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MAI PIÙ UNA PENA SENZA UN ORIZZONTE – DI SABINA COPPOLA

MAI PIÙ UNA PENA SENZA UN ORIZZONTE – DI SABINA COPPOLA

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MAI PIÙ UNA PENA SENZA UN ORIZZONTE

NEVER AGAIN A SENTENCE WITHOUT A HORIZON

di Sabina Coppola*

La Corte costituzionale ha riconosciuto la incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, nella parte in cui non consente al condannato per reati di mafia, non collaborante con la giustizia, la possibilità di dimostrare, in altro modo, la sua dissociazione con la criminalità organizzata ed il ‘sicuro ravvedimento’ indispensabile per beneficiare della liberazione condizionale.

«Un soggetto non può essere presunto pericoloso in quanto tale: se la pena deve rieducare, bisogna che venga valutato in concreto, senza che ci siano presunzioni insuperabili da parte della legge».

The Court has recognized the obstructing life sentence as anticostituzional as it doesn’t allow to a mafia convicted – who is not repentant – the possibility to prove not being part of mafia organization and the so called ‘secure repentance’ which is necessary to benefit from the conditional release.

«A subject can just simply be recognized as dangerous: the sentence should aim to re-educate without any given legal assumption».

«Nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo».

  1. Hesse, Extrema Ratio

«Jahvè: “Che hai tu fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo. Ora tu sei maledetto…sarai ramingo e fuggiasco per il mondo. Troppo grande è la mia colpa”.

Caino: Troppo grande è la mia colpa…chiunque mi troverà mi ucciderà”.

Jahvè: “Non sarà così”. E Jahvè pose un segno su Caino, cosicché chiunque lo avesse incontrato non lo avrebbe ucciso”

Caino…poi divenne costruttore di città

                                                                                               Antico Testamento – Genesi (4,10-17).

Ordinamento penitenziario – Ergastolo ostativo – Liberazione condizionale – Illegittimità – Intervento legislativo

 (artt. 4 bis, 58 ter l. 26.7.1975 n. 354, 2 d. l. 12.7.1991 n. 203)

«La presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente. Non è affatto irragionevole presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza.

Per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41-bis, la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone, appunto, l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento” ex art. 176 cod. pen.

La presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino.

Si tratta qui di tipiche scelte di politica criminale, destinate a fronteggiare la perdurante presunzione di pericolosità ma non costituzionalmente vincolate nei contenuti, e che eccedono perciò i poteri di questa Corte. Come detto, esse pertengono, nel quomodo, alla discrezionalità legislativa, e possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale.

In loro assenza, alla luce della peculiarità del fenomeno criminale in esame, l’innesto di un’immediata dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate sulla legislazione vigente, pur sostenuta dalle ragioni prima ricordate, potrebbe determinare disarmonie e contraddizioni nella complessiva disciplina di contrasto alla criminalità organizzata, nonché minare il rilievo che la collaborazione con la giustizia continua ad assumere nell’attuale sistema.

Esigenze di collaborazione istituzionale impongono a questa Corte di disporre, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale, il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia. Rimarrà nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo».

  1. Cost., 15 aprile 2021 (dep. 11 maggio 2021), n. 97, Pres. Coraggio – Red. Zanon

Sommario: 1. La questione giuridica rimessa alla Corte costituzionale – 2. La lunga strada percorsa dalla Corte costituzionale, tra principi di diritto interno e comunitario, verso la non più procrastinabile declaratoria di incostituzionalità della disciplina sull’ergastolo ostativo – 2.1 Il primo passo verso lo sgretolamento degli automatismi: la sentenza Marcello Viola c. Italia 2.2 La sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019: la parziale declaratoria di illegittimità dell’art. 4 bis O.P. – 3. La decisione della Corte di ‘differire’ la già pronunciata declaratoria di incostituzionalità della normativa in tema di ‘ergastolo ostativo’ – 4. Nell’ergastolo ostativo si potrà davvero guardare ad un ‘orizzonte’?

  1. La questione giuridica rimessa alla Corte costituzionale.

La Corte di cassazione ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 58 ter della legge 26 luglio 1975 n. 354, nonché dell’art. 2 del decreto legge 13 maggio 1991 n. 152 in relazione agli artt. 3 e 27 della Costituzione nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia.

Nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza di L’Aquila (senza entrare nel merito della domanda) ha dichiarato la inammissibilità dell’istanza di liberazione condizionale avanzata da un detenuto condannato all’ergastolo ‘ostativo’ solo in quanto non collaborante, nonostante il predetto avesse già scontato oltre 26 anni di reclusione e ricorressero, di fatto, elementi sintomatici del suo possibile ravvedimento.

Secondo il giudice a quo la disciplina in vigore, secondo la quale l’istanza di accesso ai benefici (incluso quello della liberazione condizionale) sia preclusa e, dunque, non valutabile nel merito, se presentata da soggetti condannati all’ergastolo ‘ostativo’, a prescindere dalla effettiva sussistenza dei requisiti, rende incompatibile la pena dell’ergastolo ‘ostativo’ con il divieto di trattamenti disumani e degradanti sancito già dalla sentenza Viola contro Italia.

La questione, secondo il giudice remittente, non è manifestamente infondata in quanto la disciplina dell’ergastolo si mantiene compatibile con la Costituzione, in quanto ai condannati alla pena perpetua sia concessa proprio la possibilità di ottenere il beneficio della liberazione condizionale, anche attraverso il computo dei periodi di liberazione anticipata[1]. Del resto, ricorda ancora il giudice a quo, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, al fine di valutare la compatibilità della disciplina dell’ergastolo con il divieto di trattamenti disumani o degradanti, ha valorizzato l’esistenza di strumenti (quali, ad esempio, i progressi nel trattamento penitenziario) che consentono di ridurre, di fatto, la pena originariamente ‘eterna’. A contrario, dunque, va ritenuto ‘inumano e degradante’ un trattamento fondato sulla reclusione a vita che non preveda alcuna possibilità per il condannato di lasciare il carcere, una volta conseguito l’obiettivo della rieducazione.

Tale assunto dimostra che la Corte ha, quindi, riconosciuto alla liberazione condizionale una funzione fondamentale ai fini della tenuta costituzionale della disciplina sull’ergastolo ‘ostativo’ e ne ha, infatti, accentuato il ruolo di «fattore di riequilibrio nella tensione tra il corredo genetico dell’ergastolo (il suo essere una pena senza fine), da una parte, e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato dall’altra[2]».

Per tale ragione, il giudice remittente si è posto il problema della compatibilità con la finalità rieducativa della pena (e, dunque, con la Costituzione) di una disciplina che consenta l’accesso ai benefici penitenziari (i soli ritenuti idonei a rendere la pena più ‘umana’) esclusivamente ai condannati all’ergastolo ‘ostativo’ che scelgano di collaborare con la giustizia (o la cui collaborazione sia divenuta impossibile o inesigibile)[3].

La Corte costituzionale ha emesso un’unica sentenza (la n. 135 del 2003) [4], nella quale ha ritenuto legittima la previsione legislativa di inaccessibilità alla liberazione condizionale per il detenuto non collaborante, in quanto non frutto di un mero automatismo ma di una scelta libera del detenuto («è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità» e ad avere possibilità di accesso al beneficio); in tutte le altre pronunce, però, e già a partire dagli anni ‘90 (con la sentenza n. 306 del 1993) ha posto le premesse per il cambiamento di passo che ci auguriamo sia ormai ‘prossimo’.

Il giudice delle leggi, infatti, negli anni (pur riconoscendo alla collaborazione con la giustizia la natura di ‘indizio privilegiato’ della dissociazione del condannato con la criminalità organizzata e, dunque, del suo ‘ravvedimento’, necessario per la concessione della liberazione condizionale) ne ha, sempre di più, escluso la natura di ‘prova regina’, statuendo che «la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali»[5]; principi condivisi dalla stessa Corte EDU.

  1. La lunga strada percorsa dalla Corte costituzionale, tra principi di diritto interno e comunitario, verso la non più procrastinabile declaratoria di incostituzionalità della disciplina sull’ergastolo ‘ostativo’.

2.1 Il primo passo verso lo sgretolamento degli automatismi: la sentenza Marcello Viola c. Italia.

Il 12 dicembre 2016 un cittadino italiano condannato all’ergastolo per un reato di criminalità organizzata (Viola) ha adito la Corte europea dei diritti dell’uomo denunciando di essere sottoposto ad una pena detentiva a vita incomprimibile che, in quanto tale, riteneva essere inumana e degradante.

Il ricorrente ha lamentato la incomprimibilità de iure e de facto non della pena dell’ergastolo disciplinata dall’art. 22 del codice penale (che la Corte EDU aveva già dichiarato compatibile con l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali)[6], bensì della pena dell’ergastolo ‘ostativo’ a causa della quale chi, come lui, ha dato prova di essersi dissociato dalla criminalità organizzata ma non ha voluto collaborare con la giustizia, non può ottenere la liberazione condizionale, né altri benefici penitenziari (ad eccezione della liberazione anticipata).

La Corte, preliminarmente, ha osservato che il sistema penitenziario italiano si fonda sul principio della progressione trattamentale secondo il quale il condannato può trarre beneficio dal tempo trascorso in carcere se lo investe nella partecipazione attiva ad un programma individuale di rieducazione finalizzato al suo concreto reinserimento nella società; a sostegno di tale assunto ha, poi, aggiunto che il principio della dignità umana impedisce di privare una persona della libertà senza lavorare allo stesso tempo al suo reinserimento e senza fornire alla stessa la possibilità di riconquistare un giorno la sua libertà. Ha precisato che «un detenuto condannato all’ergastolo incomprimibile ha il diritto di sapere (…) che cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali sono le condizioni applicabili e che la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso»[7]. Essa può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale e di ricostruire la sua personalità.

Alla luce di tali principi, i giudici di Strasburgo, nella causa in oggetto, hanno concluso che la pena dell’ergastolo ‘ostativo’ inflitta al ricorrente (riconosciuto colpevole di associazione mafiosa, omicidio e altri gravi reati) viola l’art. 3 della Convenzione in quanto limita eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della pena che, infatti, non può essere qualificata come comprimibile. Ciò in quanto, «se è vero che la legge italiana offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, la Corte dubita della libertà di questa scelta, come dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato»; allo stesso modo «la mancanza di collaborazione,  potrebbe essere non sempre legata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione ai valori criminali e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza»[8], così come non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia.

La Corte, dunque, comprende bene la necessità di tutela sociale adottata dallo Stato contro reati particolarmente efferati e commessi avvalendosi del metodo mafioso, ma ritiene che la natura del reato non possa, mai, giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti e invita lo Stato a mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che superi il principio di preclusione assoluta (secondo il quale chi non collabora con la giustizia sia automaticamente ancora collegato alla criminalità organizzata) e restituisca al condannato il diritto alla speranza di poter recuperare la libertà.

2.2 La sentenza della Corte costituzionale n. 253 del 2019: la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis O.P.

Con la sentenza n. 253 del 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416 bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58 ter del medesimo ordinamento penitenziarioallorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Il giudice a quo considera dato consolidato – conformemente alla costante giurisprudenza di legittimità – che la scelta di fornire un contributo collaborativo, rilevante ai sensi dell’art. 58 ter ordinamento penitenziario, rappresenti, per un detenuto appartenente a una consorteria mafiosa, una manifestazione inequivocabile del suo definitivo distacco dal sodalizio in cui gravitava. Ritiene però che non possa assumere «valore incontrovertibile e assurgere a canone valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete», l’affermazione che la cessazione dei legami di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, soltanto attraverso le condotte collaborative di cui all’art. 58 ter ordinamento penitenziario, dato che tale assunto non troverebbe copertura nella giurisprudenza costituzionale in precedenza illustrata che, «come ha bandito dal sistema le presunzioni assolute di pericolosità, così non può avallare la conclusione che la scelta collaborativa costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento»[9].

Si tratta, pertanto, secondo la Corte, di una preclusione assoluta che impedisce al magistrato di sorveglianza qualunque valutazione in concreto sulla pericolosità del condannato, determinando in limine l’inammissibilità di ogni richiesta di quest’ultimo di accedere ai benefici penitenziari.

Tale obbligatoria declaratoria di inammissibilità imposta al magistrato di sorveglianza rende la scelta di collaborare con la giustizia non più libera ma funzionale alla libertà in quanto la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza ‘rescissoria’ del legame con la criminalità organizzata.

Per la Corte tale presunzione non è in sé costituzionalmente illegittima, né irragionevole (poiché è ben possibile che il condannato che non collabori con la giustizia ancori la sua scelta proprio all’attualità del suo legame con il sodalizio); ciò che non è ragionevole ed anzi è illegittimo è ritenere che tale presunzione non possa essere vinta da nessuna prova contraria diversa dalla collaborazione. Insomma, l’incostituzionalità sta soltanto nell’assolutezza della presunzione che costringe il detenuto non collaborante a subire una pena ulteriore rispetto a quella ‘perpetua’ già comminata, consistente nel rifiuto a priori di valutare il suo percorso carcerario.

La presunzione, dunque, non può che essere relativa ma potrà essere contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto.

Il vero problema diviene, a questo punto, l’onere della prova giacché per la Corte il superamento della presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora non può essere certo determinato «in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi…tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo di un loro ripristino». E di tali elementi grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione, con una sostanziale inversione dell’onere probatorio in ordine alla rescissione dei rapporti con l’organizzazione criminale. La magistratura di sorveglianza dovrà compiere le sue valutazioni non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorità penitenziaria ma, altresì, delle dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente. Peraltro, ai sensi del comma 3 bis dell’art. 4 bis ord. penit., i permessi premio (come gli altri benefici) non possono essere concessi quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunichino, d’iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tali casi – qualora le informazioni dei predetti organi depongano in senso negativo – «incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno».

  1. La decisione della Corte di ‘differire’ la già pronunciata declaratoria di incostituzionalità della normativa in tema di ‘ergastolo ostativo’.

La Corte costituzionale, dopo aver ripercorso l’iter giurisprudenziale ed argomentativo già posto a fondamento della sentenza n. 253 del 2019, ha precisato che, anche nel caso in esame, la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia, deve poter essere superata attraverso ulteriori strumenti probatori che (soprattutto con riguardo alla liberazione condizionale che, a differenza del permesso premio, è destinata ad incidere sulla futura remissione in libertà del condannato), non possono consistere nella sola regolare condotta carceraria o nella mera partecipazione al percorso rieducativo, o ancora nella sua dichiarazione di dissociazione, ma  devono concretizzarsi in altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere i propri legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza; elementi che devono essere individuati dal Legislatore.

Secondo la Corte, «sono sospettati di illegittimità costituzionale aspetti apicali della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali e, dunque, un intervento demolitorio tout court da parte della stessa potrebbe mettere a rischio le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva i quali non possono essere risolti con i limitati strumenti a disposizione. La mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è fondamento di presunzione di pericolosità specifica e, pertanto, appartiene alla discrezionalità legislativa decidere quali scelte risultino idonee ed opportune per distinguere la condizione di un condannato alla pena perpetua a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento: quali, ad esempio, le ragioni della mancata collaborazione ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata. Si tratta di scelte di politiche criminali attraverso cui bisogna modificare aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario».

Sul punto, la Corte ha precisato che la declaratoria di illegittimità richiesta dal giudice remittente, seppure limitata alla sola concessione della liberazione condizionale, avrebbe ‘travolto’ inevitabilmente l’intera disciplina penitenziaria dando vita «ad un sistema disarmonico caratterizzato da tratti di incoerenza» nel quale i condannati per i reati di cui all’art. 4 bis, comma 1, ordin. penit., non collaboranti, avrebbero potuto beneficiare di permessi premio e della liberazione condizionale ma non avrebbero potuto richiedere l’accesso alle altre misure alternative (lavoro all’esterno e semilibertà), ovvero proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso il recupero della libertà.

Per le ragioni suesposte e per esigenze di collaborazione istituzionale, la Corte ha rinviato il giudizio in corso all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia e ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, mentre sarà compito della stessa verificare ex post la conformità delle decisioni effettivamente assunte alla Costituzione.

Il giudice delle leggi, dunque, dopo aver dichiarato, in maniera cristallina, l’illegittimità costituzionale della disciplina sull’ergastolo ostativo ha deciso di ‘tenerla in vita’ per un altro anno in attesa di una decisione legislativa. Rispetto a questa scelta, il 10 giugno 2021, è intervenuto il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che, preso atto che l’Italia non ha raccolto il monito contenuto nella sentenza Viola, e rilevato che la Corte costituzionale (che, ad avviso di tutti, avrebbe dovuto segnare la morte del ‘fine pena mai’) ha emanato un provvedimento solo ‘interlocutorio’ (che, di fatto, costringe per un altro anno i condannati all’ergastolo ‘ostativo’ a subire una pena disumana e lesiva della dignità dell’individuo), ha sollecitato ancora una volta l’Italia ad adottare, senza ulteriore indugio, una riforma della disciplina sull’ergastolo ‘ostativo’.

La Guardiasigilli (Marta Cartabia), nell’accogliere l’appello del Consiglio d’Europa, ha elevato il suo appello al Parlamento affinché non perda ulteriore tempo ed ha suggerito, quale rimedio possibile, quello di prevedere, sempre a titolo esemplificativo, specifiche prescrizioni che governino il periodo di libertà vigilata anche regolandone diversamente la durata. La strada suggerita, però, sembra attenere più all’esecuzione della misura che non all’individuazione dei requisiti da prevedere per l’accesso alla liberazione condizionale (e agli altri benefici penitenziari) e degli strumenti che il condannato potrà utilizzare per dimostrare la sua estraneità al contesto criminale di appartenenza.

 

  1. Nell’ergastolo ‘ostativo’ si potrà davvero guardare ad un ‘orizzonte’?

È acclarato ormai che la disciplina sull’ergastolo ‘ostativo’, fortemente voluta per fronteggiare e sconfiggere la ‘Mafia’ (riconoscendo al soggetto condannato per reati di criminalità organizzata, il ‘marchio’ quasi indelebile di ‘soggetto mafioso, socialmente pericoloso’, condannato al ‘fine pena mai’), sia incostituzionale in quanto contraria al senso di umanità giacché priva del suo carattere rieducativo e del diritto alla speranza della remissione in libertà.

La CEDU ha chiarito che «la personalità del condannato non resta congelata al momento del reato commesso ma può evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione, che permette alla persona di rivedere in maniera critica il suo percorso criminale  e di ricostruire la sua personalità: “un detenuto condannato all’ergastolo incomprimibile ha il diritto di sapere (…) che cosa deve fare perché la sua liberazione sia possibile e quali sono le condizioni applicabili”[10]» .

Cosa accadrà adesso? Il Parlamento avrà il coraggio di riconoscere ad ogni pena, da chiunque commessa, un orizzonte?

Il serio pericolo che si annida tra le maglie dell’ordinanza della Corte costituzionale è che la prova richiesta al detenuto condannato all’ergastolo ‘ostativo’ non collaborante sia una ‘prova diabolica’, tale da impedire, de facto, l’accesso alla liberazione condizionale, ancorché la stessa sia astrattamente consentita de iure.

Il faro da seguire per garantire un orizzonte ad ogni pena è la presa di coscienza che la pena non può e non deve essere strumento di vendetta, non può e non deve legittimare la tortura del condannato ma anzi deve riconoscergli il diritto positivo alla rieducazione attraverso il potenziamento della sua dignità: la pena non può essere ‘punitiva’ perché se lo Stato tratta la persona nello stesso modo in cui il condannato ha trattato la sua vittima si rende uguale a lui e perpetua quella sopraffazione che è stata alla base del reato.

*Avvocato del Foro di Napoli

[1] La sentenza n. 274 del 1983 ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per l’ammissione alla liberazione condizionale. Nel caso in esame, il giudice remittente ha rappresentato che, a norma dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, tutte le pene, inclusa quella dell’ergastolo (contemplata dall’art. 18 del codice penale tra le pene detentive), devono tendere alla rieducazione del condannato e che, poiché l’istituto della liberazione anticipata è preordinato essenzialmente  ad un più efficace reinserimento del soggetto nella società,  la possibilità di tale reinserimento non può più ritenersi preclusa, in via di principio, al condannato all’ergastolo. Anche il condannato all’ergastolo, invero, a norma dell’art. 176 del codice penale, nel testo sostituito dall’art. 2 della legge 25 novembre 1962, n. 1634, scontati 28 anni di reclusione, può venire ammesso alla liberazione condizionale.

[2] Non a caso, la stessa Corte costituzionale, con sentenza n. 264 del 1974, aveva dichiarato costituzionalmente legittimo l’art. 22 del codice penale in relazione all’art. 27, comma 3, della Costituzione, proprio in quanto, pur annoverando una pena senza fine, riconosceva la possibilità di accedere ai benefici penitenziari. In particolare, la Corte sosteneva che: «l’astratta comminatoria della pena perpetua non è un fatto in sé lesivo della dignità della persona, e quindi non costituisce un trattamento degradante (oltre che eventualmente inumano), a condizione però che siano previsti in astratto, e che risultino realisticamente applicabili in concreto, strumenti giuridici utili a interrompere la detenzione e a reimmettere i condannati meritevoli nella società»; dunque, la pena dell’ergastolo di cui all’art. 22 codice penale è compatibile con il principio costituzionale di risocializzazione in quanto vi è la possibilità per il condannato di accedere – dopo aver scontato effettivamente almeno ventotto anni di pena – alla liberazione condizionale.

[3] Nelle sentenze n. 306 del 1993, n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995, la Corte ha individuato varie ipotesi di impossibilità di prestare un’utile collaborazione (perché fatti e responsabilità sono già stati completamente accertati, ovvero perché la posizione marginale nell’organizzazione criminale non consente di conoscere fatti e compartecipi al livello superiore, ipotesi tutte normativamente previste. La Corte ha poi chiarito, proprio in tema di liberazione condizionale, che «ancorare alla collaborazione la stessa astratta possibilità di fruire di fondamentali strumenti rieducativi, ha un senso solo ove […] si versi in ipotesi di ‘collaborazione oggettivamente esigibile’, giacché un comportamento che il legislatore presupponga come condizionante l’applicazione di istituti costituzionalmente rilevanti, non può che essere frutto di una libera scelta dell’interessato e, quindi, essere in sé naturalisticamente e giuridicamente possibile» (sentenza n. 89 del 1999).

[4] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 135 del 2003, ha dichiarato «non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Firenze», poiché la disciplina censurata non impedisce in maniera assoluta e definitiva l’ammissione alla liberazione condizionale che resta subordinata alla libera scelta del soggetto di non collaborare con la giustizia.

Con la sentenza in commento, dunque, si ancora la tenuta costituzionale della norma al solo fatto che il legislatore abbia previsto la possibilità di ‘superare’ il ‘fine pena mai’ attraverso la scelta collaborativa (assunta dal legislatore stesso a «criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il ‘sicuro ravvedimento’ del condannato» (sentenza n. 273 del 2001), purché esigibile.

[5]  Sent. Corte cost. n. 306 del 1993 e n. 253 del 2019. La mancata collaborazione del detenuto può risiedere in motivi di paura e ritorsioni per sé per la propria famiglia, ma che «dall’indisponibilità a barattare la propria libertà personale con la libertà altrui, o ancora dalla legittima esigenza difensiva di non aggravare la propria posizione processuale». E. Dolcini, La pena detentiva perpetua nell’ordinamento italiano, in Dir. pen. cont., n. 3/2018, pagg. 11 e ss.

[6] Nella sentenza ‘Viola’ in commento si legge: «Nella decisione Garagin v. Italia (dec.) n. 33290/07, 29 aprile 2008; si veda anche Scoppola v. Italia (dec.) n. 10249/03, 8 settembre 2005), la Corte ha sostenuto che la reclusione a vita resta compatibile con l’articolo 3 della Convenzione, esprimendosi come segue: “(…) il condannato all’ergastolo può essere scarcerato secondo la formulazione dell’articolo 176 del CP. Secondo questa disposizione, il condannato all’ergastolo, che ha tenuto un comportamento tale da mostrare un sicuro ravvedimento, può essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventisei anni di detenzione. Può inoltre essere ammesso al regime di semi-libertà dopo aver scontato venti anni di reclusione (articolo 50 § 5 della legge n. 354 del 1975) (…), in Italia le pene a vita sono (…) de iure e de facto comprimibili. Peraltro, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione, né che il suo mantenimento in detenzione, seppur per un lungo periodo, è in se costitutivo di un trattamento inumano o degradante”».

[7] Sentenza della Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito [GB], nn. 66069/09 e 2 altri, CEDU 2013 (estratti).

[8] La Corte costituzionale, nella sentenza n. 306 dell’11 giugno 1993 ha affermato già che l’assenza di collaborazione non indica necessariamente il mantenimento di collegamenti con l’organizzazione mafiosa.

[9] Il collegio remittente richiama le precedenti pronunce con le quali la Corte costituzionale aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione assoluta di pericolosità sociale rispetto a varie discipline legislative. Con la sentenza n. 57 del 2013, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori) convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui prevedeva, per coloro per i quali sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose, l’applicazione della custodia cautelare in carcere come unica misura adeguata a soddisfare le esigenze cautelari, senza fare salva – rispetto al concorrente esterno – l’ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risultasse che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con altre misure; con la sentenza n. 48 del 2015, la Corte ha analogamente eliminato la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per gli imputati o indagati di concorso esterno in associazione mafiosa; con la sentenza n. 239 del 2014, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, comma 1, ordin. penit., nella parte «in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47 quinquies della medesima legge» nonché nella parte in cui «non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47 ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti»; con la sentenza n. 76 del 2017, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 quinquies, comma 1 bis, ordin. penit., limitatamente all’inciso «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’art. 4 bis», evidenziando, con riferimento alla detenzione domiciliare speciale di cui alla disposizione allora censurata, l’inammissibilità di presunzioni assolute che neghino l’accesso della madre alle modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosità sociale e facendo ricorso a indici presuntivi che comportano «il totale sacrificio dell’interesse del minore»; con la sentenza n. 149 del 2018, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58 quater, comma 4, ordin. penit., nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289 bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato, ribadendo i principi della progressività trattamentale e della flessibilità della pena «radicati nell’art. 27, comma terzo, Cost., che garantisce il graduale inserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale».

[10] Sentenza della Grande Camera, Vinter e altri c. Regno Unito [GB], nn. 66069/09 e 2 altri, CEDU 2013 (estratti).

Sulla necessità di considerare la pena come strumento di rieducazione, Elvio Fassone ha scritto (nel suo libro ‘Fine pena: ora’), «tutti noi discendiamo da un prototipo umano violento, ed il male si annida in ciascuno di noi. Ma la risposta al male non è né il rifiuto di riconoscerlo da parte di chi lo ha commesso, né la vendetta da parte della comunità che lo ha patito. L’etica superiore passa attraverso un profondo riconoscimento della propria colpa e attraverso un ravvedimento attivo ed assiduo (la costruzione della città): solo allora viene rimosso il bisogno di reazione punitiva, e solo allora la vendetta fa posto alla comprensione e al perdono collettivo.

Se questo avverrà, è probabile che sia accolta anche l’invocazione di chi, dietro le sbarre, ha compiuto il suo ravvedimento e, come Caino, domanda di poter diventare costruttore di città in condizione di libertà».