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L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA ISRAELE ED ITALIA: IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA DI STRASBURGO NELL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE ITALIANA – DI CARLOTTA MARIA CAPIZZI

L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA ISRAELE ED ITALIA: IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA DI STRASBURGO NELL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE ITALIANA – DI CARLOTTA MARIA CAPIZZI

CAPIZZI – L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA ITALIA E ISRAELE.PDF

L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA ISRAELE ED ITALIA: IL RUOLO DELLA GIURISPRUDENZA DI STRASBURGO NELL’EVOLUZIONE GIURISPRUDENZIALE ITALIANA

LIFE IMPRISONMENT’S DETAINEES BETWEEN ISRAEL AND ITALY: THE ROLE OF THE EUROPEAN COURT OF HUMAN RIGHTS IN ITALIAN JURISPRUDENCE

di Carlotta Maria Capizzi*

Con questo breve articolo, l’Autrice offre una visiona comparata dell’ergastolo ostativo come interpretato e disciplinato in Italia e Israele. Partendo dalle ragioni, storiche e sistematiche, ispiratrici della creazione di categorie “speciali” di detenuti, individuate in Israele nei c.d. “Security prisoners” condannati all’ergastolo e, in Italia, nei condannati c.d. ergastolani ostativi, per arrivare a valutare similitudini e differenze delle discipline dei due Paesi attraverso un’analisi, in chiave comparata, dell’approccio giurisprudenziale della Corte Suprema Israeliana e della Corte costituzionale italiana con particolare riguardo, anche, alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.    

The author proposes a comparative analysis of life imprisonment’s discipline in Italy and Israel, with specific regard to the prohibition for detainees sentenced to life imprisonment to access specific prisons’ benefits, such as early release. The work starts from the historical reasons behind the creation of special disciplines of imprisonment for specific categories of detainees, in particular on the reasons behind the creation of the so called “Security Prisoners” in Israel and the “ergastolani ostativi” in Italy. Furthermore, the author tries to explain the differences and similitudes between the two disciplines by analyzing them through the lens of the Israel Supreme Court and the Italian Constitutional Court. In the end, the work focused on the role of the European Court of Human Rights in stressing a progressive approach of the Italian Constitutional Court.

Sommario: 1. Premessa: la scelta di Israele come oggetto di comparazione giuridica in tema di ergastolo ostativo.  – 2. La ratio ispiratrice di una disciplina ad hoc: la sicurezza pubblica. – 3. “Security Prisonsers” e condannati all’ergastolo ostativo, similitudini e contraddizioni. – 4. La Corte Suprema Israeliana: quale spazio per il right to hope?  – 5. L’ergastolo ostativo in Italia: la Corte EDU come esempio di sollecito esterno6. Conclusioni.

 

  1. Premessa: la scelta di Israele come oggetto di comparazione giuridica in tema di ergastolo ostativo

 Preliminarmente si ritiene di chiarire le ragioni che hanno suggerito, non solo un’analisi comparata dell’istituto dell’ergastolo ostativo, ma, soprattutto, di rivolgere, tale analisi, allo stato di Israele in rapporto a quello italiano. La necessità di osservare l’ergastolo ostativo attraverso le lenti della comparazione giuridica deriva dalla necessità, per ogni diritto, di essere interpretato non tanto (e non solo) alla luce della propria disciplina nazionale ma anche (e soprattutto) in relazione alle diverse interpretazioni e applicazioni che, di siffatto diritto, fanno altri Paesi e sistemi, con il fine, ultimo, di capire il diritto (e i diritti) non come geograficamente determinati ma nel loro significato assoluto e trascendentale. In particolare, il diritto alla libertà personale, così come tutti i diritti fondamentali, non può essere completamente compreso se interpretato limitatamente a un determinato ordinamento nazionale, essendo questo di tale pregnanza da influenzare tanto gli ordinamenti nazionali che quelli sovranazionali e internazionali. In particolare, si ritiene, le limitazioni alla libertà personale, non devono sfuggire a un’analisi comparativamente orientata al fine di determinarne la legittimità non solo nazionale ma anche (e in particolar modo) sovranazionale[1]. Si ritiene che la disciplina relativa al c.d. ergastolo ostativo sia paradigmatica nel dimostrare come ordinamenti nazionali e sovranazionali dialoghino nella determinazione di quali siano i confini di una pena che non coinvolga trattamenti disumani e degradanti. Per quanto, infatti, la ratio ispiratrice della disciplina di cui all’art. 4 bis OP sia apparsa, alla giurisprudenza nazionale, confacente ad assicurare un trattamento penitenziario costituzionalmente legittimo ai c.d. ergastolani ostativi, lo stesso non si può dire per la giurisprudenza convenzionale, la quale ha giocato un ruolo imprescindibile nell’erosione dell’art. 4 bis OP. Allo stesso tempo, l’assenza di una Corte capace di influenzare la giurisprudenza della Corte Suprema Israeliana, ha impedito a questa ultima di riconoscere la condanna al “fine pena mai” dei “Security Prisoners” come idonea a integrare un trattamento penitenziario insensibile ai diritti fondamentali dei detenuti.

In relazione alla disciplina dell’ergastolo ostativo, si è quindi ritenuto di avvicinare il sistema italiano a quello israeliano in quanto, in quanto, non solo entrambi condizionano l’accesso a taluni benefici penitenziari a seconda della tipologia di detenuto ma collegano tale distinzione all’appartenenza dei detenuti a specifiche categorie di reati, a loro volta legate ad un presunto status del detenuto che lo renderebbe particolarmente “socialmente pericoloso” non tanto per la collettività, quanto per l’integrità dello Stato stesso. Entrambi gli Stati considerati, infatti, conoscono fenomeni socio-culturali di tal portata e influenza da determinare una particolare pulsione punitiva nei confronti di determinate categorie di condannati. Se in Italia tale categoria di detenuti è identificabile negli appartenenti alla criminalità organizzata o ad organizzazioni terroristiche ovvero eversive dell’ordine democratico; in Israele, allo stesso modo, i c.d. “Security Prisoners” vengono identificati, sostanzialmente, negli esponenti del c.d. “terrorismo” palestinese, che attenterebbe alla sicurezza dell’intero stato israeliano. Entrambe le discipline derivano da circostanze storiche particolari che hanno determinato un mutamento (anche) nella sensibilità giuridica dei due Paesi, seppur in modo parzialmente diverso. Storicamente, infatti, se l’introduzione dell’art. 4 bis OP è da collegarsi, come noto, all’avvertita necessità di contrastare, con ogni mezzo possibile, in particolare, la mafia italiana, la creazione della categoria dei c.d. “Security Prisoners” è indissolubilmente legata ai moti definiti “terroristi” dei palestinesi nei confronti dello stato israeliano[2]. Entrambe le discipline, quindi, derivano dalla necessità di trovare una risposta giuridica alla pulsione sociale di vedere, non solo, represse organizzazioni volte a minare alla stabilità (nonché alla stessa esistenza) dello Stato (rispettivamente italiano e israeliano), ma, anche, adeguatamente puniti i responsabili di azioni violente inserite o inseribili all’interno del piano criminale di siffatte organizzazioni. Tale pulsione è stata sublimata, da entrambi gli Stati, nella creazione di un aggravio alle condizioni detentive dei condannati per determinate categorie di delitti, assoggettabili, appunto, all’appartenenza alle sopramenzionate organizzazioni criminali. A tale vicinanza delle ragioni giustificatrici alla base delle discipline che si cercherà di valutare nel proseguo della presente trattazione s’accompagna, tuttavia, una differenza nel ruolo della giurisprudenza nell’interpretazione, applicazione e (anche) modificazione della relativa disciplina. Circostanza che suggerisce, per le ragioni che si diranno, un diverso grado di flessibilità della stessa normativa nei due paesi, con tutte le conseguenze, positive e negative, del caso.

Ad una breve analisi del contesto socio-culturale in cui sono nate le categorie dei condannati all’ergastolo ostativo e dei c.d. “Security Prisoners” seguirà, quindi, un approfondimento delle due discipline, volto a individuarne similitudini e differenze, cui, a sua volta, seguirà l’analisi di alcune delle maggiori pronunce, rispettivamente, della Corte Suprema israeliana e della Corte costituzionale, con riguardo, anche al ruolo della giurisprudenza della Corte EDU.

  1. La ratio ispiratrice di una disciplina ad hoc: la sicurezza pubblica

Prima di addentrarsi nell’analisi della disciplina riservata, rispettivamente, ai “Security Prisoners” e agli ergastolani ostativi, appare opportuno evidenziare le ragioni alla base della creazione di diverse categorie di detenuti.

In primo luogo si evidenzia che, storicamente, entrambe le categorie di detenuti (“Security Prisoners” ed ergastolani) sono il prodotto della necessità, di entrambi i Paesi, di contrastare dei fenomeni criminali percepiti come particolarmente pericolosi per la sicurezza della nazione o, comunque, della maggior parte della collettività. Da un lato, infatti, il governo israeliano avverte la necessità di reprimere quello che identifica come terrorismo palestinese, dall’altro, l’Italia ha sviluppato la disciplina dell’ergastolo ostativo come risposta alla criminalità organizzata, in particolare di stampo mafioso. Entrambe le discipline sono quindi, sostanzialmente, orientate a limitare i diritti di determinate categorie di detenuti alla luce della loro particolare pericolosità sociale, desunta dall’appartenenza di questi ultimi a specifici gruppi organizzati. In questo senso, entrambe le discipline sono quindi orientate a cercare di rompere i legami che intercorrono fra i detenuti membri di organizzazioni criminali e queste ultime[3]. Il mezzo per raggiungere tale obiettivo viene identificato, in entrambi i sistemi giuridici analizzati, con la limitazione dei diritti dei detenuti appartenenti a tali organizzazioni, nella convinzione che tale approccio sia l’unica via per recidere i collegamenti dei detenuti con gli appartenenti all’organizzazione criminale ancora in libertà. L’idea è, quindi, quella di impedire a chi è sottoposto al trattamento penitenziario in oggetto di comunicare con il mondo esterno al fine di, da un lato, privare l’organizzazione criminale di un membro (e, quindi, indebolirla) e, dall’altro, impedire che taluno, seppur detenuto, possa comunque, in qualche modo, partecipare alla vita dell’organizzazione cui è membro e quindi continuare a costituire un pericolo per l’ordine costituito. Si capisce, in questo senso, la ragione, per cui, sia l’ordinamento israeliano che quello italiano riconoscano il venir meno del collegamento con l’organizzazione criminale come un elemento idoneo e, talvolta, sufficiente, a determinare il venire meno delle limitazioni imposte dal sistema penitenziario. La c.d. collaborazione con la giustizia o, comunque, la prova dell’avvenuta rescissione dei rapporti fra organizzazione e detenuto è infatti elemento necessario e imprescindibile per determinare il venir meno delle particolari esigenze di tutela della sicurezza pubblica alla base del trattamento penitenziario differenziato[4]. Il disegno normativo di entrambi i Paesi presenta quindi un’organizzazione logica simile (se non, addirittura, per certi versi, sovrapponibile) per cui: è legittimo limitare i diritti di determinate categorie di detenuti laddove tali limitazioni siano volte ad evitare che esponenti di massive organizzazioni criminali (ovvero supposte terroriste) possano continuare, anche durante il periodo di detenzione, a costituire un pericolo per l’ordine costituito. Tuttavia, al venir meno del collegamento di un individuo con tali organizzazioni, la limitazione dei suoi diritti di detenuto risulta inaccettabile.  Viene quindi spontaneo chiedersi se le normative in vigore siano idonee al raggiungimento dello scopo cui sono preposte o se, a contrario, non si presentino come limitazioni, talvolta ingiustificate, al godimento di diritti, anche fondamentali, dei detenuti. Allo stesso tempo, è necessario interrogarsi su come una condanna al c.d. fine pena mai possa raccordarsi con alcuni dei principi fondamentali in tema di pena e trattamento penitenziario. In particolare se la condanna alla reclusione perpetua sia in linea, da un lato, con i principi rieducativi della pena e, dall’altro, con il divieto di sottoposizione dei detenuti a trattamenti disumani e degradanti.

  1. “Security prisoners” e condannati all’ergastolo ostativo, similitudini e contraddizioni

Volendo cercare di riassumere le discipline giuridiche relative ai “Security Prisoners” da un lato e ai condannati all’ergastolo ostativo dall’altro si procederà analizzando gli aspetti più rilevanti delle stesse, identificati, ai fini del presente contributo, nella definizione che di tali categorie di detenuti viene data dai due ordinamenti, analizzata attraverso l’interpretazione delle normative di riferimento, nel contenuto di queste e nelle condizioni necessarie per provocare il venir meno delle limitazioni all’accesso dei benefici penitenziari, infine si valuteranno alcune delle pronunce giurisprudenziali più rilevanti in tema, al fine di valutare la compatibilità di tali discipline giuridiche con i più generali principi di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, come interpretati dai Giudici di Strasburgo.

3.1 La definizione dei security prisoners e degli ergastolani ostativi nelle diverse normative di riferimento

In relazione alle fonti normative relative ai due ordinamenti ivi considerati si permetta una breve premessa, necessaria per inquadrare consapevolmente le discipline dei due sistemi coinvolti. Il sistema israeliano è stato profondamente influenzato sia dal sistema ottomano che da quello britannico[5] prima di iniziare a svilupparsi, timidamente, come sistema autonomo a partire dal 1948 con la nascita dello Stato di Israele. Tuttavia, le importanti influenze ottomane e inglesi hanno, a tal punto, influenzato il territorio, da rendere (quasi) impossibile l’elaborazione di un sistema che fosse indiscutibilmente inquadrabile come di common law o di civil law. A contrario, invece, come noto, il sistema italiano si caratterizza per essere un sistema prettamente di civil law. La diversità ordinamentale delle due nazioni si riflette, tra le altre, anche nella fonte normativa scelta dai due Paesi ivi considerati per l’elaborazione delle norme regolatrici la vita dei detenuti. Infatti, mentre in Israele tali restrizioni al godimento dei diritti trovano la propria giustificazione in alcune direttive[6] del “Israel Prison Service” (da qui in avanti: IPS), in Italia, è l’ordinamento penitenziario a prevedere, al suo art. 4 bis, il trattamento differenziato di talune categorie di detenuti. Ad una fonte, israeliana, secondaria di tipo amministrativo (avvicinabile a una circolare), quindi, corrisponde una fonte, italiana, di tipo primario e legislativo[7]. Si nota, dunque, una prima, evidente, differenza fra i due sistemi inerente all’effettiva forza normativa di tali discipline. Infatti, mentre la categorizzazione di un detenuto come “Security Prisoner” consegue a una valutazione discrezionale operata dall’IPS, quella di “ergastolano ostativo” deriva come diretta conseguenza dall’integrazione dei presupposti di cui all’art. 4-bis OP. Ad una prima, superficiale, interpretazione delle discipline si potrebbe quindi sostenere che il sistema israeliano risulti maggiormente aderente al principio di individualizzazione della pena (e dell’esecuzione di questa), permettendo, di volta in volta, una valutazione individuale e autonoma dei detenuti, slegata e indipendente dal tipo di reato commesso. In questo senso, quindi, parrebbe possibile individuare un detenuto come non “security” anche se appartenente a determinate organizzazioni criminali e/o terroristiche. D’altro canto, invece, il sistema italiano appare più rigido laddove impone la restrizione dei diritti dei detenuti quando questi riportino una condanna per i reati di cui all’art. 4-bis OP (salve, ovviamente, le eccezioni di cui si dirà infra, cfr. 3.3, la possibilità di liberarsi dalle limitazioni normative: il venir meno del collegamento con l’organizzazione criminale d’appartenenza) indipendentemente da una valutazione effettivamente individualizzata dell’individuo di volta in volta coinvolto. Tale conclusione deriva, necessariamente, dalla definizione che le direttive dell’IPS danno dei security prisoners: questi sono, infatti, individuati come “detenuti che sono stati processati e condannati per un reato che, date la sua natura, viene definito un’offesa alla sicurezza ovvero per cui movente è nazionalista[8]”. Tale definizione viene riconosciuta come necessaria per “facilitare un trattamento differenziato di tali detenuti[9], imprescindibile per impedire che i detenuti possano comunicare con il mondo esterno e, in particolare, con gli altri membri dell’organizzazione criminale di cui fanno parte. La definizione appena esposta dei c.d. “Security Prisoners” non tiene, tuttavia, in alcun modo, conto del tipo di reato commesso da questi, con la conseguenza per cui l’affiliazione di un detenuto come “Security” può derivare anche a seguito di una condanna per reati dai danni, relativamente, contenuti (basti pensare che vengono definiti come “Security Prisoners” anche membri del movimento islamico che siano stati condannati per reati c.d. bianchi, configurabili anche nella mera ipotesti di aver intrattenuto rapporti commerciali con organizzazioni palestinesi definite come ostili all’ordine dello Stato dal governo israeliano). A contrario, invece, l’art. 4 bis OP prevede la sussumibilità dei detenuti come preclusi dal godimento di determinati benefici penitenziari (di cui si dirà infra, cfr. 3.2.: Il contenuto delle limitazioni nei due ordinamenti, in particolare: il divieto di comunicare con l’esterno) solo laddove questi siano stati condannati per uno dei reati espressamente previsti dall’articolo stesso. Ad un sistema in cui la categorizzazione dei detenuti come “Security” deriva da una valutazione del contesto entro cui il reo ha commesso un qualsiasi reato (volta a determinare la sua affiliazione, o meno, a un gruppo criminale organizzato) si contrappone, quindi, un sistema dove è la tipologia di reato (in sé considerata) a determinare l’inserimento di un detenuto all’interno della categoria dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 4 bis OP.

Tuttavia, entrambi i Paesi ammettono la possibilità che i detenuti definiti come, alternativamente, “Security Prisoners” o condannati al 4 bis OP siano condannati alla pena dell’ergastolo (c.d. “Life Imprisoment”): quindi vi è, in entrambi gli ordinamenti, la possibilità (spesso la certezza) che vi sia una categoria di detenuti condannata alla detenzione perenne con relativa limitazione al godimento di taluni benefici penitenziari. In particolare, si noti che la pena dell’ergastolo viene riconosciuta, in entrambi gli ordinamenti, come conseguente a crimini particolarmente efferati, quindi omicidio e crimini, alternativamente, di mafia e/o di terrorismo.

3.2 Il contenuto delle limitazioni nei due ordinamenti, in particolare: il divieto di comunicare con l’esterno

Come si è già avuto modo di anticipare, entrambe le discipline considerate sono basate sull’avvertita (supposta) necessità di dover limitare i contatti dei detenuti appartenenti a organizzazioni criminali particolarmente pericolose per la sicurezza collettiva con il mondo esterno, alla luce della presunzione per cui, il mantenimento della possibilità, per questi, di relazionarsi con quest’ultimo, comporterebbe, anche e automaticamente, il mantenimento del legame con l’organizzazione criminale di appartenenza. Tale obiettivo viene raggiunto attraverso la creazione di una disciplina ad hoc idonea a impedire ai detenuti che siano anche membri di determinate organizzazioni criminali di relazionarsi, in alcun modo, con il mondo extra murario. Tale obiettivo è raggiunto in Israele tramite l’applicazione di un regime restrittivo a carico dei “Security Prisoners”, basato sui seguenti principi:

  1. Trasferimento in istituti penitenziari creati appositamente per accogliere tale categoria di detenuti, ovvero affidamento in dipartimenti specifici degli istituti “normali”;
  2. Divieto di accedere alla liberazione anticipata ovvero ai permessi premio;
  3. Divieto di effettuare (o ricevere) telefonate;
  4. Obbligo di riferire periodicamente al General Security Service (GSS);
  5. Divieto di ricevere visite c.d. coniugali;
  6. Divieto di frequentare corsi di qualsiasi tipo (professionalizzanti ovvero accademici);
  7. Divieto di ricevere determinate cure mediche.

In Italia, invece, il regime dei sottoposti all’art. 4 bis OP è identificabile nel divieto, salvo le eccezioni di cui si dirà, di accedere a determinate categorie di benefici penitenziari. In entrambi i Paesi, quindi, la disciplina, restrittiva e speciale, prevista per le categorie di detenuti appartenenti a gruppi criminali considerati particolarmente pericolosi, ammette la possibilità di una categoria di detenuti che non possa accedere ad alcun tipo di beneficio penitenziario (in particolare a quelli inerenti alla liberazione anticipata o l’accesso a misure alternative alla detenzione) e che sia, contemporaneamente, condannata ad una pena perpetua. Tale, condivisa, limitazione dei diritti dei detenuti viene giustificata come necessaria per evitare che, laddove autorizzato a uscire dall’istituto, il condannato possa riprendere i contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza, tornando a costituire un pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. Nel caso dei condannati alla pena dell’ergastolo (“Life Imprisoment”), tale divieto si pone come un ostacolo (potenzialmente insormontabile) alla possibilità, per i detenuti, di godere del c.d. Right to hope, quindi del diritto a poter porre fine alla propria reclusione intramuraria. Tale, automatica, conclusione risulta, tuttavia, in opposizione al diritto, ormai pacifico, almeno in Europa, di ogni detenuto a essere posto nella condizione di poter accedere, dopo un primo periodo di reclusione, ad istituti premiali eventualmente previsti nello Stato di esecuzione della pena, anche in ossequio ai più moderni principi della teoria della pena che vedono, in questa, un mezzo di rieducazione del condannato e non, invece, uno strumento di vendetta sociale (o peggio, statale).

3.3 La possibilità di liberarsi dalle limitazioni normative: il venir meno del collegamento con l’organizzazione criminale d’appartenenza

Alla luce della ratio ispiratrice delle discipline sopra, brevemente, richiamate, è doveroso chiedersi come la necessità di protezione della sicurezza nazionale si declini al venir meno del collegamento fra detenuto-membro di un’organizzazione criminale e quest’ultima. In tal senso, infatti, è doveroso segnalare che davanti alla rescissione del legame criminale fra detenuto e gruppo organizzato, entrambi i sistemi riconoscono il venir meno, anche, della necessità di limitare l’accesso dei detenuti agli istituti premiali previsti per i detenuti “normali”. In tal senso, si evidenzia, quindi, che, da un lato, il sistema israeliano conosce alcune eccezioni al trattamento restrittivo riservato ai “Security Prisoners” e, allo stesso tempo, anche lo stesso art. 4 bis OP prevede che le restrizioni previste non siano applicabili al detenuto nei confronti del quale è possibile escludere l’attuale sussistenza di legami con l’organizzazione criminale organizzata ovvero a quello che abbia collaborato con la giustizia o, ancora, a quello cui la collaborazione risulti, alternativamente, impossibile o irrilevante.

In tal senso, il sistema israeliano, ha previsto, con la direttiva IPS dd 03.02.2000, due eccezioni all’applicabilità della disciplina restrittiva per i “Security Prisoners”. La prima eccezione si riferisce ai detenuti, classificati come “Security Prisoners” che non siano membri di un’organizzazione criminale definita come “ostile” al governo israeliano[10], che non abbiano, in alcun modo, assistito tale organizzazione ostile nella commissione di reati e che non costituiscano un pericolo per la sicurezza dello Stato. Tale eccezione alle restrizioni previste per i c.d. “Security Prisoners” appare, però, purtroppo, applicabile, nella pratica, meramente ai “Security Prisoners” ebrei per le ragioni che si evidenzieranno[11]. In primo luogo, la lista delle organizzazioni criminali ostili al governo israeliano non comprende alcuna organizzazione ebraica ma, meramente, organizzazioni arabe, con la necessaria conseguenza che tutti i detenuti classificati come “Security” che siano ebrei possono giovarsi di tale eccezione, anche in caso di commissione di reati particolarmente gravi e idonei a evidenziare una certa pericolosità sociale del soggetto[12]. In altre parole, ogni detenuto ebreo potrà giovarsi di un’applicazione individualizzata della disciplina in tema di restrizioni all’accesso dei benefici penitenziari in quanto questa trova le proprie fondamenta nell’appartenenza a gruppi ostili individuati nelle organizzazioni arabo palestinesi[13]. In secondo luogo, invece, la stessa disciplina eccezionale risulta raramente applicabile ai detenuti “Security” palestinesi in quanto questi vengono sovente considerati membri delle organizzazioni ostili di cui sopra. La seconda eccezione prevista dalla summenzionata direttiva si riferisce, invece, ai detenuti, appartenenti a organizzazioni criminali ostili al governo che, però, abbiano espiato, alternativamente, un terzo della pena impostagli, ovvero 10 anni di detenzione e che abbiano rescisso tutti i contatti con l’organizzazione di appartenenza. Tuttavia, anche in tale eventualità, l’accesso ai benefici penitenziari sembra essere applicato più agevolmente ai detenuti ebrei che non alla categoria dei “Security Prisoners” generalmente intesa (e comprendente, quindi, sia i detenuti ebrei che arabi o palestinesi). Allo stesso tempo, il sistema italiano prevede eccezioni alla sottoposizione al regime detentivo “speciale” nel caso di detenuti che, sebbene condannati al 4 bis OP, abbiano, alternativamente collaborato con la giustizia[14], ovvero, per cui la propria collaborazione risulti impossibile ovvero irrilevante, purché “sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale”. Entrambi i sistemi condizionano, quindi, la possibilità, per i detenuti sottoposti a un trattamento penitenziario speciale al venir meno del collegamento del detenuto con l’organizzazione criminale. Tuttavia, mentre il sistema israeliano ritiene di individuare la rescissione con l’organizzazione criminale attraverso (anche) la valutazione dell’espiazione di una parte della pena, il sistema italiano non fa altrettanto, lasciando nelle mani dei Tribunali di Sorveglianza la responsabilità di decidere se e in quale misura, l’espiazione di buona parte della pena possa costituire elemento da valutarsi a favore del detenuto. Allo stesso tempo, peraltro, l’ordinamento penitenziario richiede, espressamente, non solo che il detenuto abbia rescisso qualsiasi tipo di legame con l’organizzazione di appartenenza ma, anche, che abbia utilmente collaborato con la giustizia (salva l’impossibilità di tale collaborazione o l’irrilevanza di questa). Si nota, quindi, una sostanziale differenza nell’impostazione delle deroghe al sistema detentivo speciale nei due ordinamenti. Ad un ordinamento, quello israeliano, che dà espresso valore al trascorrere del tempo (ma che, si ricorda, opera una scelta discrezionale delle organizzazioni criminali ostili al governo, imponendo una sostanziale differenza non solo fra detenuti e “Security Prisoners” ma, anche, fra diverse categorie di “Security Prisoners”), si accompagna un ordinamento, quello italiano, che ritiene possibile la configurabilità del venir meno del collegamento con organizzazioni criminali o mafiose solo laddove il detenuto abbia effettivamente collaborato con la giustizia, ignorando che, sovente, gli stessi detenuti non sono nella posizione di collaborare, non tanto perché mantengono una certa connessione con il gruppo all’esterno ma perché temono ritorsioni di questo.

3.4 Le maggiori pronunce giurisprudenziali: cenni

Esaminata la disciplina presente all’interno dei due ordinamenti considerati, nonché le relative, possibili, deroghe a questa, è doveroso interrogarsi sul ruolo che la giurisprudenza, soprattutto quella della Corte Suprema israeliana e della Corte costituzionale italiano ha avuto (e tutt’ora ha) nei confronti di discipline giuridiche idonee a incidere, profondamente, sui diritti fondamentali di un’ampia categoria d’individui, quale è quella dei detenuti sottoposti a regimi detentivi speciali. In particolare, per quanto d’interesse nelle presenti pagine, risulta necessario chiedersi quali siano i confini entro cui un trattamento penitenziario speciale debba muoversi, quindi, quali limiti vengano imposti, all’azione legislativa, amministrativa o, comunque, statale nella creazione di sistemi derogatori al trattamento penitenziario “ordinario”. In tal senso si premette, tuttavia, che le due Corti sopra menzionate rivestono ruoli diversi all’interno dei due sistemi. La Corte Suprema israeliana, infatti, risulta un vero e proprio legislatore dello Stato, capace e legittimata a incidere, anche, sulle politiche legislative del Knesset[15]; mentre la Corte costituzionale italiana, per quanto sia capace e legittimata ad incidere (e quindi modificare) le leggi dello Stato, mantiene una sorta di distacco dalla politica legislativa, anche in ossequio al caro principio della separazione dei poteri. Verrà, quindi, naturale, chiedersi se, anche la sol possibile violazione dei diritti fondamentali di un’ampia categoria di detenuti sia, in sé, fattispecie idonea a sollecitare una presa di posizione maggiore da parte della Consulta. Può, un giudice, incidere sulla politica del legislatore laddove questa sia, incontrovertibilmente, avversa al rispetto di alcuni tra i diritti maggiormente riconosciuti a livello nazionale, nonché convenzionale?

  1. La Corte Suprema Israeliana: quale spazio per il right to hope?

 Come anticipato, sia la Corte Suprema Israeliana che la Corte costituzionale italiana si sono trovate, sovente, a doversi pronunciare in riferimento alla legittimità delle limitazioni relative al godimento di determinati diritti per detenuti considerati particolarmente pericolosi. In questo senso, quindi, entrambe le Corti si sono trovate (e tutt’ora si trovano), spesso, a dover affrontare l’annosa questione relativa a quali siano i confini entro cui la politica legislativa (ovvero amministrativa, nel caso di Israele) possa muoversi nel disegnare trattamenti penitenziari “speciali”. Tuttavia, il percorso giurisprudenziale delle due Corti è, almeno parzialmente, diverso, in quanto mentre la Corte Suprema Israeliana si è concentrata, storicamente, maggiormente su questioni inerenti al godimento di determinati diritti da parte dei “Security Prisoners”, la Corte costituzionale si è, anche, dovuta confrontare con l’annosa questione della compatibilità dell’esistenza del c.d. ergastolo ostativo con il sistema italiano e convenzionale. D’altro canto, in tal senso ha giocato un ruolo preminente (se non fondamentale) la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, istituzione sconosciuta alla giurisprudenza israeliana.

Tuttavia, talune pronunce della Corte Suprema Israeliana risultano comunque particolarmente significative, nonché esplicative, dell’approccio generale della stessa Corte in relazione alla meritevolezza di una disciplina insensibile al right to hope.  Le pronunce di cui si dirà a breve, infatti, rivelano un approccio abbastanza restrittivo della Corte Suprema Israeliana in relazione alla possibilità di ampliare il ventaglio di diritti fruibili, anche, dai “Security Prisoners”, nonché, in particolare, del riconoscimento a questi della possibilità di veder cambiare la propria condanna di reclusione a vita. In particolare, appare che, indipendentemente da una presa di posizione netta in relazione alla legittimità di un istituto avvicinabile al nostro ergastolo ostativo (ci si riferisce alle sentenze di “Life Imprisonment for Security Prisoners”), questo, comunque, rimane, non solo una realtà per il sistema israeliano ma, addirittura, una realtà indiscussa e, forse, indiscutibile. Iniziando dai primi anni 2000, la Corte Suprema Israeliana ha affrontato una serie di cause inerenti al godimento dei diritti fondamentali dei detenuti e, in particolare, dei “Security Prisoners”, adottando un approccio tendenzialmente restrittivo al riconoscimento del c.d. “right to hope” a questi ultimi. In particolare riferimento alla possibilità dei “Security Prisoners” di poter accedere ad, alternativamente, liberazione anticipata o misure alternative alla detenzione, già a giugno 2017, la Corte Suprema si è pronunciata ritenendo necessario un ingrandimento degli istituti penitenziari israeliani al fine di garantire a ogni detenuto uno spazio personale di, almeno, quattro metri quadrati all’interno della propria cella[16] nel famoso caso ACRI v. Public Security Minister (HCJ 1892/14), sulla scorta di un ricorso presentato dalla Association for Civil Rights in Israel (ACRI) a dall’Academic Center for Law and Business. A seguito della pronuncia della Corte Suprema, fu emanato un emendamento alla “Prison Ordinance[17] che legittimava la concessione di “Early Release” a causa del sovraffollamento carcerario[18]; tuttavia, veniva esclusa dalla possibilità di proporre istanza di liberazione anticipata a causa del sovraffollamento carcerario l’intera categoria dei “Security Prisoners”, i quali, quindi, indipendentemente dal livello di sovraffollamento degli istituti in cui venivano a trovarsi (ovvero dei dipartimenti di istituti “normali” che occupavano), sarebbero rimasti costretti in spazi angusti e sovraffollati[19]. La pronuncia CHJ 1892/14 e il successivo emendamento alla “Prison Ordinance” esprimono, chiaramente, il tendenziale giudizio della Corte Suprema Israeliana nei confronti della legittimità del c.d. ergastolo ostativo. Questa, infatti, adotta un approccio particolarmente rigoroso nell’applicazione della normativa restrittiva prevista per i “Security Prisoners”, riconoscendo come legittima la loro, generale, esclusione da taluni benefici penitenziari e, in particolare, la loro esclusione dalla possibilità di proporre istanza per la liberazione anticipata, anche, e soprattutto, laddove condannati alla c.d. pena perpetua. Tale, ultimo, limite alla parità di trattamento fra detenuti “normali” e “Security Prisoners” è stato, tuttavia, messa in discussione da un ricorso presentato dalla Arab Minority Rights in Israel e dalla Association for Civil Rights in Israel (ACRI) alla Corte Suprema, in cui si chiede di valutare la compatibilità dell’esclusione dei “Security Prisoners” alla possibilità di presentare istanza per liberazione anticipata a causa del sovraffollamento carcerario con l’ordinamento israeliano nonché, in particolare, con la precedente pronuncia della Corte CHJ 1892/14, dove non era stata prevista alcuna differenza fra categorie di detenuti[20]. Per quanto, si noti, la Corte Suprema Israeliana non sia mai stata interrogata in merito alla legittimità del c.d. ergastolo ostativo (che, come già anticipato, deve ritenersi compatibile con il sistema israeliano, alla luce della compatibilità di condanne alla reclusione a vita a carico dei c.d. “Security Prisoners”), si ritiene di poter concludere per la tendenziale insofferenza della giurisprudenza di legittimità israeliana nei confronti delle problematiche relative al trattamento penitenziario dei c.d. “Security Prisoners”. In particolare, tale insofferenza giuridica può essere motivata, negli occhi di chi scrive, dall’assenza di sistemi di controllo esterni allo Stato di Israele che siano idonei a influenzare l’andamento della giurisprudenza di legittimità nazionale. In altre parole manca, in Israele o, comunque, in Medio Oriente, un ordinamento giuridico sovranazionale, altro da quello internazionale (comunque dalla discussa legittimità in Israele), in grado di incidere sull’interpretazione del diritto nazionale. Tale sistema, esterno, di controllo, è, invece, esercitato, in Italia (e, più in generale, per i Paesi del Consiglio di Europa) dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Questa si pone, infatti, come Giudice capace di valutare la compatibilità delle varie normative nazionali con la Convenzione EDU, garantendo o, comunque, sollecitando, una maggiore attenzione, anche, delle varie giurisprudenze di legittimità nazionali, alla tutela dei diritti dei detenuti e, in particolare, di eventuali categorie “speciali” di detenuti.

 

  1. L’ergastolo ostativo in Italia: la Corte EDU come esempio di sollecito esterno

Come anticipato, il motore della giurisprudenza, anche costituzionale, in Italia, può essere identificato nel ruolo propulsore della Corte EDU nei confronti, anche, della giurisprudenza nazionale. In riferimento all’ergastolo ostativo, infatti, questo è stato riconosciuto, per lunghi periodi, come perfettamente legittimo da parte della giurisprudenza nazionale, la quale fondava la meritevolezza di tale trattamento sanzionatorio sulla considerazione per cui questo era da riferirsi a una scelta deliberata dello stesso detenuto[21]. Quest’ultimo, infatti, ben avrebbe potuto sottrarsi al regime “ostativo” di inapplicabilità di determinati benefici penitenziari decidendo di collaborare con la giustizia, facendo venire meno l’ostatività predetta. La perpetuità dell’ergastolo ostativo (incompatibile con i principi sovente enunciati dalla Corte EDU, nonché dalla stessa Costituzione in tema di funzione della pena) era considerata, quindi, facilmente evitabile da parte del detenuto attraverso la collaborazione con la giustizia. Tale approccio è, però, da sempre osteggiato dalla Giurisprudenza della C. EDU, la quale, già con la pronuncia della Grande Camera, Kafkaris c. Cipro del 12 febbraio 2008, escludeva l’incompatibilità tra l’ergastolo e il divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 C.E.D.U., ma affermava che l’inesistenza, nella legislazione nazionale, di una prospettiva di liberazione anticipata avrebbe potuto determinare l’incompatibilità con la predetta norma. Tale prima, decisiva, pronuncia veniva successivamente approfondita dal c.d. caso Vinter, relativo alla legittimità del c.d. Whole life order presente nel Regno Unito. In tale frangente, a una prima pronuncia di legittimità dell’istituto da parte della IV Sezione della Corte, la Grande Camera riteneva sussistente, in data 17 gennaio 2012, da parte del Regno Unito, la violazione dell’art. 3 CEDU, dichiarando che l’impossibilità di scarcerazione equivaleva ad un trattamento disumano e degradante. La Corte concludeva, in generale, per l’incompatibilità della previsione della pena dell’ergastolo (nella sua declinazione del Whole Life Order): essa può essere compatibile con l’art 3 della Convenzione (e quindi non costituire un trattamento disumano e degradante per il detenuto) solo laddove l’Ordinamento interno preveda un meccanismo, giurisdizionale ovvero amministrativo, di revisione della pena idoneo a offrire sicure possibilità di liberazione al condannato. L’incompatibilità del regime dell’ergastolo ostativo con i principi enunciati dalla Corte EDU in relazione alla configurabilità di trattamenti disumani e degradanti innanzi al c.d. fine pena mai è lapalissiana, laddove si consideri che un ergastolano ostativo non ha, innanzi a sé, alcuna prospettiva di rideterminazione della pena se non a seguito di una propria collaborazione con la giustizia. A tal proposito, è stata, peraltro, la stessa C. EDU a pronunciarsi in relazione all’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo nel celebre caso di Viola c. Italia[22]. In tal sede, i giudici di Strasburgo hanno avuto modo di rilevare che il detenuto sottoposto a ergastolo ostativo non ha modo di sapere come, quando e a quali condizioni potrà ottenere la liberazione. La pena dell’ergastolo ostativo è, dunque, irriducibile e idonea, quindi, a frustrare il principio rieducativo della pena nella maniera in cui limita la possibilità del detenuto ad essere risocializzato nella collettività. In relazione alla possibilità, per il detenuto, di collaborare con la giustizia, invece, la C. EDU rileva, così come anche già fatto dalla già citata sentenza della Corte costituzionale 306/1993 che il requisito della collaborazione con la giustizia non appare essere, necessariamente, dirimente per determinare l’effettivo venir meno del collegamento dell’ergastolano ostativo con la criminalità organizzata. In tal senso, infatti, la Corte rammenta che la collaborazione non integra, necessariamente, una scelta libera e consapevole del detenuto. Si deve quindi notare che, mentre, da un lato, è possibile (nonché verosimile) che la mancata collaborazione non sia indice di perdurante pericolosità sociale (in considerazione del fatto per cui un eventuale silenzio del condannato può derivare dalla paura di eventuali ritorsioni dell’organizzazione criminale nei suoi confronti ovvero dalla propria innocenza o dal rifiuto di accusare altre persone, spesso legate al detenuto da rapporti di parentela o amicizia), dall’altro, la stessa collaborazione potrebbe non essere un indice sicuro dell’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata (la collaborazione può, infatti, avvenire, a mero scopo utilitaristico e non in ottica, effettivamente, resipiscente). Di conseguenza, negli occhi dei Giudici di Strasburgo, in caso di condanna all’ergastolo ostativo, l’assenza di collaborazione fa sorgere, in capo al detenuto, una presunzione invincibile di pericolosità sociale incompatibile con l’art. 3 della Convenzione. La pronuncia Viola c. Italia si è fatta quindi promotrice, nonché precursora di un nuovo capitolo interpretativo del regime dell’ergastolo ostativo da parte della Corte costituzionale, la quale, con le sentenze 149/2018, 253/2019 e, da ultimo, con l’ordinanza 97/2021, ha accolto, seppur con qualche resistenza di cui si dirà, quanto deciso dai giudici di Strasburgo.

Con la prima pronuncia, la Corte ha iniziato un (seppur lento) processo di rilettura critica dell’ergastolo ostativo, concentrandosi sulla disparità di trattamento dei condannati all’ergastolo ostativo per sequestro di persona a scopo estorsivo che avessero provocato la morte della vittima con i condannati per gli altri reati di cui alla c.d. prima fascia del 4 bis OP (che, almeno potenzialmente, potevano aver, addirittura, causato, la morte di più persone). La disparità consisteva, secondo l’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale, nella circostanza per cui i condannati all’ergastolo ostativo per sequestro di persona a scopo estorsivo potevano accedere, in presenza di una loro collaborazione con la giustizia o delle condizioni equiparate (collaborazione impossibile o irrilevante), solo dopo 26 anni di reclusione mentre, gli altri condannati di prima fascia potevano accedere a determinati benefici penitenziari dopo periodi di tempo molto più brevi[23]. Dal canto suo, la Corte costituzionale ha ritenuto di accogliere la doglianza prospettata, ritenendo irragionevole la logica gradualistica imposta alle diverse categorie di condannati in prima fascia dell’art. 4 bis OP anche in considerazione del fatto che siffatta distinzione fra detenuti non incentiva un condannato di prima fascia per sequestro di persona a scopo estorsivo a partecipare attivamente al proprio percorso rieducativo e di risocializzazione.

Con la seconda pronuncia la Corte ha, invece, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis OP nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste nonché ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis c.p. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter del medesimo ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Entrambe le pronunce si pongono come i naturali antecedenti causali alla recente decisione del 15 aprile 2021 della Corte Costituzionale, la quale ha, definitivamente, dichiarato l’incompatibilità del divieto di accesso ai benefici penitenziari degli ergastolani ostativi, seppur rinviando al legislatore il compito di “di, ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata; mentre compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte” (Corte Cost., Ordinanza 97/2021).

Le pronunce appena richiamate sono esemplificative dell’influenza che la giurisprudenza convenzionale ha sulla giurisprudenza nazionale, nel senso di trainare quest’ultima verso un trattamento più attento, anche, alla tutela dei diritti dei detenuti appartenenti a categorie “speciali”. In particolare, si ritiene di poter configurare l’intervento della C. EDU in relazione alla legittimità della pena dell’ergastolo e, più specificatamente, dell’ergastolo ostativo, come stimolo alle giurisprudenze nazionali di volta in volta considerate alla modificazione delle proprie normative interne. D’altro canto, è difficile prevedere quale sarebbe stata l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale italiana se non fossero intervenuti i Giudici di Strasburgo a tracciare la via da percorrere. In questo senso, quindi, il sistema di tutela convenzionale dei diritti umani, da un lato, vigila sull’effettivo rispetto da parte dei vari Paesi membri dei diritti fondamentali e, dall’altro, funge da stimolo ai vari ordinamenti per alzare il proprio standard di tutela dei diritti in casi dove discipline eccessivamente restrittive appaiano, agli occhi dei Giudici nazionali, giustificate e giustificabili alla luce di circostanze storicamente, socialmente e culturalmente motivate ma prive, alle volte, di una solida base giustificatrice di tipo giuridico. Nel caso della disciplina dell’ergastolo ostativo tale, ultima, idea coglie nel segno laddove si consideri che l’intera disciplina di cui all’art. 4 bis OP è stata, storicamente e socialmente, motivata dalla necessità di assicurare, ai condannati per determinate tipologie di reati e, in particolare, agli appartenenti ad organizzazioni criminali avvertite come estremamente pericolose per la sicurezza dello Stato, un trattamento penitenziario idoneo, anche, in qualche modo, a indebolire determinate organizzazioni criminali[24].

  1. Conclusioni

Alla luce di quanto esposto nelle pagine precedenti si ritiene che i due sistemi giuridici considerati nel presente contributo siano da interpretarsi, anche, in considerazione delle differenze strutturali che involgono i relativi ordinamenti penitenziari, nonché il diverso humus entro cui le rispettive giurisprudenze nazionali nascono e si sviluppano. In particolare, un ruolo fondamentale nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale italiana è da attribuirsi alla spinta propulsiva che, su questa, esercita la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, spesso, vero e proprio motore all’innovazione giurisprudenziale nazionale. Tale conclusione viene, peraltro, anche condivisa dallo stesso Consiglio d’Europa che ha, recentemente, pubblicato un report inerente all’influenza che le pronunce EDU hanno avuto in relazione al miglioramento delle condizioni di detenzione nei vari Stati membri[25]. In particolare, il report analizza le misure di miglioramento delle condizioni detentive adottate da 25 Stati membri a seguito di 59 pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, è da ritenersi che il sistema israeliano, per quanto attribuisca alla propria Corte Suprema la possibilità (nonché il potere) di esercitare un vero e proprio potere legislativo, non sembra percepire alcun tipo di pressione esterna (ovvero convenzionale o internazionale), volta a suggerire modifiche in relazione alla condizione dei c.d. “Security Prisoners” condannati ad una sentenza di fine pena mai. A contrario, invece, la pronuncia della sentenza di Viola c. Italia della C. EDU ha determinato un cambiamento all’interno della giurisprudenza costituzionale italiana nei confronti della legittimità del c.d. ergastolo ostativo, il quale è passato dall’essere ritenuto costituzionalmente legittimo ad essere in contrasto sia con il dettato normativo della Carta costituzionale che con quello della CEDU. Peraltro, la già citata sentenza Viola non è la prima pronuncia della C. EDU che sia stata capace di influenzare, anche in maniera rilevante, l’ordinamento italiano (non solo in relazione alle condizioni detentive dei detenuti ma, più in generale, in relazione all’assicurazione di un giusto processo, c.d. fair trial). A tal proposito si richiamano, a mero scopo esemplificativo e non esaustivo, la famosa sentenza Torregiani (C. EDU, Torreggiani c. Italia, 08.01.2013, app. n. 43517/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10) in cui l’Italia è stata condannata per la violazione dell’art. 3 CEDU in relazione allo stato di sovraffollamento delle carceri italiane e che ha contribuito a portare all’introduzione del d.l. 92/2014 in tema di risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento carcerario. Ancora, in altri termini, sempre una pronuncia della C. EDU (ci si riferisce, qui, invece, alla sentenza Sejdovic c. Italia, 01.03.2006, app. n. 56581/00) ha contribuito a modificare la disciplina relativa al procedimento in assenza in Italia. A contrario, invece, l’assenza di una Corte paragonabile alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in Medio Oriente impedisce al sistema israeliano di essere sollecitato a riformare la propria normativa interna.  L’assenza di un’istituzione che sia, davvero, guardiana dei diritti (di tutti) all’interno dello Stato israeliano permette a questo di poter essere, talvolta, eccessivamente autoreferenziale nella valutazione della legittimità di discipline giuridiche particolarmente rigide. Quest’ultime vengono, infatti, ritenute legittime alla luce della loro ratio ispiratrice di fondo che, nel caso dell’ergastolo ostativo, viene individuata nella necessità di tutelare la sicurezza nazionale da organizzazioni criminali organizzate ritenute particolarmente pericolose. Tale ratio, però, finisce, sovente, col bendare gli occhi del legislatore (e, vien da dire, anche, del potere giudiziario), il quale non riesce a valutare la legittima finalità perseguita in relazione alla necessità, di ugual, se non preminente, importanza, di evitare che la pena si trasformi in un trattamento disumano e degradante, contrario al senso di dignità che caratterizza (anche) ogni detenuto, in quanto uomo. Allo stesso tempo, però, è doveroso evidenziare, anche, che il sistema italiano, per quanto costantemente sollecitato dall’ordinamento convenzionale, non sempre si mostra recettivo nei confronti dei principi contenuti nella giurisprudenza EDU. Capita sovente, infatti, che principi tanto consolidati a livello sovranazionale risultino, a livello interno, ancora di difficile imposizione, circostanza che si pone come limite ad un’evoluzione del sistema nazionale in linea a quello di Strasburgo. Allo stesso tempo, peraltro, il principio della separazione dei poteri impone alla Corte costituzionale di evitare modifiche eccessive alle norme tacciate di incostituzionalità, in rispetto della politica legislativa su cui il potere giudiziario non può influire. In questo senso appare, quindi, che la Corte Suprema Israeliana sia meno legata alla necessità di non influenzare, con le proprie pronunce, gli altri poteri dello Stato; caratteristica che le permette di incidere in modo più incisivo sulle norme che non ritiene di condividere, pur se espressione del volere del Knesset.

L’unica lettura congiunta e possibile dei due sistemi considerati nelle presenti pagine s’identifica nel riconoscimento di entrambi i sistemi come caratterizzati da elementi tanto di flessibilità quanto di rigidità, i quali, in prospettive diverse e distinte per i due sistemi considerati, influenzano l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, rallentandone il progresso.

*Praticante Avvocato abilitato, presso il Foro di Rovereto

[1] Per un approfondimento sull’importanza della comparazione si veda: K. Zweigert e H. Kotz, An introduction to comparative law, Oxford, 1983.

[2] Si prescinde, nel presente contributo, dall’analisi della legittimità della definizione del conflitto israelo-palestinese come una mera lotta al terrorismo palestinese da parte del Governo israeliano. Nella consapevolezza della complessità della questione si è ritenuto di adottare, nel presente contributo, il punto di vista dello stato israeliano, non tanto per la meritevolezza di questa, quanto perché confacente allo scopo del presente lavoro: la comparazione della disciplina del “Life Order Imprisonment” dei “Security Prisoners” israeliani con gli ergastolani ostativi italiani.

[3] A. Baker, the definition of Palestinian Prisoners in Israeli Prisons as “Security Prisoners” – Security semantics for camouflaging political practice, Adalahs Review, 2009.

[4] per approfondimento circa il contenuto dell’art. 4 bis ord. pen.: F. Fiorentin, Esecuzione penale e misure alternative alla detenzione, Giuffrè Editore, Milano, 2013.

[5] Il territorio palestinese ha fatto parte dell’impero ottomano a partire dal 1516, circostanza che ha permesso l’applicazione, in Palestina, della maggior parte dei codici francesi (come, ad esempio, il codice del commercio) a partire dalla metà del XIX secolo. Tuttavia, il più importante, il codice civile, non venne mai recepito all’interno del territorio palestinese in quanto vigevano, da un lato, la c.d. Megella (una raccolta dei principi musulmani relativi ai contratti) e, dall’altro, il diritto di famiglia veniva gestito dalle diverse autorità religiose presenti sul territorio (quindi, rispettivamente, i c.d. qadì per i musulmani, i tribunali ecclesiastici per i cristiani e i tribunali rabbinici per gli ebrei). A seguito della conquista britannica avvenuta alla fine della Prima Guerra Mondiale, tuttavia, venne disposto che, nel caso del silenzio della legge, questo venisse integrato attraverso le regole della common law e della equity, praticate in Inghilterra. In forza di tale disposizione, le leggi ottomane vennero gradualmente sostituite da quelle inglesi e il sistema, parzialmente codicistico, sostituito da quello di common law (salve, sempre, la Megella e la gestione religiosa del diritto di famiglia). S. Ginossar e C. Colombo, Caratteri ed orientamenti del diritto israeliano, La Rassegna Mensile Di Israel, vol. 39, no. 3, 1973, pp. 152–171.

[6] IPS Commission directive of 4 May 2000.

[7] L. 354/1975.

[8] IPS Commission directive of 4 May 2000.

[9] Ibid.

[10] “A “hostile organization” for the purposes of this paragraph is one of the following organizations: Hamas, the Islamic Jihad, the Popular Front for the Liberation of Palestine, the Democratic Front for the Liberation of Palestine (Hawatmah), Hezbollah, Fatah (Abu Mousa), the Popular Front for the Liberation of Palestine – General Command (Jibril), the Abu Nidal organization, and Osama bin Laden’s organization.” IPS dd 03.02.2000.

[11] A. Baker, the definition of Palestinian Prisoners in Israeli Prisons as “Security Prisoners” – Security semantics for camouflaging political practice, Adalahs Review, 2009.

[12] La disparità di trattamento fra detenuti “Security” palestinesi ed ebrei risulta più evidente se rapportata ad alcuni casi pratici paradigmatici. Ad esempio è il caso del detenuto ebreo Yigal Amir, condannato per aver assassinato il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e ritenuto un detenuto “Security”, quindi, teoricamente, isolato dal resto della compagine penitenziaria. Tuttavia, Amir non è stato considerate affiliate ad alcuna delle organizzazioni criminali di cui sopra ed ha quindi punto accedere a una serie di diritti preclusi agli altri “Security Prisoners”, tale esclusione di un rapporto di affiliazione di Amir con i gruppi considerati ostili è stata, tuttavia, possibile, solo alla luce della circostanza per cui Amir era ebreo e quindi, necessariamente, si è ritenuto, non partecipe di organizzazione di matrice araba.

[13] A. Baker, the definition of Palestinian Prisoners in Israeli Prisons as “Security Prisoners” – Security semantics for camouflaging political practice, Adalahs Review, 2009; FIDH, International Investigative Mission, Palestinian Detainees in Israel, 2003, available at: https://www.fidh.org/IMG/pdf/ps365a.pdf .

[14] Per un approfondimento: A. Bernasconi, Cass. Pen. 1997, III, Indissolubile il legame tra collaborazione con la giustizia e benefici penitenziari?

[15] Parlamento israeliano.

[16] https://www.jpost.com/israel-news/overcrowding-unprecedented-crisis-says-israel-prison-services-517070 ; qui la decisione della Corte: https://elyon1.court.gov.il/files/14/920/018/c11/14018920.c11.htm.

[17] viene così definita la Legge che si occupa di definire e descrivere il trattamento penitenziario, nonché le procedure per accedere alla liberazione anticipata o a misure alternative alla detenzione.

[18] Si noti che tale opportunità veniva condizionata a una serie di requisiti quali: l’essere stati condannati a una pena non superiore ad anni 4 di reclusione o, comunque, a una pena che, seppur superiore, non escludeva l’applicabilità dell’istituto della c.d. “Release on Probation”.

[19] Si fa riferimento all’emendamento n. 54, 5779-2018, Prisons Ordinance (Amendment No. 54 Temporary Provision) Government Draft Bill, 5779-2018.

[20] Si è, ancora, in attesa di una pronuncia da parte della Corte Suprema, tuttavia il ricorso è disponibile al: https://www.adalah.org/uploads/uploads/Admn%20Release%20Petition%2021%20February%202019%20FINAL.pdf .

[21] Si veda, ad esempio, Corte Cost. 306/1993 dove la Corte ha ritenuto legittimo l’istituto del c.d. ergastolo ostativo alla luce della circostanza per cui tale disciplina: “subordinando l’ammissione alla liberazione condizionale alla collaborazione con la giustizia che è rimessa alla scelta del condannato […] non preclude in modo assoluto e definitivo l’accesso al beneficio e non si pone, quindi, in contrasto con il principio rieducativo enunciato dall’art. 27 terzo comma Cost.”

[22] C. EDU, Viola c. Italia, 13.06.2019, app. n. 77633/16.

[23] La generalità degli ergastolani non sottoposti al regime di cui all’art. 58 quater O.P. poteva di regola essere ammessa:

  1. a) al lavoro all’esterno, dopo l’espiazione di almeno dieci anni (art. 21 c. 1 ultima proposizione O.P.), riducibili sino a un minimo di otto anni in conseguenza dell’integrale riconoscimento delle detrazioni di pena conseguenti alla liberazione anticipata;
  2. b) ai permessi premio, dopo l’espiazione, parimenti, di dieci anni (art. 30 ter 2, lettera d, O.P.), anch’essi riducibili sino a un mimino di otto anni grazie alla liberazione anticipata;
  3. c) alla semilibertà, dopo l’espiazione di venti anni (art. 50 c. 5 O.P.), riducibili sino a un minimo di sedici anni grazie alla liberazione anticipata;
  4. d) alla liberazione condizionale, dopo l’espiazione di ventisei anni (art. 176 c. 3 c.p.), anch’essi riducibili a un minimo di circa ventun anni grazie, ancora, alla liberazione anticipata.

[24] Si fa, qui, riferimento, all’idea, non troppo latente, per cui il sistema di cui all’art. 4 bis OP sia necessario per contrastare la mafia italiana che, come noto, è un fenomeno criminale associativo sconosciuto ad altri paesi e difficilmente comprensibile all’infuori dei confini nazionali.

[25] Il report è consultabile al: https://www.coe.int/en/web/portal/-/implementing-echr-judgments-new-factsheet-on-improving-conditions-of-detention.