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L’AVVOCATURA COME AGENZIA INTERNAZIONALE NELLA PROMOZIONE DEL DIRITTO ALLA DIFESA – DI FRANCESCO IACOPINO  E DOMENICO BILOTTI

L’AVVOCATURA COME AGENZIA INTERNAZIONALE NELLA PROMOZIONE DEL DIRITTO ALLA DIFESA – DI FRANCESCO IACOPINO E DOMENICO BILOTTI

di Francesco Iacopino (*) e Domenico Bilotti (**)

Il presente intervento si propone di fare il punto su alcune esperienze di comparazione internazionale in materia penalistica, sostanziale e processuale. La fase che stiamo vivendo nell’ordinamento interno è il risultato di una lunga stagione di deprezzamento del contributo elaborativo dell’avvocatura e, ancor più, di un mutamento cronicamente espansivo tanto della legislazione penale quanto della politica criminale, che riverbera sulla fenomenologia applicativa del diritto vivente. A nostro avviso, l’associazionismo forense, lungo i vettori di una collaborazione interdisciplinare con gli studi accademici e di una partecipata consapevolezza procedurale, può far della sua misura deontologica il formante gnoseologico per un diritto penale autenticamente liberale. Un diritto penale, cioè, che sul piano tecnico-operativo ripristini il fulfillment assiologico dei principi costituzionali, avanzando al contempo una seria, prudente e rigorosa “stratégie d’exploitation”, atta a discernere il nucleo indefettibile delle garanzie legali davanti alla presente e a ogni futura e presunta emergenza. 

Il tempo presente – vissuto dal punto di vista di chi si occupa di giustizia penale – reclama un’esigenza di fondo: quella che si ricreino condizioni favorevoli per un discorso, privo di animosità e metodologicamente corretto, sul ruolo delle garanzie nel diritto e nel processo penale. Quel che occorre recuperare è una vera e propria igiene della discussione che sottragga il tema da animosità faziose e fondamentalismi ideologici di stampo manicheo, e che di certo deve muovere dagli apriori della democrazia costituzionale dei diritti e delle libertà, nell’orizzonte della giustizia penale: la legalità dei reati e delle pene, declinata nella ricchezza dei corollari che attuano le sue funzioni garantistiche, il modello del diritto penale del fatto, materiale e offensivo, la colpevolezza effettiva della imputazione personale di responsabilità, la funzione rieducativo-personalistica della pena, la presunzione di non colpevolezza, la regola in dubio pro reo, il contraddittorio quale metodo epistemico e diritto soggettivo di difendersi, la terzietà della funzione giudicante.
Qualsiasi discorso che riguardi il presente e il futuro della giustizia penale deve assumere come base condivisa, quasi una comune koinè, l’adesione a quella griglia di principi che incarnano i valori costitutivi della civiltà costituzionale.   
In questo contesto si è tradizionalmente collocata l’azione politica dell’avvocatura penalistica, alla quale occorre riconoscere il merito di aver riattualizzato il paradigma liberal-garantistico di giustizia penale, in qualche modo rivitalizzando energie che sembravano sopite anche nel contesto accademico, e più in generale, nella cultura del Paese.
Si tratta di una indicazione che occorre riprendere a tutti i livelli dell’esperienza giuridico-penale, in una sorta militanza civile di lotta per il diritto (Maiello), che faccia dei penalisti di oggi gli eredi della gloriosa stagione della penalistica civile di metà Ottocento, questa volta orientata alla difesa del nomos costituzionale e degli arricchimenti integrativi che discendono dal dialogo con la Carta europea dei diritti umani.
Sulle pagine del Riformista del 13 Febbraio del 2020, Gian Domenico Caiazza commentava in questi termini la riconosciuta illegittimità della retroattività delle norme ostative alle misure alternative alla detenzione, contenuta nella legge 9 Gennaio 2019, n. 3, legge opinabilmente rubricata anche nel passaparola delle agenzie di stampa “spazzacorrotti”. Quella legge era ed è, semmai, uno “spazzacorretti”, del tutto irrispettosa del principio individuato al secondo comma dell’articolo 25 della Carta costituzionale: nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. Secondo la costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ha fissato una nozione olistica della misura sanzionatoria afflittiva, di omologa natura sempre ancorché graduabile nell’effetto, impedire l’accesso alle misure alternative per un fatto già avvenuto, pregiudicando la posizione del soggetto dopo l’inveramento della condotta addebitatagli, non poteva che essere disposizione estranea alla legalità costituzionale interna, internazionale ed euro-unitaria.
Il legislatore, sovente seguito dagli altri poteri dello Stato, è da tempo impegnato in una crociata volta all’inasprimento delle pene e alla cronicizzazione degli stati detentivi, che oltre a essere incostituzionale è plasticamente inefficace all’atto pratico. Sulla testata già richiamata, Vincenzo Maiello, solo pochi giorni prima (il 31 Gennaio) – nel denunciare che il malessere di fondo della giustizia penale del nostro paese si riconnette alla dismisura quantitativa del catalogo dei reati – aveva rammentato come si fosse oramai dispersa nell’agire legislativo degli ultimi decenni una fondamentale direttiva di scienza penale, quella che vuole il diritto penale essere l’extrema ratio della politica sociale, il rimedio ultimo cui ricorrere allorquando il sistema non possa garantire altrimenti un’azione di tutela dei beni giuridici altrettanto performante. 
Il cane che abbaia più forte è quello che ha più paura; quello che punta in silenzio è in grado di sopravvivere meglio. Lo sapeva bene il laico Giovanni Spadolini, che fu efficace ministro della Difesa in anni assai controversi e problematici della storia repubblicana (dal 4 Agosto del 1983 al 17 Aprile del 1987): uomo di barra ferma, che però sapeva non esasperare la conflittualità, irrigidendo altrimenti posizioni antistoriche. Spadolini, peraltro, studioso dell’amnistia e suo equilibrato fautore: espressione di una fermezza sui principi del processo e dell’esecuzione di pena, quali emergenti dal dettato costituzionale, che tanti sceriffi, guardiani, fucilieri e ghigliottinai del giorno d’oggi nemmeno conoscono e perciò non sanno difendere.
Per ripristinare una legislazione penale conforme a Costituzione e giovevole alle criticità del presente, il ruolo di formazione e confronto culturale che può e deve suggerire l’avvocatura, dentro e fuori le aule dei procedimenti giudiziari, non sarà certo l’unico lievito o il solo farmaco, ma senza di esso è oggettivamente impossibile pensarsi.
Sono avvocatesse e avvocati alcuni tra i sostenitori di battaglie di civiltà ai quattro angoli del globo.
Sono avvocati, membri del CHD (il network associativo dei giuristi progressisti) e non solo, i soggetti per cui nei tribunali turchi si chiedono condanne fino a diciotto anni di reclusione, per il sol fatto di aver prestato la propria difesa a membri di persone giuridiche che sono state dichiarate illegali con provvedimento governativo o legislativo. Eppure, la cecità del governo centrale non coglie come la presenza dell’avvocato sia fondamentale alla celebrazione dei processi e viepiù all’eventuale comminatoria di pronunciamenti di condanna.
Sono avvocati quelli che stanno assistendo la famiglia del giovane studioso Giulio Regeni, rapito in Egitto il 25 Gennaio 2016 e ucciso dopo giorni di illegittimo trattenimento e torture. Avvocati, ancora, si occupano del procedimento per la liberazione dello studente bolognese Patrick George Zaky. Sono legali riuniti nell’Egyptian Initiative for Human Rights, che non si stancano, di là dai posizionamenti politici individuali, di rivendicare per il nuovo assetto istituzionale egiziano un percorso coerente e costituzionale che non scivoli, più o meno tacitamente, nel dominio extra ordinem di corpi militari, di Stato e non.
Non vogliamo, ricordando la drammaticità di questi passaggi, contrapporre al giudice immaginario tratteggiato da Ronald Dworkin, il giudice Ercole (nomen omen), un avvocato versione Sant’Alfonso de’ Liguori, canonista, matrimonialista e musicologo, protettore appunto dei legali e dei confessori, sebbene non trascuriamo l’opinione di chi, nel rileggere con raffinato approccio decostruzionista le pagine liguorine sui “doveri” dell’avvocato, ha ben rappresentato le ragioni per le quali ancora oggi i “comandamenti” alfonsiani costituiscano “un punto di riferimento per quanti, investiti dell’Ufficio del difensore, sono chiamati a conciliare il vincolo di dipendenza dalla responsabilità etica – e prima ancora le esigenze della giustizia – con il bisogno di assicurare protezione a chi lamenta insidia […] ai propri diritti” (Maiello).
Troviamo illusoria, oltre che non sempre rispettosa della multiforme qualità ma della ineliminabile irriducibilità ad unicum fenomenologico della funzione giurisdizionale, un’accezione del giudice quale quella plasmata dal grande giusfilosofo statunitense: un giudice demiurgo, che si occupa solo di hard cases, che trova soluzioni in the best light e che esercita le sue innegabili e straordinarie capacità preferibilmente inaudita altera parte. La giustizia performativa è quella del confronto dialogico che porta a selezione di argomenti, e non solipsismo nell’esercizio della giurisdizione. Alla stessa stregua, un avvocato santo, taumaturgo, sempre per definizione al riparo da qualunque censura morale, è un obiettivo irraggiungibile indicato all’orizzonte, ma non è per forza il divenire concreto delle dinamiche procedurali. Al giudice non si richiede esaltazione autoreferenziale monocratica; all’avvocato non si può associare l’esclusiva di ogni condotta filantropica.
Cerchiamo di sfuggire a tutte le opposte mitizzazioni di questo tipo. Esse hanno gravemente afflitto il dibattito sulla giustizia, facendone competizione tra visioni asseritamente inconciliabili e troppe volte caricaturali (il penale contro il civile, il giudice contro l’avvocato, il consulente d’ufficio contro quello di parte, la certezza della pena contro l’impunità, la garanzia contro la dilazione).  Cogliamo però, nella modestia del nostro impegno, che una buona sinergia tra saperi accademici interdisciplinari e sforzo applicativo libero-professionale per il modello accusatorio è accolta con favore dagli specialisti internazionali del ramo.
Nel Novembre del 2019 ci è stato dato modo di poter presentare il Manifesto dell’Unione delle Camere Penali per il diritto penale liberale presso l’università Loyola di Chicago, in occasione del Colloquio annuale dei costituzionalisti americani. A presiedere i lavori c’era il professor Barry Sullivan, uno dei decani della materia negli Stati Uniti, e illustre esponente della tradizione di cristianesimo sociale che nella dottrina nord-americana, a differenza di altre sensibilità confessionali, non si è mai negata il confronto col mondo delle professioni, con le ideologie di diverso orientamento, con la cooperazione e la sussidiarietà. È stata una sfida importante e, possiamo riconoscere, almeno parzialmente riuscita, non appena si faccia caso a come nella cultura legale pubblicistica americana gli aggettivi liberal e libertarian non abbiano lo stesso significato che hanno in Italia. Il liberal è un progressista, il libertarian è quello che oggi spesso chiamiamo “anarco-individualista”. Credevamo che fosse difficile spiegare che per noi il diritto penale è liberale non in quanto frutto di posizionamento politico o partitico, ma nel senso etimologico del suo statuto epistemologico. Quello che nella storia del diritto dottrinale italiano, da Pagano a Beccaria, punta e ha puntato all’eliminazione degli abusi del potere, alla difesa dei diritti degli imputati, alla ristorazione delle lesioni patite dalle vittime. Non siamo stati soli. I colleghi latino-americani in particolar modo hanno mostrato grande interesse per le nostre relazioni. Hanno vissuto in prima persona la disfatta giudiziaria di sistemi partitici superati, l’asprezza dei regimi militari autoritari, la tentata egemonia di modelli regolativi o forzatamente globalisti o strumentalmente populisti. Riconoscendo in noi istanze omologhe, hanno dato vita a un dibattito franco, aperto, a rete. E persino il professor Sullivan ha voluto salutare la sessione col suo apprezzamento. Sullivan, come molti illustri docenti americani, ha sempre proficuamente abbinato l’attività accademica alle responsabilità nella consulenza e nell’amministrazione. In uno dei suoi libri più noti, The Justice Revolution: a Biblical Response to Global Injustice, Sullivan, esponente di una tradizione accademica un tempo di estrazione esclusivamente gesuitica e spesso conservativa, oggi interroga gli strumenti della modernità giuridica. Cerca così di recuperare in essi l’anelito alla giustizia sostanziale, il contrasto all’anticipazione della soglia di tutela, la norma penale come extrema ratio nella disciplina legale sugli illeciti e la detenzione a propria volta come extrema ratio nella repressione dei più gravi tra i medesimi. 
Temi, tutti, che hanno permesso di registrare, sul versante del diritto penale liberale, una comune  sensibilità giuridica, pur nella diversità dei sistemi ordinamentali. Del resto, dietro il manifesto dell’Unione delle Camere Penali, elaborato dall’avvocatura penalista e dalle migliori espressioni dell’Accademia italiana, non riposa (solo) l’esigenza di tenere in vita un modello illuministico di giustizia liberale, ma di rendere effettivo il paradigma penale che negli anni -almeno sulla carta- è andato progredendo. Oggi, purtroppo, viviamo il tempo nel quale, dietro l’apparente rispetto di quella cornice di principi e di valori primari, nella realtà legislativa e nella prassi applicativa l’ideale di giustizia penale disegnato dai Padri costituenti rischia di ridursi a “vuoto simulacro”, un modello il cui corredo di garanzie risulta sempre più svuotato da un panpenalismo crescente, che viaggia spedito sui binari del diritto penale massimo o “totale” (Sgubbi), tanto sul versante delle scelte politico criminali quanto su quello del diritto vivente, di matrice giurisprudenziale. Di fronte alla “crisi” della legalità sostanziale e processuale, accentuata dalla transizione in atto dalla riserva di legge alla riserva di diritto, è allora necessario che l’avvocatura e l’accademia assumano responsabilmente il ruolo e la funzione di guardiani in difesa delle garanzie costituzionali, rispetto ai tentativi di aggiramento e manipolazione posti in essere da un legislatore populista e da prassi giurisprudenziali sbilanciate sulle (sole) istanze di difesa sociale.
Viviamo tempi problematici e quanto mai incerti, in cui una pandemia forse sottovalutata nella sua genesi virologica costringe oggi a ripensare tante delle categorie che avevamo dato e vissuto per acquisite, ombra necessaria al riparo dalle pulsioni identitarie, umorali, populistiche. In altre parole, sempre più piccolo, ma positivo, formalizzato, porto sicuro contro le tentazioni autoritarie che albergano nelle componenti più strumentali e deleterie di ogni società politica. Come temevano, da sponde molto diverse, Habermas e Popper, come i nostri costituenti ben sapevano, sol che proviamo a rileggere l’intensità posizionale e la qualità redazionale dei lavori preparatori dell’Assemblea, per gli articoli dal 13 al 28 della nostra Carta, dedicati ai rapporti civili.
Il nostro compito, da cittadini prima che da studiosi, da professionisti prima che da convinti assertori delle realtà associative all’interno delle quali esprimiamo il nostro impegno, è quello di essere, rispetto all’emergenza da Corona-virus, partecipi di un nuovo senso di responsabilità nell’opinione pubblica, ma anche un monito contro qualunque segno di arbitrarietà e sopruso che venisse dalla classe politica o dal mondo dell’informazione o dall’agone decisionale-economico internazionale.
Nel corso dell’estate tenteremo, perciò, se le evenienze mediche collettive ce lo consentiranno, di preservare questa identica propensione metodologica, che è emersa confrontandoci con colleghi ricercatori e avvocati di altri ordinamenti, parimenti impegnati a difendere una visione garantistica e tuzioristica del processo e nel processo, come architrave di una legislazione più equa e meno estemporanea. Interverremo a Praga, al convegno annuale che l’Accademia nazionale delle Scienze dedica nella capitale ceca agli studiosi francesi Félix Guattari e Gilles Deleuze. Il tema del consesso previsto per l’anno in corso è di peculiare interesse per i giuristi, quelli teorici e quelli pratici uniti a tenere a bada uno degli snodi fondamentali del diritto: il rapporto tra lo spazio e la giustizia. In quella sede parleremo di extra-territorialità e di competenza territoriale, oltre che di trasferimento coattivo da un territorio all’altro. A seguire, parteciperemo a Bratislava al VII Convegno mondiale delle politiche penitenziarie, che in una dinamica diffusamente interdisciplinare affronterà il tema della detenzione in una prospettiva comparatistica. Crediamo che l’avvocatura italiana possa avere un ruolo di promozione culturale nelle poliedriche sub-diramazioni della scienza penalistica, che si tratti del cd. penale associativo, del penale amministrativo o societario, del penale ecclesiastico. Fortemente omogenea a nostro avviso dev’essere la prospettiva d’analisi del giurista, che cerchi così di cogliere le complesse sfumature del reale senza retrocedere dalla lungimirante attitudine inclusiva assiologico-costituzionale.
Quando ancora nemmeno studiavamo nelle facoltà di giurisprudenza dove ci siamo formati, due film dello stesso anno (era il 1993) raccontavano l’avvocatura come un pericoloso Giano bifronte. In “The Firm” (il Socio), con la regia di Sydney Pollack e il soggetto di John Grisham, si investigava la penetrazione corruttiva che può traviare e depotenziare dall’interno una categoria forense priva di deontologia. Il proscenio era Memphis, una città apparentemente periferica, eppure sede di interessi economici ingenti che spesso si uniscono ad amministrazioni securitarie, più pronte alla marginalizzazione del disagio sociale o all’estremizzazione dei verdetti di condanna che non al buon andamento della giustizia. In “Philadelphia” (la regia era di Jonathan Demme e il soggetto di Ron Nyswaner), Tom Hanks e Denzel Washington ripristinavano la bellezza intrinseca che cerchiamo nei codici, nelle costituzioni, nelle toghe. Un avvocato bianco, egemone, in voga, che scopre sulla propria pelle la segregazione data dalla sieropositività; lo soccorre, in un giudizio in materia di diritto antidiscriminatorio, e non potendo evitarne la morte, poiché l’avvocato un taumaturgo non è, un avvocato di colore, un outsider. Ancora una volta, l’avvocato consente la tutela del buon diritto; ancora una volta l’avvocato consente la celebrazione del processo.
Nella colonna sonora di quel film la principale composizione inedita era una canzone di Bruce Springsteen. Due anni dopo, lo stesso musicista dedicò un album intero alla letteratura di Steinbeck, non a caso così rivalutato negli studi privatistici e costituzionali di law & literature in Europa e negli Stati Uniti: “The Ghost of Tom Joad”. Nel singolo tratto dalla splendida collezione di canzoni, il protagonista promette di continuare a far del suo meglio, anche se il suo meglio non è mai stato abbastanza. Avvocatura e accademia, per la promozione internazionale dei diritti della difesa e per un processo giusto, non strattonato dalle sirene emergenziali o dalle inettitudini regolative, devono continuare a far del loro meglio. Finanche scoprissimo che il nostro meglio non sarà stato abbastanza. 
 


 
(*) avvocato presso il Foro di Catanzaro
componente Osservatorio Misure Patrimoniali e di Prevenzione – Unione delle Camere Penali Italiane
 
(**) docente di Storia Contemporanea e delle Religioni 
Università Magna Graecia di Catanzaro – Dipartimento di Giurisprudenza Economia e Sociologia