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L’OSSESSIONE SECURITARIA – DI VITTORIO MANES

L’OSSESSIONE SECURITARIA – DI VITTORIO MANES

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L’OSSESSIONE SECURITARIA

di Vittorio Manes

L’editoriale del Direttore Vittorio Manes che aprirà il primo e secondo fascicolo 2024 della rivista. Il legislatore – non diversamente da quanto accaduto in passato sotto le più diverse maggioranze di governo, di ogni bandiera e colore politico – si propone di adottare un nuovo “pacchetto” di norme con il declamato intento di affrontare (presunte) esigenze di “sicurezza pubblica” anche ed anzitutto attraverso il “pugno duro” del diritto penale. E così ripropone questioni di metodo ormai antiche e logore, unite a originali scelte di merito che sollecitano nuove perplessità, che hanno indotto a dedicare a questo tema il focus di questo nuovo doppio fascicolo di Diritto di Difesa, ospitando alcune preoccupate riflessioni. 

1. Nulla di nuovo sotto il sole: il legislatore – non diversamente da quanto accaduto in passato sotto le più diverse maggioranze di governo, di ogni bandiera e colore politico – si propone di adottare un nuovo “pacchetto” di norme con il declamato intento di affrontare (presunte) esigenze di “sicurezza pubblica” anche ed anzitutto attraverso il “pugno duro” del diritto penale. Con un messaggio simbolico che, ancora una volta, vorrebbe ostentare ai cittadini – e soprattutto agli elettori – la “scelta di campo” più muscolare, perentoria, marziale, contro forme vecchie e nuove di devianza e criminalità.

Al netto del fatto che le supposte, emergenziali necessità di intervento risultano smentite dalle statistiche – che convergono nell’indicare l’Italia come uno dei paesi più sicuri al mondo (con circa 300 omicidi l’anno, su una popolazione di 59 milioni di persone) –, questa ennesima iniezione di penalità prosegue un cammino ormai a senso unico, e conferma la pervicace scelta politica di declinare i problemi sociali sul solo paradigma della repressione e del carcere, in nome della sicurezza.

E così ripropone questioni di metodo ormai antiche e logore, unite a originali scelte di merito che sollecitano nuove perplessità, e che ci hanno indotto a dedicare il focus di questo nuovo fascicolo di Diritto di Difesa ad ospitare alcune preoccupate riflessioni.[1]

2. Sul piano del metodo, sappiamo bene quanto sia suadente – e carica di aspettative prodigiose – la tecno-definizione “pacchetto-sicurezza”: unisce in una formidabile endiadi la promessa di completezza tipica di ogni confezione “all inclusive” a quella utopia irrealizzabile nella “società del rischio” che è appunto la sicurezza della collettività. E “sicurezza”, nel lessico della politica e della comunicazione massmediatica, è una parola d’ordine – o una parola magica – al contempo ansiogena ed ansiolitica, e che qui si vorrebbe servire su un piatto d’argento, promettendo con un colpo di penna l’obiettivo rassicurante di una risposta pronta ed efficace ad ogni problema o irritazione sociale, quali che ne siano le cause, e soprattutto quali che siano le profilassi realmente opportune.

Dietro l’etichetta, in realtà, il rimedio-panacea è sempre lo stesso, ed anch’esso fa leva sul marketing delle emozioni: introdurre nuovi reati e/o elevare la severità delle sanzioni penali o della coercizione processuale, secondo la consueta logica del more of the same, che richiede di aumentare il dosaggio ad ogni ondata securitaria.

Non importa se l’allarme sia smentito dalle statistiche e dai dati reali, come già evidenziato, né che la pressione coercitiva sia già al suo apice, e neppure interessa il fatto che il pharmakon punitivo si sia già rivelato assolutamente incapace di contrastare – non diciamo estirpare – la patologia sociale che si vorrebbe colpire: contribuendo anzi subdolamente ad aumentare – in un circolo vizioso – i tassi di insicurezza percepita.[2]

L’illusione terapeutico-punitiva si alimenta e al contempo si appaga delle componenti simboliche della pena: come un cervo nella stagione della fertilità, lo Stato si impegna in una esibizione di forza ritualizzata, mima un combattimento a distanza, bramisce e brandisce lo strumento penale come autentica “reazione sostitutiva” rispetto ad un intervento concreto ed efficace che – sul piano delle politiche sociali – non è in grado di progettare, approntare e sostenere.

È facile quanto illusorio, in altri termini, agitare il vessillo delle pene e della coercizione punitiva, che dunque – dietro lo sfoggio muscolare di forza esibita a scopi placativi – altro non è se non una manifestazione di conclamata debolezza; ed è tanto comodo quanto surreale, poi, pensare di combattere un qualche fenomeno sociale o una delle cicliche emergenze introducendo un qualche nuovo reato o aumentano le pene già esistenti.

Alla base di questa evidente semplificazione vi è infatti una duplice finzione: da un lato si scommette ingenuamente sul fatto – del tutto indimostrato – che gli effetti normativamente attesi si realizzino concretamente; dall’altro si trascurano gli effetti collaterali che l’incriminazione o il sovradosaggio di pena e di coercizione processuale realmente producono, specie sui diritti fondamentali coinvolti e travolti dalla scelta legislativa.

Se infatti le leggi penali sono apparentemente “a costo zero” – visto che sono le uniche che, di regola, non abbisognano di copertura finanziaria – i costi sociali occulti si misurano nel conseguente aumento dei tassi di carcerazione e, prima e più in alto, si registrano sulla progressiva erosione degli spazi di libertà che esse implicano, sul saldo negativo nel bilancio tra autorità e diritti fondamentali e, in definitiva, sui fragili equilibri dello Stato di diritto.

Equilibri vertiginosi, e già molto precari, in un contesto di autentica overdose punitiva come quella che, da molto tempo, caratterizza l’esperienza italiana, dove la “pressione penale” è stata sempre in costante, irrefrenabile aumento, sino ai livelli parossistici raggiunti nell’era del “populismo penale”. Ed equilibri che, periodicamente, la lunga serie dei “pacchetti-sicurezza” – propinati sotto ogni stagione e bandiera politica alla strenua ricerca di consenso elettorale – contribuiscono a destabilizzare ulteriormente, somministrandoci un sedativo che finiamo con l’accettare con passività narcotica, e con desolante assuefazione.

3. Quanto al merito, è difficile negare la peculiare nota di “autoritarismo punitivo” che contrassegna molte tra le novità prospettate nel disegno di legge attualmente in discussione:[3] ne è prova l’impiego del variegato strumentario penale – nuovi reati o estensione di quelli già esistenti, pene più severe, misure di prevenzione – come mezzo di repressione del dissenso, in ogni sua forma (manifestazioni di piazza di gruppi pacifisti, ecologisti o in difesa dei migranti e dei diritti umani, sit in o blocchi stradali), a cui fa da contraltare un robusto aggravamento delle pene per forme di resistenza di qualsiasi tipo a pubblici ufficiali e forze di sicurezza, a cui si consente peraltro una maggiore possibilità di far uso delle armi anche senza licenza (e dunque anche fuori servizio, con l’unico effetto di incentivare la circolazione non controllata di armi private, con possibili ricadute conseguenziali “di rimbalzo” sull’incremento dei tassi di omicidio[4]).

Come dire: le libertà di riunione e di manifestazione del pensiero devono contrarsi di fronte al potere coercitivo del Leviatano, e lo stato di diritto ritrarsi al cospetto dell’avanzare dello stato di polizia.

Ancora, si ispessisce la repressione diretta o indiretta contro forme di devianza tipiche della marginalità sociale, specie se offensive della proprietà privata o pubblica: oltre agli interventi ispirati alla credenza nella deterrenza carceraria che ispirano le modifiche che hanno ad oggetto il reato di truffa (art. 640 c.p.) e di impiego di minori nell’accattonaggio (art. 600 octies c.p.), o alla nuova aggravante prevista per fatti di deturpamento e imbrattamento all’art. 639 c.p. (“se il fatto è commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione cui il bene appartiene”), basti pensare alla cornice edittale di pena che accompagnerà il nuovo delitto di occupazione arbitraria di immobile destinato ad abitazione altrui, la reclusione da 2 a 7 anni, pena analoga a quella prevista per l’omicidio colposo sul lavoro; o al DASPO urbano, con divieto di accesso a stazioni e aeroporti per soggetti condannati anche non definitivi o anche solo “denunciati” per delitti contro la persona o il patrimonio nei 5 anni precedenti.

Viene da chiedersi se il legislatore abbia minimamente considerato la “spirale punitiva” che si nasconde dietro queste forme di “prevenzione mascherata”, essendo la violazione del divieto accompagnata da precipue sanzioni penali che peraltro appaiono poco o nulla compatibili con la piena valorizzazione della presunzione di innocenza operata da un recente arresto della Corte costituzionale (sentenza n. 24 del 2025); e se abbia considerato quanto altre misure – come il divieto di vendere SIM a chi non ha il permesso di soggiorno sotto minaccia di una gravosa sanzione amministrativa – spingano verso l’ulteriore marginalizzazione di taluni soggetti, spingendoli sempre più verso il baratro della devianza.

Anche la disciplina all’interno del carcere viene irrigidita con vigorìa autoritaria: sino a punire anche la resistenza passiva quale condotta tipica nei nuovi delitti di rivolta in carcere e nei CPR, peraltro instradati sul più truce binario penitenziario che si deve all’art. 4 bis ord. pen., con una palese frizione rispetto ai principi di materialità ed offensività – se non con la stessa libertà di autodeterminazione individuale di chi si limiti a rifiutare il vitto o a non fare l’ora d’aria – che del resto viene ribadita anche quando si incrimina la detenzione di istruzioni per il compimento di atti di terrorismo, così anticipando la tutela penale alla soglia del mero sospetto.

Ma il disegno di legge non sembra fare sconti neppure al cospetto del principio di umanità della pena (art. 27, comma terzo, Cost.), visto che nell’intento di colpire le borseggiatrici ROM si elimina il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per le donne incinta o con figli di età inferiori ad un anno, rendendolo meramente facoltativo: poco importa se gli “effetti collaterali” della detenzione ricadranno sui soggetti più vulnerabili ed indifesi, pregiudicando la crescita psichica e motoria del bambino costringendolo in spazi angusti e caratterizzati da deprivazione sensoriale.

4. Ecco dunque il nuovo menù politico-criminale, con ricette della “tradizione” pur rivisitate in chiave autoritaria, con un più generoso dosaggio degli ingredienti di sempre e con una spolverata di Polizeirecht: oggi come un secolo fa – quando Vincenzo Manzini proponeva un analogo carnet[5] – si invoca più diritto penale, in ogni sua forma, più deterrenza mediante minaccia di pena – nonostante la conclamata fallacia su cui si basa l’ingenuo sillogismo –, e più carcere come unica e prioritaria risposta, quali che siano i destinatari diretti e indiretti degli “effetti collaterali” della pena custodiale, il tutto nell’esibito intento di fronteggiare problemi di sicurezza inconsistenti e con la recondita finalità di guadagnare consenso al cospetto degli elettori, a cui si propina la farmacopea punitiva anche come arma di distrazione di massa dai problemi reali.

Mentre in carcere i problemi reali esistono davvero, come ci ricordano i tassi di sovraffollamento medio superiori al 130% su scala nazionale, e come testimonia drammaticamente – dopo il tragico record dei 90 suicidi nell’anno passato – il ventesimo, lancinante suicidio a cui si è già arrivati nel corso di questo primo scorcio del 2025.

[1] Oltre a quelle già rassegnate, in dottrina, da molte autorevoli voci: v. tra gli altri M. Pelissero, A proposito del disegno di legge in materia di sicurezza pubblica: i profili penalistici, in Sistema penale, 27 maggio 2024; M. Ruotolo, Su alcune criticità costituzionali del c.d. pacchetto sicurezza (A.S. 1236), ivi, 9 ottobre 2024.

[2] Cfr., al riguardo, i dati ISTAT commentati da R. Cornelli, Il ddl sicurezza alla prova della ricerca criminologica: prime annotazioni critiche, in Sistema penale, 27 maggio 2024.

[3] A questo riguardo, registrando una più generale linea di tendenza dell’attuale maggioranza di governo, anche R. Bartoli, Sulle recenti riforme in ambito penale tra populismo, garantismo e costituzionalismo, in Jus – Rivista di Scienze giuridiche, n. 1 del 2024 ed anche in Sistema penale, 2024, 8 ss.

[4] Cfr. ancora R. Cornelli, Il ddl sicurezza alla prova della ricerca criminologica, cit., 7 ss.

[5] Cfr., V. Manzini, La politica criminale e il problema della lotta contro la delinquenza e la malavita, in Riv. Pen., 1911, 5 ss., che riprende la prolusione tenuta all’Università di Torino il 22 novembre 1910, dalla quale è tratto lo stimolante dialogo immaginario realizzato da Enrico Amati per questa rivista.