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PER UN NUOVO CODICE ACCUSATORIO – DI FRANCESCO PETRELLI

PER UN NUOVO CODICE ACCUSATORIO – DI FRANCESCO PETRELLI

PETRELLI – PER UN NUOVO CODICE ACCUSATORIO.PDF

PER UN NUOVO CODICE ACCUSATORIO

di Francesco Petrelli

La relazione tenuta dal Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, Francesco Petrelli, nel corso dell’evento “Tornare a San Giorgio – per un nuovo codice accusatorio” del 14 e 15 marzo 2025, 64 anni dopo il primo incontro tenutosi nel 1961 sempre presso la Fondazione Cini nell’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, per affrontare le stesse criticità relative al processo e per cercare di porre rimedio alle problematiche nuove provocate dal progresso e dalla tecnologia ma anche dalla giurisprudenza creativa e dalle cattive abitudini.

1. Il 15 settembre del 1961, a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini, nell’isola di San Giorgio Maggiore, dove ora noi ci troviamo, ebbero inizio sotto l’egida di Francesco Carnelutti i lavori del convegno “La riforma del processo penale[1]. Partecipavano a quello straordinario evento giuristi del calibro di Girolamo Bellavista, Giovanni Conso, Franco Cordero, Giuseppe De Luca, Alfredo De Marsico, Gaetano Foschini, Remo Pannain, Biagio Petrocelli, Giandomenico Pisapia, Giuseppe Sabatini, Giuliano Vassalli e molti altri non meno valorosi[2].

La spinta riformatrice muoveva allora dalla critica relativa al peso che la fase dell’istruzione segreta aveva assunto negli equilibri del processo penale e dalla conseguente considerazione «che, alla ipertrofia di questa fase preliminare del processo, fa riscontro una inevitabile svalutazione del dibattimento il quale si risolve troppo spesso in una desolante ripetizione di atti sui quali l’istruttoria ha ormai impresso il suo stampo definitivo» e che «in tal modo si finisce indirettamente per avvalorare dei risultati probatori ottenuti con strumenti approssimativi, se non addirittura inadeguati»[3].

Una delle opzioni emerse dal dibattito era dunque quella di «affidare la direzione dell’inchiesta preliminare esclusivamente al pubblico ministero il quale peraltro dovrebbe limitarsi a raccogliere e selezionare il materiale probatorio ai soli fini della sua informazione e, più particolarmente, per controllare il fondamento della domanda che egli deve proporre», con la consapevolezza che «del materiale così raccolto dovrebbe essere garantita l’assoluta irrilevanza processuale, nel senso che il giudice del dibattimento non potrebbe utilizzare se non quegli elementi acquisiti con l’intervento delle parti e quindi sottoposti al filtro purificatore del contraddittorio»[4].

Non sfuggiva all’epoca la centralità del contraddittorio come moderno strumento di accesso ad una corretta e condivisa decisione, sottratta e liberata dalle deformanti pastoie dell’istruzione segreta e dall’utilizzo dei relativi atti ai fini della decisione[5].

Non vi è dubbio, infatti, che quello posto in quel primo convegno di studi sulla riforma del processo penale, costituiva il nodo centrale intorno al quale avrebbe ruotato l’intero sistema del nuovo modello accusatorio. Poiché non vi può essere “prova” senza “contraddittorio”, e poiché il contraddittorio non può che svilupparsi pienamente nel dibattimento, l’asse del processo doveva inevitabilmente spostarsi dall’istruzione segreta al dibattimento pubblico.

Non può non cogliersi in questo passaggio un’evidente spinta verso l’adeguamento del processo penale ad una nuova sensibilità aperta alla modernità ed alla democrazia, tanto quanto l’allora vigente codice inquisitorio restava chiuso al progresso ed ancorato ad un non più accettabile rapporto fra autorità e verità e ad una superata visione autoritaria, e paternalistica al tempo stesso, dei rapporti fra Stato e cittadino[6].

Scriveva infatti Giuseppe De Luca, a proposito del convegno di San Giorgio del 1961, che quel confronto di giuristi sarebbe stato utile se fosse riuscito a suscitare «nei singoli intervenuti la consapevolezza della necessità di una riforma, volta a costruire un nuovo e moderno sistema processuale che sia strumento di civiltà e di progresso nella vita del nostro popolo»[7].

2. Ora, quell’asse processuale dell’accertamento, che era stato faticosamente ed opportunamente spostato verso il baricentro del dibattimento, sembra essere nuovamente scivolato all’indietro verso la fase delle indagini, che da passaggio procedimentale destinato «ai soli fini della sua informazione», è tornato a gravare con tutto il suo peso sulla fase del dibattimento e dunque sulla formazione della prova. Vanno così conseguentemente in sofferenza tutti i principi cardine del modello accusatorio, ivi compresi quelli proclamati dall’art. 111 della nostra Carta costituzionale.

Quel che sottolineava Giuseppe De Luca, all’esito di quel primo convegno, che nessuno dei giuristi intervenuti aveva «difeso il sistema processuale vigente» e che tutti avevano «concordato in linea generale, sull’opportunità di una riforma, resa più impellente da recenti e sconfortanti esperienze giudiziarie che hanno messo in luce le deficienze e le insufficienze dell’attuale ordinamento»[8], è un giudizio, che sembra potersi adattare integralmente alla condizione ed alle circostanze presenti.

Sia per l’impossibilità di difendere il codice attuale, così come deformato dalle molteplici riforme ed interventi disorganici, dal diritto pretorio e dalle prassi distorsive, sia per le costanti “esperienze giudiziarie” che rendono evidenti i limiti di questo sistema, complici la presenza egemonica delle procure, l’affievolimento e la marginalizzazione culturale della figura del giudice e la mediatizzazione del processo, a sua volta causa ed effetto di tali fenomeni distorsivi.

Quella analisi spietata dei limiti, a un tempo stesso etici e cognitivi, del processo inquisitorio, formulata nel 1961, circa la «inevitabile svalutazione del dibattimento che si risolve in una desolante ripetizione di atti sui quali l’istruttoria ha ormai impresso il suo stampo definitivo»[9], circola come un fantasma a rimprovero della prassi quotidiana dei nostri processi, implementata dalle “contestazioni per la memoria”, dal moltiplicarsi dei “doppi binari” e dei “codici rossi”. Quel fantasioso principio “costituzionale” di “conservazione della prova”, fatto uscire dalla porta è rientrato comodamente attraverso le finestre sempre spalancate di una perenne emergenza.

Il modello accusatorio del 1988 possedeva una innegabile carica di originalità rispetto i codici precedenti. Seppure frutto di una evidente ibridazione, aveva una coerenza ideologica che ha certamente perduto nel tempo. L’irrompere della idea di un’efficienza intesa solo in chiave quantitativa, ne ha infatti progressivamente eroso tutti gli orizzonti valoriali, ed ha in particolare sacrificato nel tempo i valori del contraddittorio e dell’oralità.

3. La nostra idea di recupero di quel modello nell’ambito di un più radicale rinnovamento, muove anche dalla ulteriore considerazione circa la inevitabile connessione che corre fra ogni modello processuale ed il sistema ordinamentale all’interno del quale è inserito[10] e dalla conseguente constatazione che il fallimento del codice del 1988 sia il risultato inevitabile della mancata riforma ordinamentale, e che per tale motivo la riforma costituzionale del giusto processo, non avrebbe potuto da sola assicurare il successo di quel modello in mancanza di un nuovo assetto della magistratura.

La realizzazione della figura del giudice terzo, previsto dall’art. 111 della Costituzione, attraverso la distinzione delle carriere dei magistrati giudicanti e dei magistrati requirenti, costituisce una sorta di precondizione perché il processo accusatorio, come processo di parti, possa avere piena attuazione e trovi nel suo sviluppa una piena funzionalità.

Che il processo penale si svolga davanti a un giudice ordimentalmente terzo, oltre che imparziale, costituisce quindi un elemento intrinseco della riforma del processo penale al quale tende questo lavoro, per cui il nostro impegno politico, volto alla riforma complessiva della magistratura, non può certo dirsi estraneo all’esito del percorso che abbiamo deciso di seguire[11].

E, tuttavia, l’idea che al di sopra di ogni altra ci ha condotto a formulare questo proposito e ad avventurarci in questo difficile progetto è quella della constatazione tutta empirica ed esperienziale della inadeguatezza del processo, così come oggi si presenta alla nostra esperienza di operatori[12].

La nostra presunzione muove da un presupposto di natura etica e politica assieme, che ci fa assumere come corretta prospettiva sempre e comunque il punto di vista dell’imputato, di quello che qualcuno ci ha insegnato essere l’individuo «seduto sul gradino più basso della scala sociale»[13].

Da lì abbiamo constatato la disfunzionalità dell’intero attuale sistema, la sua totale inettitudine a rispettare la dignità della persona, certi che invece solo un processo che adegua i suoi istituti e i suoi strumenti a quel rispetto, potrà poi salvaguardare i diritti e le aspettative di tutti gli altri soggetti ed interessi che ruotano attorno al processo penale ed alla sua “immoralità necessaria”[14].

4. Non abbiamo sottovalutato le sfide ancor più profonde che si nascondono dietro la ricostruzione del modello, che nascono da contesti non immaginabili per i fautori di quell’originario progetto riformatore.

Da un lato, quella che deriva dall’inserimento del Paese all’interno di un contesto convenzionale e di disposizioni sovranazionali i cui contenuti si riflettono sul modello processuale interno. Dall’altro quella che discende dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale, i cui strumenti e le cui produzioni, sono in grado di mettere in crisi tanto la figura e i poteri del giudice, quanto il modello cognitivo tradizionale di verifica della prova e di distinzione fra vero e falso.  Si tratta di una rivoluzione tecnologica e tecnocratica capace di imporre al processo un violento cambio di paradigma proprio con riferimento alla funzione epistemologica del processo penale.

Al tempo stesso, le dotazioni straordinarie che implementano l’azione investigativa delle polizie e delle procure introducono all’interno del sistema un rischio di sbilanciamento sistemico dei poteri della parte pubblica a sfavore della difesa, con la creazione di un gap tecnologico difficilmente colmabile.

Non possiamo ignorare, inoltre, il progressivo spostamento dell’azione di contrasto a sempre più vasti ambiti dell’illecito, dal processo e dalla sanzione penale, verso l’utilizzo onnivoro delle misure di prevenzione, personali e reali, con conseguente svalutazione e marginalizzazione della capacità di tutela dell’individuo da parte delle garanzie processuali, con il conseguente dilemma della compatibilità dello stessa cultura della prevenzione con quella dell’accusatorio, e dunque della opportunità di procedere alla soppressione, modificazione o collocazione sistematica di tali “misure”.

Non possiamo non affrontare queste molteplici sfide con la consapevolezza che, diversamente dal passato, il processo penale, si colloca all’interno di un ben più vasto e articolato contesto normativo, politico e tecnologico. Il che ci fa riflettere ancora una volta proprio sulla natura indeclinabile e necessaria della tutela, dentro e fuori il processo penale, dei diritti e della libertà dell’essere umano che, in quanto “essere aperto al mondo”[15],  resta inevitabilmente aperto ad ogni rinnovata esperienza di difesa della libertà.

5.È evidente, dunque, che molte foglie sono cresciute, cadute e poi ancora ricresciute sull’albero di quel nostro originario codice accusatorio, il cui seme venne gettato proprio in quel primo convegno veneziano di sessantaquattro anni fa. Ma se siamo tornati qui dopo tanti anni è per dire che le radici di quell’albero sono evidentemente ancora salde nel terreno, e che lo spirito che le innerva è ancora vivo in tutti noi.

Sta a noi quindi scrivere una nuova pagina del processo penale italiano, forti della trentennale esperienza di un modello messo alla prova degli uomini e dei fatti, e di principi che si sono misurati con la dura legge della realtà, conservando tuttavia con coerenza e convinzione le felici intuizioni di quei giorni, lo «slancio costruttivo e le tendenze decisamente innovatrici» dei fondatori – per riprendere ancora una volta le parole di Giuseppe De Luca – saggiandone «la validità al fuoco dell’esperienza»[16].

Ci attende un’esperienza straordinaria della cui complessità e difficoltà siamo tutti consapevoli, ma al tempo stesso rassicurati da un oramai condiviso sentimento della insostenibilità di un processo divenuto davvero inemendabile[17] e dunque consapevoli della inevitabilità del passo al quale ci accingiamo.

Diceva Francesco Carnelutti nella sua prolusione ai lavori, che «il problema penale è in cima al problema della civiltà»[18], ed è per questo che anche noi siamo convinti che negare civiltà al processo penale significhi negare la civiltà stessa.

[1] I lavori del Convegno vennero raccolti, a cura di G. De Luca, nel volume Primi problemi della riforma del processo penale, Quaderni di San Giorgio, Sansoni Editore, Bologna 1962 (in occasione del Convegno Tornare a San Giorgio per un nuovo codice accusatorio, UCPI ne ha curato la ristampa).

[2]Partecipò a quei lavori anche l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Guido Gonella che, sotto la spinta innovatrice di quel convegno, avrebbe istituito la prima Commissione ministeriale di studio per una vera riforma organica del codice di procedura penale. ll 14 gennaio 1962 il ministro di Grazia e Giustizia Gonella (II Governo Fanfani) istituì la Commissione ministeriale che si insediò il 3 febbraio dello stesso anno ed elaborò una bozza di Codice di procedura penale (il cosiddetto «Progetto Carnelutti») che non ebbe seguito ma fu il fondamentale antecedente di ogni successiva iniziativa riformatrice in senso accusatorio. Sebbene l’esigenza di riforma del codice del 1930 fosse avvertita sin dal varo della Costituzione repubblicana, i progetti elaborati precedentemente (Spallanzani, Leone, Zoli …) non avevano messo in discussione il modello inquisitorio. Occorre ricordare come il  convegno del 1961 di San Giorgio era stato preceduto dal Convegno Nazionale di studio su alcune delle più urgenti riforme della procedura penale, tenutosi a Bellagio il 24-26 aprile del 1953, i cui lavori  sfociarono nella cd. “piccola riforma” (o “riformetta”) del 1955, che in adesione al dettato costituzionale incrementava le garanzie della difesa.

[3] G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, cit., Introduzione, p. 10.

[4] Occorre, in proposito, annotare come il contraddittorio non è ancora visto come “statuto epistemologico” della prova, ma esclusivamente come strumento di un passaggio “purificatore”, G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 11.

[5] Sarebbe interessante poter inquadrare questa vicenda all’interno di un vero e proprio “cambio di paradigma” nell’approccio alla conoscenza processuale: l’opera di Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, maturata all’interno di una comunità di “non scienziati”, è per l’appunto del 1962. Con il termine paradigma Kuhn intende riferirsi a quelle «conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca», T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 2009, p. 10.

[6] Insiste su questo profilo Giuliano Vassalli, nel suo primo intervento nel corso della prima giornata: «Siamo l’unico paese che in un settore così delicato quale è quello della procedura penale dove, accanto all’interesse della giustizia sostanziale si dibatte della difesa della libertà del cittadino, abbia ancora un codice emanato in periodo totalitario»; G. De Luca, a cura di, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 46.

[7] G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 12.

[8] G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 10.

[9] G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 10.

[10] Si consideri, in proposito, come il convegno di San Giorgio si tenesse a soli due anni di distanza dall’insediamento, avvenuto il 18 luglio 1959, del primo Consiglio Superiore della Magistratura, inserito in Costituzione ben dieci anni prima, in occasione del quale lo stesso Ministro Gonella ebbe a dire: «Con ciò si effettua il trapasso dei poteri che la Costituzione attribuisce al Consiglio superiore e che il Governo e il ministro della Giustizia hanno finora esercitati»; F. Biondi, Il Consiglio Superiore della Magistratura, il Mulino, Bologna 2024, p. 11.

[11] Ne erano consapevoli, sia pure con declinazioni diverse, più etiche che ordinamentali, i fautori di quella originaria riforma quando rilevavano come «non è da trascurare il rilievo che, in questa materia, molto dipende dalla sensibilità e educazione professionale di chi applica le leggi», R. Pannain, in G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 54.

[12] Ne avevano a loro volta consapevolezza i riformatori del 1961, i quali coglievano i limiti degli «inconvenienti di una riforma parziale che, come l’esperienza ci ammonisce, porta a mancanza di coordinamento e soprattutto ad alterazione del sistema, dato che un codice è un sistema organico, che ha una suitas, una sua propria espressione, una sua inconfondibile fisionomia, che non possono essere alterate senza alterare il tutto; modificare una parte soltanto è come fare una specie di abito d’Arlecchino», R. Pannain, in G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 51. Ed anche Vassalli, pur meno severo nei confronti della “riformetta” del 1955, auspicava che ci si avviasse al più presto e «seriamente ad una riforma generale del processo penale», G. Vassalli, in G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 50.

[13] Così, Oreste Flamminii Minuto, past president della Camera Penale di Roma.

[14] Così, Massimo Nobili, nella sua intramontabile definizione del processo penale, L’immoralità necessaria. Citazioni e percorsi nei mondi della giustizia, il Mulino, Bologna 2009.

[15] A. Gehlen, L’Uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010.

[16] G. De Luca, Primi problemi della riforma del processo penale, op. cit., p. 8.

[17] Diceva Francesco Carnelutti, nella sua presentazione dei lavori, di presentire il «prossimo crollo» del codice inquisitorio allora vigente «il quale va rivelando ogni giorno di più i suoi difetti, in ragione soprattutto delle condizioni ambientali profondamente mutate nei suoi trent’anni di vita»; in G. De Luca (a cura di), Primi problemi della riforma del processo penale, cit., Premessa, p. 16 e 21.

[18] F. Carnelutti, Prima giornata, in G. De Luca (a cura di), Primi problemi della riforma del processo penale, cit., p. 29.