SECONDO GRADO DI MERITO E PRESUNZIONE DI INNOCENZA – DI STELLA ROMANO
di Stella Romano[1]
1. Il nesso tra principio di presunzione di innocenza e secondo grado di merito. 2. Il diritto fondamentale all’appello. 3. Considerazioni conclusive
1. Il nesso tra principio di presunzione di innocenza e secondo grado di merito.
Occorre, in prima battuta, delineare il nesso tra il principio di presunzione di innocenza e l’effettività di un secondo grado di merito.
La presunzione di innocenza appartiene alla species dei principi[2]: non tanto perché è norma costituzionalizzata nell’art. 27 della Costituzione, quanto perché assolve ad un ruolo precipuamente costituzionale, cioè “costitutivo dell’ordine giuridico”. Accogliere in un dato ordinamento il principio in questione significa ben altro, o comunque, molto di più, che disegnare in certi termini “la posizione dell’imputato rispetto all’accusa”[3].
Significa, invece, e molto più impegnativamente, abbracciare una specifica visuale processuale ed insieme una filosofia politica, ove assume un ruolo centrale il rapporto tra individuo e potere; atteso che nelle relazioni tra individui e gruppi quanto maggiore è la libertà, tanto minore è il potere, e viceversa, <<è buona e quindi desiderabile e propugnabile di volta in volta>> affermava il grande Bobbio, <<quella soluzione che allarga la sfera della libertà e restringe quella del potere>>: in tale nocciolo duro si può dire risiedere il significato politico più profondo di tale principio.
Lo stesso Aldo Moro, al momento del confezionamento dell’art. 27 della Costituzione in seno all’Assemblea Costituente, rilevava che si può discutere in sede dogmatica se e quando vi sia una presunzione di innocenza in senso stretto; ma in sede di Commissione preparatoria della Costituente si deve considerare il profilo politico della questione. E quindi, la presunzione di innocenza, come una forma di garanzia della libertà individuale, come un ulteriore impedimento di quell’arbitrio che si potrebbe verificare qualora l’imputato o arrestato o detenuto fosse già considerato come qualificato in senso negativo della società.
Parole che riecheggiano anche nel pensiero di illustri studiosi del processo penale che hanno affermato come tale principio non è altro che <<il presupposto logico e, in un certo senso, la sintesi di tutte le garanzie poste a tutela dell’individuo nei confronti della giurisdizione penale>> (prof. Ubertis).
La presunzione di non colpevolezza in altri termini è legata a doppio filo al modello garantista della giurisdizione penale, ma è anche ‘un corollario logico del fine razionalmente assegnato al processo’[4], l’essenza stessa del processo penale, nel senso che il verificare l’ipotesi di colpevolezza assume un preciso valore proprio perché nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva, come recita, appunto, l’art. 27, comma 2, Cost.
Sarebbe, dunque, riduttivo pensare alla presunzione d’innocenza solo in chiave garantista o nel suo rapporto con le altre garanzie processuali, perché ogni sua limitazione o riduzione porta con sé una limitazione e una riduzione non solo del tasso di garantismo di un sistema processuale, ma anche, se non soprattutto, della capacità cognitiva del processo penale[5].
Ne deriva che, al di là delle ricorrenti questioni definitorie sulla genesi o ampiezza del principio, il portato precettivo della garanzia si evidenzia in tutta la sua chiarezza in collegamento con l’esigenza cognitiva sottesa, ed è da intendersi quale regola di trattamento e di giudizio[6]: il tema della verifica processuale è la colpevolezza che deve essere accertata rigorosamente, oltre ogni ragionevole dubbio; ed in mancanza di tale risultato, l’imputato va assolto.
La presunzione di innocenza funge, dunque, da catalizzatore di tutte le altre più rilevanti garanzie del processo, come il diritto di difesa, il contraddittorio, l’imparzialità del giudice, e si rafforza nel suo valore cogente lungo l’intero sviluppo processuale, portando con sé una graduazione delle altre garanzie di contesto implicate dal principio[7] e non ultima: il principio del doppio grado di giurisdizione.
I principi d’altronde, lo sappiamo, hanno sempre un’eccedenza assiologica e la presunzione di innocenza è tanto più necessaria proprio a seguito dell’affermazione di responsabilità, quando, cioè, l’imputato deve controbilanciare non già la mera formulazione di una ipotesi accusatoria del pubblico ministero, bensì un vero e proprio decisum cristallizzato in una sentenza.
Del resto, ogni norma costituzionale va letta in collegamento con le altre: il modello processuale che emerge da una lettura combinata degli artt. 2, 24, 2 comma, e 27, 2 comma, è inequivocabilmente articolato su almeno due gradi di giudizio.
2. Il diritto fondamentale all’appello.
L’appello è espressione del diritto di difesa, il cui esercizio è tanto più essenziale nelle ipotesi di condanna, date le sue implicazioni con le libertà coinvolte, ed in primis con il super valore primario della libertà personale (artt. 13 e 24, comma 2, Cost.).
Allora, sempre in una lettura costituzionalmente orientata, si potrebbe ritenere che sarebbe proprio quel principio/diritto costituzionale, intimamente connesso e propulsivo dell’ulteriore valore della presunzione d’innocenza ad esigere per il condannato nel giudizio di prime cure le più ampie occasioni per consentirgli di dimostrare la fallacia della decisione impugnata.
Per vero, già la più attenta dottrina, all’indomani della riforma del ‘99 sull’art. 111 Cost., con l’introduzione del giusto processo, in ragione della rafforzata fisionomia costituzionale che attribuisce all’imputato il diritto di esaminare i testi davanti al giudice, rilevava l’opportunità di prevedere in via ordinaria la riassunzione delle prove dichiarative nel procedimento di appello[8]. La previsione costituzionale, difatti, si osservava, non autorizza distinzioni di sorta fra i diversi gradi di giudizio. In altri termini, era la stessa opzione per un modello accusatorio a spingere per una rimeditazione complessiva del sistema delle impugnazioni, apparendo quantomeno singolare mantenere il “vecchio” appello ed il giudizio di cassazione a fronte di un dibattimento di primo grado totalmente “rinnovato”, nelle forme, nei contenuti e nella stessa regola di giudizio; in tal modo generando quella che la stessa Corte costituzionale – nella nota sentenza n. 26 del 2007 – sulla legge Pecorella – aveva definito come “tensioni interne al vigente ordinamento processuale, connesse al mantenimento di impugnazioni di tipo tradizionale nell’ambito di un processo a carattere tendenzialmente accusatorio”.
Infatti, nella giurisprudenza della Corte costituzionale, che pur ha sempre respinto un’impostazione volta ad ammettere una costituzionalizzazione dell’appello, è possibile imbattersi in una trama di argomentazioni molto significative attraverso le quali il diritto al doppio giudizio trova risposte positive e specificazioni sul ruolo che può svolgere nelle vicende processuali penali. Si precisa che le impugnazioni costituiscono un’estrinsecazione del diritto di difesa ed uno strumento di tutela per fare valere la propria innocenza. Si rimarca come questo diritto da un lato non possa essere sacrificato da esigenze deflattive, dall’altro che non è di pari caratura ed intensità rispetto ai poteri da conferire al pubblico ministero.
Alla giurisprudenza della Corte costituzionale si associano, in difesa ed a sostegno del doppio grado di merito, i riferimenti internazionali, per cui l’art. 14, par. 5, del Patto Internazionale sui diritti civili e politici precisa che “Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”.
Nel Patto internazionale, dunque, il diritto di impugnazione è compreso tra i diritti fondamentali dell’accusato e non tra i diritti che debbano necessariamente spettare alle “parti” di un processo in quanto tali; ciò significa che sarebbe tecnicamente ammissibile e tollerabile un’architettura del processo penale nella quale non fosse prevista – o fosse prevista in termini estremamente ridotti – la possibilità di impugnazione del titolare dell’azione penale. Contrariamente a ciò, sembra invece innegabile che l’imputato debba poter esercitare il diritto di ribaltare una condanna[9].
A ciò si aggiunge l’art. 2 del 7 Protocollo aggiuntivo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che stabilisce che “Chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale ha il diritto di sottoporre ad un Tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna. L’esercizio di questo diritto, ivi inclusi i motivi per cui esso può essere invocato, sarà stabilito per legge. Nel contesto assiologico della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il diritto all’impugnazione è dunque inquadrato tra i diritti fondamentali dell’accusato: esso si eleva a categoria giuridica in atto che porta con sé una profonda dimensione etica, indicando non già il contenuto della regola del diritto, ma il diritto del diritto, vale a dire la regola del giudizio, che permette di tracciare il limite tra ciò che può o non può essere diritto.
Peraltro, la Corte costituzionale, con particolare riferimento ai limiti di operatività del 1 comma dell’art. 2 del Protocollo 7 ha affermato che la previsione è volta ad assicurare un’istanza con la quale fare valere eventuali error in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati.
D’altronde, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed il Patto internazionale sui diritti civili e politici rappresentano, insomma, un corpo di norme idoneo a configurare un più ampio modello di garanzie processuali: il diritto fondamentale dell’individuo ad un processo equo e giusto ben si coniuga con il principio del doppio grado di giurisdizione di merito.
Anche la chiave comparatistica, ossia di confronto tra i diversi sistemi, suggerisce l’evidenza che il diritto ad un secondo grado di giudizio è un elemento fondamentale dei diritti fondamentali civili e politici. Orbene, va subito detto che il sistema impugnativo nei Paesi di Common Law è sostanzialmente caratterizzato da una molteplicità di strumenti cui può farsi ricorso al fine di ottenere il riesame della decisione di prima istanza.
Nel sistema impugnativo francese, è consentito alle parti private ed al pubblico ministero di ottenere un riesame, in fatto e in diritto, della sentenza pronunciata in primo grado, in una sostanziale corrispondenza con il sistema italiano. Anche, nel sistema tedesco, con riferimento ai principi generali, sono riscontrabili delle analogie relativamente agli effetti connessi alla proposizione del gravame, alla legittimazione attiva ed ai motivi posti a fondamento dell’impugnazione. L’appello, dunque, può essere proposto, per questioni di fatto e di diritto, avverso la sentenza pronunciata dal tribunale.
A fronte di tale excursus, una prima conclusione si impone: il principio del riesame delle decisioni giudiziali è universalmente accolto da tempo in ogni tipo di processo, sicché può dedursi che il richiamo effettuato dalla norma internazionale alle norme del diritto interno, mediante un’interpretazione teleologica delle fonti internazionali, operi in funzione di promozione del diritto individuale ad un doppio grado di giurisdizione, anche a livello di garanzia internazionale del processo “equo”.
Se il fine ultimo del “giusto” processo è e deve essere l’accertamento della verità e, quindi, la realizzazione della giustizia sostanziale, se il dubbio metodico deve animare il giudice, non può revocarsi in dubbio che l’istituto dell’impugnazione costituisce proprio un indispensabile strumento per il raggiungimento di tale fine.
3. Considerazioni conclusive.
Da qui, la complessa tematica su cui vorrei appunto svolgere considerazioni conclusive sul ruolo dell’appello come luogo di acquisizione probatoria e, quindi, come effettivo secondo grado di merito, nell’ambito della complessiva architettura del processo penale.
Il legislatore italiano, lungi dall’aver considerato il procedimento d’appello come novum iudicium, lo ha collocato nella categoria dei controlli, con la possibilità di una verifica critica su iniziativa di parte, della decisione di cui si presuppone l’esattezza. Trattasi, in definitiva, di un giudizio di legalità e, ben può dirsi, di un sindacato sull’attività del giudice nel quale l’organo superiore “custodit ipsos custodes”.
In tali esatti termini, con la legge n. 103 del 2017, ossia la riforma Orlando, il legislatore ha cercato di circoscrivere la dichiarazione di appello, imponendo che nella stessa siano ben indicati, a pena di inammissibilità, non solo i motivi di doglianza, ma ogni singola ragione che li sorregge, in fatto e in diritto; non solo le richieste ma anche le ragioni sulle quali esse si fondano ed, in maniera particolare, le prove delle quali si deduca l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa valutazione.
E mette conto di rilevare, a questo proposito, che proprio la sentenza della Corte EDU, Sez. I, 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia, richiamata dalle Sezioni Unite Galtelli per confermare la piena compatibilità delle scelte adottate in tema di estensione della aspecificità estrinseca anche ai motivi di appello, ribadisce <<che il legislatore, nell’ambito del suo margine di apprezzamento, può imporre requisiti formali anche rigorosi per l’ammissibilità dell’impugnazione, a condizione che questi rispettino il principio di proporzionalità, ovvero: non siano tali da vanificare il diritto a una pronuncia di merito attraverso l’imposizione di eccessivi formalismi, siano chiari e prevedibili, non impongano eccessivi oneri alla parte impugnante per l’esercizio del diritto di difesa>>.
Ma appare che, in direzione opposta, sia andata la riforma Orlando che ha perduto questa occasione per ridisegnare, nel quadro generale delle nuove linee guida della disciplina dell’appello, un diverso procedimento incidentale di controllo della introduzione della impugnazione più rispettoso della compartecipazione in contraddittorio delle parti appellanti, esposte, senza potere esprimere le loro ragioni, alla possibile cancellazione della celebrazione di un secondo processo di merito, e lasciando così ancora una volta al diritto giurisprudenziale un difficile onere di bilanciamento e di coordinamento ermeneutico nelle prassi applicative per un apprezzamento di ammissibilità dell’impugnazione proposta, ed il rischio di negazione radicale di posizioni giuridico-processuali soggettive fondamentali oggetto di tutela sovranazionale[10].
Nella direzione, invece, di perfetta adesione alla giurisprudenza europea sulla valorizzazione dell’istruttoria e del contraddittorio nella formazione della prova, è stata la scelta dell’introduzione dell’art. 603, comma 3 bis, c.p.p., per cui in caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruttoria.
Una scelta legislativa che, tuttavia, seppur aderente ai postulati del contraddittorio in senso forte, si potrebbe definire monca, nella parte in cui non contempla la rinnovazione della prova dichiarativa pure quando con l’appello si voglia ottenere un’assoluzione dopo la condanna, come se l’imputato assolto in primo grado abbia diritto ad un equo processo di appello, mentre l’imputato condannato, che pure critichi la sentenza per motivi attinenti alla valutazione della prova, possa accontentarsi di un secondo grado di qualità inferiore.
Il dato normativo, dunque, creerebbe un’inaccettabile disparità di poteri fra pubblico ministero ed imputato a cui vengono affidate occasioni di intervento diverse, sul piano probatorio, per correggere una sentenza che si ritiene sbagliata.
Né una dissimmetria di poteri sarebbe giustificabile – utilizzando le argomentazioni addotte dalle Sezioni unite Dasgupta per spiegare la diversità di disciplina – rilevando che per emettere una pronuncia liberatoria è sufficiente un dubbio, mentre per la condanna è necessario un giudizio di responsabilità in termini di certezza. Invero, così argomentando, si confonde lo standard decisorio con il tema probatorio.
Del resto, e per tornare alle premesse di tale contributo, si vuole dire che il comma 2 dell’art. 27 Cost., ossia il principio di presunzione di innocenza nella sua valenza politica primaria, oltre ad imporre al pubblico ministero di dimostrare la colpevolezza dell’imputato, prescrive anche al legislatore di adottare uno standard probatorio più solido, in modo tale da rimarcare le differenze fra accusa e difesa, in una lettura combinata di tutte le norme costituzionali in campo.
Ed occorre chiedersi se come ha stabilito la Cassazione a Sezioni Unite del 3 aprile del 2018 sia sufficiente a garantire l’equo processo lo schema tradizionale della motivazione rafforzata qualora l’appellante sia l’imputato.
Ora, si è consapevoli che la celebrazione dell’istruttoria dibattimentale in tutti i giudizi di appello che siano finalizzati ad un ribaltamento del precedente epilogo, in forza di una differente valutazione delle prove orale, comporterebbe un allungamento dei tempi di definizione del processo, ledendo, così, il diritto alla ragionevole durata, con conseguente rischio, pure, di maturazione dei tempi di prescrizione del reato[11]. Tuttavia, è risaputo, lo ha affermato la Consulta, che, pur essendo il primo un valore costituzionalmente protetto, la sua tutela non può mai giustificare la compressione delle regole del giusto processo o il diritto di difesa, come accadrebbe in questa evenienza.
D’altronde le vere criticità del giudizio di appello risiedono altrove. È bene nuovamente rimarcare, con riguardo alla durata del giudizio di appello, che buona parte dei quasi due anni e mezzo che esso attualmente richiede sono imputabili a “tempi di attraversamento” che nulla hanno a che vedere con la celebrazione del giudizio (attesa degli atti di impugnazione; collazione degli stessi; avvisi alle parti; predisposizione dei fascicoli da trasmettere alla Corte d’appello; trasmissione degli stessi; registrazione; fissazione del giudizio; avvisi alle parti), sicché lo snellimento delle procedure legali, l’attribuzione di maggiori risorse umane e tecnologiche e un migliore utilizzo di esse potrebbe ridurre drasticamente la durata media del secondo grado[12].
A fronte di questi dati, l’unico ragionamento costituzionalmente ortodosso è il seguente: ammesso e non concesso che l’efficienza processuale penale sia un bene costituzionalmente protetto dal principio di durata ragionevole, e posto che comunque il processo può essere efficiente solo in relazione al conseguimento del suo fine precipuo, o meglio unico, che è il risultato cognitivo, il presunto valore concorrente della ragionevole durata non sarebbe altro che un rafforzamento della presunzione d’innocenza che con essa non entra né in contrasto né in bilanciamento[13].
Il processo deve così ispirarsi ad un criterio di efficienza cognitiva, deve essere condotto in modo tale che si accerti pienamente e nel minor tempo possibile la colpevolezza o meno dell’imputato. Proprio il principio di efficienza cognitiva vieta ogni scorciatoia che riduca l’orizzonte conoscitivo del giudice. Se a ciò si aggiunge la profonda riflessione che la ragionevole durata deve riguardare non un processo purchessia, ma il giusto processo, come ha statuito la stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 317 del 2009, la conclusione ulteriore non può che essere quella di misurare il tempo ragionevole del processo sulla completa attuazione di tutte le garanzie e sul raggiungimento di una piena cognizione della regiudicanda[14].
Perché in ultima analisi e concludo: il diritto di appello è direttamente connesso con i diritti inviolabili dell’uomo. Se la decisione deve essere corretta e imparziale, se non deve esservi violazione della garanzia del dovuto processo legale, finalizzato al raggiungimento di fini di giustizia ed all’accertamento della verità, non può revocarsi in dubbio che il diritto d’appello abbia una valenza costituzionale[15], soprattutto laddove si consideri l’art. 2 Cost. quale clausola aperta ed il principio personalista, <<linfa circolante nell’intero ordinamento>>, <<argine garantistico contro ogni strumentalizzazione del singolo ad una totalizzante ragione di Stato>>, principio <<che esprime una priorità di valore: non è la persona per lo Stato, ma lo Stato è per la persona>>.
[1] Componente Osservatorio Corte Costituzionale UCPI. Relazione scritta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti, Brescia, 21-22 febbraio 2020.
[2] V. Garofoli, Presunzione d’innocenza e considerazione di non colpevolezza. La fungibilità delle due formulazioni, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, Giuffrè, Milano, 1998, pag. 1169.
[3] Cass., 27 luglio 1966, in Cass. Pen. Mass. Ann. 1967, pag. 300.
[4] L. Lucchini, Elementi di procedura penale, Firenze, 1899, pag. 15.
[5] O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 2019, pag. 2.
[6] O. Dominioni, Le parti nel processo penale. Profili sistematici e problemi, Milano, 1985, pagg. 234 ss.
[7] O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 2019, pag. 2.
[8] Sul problema del doppio grado di giurisdizione, inteso come riscontro di merito della pronuncia di primo grado, cfr., in generale, fra i tanti P. Ferrua, Appello (dir. proc. pen.), Enciclopedia Giuridica, XII, Roma, 1989, pag. 1; C.Taormina,Sistema delle impugnazioni e struttura del processo penale, in Il codice di procedura penale. Esperienze, valutazioni, prospettive, Milano, 1993, pag. 184.
[9] G.L. Verrina, Doppio grado di giurisdizione, convenzioni internazionali e Costituzione, in Le impugnazioni penali, Trattato diretto da A. Gaito, Utet, Torino, 1998, pag. 146.
[10] G. Pierro, La specificità estrinseca dei motivi d’appello tra Sezioni Unite e Riforma Orlando, in Diritto Penale e Processo n. 3, 2018, pag. 313.
[11] H. Belluta, Oltre Dasgupta o contro Dasgupta? Alle Sezioni Unite decidere se larinnovazione è obbligatoria anche in caso di overturning da condanna a proscioglimento, in www.penalecontemporaneo.it, Riv.Trim. n. 10, 2017,pag. 297.
[12] Cfr. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2019 del Primo Presidente della Corte di Cassazione, Dott. Giovanni Mammone.
[13] O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 2019, pag. 6.
[14] O. Mazza, La presunzione d’innocenza messa alla prova, in www.penalecontemporaneo.it, 2019, pagg. 6-7.
[15] Cfr. E.T. Liebman, Il giudizio d’appello e la Costituzione, Rivista di diritto processuale, 1980, pag. 409.