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PRESUNZIONE DI INNOCENZA E DIRITTO COMUNITARIO – DI FABRIZIO COSTARELLA

PRESUNZIONE DI INNOCENZA E DIRITTO COMUNITARIO – DI FABRIZIO COSTARELLA

di Fabrizio Costarella
 
 
Presunzione di innocenza e dichiarazioni colpevoliste rese da autorità pubbliche. Tra diritto eurounitario ed una tutela che non c’è.
 
La cronaca giudiziaria ci presenta, quotidianamente, il resoconto delle importanti operazioni di Polizia Giudiziaria eseguite nel Paese, con il loro inevitabile corredo di ordinanze di custodia cautelare eseguite nei confronti di altrettanti indagati.
Si tratta di una conseguenza certamente fisiologica dell’esercizio del diritto alla libertà di informazione la cui tutela, in uno Stato democratico, è certamente imprescindibile.
È tuttavia divenuta intollerabile la sistematicità con la quale gli indagati vengono presentati come colpevoli, nel corso di conferenze stampa dal tenore sostanzialmente auto celebrativo, produttive di una alterazione ingiustificabile degli equilibri informativi, e di una pericolosa frattura tra l’attività giudiziaria e le aspettative di giustizia, tra la giustizia attesa e quella applicata, con un vero e proprio ribaltamento della presunzione d’innocenza dell’imputato e la creazione di “verità parallele”, una mediatica e l’altra processuale[1].
Una serie di alterazioni dei necessari equilibri fra valori e principi costituzionali tanto più gravi ed insopportabili in quanto costituiscono una evidente violazione della Direttiva 343/16 CE, ed un grave disprezzo per i suoi contenuti, che dovremmo invece avvertire come un necessario precipitato della presunzione di innocenza ed un suo mai realizzato rafforzamento applicativo.
Infatti, nonostante sia scaduto da circa due anni il termine per il suo recepimento, fissato dall’art. 14 della Direttiva al 1° aprile 2018, l’Italia non ha adottato alcuna misura legislativa che ne trasponesse i principi nel nostro ordinamento.
Così come è anche appena scaduto il termine (fissato al 1° aprile 2020) per inoltrare alla Commissione Europea i dati relativi alle modalità di attuazione dei diritti sanciti dalla Direttiva. Scadenza che lo Stato non è riuscito ad osservare.
Eppure, il Legislatore Comunitario aveva indicato alcuni temi ineludibili, ed oggi particolarmente avvertiti, per dare alla presunzione di non colpevolezza una dimensione non meramente nominalistica, da disquisizione puramente accademica.
La norma europea, infatti, oltre ad intervenire per rafforzare il diritto dell’imputato a partecipare al processo[2], ha agito sulla presunzione di non colpevolezza attraverso tre direttrici.
Da un lato, infatti, attraverso la delineazione dello “statuto dell’onere della prova”, ha precisato che i principi probatori del processo accusatorio, secondo i quali è sulla pubblica accusa che incombe l’onere di provare la colpevolezza dell’imputato, vanno letti, così armonizzandoli ai costituti euro unitari, nel senso che qualsiasi dubbio sulla colpevolezza stessa deve essere risolto a favore del soggetto sottoposto all’accertamento penale.
Alla esaltazione del dubbio ragionevole va anche ascritto il richiamo (considerandum 22) alla possibilità del ricorso, da parte del Giudice, a presunzioni di fatto o di diritto, purché confutabili e confinate entro limiti ragionevoli[3].
Sotto altro aspetto, poi, la Direttiva mira a sublimare la presunzione di non colpevolezza attraverso il riconoscimento del diritto al silenzio ed alla non autoincriminazione (considerandum 26 e 31).
Istituti ben noti al nostro ordinamento, eppure frequentemente oggetto di cattiva prassi ermeneutica, se è vero che numerose sono, purtroppo, le decisioni giudiziarie, specie cautelari e di merito, che derivano elementi di libero convincimento, sia pure quale metro per la valutazione di elementi acquisiti aliunde, dal silenzio o dalla mancata collaborazione all’accertamento della verità processuale[4].
E, quel che maggiormente interessa ai fini del presente lavoro, aveva ritenuto che il rispetto del principio di non colpevolezza passasse anche attraverso la “continenza informativa” da parte delle “autorità pubbliche” e nei confronti di soggetti non ancora dichiarati colpevoli in via definitiva.
Basta esaminare il “considerandum”, che al punto sedici si esprime nel senso che “la presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole”.
Disposizione che la Direttiva auspica giustiziabile al successivo punto quarantaquattro, laddove invita gli Stati membri ad “istituire mezzi di ricorso adeguati ed efficaci in caso di violazione dei diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione”. Con la precisazione che “un mezzo di ricorso efficace che sia disponibile in caso di violazione dei diritti sanciti dalla presente direttiva dovrebbe avere, per quanto possibile, l’effetto di porre l’indagato o imputato nella posizione in cui questi si sarebbe trovato se la violazione non si fosse verificata, così da salvaguardare il diritto a un equo processo e i diritti della difesa”.
La portata della fonte comunitaria è stata presto correttamente enfatizzata dalla dottrina, che vi ha visto uno dei punti di approdo maggiormente salienti della Risoluzione del Consiglio d’Europa del 30 novembre 2009, relativa a una tabella di marcia per il rafforzamento dei diritti procedurali di indagati o imputati in procedimenti penali, in GUUE C 295 del 4 dicembre 2009, pp. 1-3; integrata nel programma di Stoccolma, Un’Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei cittadini in GUUE C 115 del 4 maggio 2010, pp. 1-38.
Una sorta di “Road map” dei diritti processuali, che la Commissione Europea aveva già tracciato nel Libro verde, Garanzie procedurali a favore di indagati e imputati in procedimenti penali nel territorio dell’Unione europea, del 19 febbraio 2003, COM(2003)[5] e che era, tuttavia, rimasta inattuata sino all’entrata in vigore Trattato di Lisbona, che attribuiva espressamente al Legislatore comunitario competenza a legiferare in materia di “diritti della persona nella procedura penale” (art. 82 TFUE).
E che, dopo l’entrata in vigore del Trattato sul Funzionamento della Unione Europea, ha costituito la traccia per consentire l’adozione di uno “statuto processuale” equivalente e comparabile nei ventotto Stati membri, di cui si possano avvalere sia i cittadini dell’UE che gli stranieri, con il fine di assicurare che tutte le parti processuali si trovino in condizione di parità sostanziale.
Fine che si è cercato di perseguire mediante l’adozione di una serie di Direttive in materia processuale, iscritte nella cornice delle  norme fondamentali di cui agli artt. 47 e 48 della Carta e dall’art. 6 della CEDU, che riconoscono il diritto ad un processo equo, la presunzione di innocenza e i diritti della difesa, e dagli artt. 6 della Carta e 5 della CEDU, che enunciano il diritto alla libertà e alla sicurezza delle persone, così come interpretati dalla Corte di giustizia e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[6].
In tale milieu di garanzie convenzionali, la Direttiva 2016/343/UE si è distinta per una “interpretazione estensiva della presunzione di innocenza, da garanzia destinata ad operare non soltanto sul piano processuale a diritto della personalità, ovvero diritto a non essere presentato come colpevole prima che la responsabilità sia stata legalmente accertata”[7].
Interpretazione, che, peraltro, rinviene la propria giustificazione nella sedimentata giurisprudenza europea, secondo la quale l’informazione ai mezzi di comunicazione di massa da parte di autorità pubbliche, rispetto a procedimenti penali in corso deve essere svolta «con tutta la discrezione e con tutto il riserbo imposti dalla presunzione di innocenza», in un’ottica di interpretazione estensiva di detto principio «fino ad essere ricostruito come diritto a non essere pubblicamente rappresentati come colpevoli di un reato prima che la responsabilità venga accertata confor­memente alle previsioni di legge»[8].
La Direttiva, peraltro, ha previsto che i diritti individuali che fanno da corollario alla presunzione di non colpevolezza e, tra tutti, la regola di giudizio in dubio pro reo, siano indisponibili, con ciò apportando un innalzamento dello standard di tutela della presunzione d’innocenza rispetto a quanto sostenuto sia dalla giurisprudenza nazionale[9], sia da quella comunitaria[10], le quali hanno configurato i diritti di cui all’art. 6 CEDU come rinunciabili, purché tale scelta sia presa in modo consapevole e volontaria e sia corredata da un minimo di garanzie[11].
Ma non si è mancato di rilevare che i contenuti della direttiva appaiono più generici e molto meno incisivi, ad esempio, della Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa 2003/13 che, ad esempio, prevede espressamente che “qualora una persona accusata di un reato sia in grado di dimostra­re che le informazioni fornite comportano una probabilità elevata di ledere il suo diritto ad un giusto processo, o hanno già dato luogo a tale lesione, la persona in oggetto dovrebbe disporre di un rimedio giuridico efficace”[12].
Difetto di incisività e precisione che ha certo influito sulle procedure di recepimento, da parte degli Stati membri.
Le direttive europee sui diritti processuali approvate negli ultimi anni (c.d. Direttive di Stoccolma), a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, pur se hanno segnato l’inizio di una nuova fase nella costruzione di un “modello europeo di giustizia penale”, hanno tuttavia – inevitabilmente – lasciato che la costruzione di questo nuovo “modello europeo di giustizia penale” sulla base di standard minimi comuni dipendesse, soprattutto, dalla cooperazione e dalla collaborazione tra gli Stati membri, i quali avrebbero dovuto recepire tali direttive, adottando tutte le misure necessarie per adeguarsi ai parametri europei.
Il nostro Legislatore nazionale ha, almeno sul piano dei principi, avvertito la portata reale della norma comunitaria, tanto che nel dossier 504/1 del Servizio Studi del Senato della Repubblica, ben si evidenzia che l’esatta portata della Direttiva Comunitaria era, sullo specifico punto di interesse, quello di “garantire che nelle dichiarazioni pubbliche da parte delle autorità procedenti non ci si riferisca alla persona come colpevole e dovranno altresì garantire che le persone indagate o imputate non siano presentate come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica”.
Evidenziando, altresì, da un lato che “se il principio della presunzione di innocenza è violato, gli Stati devono garantire mezzi di ricorso adeguati”.
Dall’altro, ricordando che “i principi affermati dalla direttiva sono già patrimonio dei diritti fondamentali europei, sanciti sia dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (artt. 47 e 48), sia dalla Convenzione EDU (art. 6)”, tanto che “nella direttiva è stata inserita una clausola di non regressione rispetto al consolidamento di tali diritti nell’ambito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 13)”.
Si immaginava, cioè, di costruire un insieme di norme che potessero adeguatamente garantire l’effettività del principio di non colpevolezza, non solo mediante il suo formale riconoscimento e la sanzione delle sue violazioni, ma anche (e soprattutto) elaborando forme di restitutio in integrum dell’indagato, tali da neutralizzare gli effetti di quelle violazioni.
E, tuttavia, la Legge di delegazione comunitaria 25 ottobre 2017, n. 163 ha delegato il Governo a dare attuazione, tra le altre, alla Direttiva 2016/343, che costituisce la quarta misura di armonizzazione minima emanata dall’UE, ai sensi dell’art. 82, par. 2, lett. b TFUE, al fine di potenziare i diritti fondamentali dei prevenuti nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia[13], senza dettare principi e criteri direttivi specifici[14].
Così, nonostante le ricadute del principio di non colpevolezza siano “patrimonio conoscitivo” del nostro ordinamento, consacrato in fonti costituzionali o di rango costituzionale, mancano ancora adeguate forme di tutela davanti ai circhi mediatici imbastiti per dare “dignità” pubblica di sentenza irrevocabile ai provvedimenti di fermo di indiziato di delitto.
Da un lato, le proposte formulate dalla dottrina, per limitare simile fenomeno alla luce del diritto eurounitario, sono state a volte radicali e provocatorie, come quella di vietare la messa in onda di trasmissioni televisive sui casi di maggior interesse mediatico, sino alla pronuncia di primo grado, perché “non si può certo pensare che la Costituzione autorizzi a deformare l’aspetto esteriore del processo solo per assicurare ai cittadini il godimento di una giustizia sommaria[15].
D’altro canto è impossibile impedire che la stampa riprenda le dichiarazioni delle “autorità pubbliche” che presentino gli indagati come colpevoli.
La libertà di stampa, garantita dall’art. 21 della Costituzione, “è tra le libertà fondamentali proclamate e protette dalla nostra Costituzione, una di quelle anzi che meglio caratterizzano il regime vigente nello Stato, condizione com’è del modo di essere e dello sviluppo della vita del Paese in ogni suo aspetto culturale, politico, sociale. Ne consegue che limitazioni sostanziali di questa libertà non possono essere poste se non per legge (riserva assoluta di legge) e devo­no trovare fondamento in precetti e principi costituzionali, si rinvengano essi esplicitamente enunciati nella Carta costituzionale o si possano, invece, trarre da questa mediante la rigorosa applicazione delle regole dell’interpretazione giuridica” [16].
Mancano, dunque, strumenti di tutela, sia preventivi che repressivi.
Sul versante processuale, in particolare, la questione pare essere stata affrontata solo sul crinale dei rapporti tra media e Magistratura, escludendo l’esperibilità del rimedio della rimessione del processo, nei casi di eccessiva esposizione mediatica dello stesso, che è stata ritenuta “elemento del tutto neutro”, in quanto espressione della libertà di manifestazione del pensiero, trattandosi di iniziative rientranti nel diritto all’informazione ed alla libertà di cronaca e di opinione, che – anche se si concretizzano in una vera e propria campagna di stampa, pur continua ed animosa – non assumono di per sé rilievo ai fini della “translatio iudicii”, in mancanza di elementi concreti che rivelino una coeva potenziale menomazione dell’imparzialità dei giudici locali. D’altronde, ponendosi su un diverso piano, se si ammet­tesse l’idoneità di una pur violenta campagna di stampa ad influire sulla determinazione della competenza del giudice, attraverso la rimessione del processo, ciò significherebbe, in sostanza, ammettere la possibilità di condizionare la scelta del giudice da parte di chiunque, essendo in grado di orientare gli organi di informazione, volesse distrarre il processo da una data sede[17].
 Ma, come si vede, l’accento è stato posto sulla astratta (e, si spera, inesistente) capacità condizionante della stampa nei confronti delle decisioni processuali, mai sul vulnus che alle garanzie proprie del giusto processo possa assestare l’incontinenza espressiva delle “autorità pubbliche”.
La vulnerabilità del singolo, tuttavia, non è limitata solamente alla informazione giudiziaria, ma rappresenta, temo, il segno di un più generale decadimento del livello di garanzie offerto dal sistema giustizia.
Sul punto, il recente intervento di Alessandro Barbano[18], così profondo e ricco di suggestioni capaci di evocare sensazioni sinestetiche, impone di fermarsi a riflettere.
“La notte della giustizia”, scrive Barbano, e forse è davvero così.
Siamo arrivati alla notte e dobbiamo aspettare che passi, per parafrasare Eduardo, prima di vedere cosa sarà rimasto in piedi di un sistema giudiziario che, negli ultimi trenta anni, abbiamo lasciato si snaturasse sino ad arrivare ad un assetto che sta dilapidando il patrimonio delle garanzie, a cui è collegata la sua identità di istituzione a difesa dei diritti individuali.
In questo lungo isolamento preventivo, che oggi ci è stato imposto con norme sotto-ordinate, come non manca di rilevare il Prof. Pulitanò[19], dobbiamo prendere coscienza di essere rimasti virtualmente alla finestra da un tempo ormai indefinito e molto più risalente, mentre, man mano che il buio incombeva, orde disordinate scompigliavano il campo dei diritti e delle garanzie, in nome di un efficientismo giustizialista capace di minare alle basi un sistema costruito sui principi costituzionali.
Le avanguardie, animate da interessi più o meno personali, più o meno confessabili.
E dietro, i pifferai di Hamelin, bravi a toccare le corde vibranti della moltitudine, capaci di distrarre il popolo solo agitando il dito verso la Luna, per tornare alle suggestioni di Barbano.
E, sulle macerie delle vestigia liberali, abbiamo visto sorgere i sinistri manieri dei doppi binari, delle legislazioni speciali diventate in breve tempo, a suon di estensioni giurisprudenziali, il “binario unico” che scandisce l’incedere di una aggressione sempre più serrata e, inversamente, sempre meno giustificata delle nostre garanzie.
Con il diritto penale dello “spazza”, come ci ricorda il Prof. Pulitanò.
Con la legislazione antimafia, così impietosamente costruita sul sospetto, elevato a prova.
Con il sistema della prevenzione, ormai “sanzione sine iniuria”, sin dalla sempre troppo enfatizzata possibilità di apprendere il patrimonio di soggetti defunti, a dispetto dell’arroccamento sofistico della Magistratura e del Legislatore, che reiterano il mantra della natura sostanzialmente amministrativa dell’istituto, incuranti delle ripetute reprimende della Corte EDU.
Così come vera sanzione anticipata si rivela essere l’informazione giudiziaria (del resto, del processo come pena si parla ormai da lunghi anni, non solo nei salotti buoni dell’Accademia), che tende a neutralizzare la immaginata pericolosità dell’individuo mediante la sua “sterilizzazione sociale”, espellendolo, di fatto, dai circuiti imprenditoriali, professionali o anche solamente umani nei quali era inserito, grazie allo stigma della sottoposizione ad inquisizione.
Termine, quest’ultimo, da intendersi nella doppia valenza semantica di indagine penale e di archetipo di un anticipato processo senza garanzie.
Un sistema penale, quindi, che ormai si limita alla ricerca della giustizia (volutamente in minuscolo) del caso singolo, senza più curarsi di giustificare la legalità dell’azione.
Così che l’eccessiva enfatizzazione del particolare imputato, del particolare reato, del particolare bene giuridico tutelato, finisce per offuscare lo sfondo, nel quale ormai si confondono quei concetti di generalità, astrattezza ed uguaglianza, i quali dovrebbero far monito a tutti che l’esercizio della Giustizia penale incrocia il cuore della democrazia costituzionale ed i suoi principi fondanti.
Sembra quasi di trovarsi davanti ad uno di quei quadri fiamminghi (penso, in particolare, al Trionfo della Morte di Bruegel), nei quali sono immediatamente visibili all’occhio di chi contempla solo i quadretti episodici, volutamente rappresentati con tinte più vivide, che trattano le singole manifestazioni del male.
Mentre tutto il resto dell’umanità, ed anche, purtroppo, le poche immagini di speranza, vengono confinate nel grigio dello sfondo.
Tutto è oggi così proteso alla enfatizzazione del particolare, nella ricerca ossessiva del consenso pubblico (anche da parte di chi a quel consenso non dovrebbe ambire), da offuscare il generale e, con esso, i principi.
L’aspirazione al “bene comune” è così diventata la matrice comunicativa per coagulare il consenso intorno ad iniziative legislative, politiche, giudiziarie che invece hanno la mira – magari inconsapevole, per eterogenesi dei fini – di destrutturare dalle fondamenta il sistema delle garanzie costituzionali, che calmierano l’esercizio altrimenti sregolato dell’azione penale.
Tutto viene giustificato nell’ottica di ricercare un interesse superiore.
La comunicazione dei nostri contraddittori, in questo campo, ha manipolato, in senso demagogico, l’insegnamento di Habermas[20] e della sua “Teoria discorsiva della verità”.
La pretesa di verità non ricerca più l’assenso dei fruitori competenti dell’affermazione, ma il consenso fine a sé stesso, coinvolgendo in discorsi massimamente tecnici non più gli esperti riconosciuti del settore, ma improbabili piattaforme virtuali, incapaci di esprimere concetti più profondi di un “like” e di qualche post sgrammaticato.
Sovviene alla mente, a distanza di oltre trenta anni, un intervento pubblico di Enzo Biagi, chiamato in causa per la sua critica all’approccio mediatico di alcuni inquirenti alla narrazione del “caso Tortora”. Il giornalista, a chi gli chiedeva se fosse opportuno delegittimare la funzione della giurisdizione, così da fare operare i giudici senza il consenso della opinione pubblica, e se non fosse, pertanto, accettabile il sacrificio della immagine del singolo, a fronte della tutela di una funzione così importante , rispose che: “E’ ingiusto che si accusino i magistrati che hanno fatto arrestare Tortora, senza dargli modo di difendersi, ma mi sembra ancora più ingiusto che il processo ad una persona venga fatto attraverso indiscrezioni fatte uscire sui giornali ed apprese in questo modo persino dall’indagato. Questo è il modo più scorretto e per questo Tortora è già stato condannato da parte dell’opinione pubblica. Ecco perché alcuni, come me, hanno preso le difese non dell’imputato Tortora, che deve essere giudicato, ma di un sistema che è gestito in modo ignobile”.
Ma il fine non giustifica mai i mezzi ed un sistema che annichilisce le garanzie liberali finisce sempre per implodere.
Robespierre finì ghigliottinato, vittima di quel milieu di odio sociale, sospetto, sete di vendetta che aveva cavalcato nella sua corsa al potere.
Quando, per conquistare anche gli ultimi spazi di libertà, avranno avvelenato tutti i pozzi con l’acqua carsica del giustizialismo, che, come ha scritto Marcello Fattore[21], è limpida agli occhi, ma acida al gusto, tutti saremo presunti colpevoli, anche i grandi accusatori di oggi.
Nessuna notte, tuttavia, dura in eterno.
Nel chiarore dell’alba, spero di scorgere ancora schiere di persone pronte a lottare per assicurare tutela, nonostante l’attuale sonno della ragione, ai principi che regolano l’esercizio dell’azione penale, specie con riferimento alla presunzione di non colpevolezza.
Anche proponendo misure legislative per apprestare effettiva sanzione giurisdizionale alle sue violazioni, nel solco delle indicazioni date dalla normativa comunitaria e con la finalità di annullare le conseguenze pregiudizievoli per l’incolpato, che, in tema di informazione giudiziaria, si traducono in un inevitabile pregiudizio.
Occorrerebbe, forse, piuttosto che cercare di agire, in via preventiva o repressiva, sulla diffusione delle dichiarazioni rese dalle autorità pubbliche sul conto di soggetti non ancora dichiarati colpevoli, al fine di farli apparire tali – obiettivo non perseguibile sia per la garanzia costituzionale apprestata al diritto di informazione, sia per la predicata indipendenza di giudizio della Magistratura, che dobbiamo ritenere aliena da ogni forma di condizionamento mediatico – intervenire sul sistema delle garanzie processuali, che tutelano il principio di imparzialità della Giurisdizione.
Il tema, che incrocia quello della ormai necessaria separazione delle carriere dei Magistrati, attiene ad una considerazione elementare, che può essere proposta sotto forma di domanda retorica.
Se pure è possibile affermare che le decisioni giudiziarie non sono influenzabili dagli articoli di stampa, è possibile ritenere che le dichiarazioni rese da altra “autorità pubblica”, magari deputata al compimento delle indagini preliminari, lasci ugualmente indifferente il Giudice – collega – chiamato a pronunciarsi, anche, se non soprattutto, in fase endoprocessuale?
E, del resto, la neutralità psicologica del giudicante (c.d. virgin mind) è un principio cardine del processo accusatorio e richiede che il giudice arrivi al dibattimento sgombro da pregiudizi, dovendo assistere davanti a sé alla formazione della prova nel contradditorio di accusa e difesa, così che la tutela del segreto investigativo è stata ritenuta esplicazione anche della garanzia di neutralità[22].
Ed a maggior ragione, dovrebbe esserlo il divieto di presentare l’indagato come colpevole, dato che la salvaguardia della virgin mind del giudice non può risolversi, per le sue evidenti ricadute, in una mera petizione di principio e non è certo in tal modo che viene considerato dal Legislatore[23]
E’ allora forse opportuno recuperare l’istituto della rimessione, mediante ampliamento del catalogo previsto dall’art. 45 del codice di rito penale, così da poter considerare le esternazioni di una pubblica autorità, che presentino alla opinione pubblica un presunto innocente come colpevole, alla stregua delle gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo o da determinare motivi di legittimo sospetto, così da rimettere l’incolpato avanti ad un organo giurisdizionale che appaia, oltre che essere, imparziale ed esente da condizionamenti.
Non in chiave sanzionatoria della pur indubbia violazione di principi disciplinari e di universalmente avvertito rispetto per le regole del processo e per lo statuto del principio di non colpevolezza, ma, come espressamente previsto dalla Direttiva 2016/343 UE, in ottica ripristinatoria di quegli “equilibri necessari”, che sovrintendono alla celebrazione di un processo che sia, non solo quale pristinum nomen, giusto.
E chissà che, infine, il sole non sorga su di un giorno migliore.


 

[1] G. Spangher, Verità, verità processuale, verità mediatica, verità politica, in Dir. pen. proc., 2016, p. 806
[2] Per una esaustiva disamina di tale tema, si rimanda a F. Alonzi, La Direttiva UE sul diritto dell’imputato di partecipare al giudizio e la disciplina italiana sul processo in absentia, in lalegislazioneeuropea.eu, 21 settembre 2016
[3] L. Camaldo, “Presunzione di innocenza e diritto di partecipare al giudizio: due garanzie fondamentali del giusto processo in un’unica direttiva dell’unione europea”, in Diritto Penale Contemporaneo, 23 marzo 2016
[4] Cass. pen. Sez. III, 19/09/2019, n. 43254. Peraltro, anche se non ai fini di riconoscimento della responsabilità penale, è prassi attribuire valenza negativa al silenzio della persona sottoposta a procedimento penale, nel giudizio di riparazione per ingiusta detenzione.
 
[5] Nella introduzione è dato leggere che “Il presente Libro verde si inserisce nel processo diretto a stabilire norme o livelli comuni di garanzie procedurali in tutti gli Stati membri nei confronti di indagati, imputati, processati e condannati per reati penali. Esso intende esaminare quali possono essere tali livelli minimi comuni e in quali ambiti possono essere applicati.”
[6] Così, V. Faggiani, Le direttive sui diritti processuali. Verso un “modello Europeo di Giustizia Penale”? in Freedom, Security & Justice: European Legal Studies, 2017, n.1
[7] Così, G. Tarli Barbieri, Libertà di informazione e processo penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte Edu: problemi e prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 2017, n.3
[8] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. France, così citata in G. Tarli Barbieri, Libertà di informazione e processo penale nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte Edu: problemi e prospettive, in Diritto Penale Contemporaneo, 2017, n. 3; sentenza 29 marzo 1997, Worm c. Austria; sentenza 10 ottobre 2000, Daktaras vs Lituania
[9] Cass., Sez. V, 27 ottobre 2016, n. 14550
[10] Corte EDU, Sez. III, 12 aprile 2014, Natsvlishvili e Togonidze v. Georgia
[11] J. Della Torre, Spunti sul rapporto tra Direttiva 2016/343/UE e regole di giudizio del patteggiamento, su Diritto Penale Contemporaneo, 2018, n.3
[12] G. Resta, Libertà d’informazione e giustizia: la prospettiva della Corte di Strasburgo, Dignità, persone, mercati, Torino, 2014
[13] R.E. Kostoris, La tutela dei diritti fondamentali, in Manuale di procedura penale europea, a cura di R.E. Kostoris, Milano, 2017
[14] J. Della Torre, Spunti sul rapporto tra Direttiva 2016/343/UE e regole di giudizio del patteggiamento, su Diritto Penale Contemporaneo, 2018, n.3
[15] E. Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, 2016
[16] Corte Costituzionale, sentenza n. 9 del 1965
[17] Così, Cass. pen., sez. II, 23 dicembre 2016, n. 55328 
[18] A. Barbano, “Il Paese e la Luna”, Diritto di Difesa, 1 aprile 2020
[19] D. Pulitanò, “Problemi del Penale e scenari di crisi”, Diritto di Difesa, 4 aprile 2020
[20] Jürgen Habermas, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari, 1985.
[21] M. Fattore, “Il paradigma della prevenzione”, Diritto di Difesa, 27 marzo 2020
[22] Corte Costituzionale, sentenza n. 59 del 1995
[23] Per una disamina dei rapporti tra principio di neutralità e tutela del segreto investigativo, si veda C. Intrieri – F. Piquè, La tutela del segreto esterno: “virgin mind” del Giudice e nuovi media, in Processo Penale e Giustizia, 2016