].
2. Una simile situazione ci pone di fronte a domande la cui risposta implica non tanto una più profonda, quanto una diversa comprensione dei paradigmi culturali, politici e giudiziari che regolano il fenomeno processuale. Perché il problema che si pone non riguarda solo i modi della procedura, e forse neppure la compatibilità fra “remotizzazione” e giusto processo, ma la natura genetica del processo in quanto tale.
Ma anche questa collocazione del problema in uno spazio più preciso e limitato non ci appare ancora sufficiente a porre la questione in termini più chiari o ad indicarci la via da seguire. Né a rimuovere in fin dei conti il timore che al fondo della nostra visione si nasconda un pregiudizio.
Se una modificazione del DNA del giudizio potrebbe infatti fornire dei vantaggi, perché contrastarne l’evoluzione? Perché dunque vogliamo il processo nelle aule e lo vogliamo fermo sui pilastri della sua fisicità? E su quale base teorica siamo legittimati a rivendicare e propugnarne l’intrinseco valore e dunque la sostanziale immodificabilità di quei suoi presupposti materiali. È sufficiente a tal fine riepilogare la mitogenesi del processo penale? Richiamare la connessione storica profonda che lega la sua nascita con la nascita della democrazia in Occidente? O, infine, evocare il profondo legame di senso che oramai si è instaurato fra la forma pubblica, simbolica e addirittura iconica del processo penale e la sua sostanza?
Sono sufficienti questi richiami alle “radici” per rispondere convintamente alla prospettiva del cambiamento? O, meglio, a contrastare efficacemente l’incedere di una vera e propria mutazione di quel paradigma processuale a tutti noi apparentemente così connaturato? O si tratta piuttosto di cercare altrove, e non necessariamente così lontano nel tempo, e forse proprio nel futuro prossimo piuttosto che nel passato, il filo che ci conduca fuori da questo labirinto?
Perché il labirinto ha comunque un suono suadente. Quello della utilità e dell’efficienza dei nuovi dispositivi disponibili, ai quali comunque occorre piegarsi sebbene non si sappia a quale bisogno di efficienza essi intendano rispondere. Il suono accattivante e ragionevole della invincibilità del progresso tecnologico[9].
Secondo il paradigma ideologico della smaterializzazione basterebbe fare un uso efficiente e corretto del contatto telematico, per conservare gli equilibri del processo, le sue garanzie ed i suoi valori. Un uso sapiente dello strumento tecnologico, infatti, pur delocalizzando i soggetti del processo, e anzi proprio nel “destrutturare” il processo come luogo della giustizia, piuttosto che impoverire la sua capacità cognitiva, potrà concentrare ed efficientizzare la piattaforma degli input valutativi, con una ottimizzazione dei tempi del giudizio e al tempo stesso una amplificazione dei dati disponibili al giudizio medesimo[10].
Un modello di pensiero al quale occorre dunque sfuggire è quello della “neutralità” della tecnologia. Occorre cioè smentire l’assunto secondo il quale tutto dipende dall’uso che si fa degli strumenti tecnici posti in dotazione dal progresso tecnologico.
Infatti, una volta sottratti all’inevitabile appeal che le opposte prospettive radicali esercitano su tutti noi, sarà ancora necessario affrontare un aspetto ancor più spinoso, costituito proprio dall’argomento che spesso si utilizza per contestare un approccio manicheo, affermando che tutti i dispositivi telematici che ci consentirebbero di restare connessi al processo, così come tutta la tecnologia, non sono né buoni né cattivi, perché dipende solo dall’uso che noi ne facciamo. Questa, tutto sommato accattivante, prospettazione deve essere tuttavia respinta in quanto non solo rischia di porci di fronte ai rapporti fra psiche e techne in modo inadeguato, ma anche di farci affrontare il fenomeno in esame, trascurando un fondamentale aspetto della questione.
Occorre infatti rilevare come l’idea della neutralità della tecnologia sia non solo erronea ma fuorviante in quanto ci impedisce di vedere nella specificità del mezzo tecnologico le modificazioni che lo strumento stesso determina nel nostro rapporto e nella nostra percezione della realtà. L’idea che la tecnologia sia un oggetto per un soggetto e che pertanto il soggetto usi lo strumento tecnologico per appropriarsi la realtà circostante, è un’idea del tutto ingenua perché ogni strumento (anche il più elementare) modifica i rapporti fra l’individuo e la realtà naturale che lo circonda. Ogni strumento tecnologico lo fa, agendo secondo le sue specifiche potenzialità.
Ed è vero dunque il contrario che l’oggetto modifica il soggetto, e che la tecnologia può usare l’uomo ai “suoi” fini di progresso. Il progresso tecnologico modula percorsi logici circolari in quanto non ha alcun progetto, ma si autogenera costantemente fuori da ogni controllo effettivo, trascinandoci ogni volta in luoghi sconosciuti[11]. Il suo potere è esteso ed invasivo ma non sa esattamente come e in quali casi utilizzarlo: «Il fatto è che come far funzionare questo potere è chiaro, ma come controllarlo non è affatto ovvio, è un problema non proprio scientifico, e non è una cosa su cui gli scienziati sappiano molto»[12].
Questa diversa prospettiva non rende, dunque, la tecnologia un male, così come non la converte in un bene, ma ne coglie la multiforme e specifica valenza e ci aiuta a comprendere i modi con i quali affrontare i problemi che ogni nuovo dispositivo tecnologico, proprio perché affatto neutro, pone alle nostre relazioni sociali, alle nostre reazioni psicologiche, affettive, emotive, relazionali e cognitive[13].
Ci aiuta in particolare a comprendere che una tecnica specifica può, da un lato risolvere un problema (superare ad esempio il rischio di un contagio e l’impedimento di un testimone), ma dall’altro sottrarre alla macchina cognitiva del processo tutte le risorse che la fisicità del dibattimento solitamente produce e che il giudice utilizza per la decisione, sottraendogli il contributo di senso che le parti processuali, private della prestante pienezza dialogica del contraddittorio, avrebbero potuto fornirgli in un contesto non virtuale.
L’aristotelica unità di tempo, di luogo e di azione consente una funzionalità ed una immediatezza, sia in senso di rapidità e di efficienza che nel senso di mancanza di mediazione tecnica, non riproducibili da alcun dispositivo telematico, ed è dotata anche di una capacità di restituzione di feed-back informativi non altrimenti raggiungibile[14].
La libertà del soggetto che agisce nel processo in una udienza non virtuale e dotata della necessaria fisicità, costituisce un ulteriore elemento certamente non alienabile: si tratta della libertà di muoversi nello spazio e di volgere lo sguardo su ciò che interessa, ovvero nella direzione dello sguardo degli altri soggetti interloquenti, di concentrarsi sulla postura o sulla mimica del corpo, o anche sulle reazioni del pubblico. Una libertà di agire all’interno dello spazio processuale che è inevitabilmente connessa alla natura della funzione di ogni singolo attore e che è differente per ogni partecipe ed ha pertanto a che fare con la pienezza della cognizione di ciascuno di essi. Ma questa libertà, che è precondizione essa stessa dell’esercizio del contraddittorio, esce inequivocabilmente mortificata se non annientata dalla visione coattivamente imposta dal mezzo telematico ed inevitabilmente “agita” da quello stesso strumento.
Non vi è un solo segmento della gestione dell’udienza che non abbia una evidente natura relazionale e biunivoca che non si instaura solo fra i soggetti e gli attori del processo, ma che conferisce a ciascuno di essi, in virtù della loro stessa co-esistenza e della co-esistenza in quello specifico spazio, un senso ed una particolare dignità.
L’essere umano possiede una tale capacità di sintesi percettiva che appare irriducibile non solo a qualsiasi intelligenza artificiale, ma anche a qualsiasi dispositivo riproduttivo telematico. Quella che viene definita «rapida e precisa sincronia non verbale» della quale gli esseri umani godono «con chi gli è vicino» costituisce il soft-ware in assoluto più efficiente, capace di fornire informazioni complesse e complete a colui che lo utilizza. E tale speciale forma di immedesimazione relazionale possiede evidentemente una base neurobiologica se è vero che sono «evidenze empiriche a suggerire un forte legame fra i neuroni specchio (…) e l’empatia»[15].
La riduzione dello spazio e della relazione fra i corpi ad una immagine fissa riflessa da un monitor anziché aumentare ed espandere le potenzialità comunicative e percettive – come dovrebbe essere proprio di ogni applicazione della techne – ne mortifica ed inaridisce ogni possibile canale, riducendo (del 70-80%) la massa di tutte quelle informazioni percepite dall’individuo e non riducibili a pura comunicazione verbale[16].
Ma al di là di ciò che evidentemente si “perde” nella remotizzazione del processo occorre tuttavia riflettere anche sulla specificità dello strumento. L’esperienza empirica ci dimostra infatti come la videoconferenza “funzioni”, ed esplichi quindi le sue potenzialità suppletive, quando il dialogo avvenga fra soggetti dotati non solo della medesima capacità comunicativa, ma soprattutto formalmente posti su di un medesimo piano e dotati dunque di eguali poteri. Una condizione, questa, non solo assente nel processo penale, ma anche inevitabile in quanto strettamente funzionale alla sua stessa celebrazione, risultando ad essa coessenziale la necessità di una distanza e di una asimmetria di poteri fra giudice e parti, così come fra parti e testimoni. La stessa presenza all’interno della piattaforma telematica di soggetti “deboli” ne dovrebbe dunque escludere la agibilità a fini processuali[17].
Non è dunque semplicemente in gioco la modificazione di alcune norme e la diversa configurazione di alcuni istituti, e forse neppure il solo superamento del labile confine posto dalla nostra articolata struttura valoriale, che implicitamente presuppone che i valori costitutivi del modello processuale possano essere modulati e bilanciati diversamente, ma il tradimento della base biologica e dunque il superamento della “natura ontologica” del processo in quanto essa stessa produttiva della forza virtuosa e circolare e della pienezza di senso che inevitabilmente devono essere gli attributi propri del giudizio.
La stessa “intelligenza delle emozioni”[18], costituisce infatti a sua volta la precondizione della base cognitiva del giudizio e pertanto presuppone un allargamento delle sue potenzialità, non un appiattimento ed una limitazione. Quell’intelligenza è quanto di più “tecnologico” oggi si abbia a disposizione per coniugare l’esigenza di avere decisioni che siano comprese e soprattutto percepite come giuste[19] in quanto prodotte da un percorso di senso condiviso.
Sostituire la limitante “tecnica oggettiva” alle estese capacità soggettive della comunicazione umana significa operare un fraintendimento accettando come un dato di fatto che «l’ordine dei mezzi ha già oltrepassato, fino ad abolirlo, l’ordine dei fini per cui i mezzi sono stati escogitati»[20]. Occorre al contrario saper fare uso sapiente della tecnologia superando quella che è stata definita la vergogna prometeica[21], ovvero il senso di colpa del “sentirci antiquati” nel non dare corso sempre e comunque ed ovunque a tutte le risorse che la tecnologia ci propone, lasciandoci tuttavia usare da pulsioni irrazionali e da logiche tecnocratiche proprie dell’economia del mercato.
A ben vedere le radici di senso del processo, simboliche, filosofiche, sociologiche e culturali, affondano dunque nella nostra stessa base biologica e ne costituiscono pertanto esse stesse l’esplicazione più coerente, più efficiente e più avanzata.
Per quanto questa possa apparire una verità paradossale, si può infatti ragionevolmente affermare che il luogo del processo – quello che prosaicamente chiamiamo “aula” – è lo strumento ad oggi tecnologicamente più funzionale e più sofisticato di cui l’attività giudiziaria possa disporre.
[1] Cfr. Intervista a Yuval Noah Harari di E. Franceschini, La Repubblica, 15 aprile 2020.
[2] Il Decreto Legge n. 18 (cd. “Cura Italia”) contenente le disposizioni sul processo telematico, è stato convertito in legge in data 24 aprile 2020; al tempo stesso è stato approvato un ordine del giorno (AC 2463 A) con il quale il governo si impegna ad escludere con il primo provvedimento utile l’applicazione del processo “da remoto” alle udienze di discussione ed a quelle relative all’esame di testi, periti e consulenti; deve sottolinearsi in proposito come nelle premesse del medesimo atto si definisca il processo da remoto come una “disciplina sperimentale”.
[3] Cfr. tra gli altri, O. Mazza, Distopia del processo a distanza, in www.archiviopenale.it, 4 aprile 2020; nonché M.R. Guglielmi, Quel rito al quale non possiamo facilmente rinunciare, in www.dirittodidifesa.eu, 22 aprile 2020.
[4] Così A. Garapon, Ben juger. Essay sur le rituel judiciaire, trad. it., De giudicare Saggio sul rituale giudiziario, Milano, 2007, p. 7.
[5] Id. p. 13.
[6] Così efficacemente definita da O. Mazza, Distopia del processo a distanza, cit.
[7] Cfr. A. Garapon, Ben juger, cit., p. 28.
[8] La relazione fra il giudice, il giudizio e lo spazio ove si esercita la funzione giudiziaria, verrebbe gravemente destrutturata, facendo sì che il processo vada dove va il giudice e dove vanno le parti: un processo frammentato e “itinerante” che si muove in senso opposto a quello che caratterizzava la figura del “giudice itinerante”, dotato della capacità di modificare i territori e gli spazi ove pur provvisoriamente si insediava al fine di svolgere la sua funzione; cfr. G. Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Bari, 2007, p. 39 ss.
[9] Sulla necessità di “resistere al fascino della tecnica”, G. Santalucia, La tecnica al servizio della giustizia penale. Attività giudiziaria a distanza nella conversione del decreto “cura Italia”, giustiziainsieme.it, 10 aprile 2020.
[10] Come osserva tuttavia A. Garapon, Ben juger, cit., p. 190, «non esiste spazio pubblico senza una cultura che gli fornisca un’espressione simbolica identitaria in grado di rinviare, attraverso la grammatica dell’architettura, ai padri fondatori e ai valori comuni».
[11] E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Essenza del nichilismo, Milano, 1982, p. 196-197, ove in particolare si afferma che «la cultura occidentale non può avere la capacità di stabilire alcun limite all’aggressione dell’ente, che la tecnica va portando sempre più affondo (…) perché l’essenza di tale cultura è il nichilismo metafisico, di cui la tecnica è la più radicale e rigorosa realizzazione»; sul tema vedi anche, U. Galimberti, Psiche e techne.L’uomo nell’età della tecnica, Roma 1999, p. 485 ss.; nonché H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, 1990, p. 181.
[12] Così, R. P. Feynman, Il senso delle cose, Milano, 1999, p. 17.
[13]«Le ITC digitali (le tecnologie dell’informazione e della comunicazione) … creano e forgiano la nostra autocomprensione, cambiano il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con noi stessi, aggiornano la nostra interpretazione del mondo, e fanno tutto ciò in maniera pervasiva, profonda e incessante», L. Floridi, La quarta rivoluzione, Milano, 2017, p. IX.
[14] P. Brogna, 25 Aprile e stato d’eccezione, Questione Giustizia, 25 aprile 2020.
[15] Così, M. Iacoboni, I neuroni specchio, Torino, 2011, p. 100; il quale sottolinea (p. 228) che «i neuroni specchio sono le cellule del cervello che conferiscono alla nostra esperienza, fatta soprattutto di iterazioni con altre persone, un significato profondo».
[16] Commissione Linguistica Giudiziaria della Camera Penale di Roma, ww.camerapenalediroma.it , 24 aprile 2020.
[17] Commissione Linguistica Giudiziaria della Camera Penale di Roma, cit.
[18] Cfr., sul tema, C. Nussbaun, L’intelligenza delle emozioni, Bologna, 2004.
[19] Come osserva in proposito Rawls: «La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali, così come la verità lo è dei sistemi di pensiero. Una teoria, per quanto semplice ed elegante, deve essere abbandonata o modificata se non è vera. Allo stesso modo, leggi e istituzioni, non importa quanto efficienti e ben congegnate, devono essere riformate o abolite se sono ingiuste», J. Rawls, Una teoria della giustizia, Milano, 2010, p. 25.
[20] Così, U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 684.
[21] G. Anders, L’uomo è antiquato, Milano, 1963, p. 23-24: «Nell’incapacità della nostra anima di rimanere “up to date”, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti, e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro (chiamato “presente”) e che ci sono sfuggiti di mano. La nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre nuove cose (costretti come siamo a pagare senza sosta il nostro tributo a questa libertà) ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente fra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici».