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NEL REGNO DEL PUBBLICO MINISTERO – DI MARIO GRIFFO E GIUSEPPE GUIDA

NEL REGNO DEL PUBBLICO MINISTERO – DI MARIO GRIFFO E GIUSEPPE GUIDA

 GRIFFO – GUIDA – NEL REGNO DEL PUBBLICO MINISTERO.PDF

di Mario Griffo e Giuseppe Guida

Il codice delle garanzie e dei diritti coniato nel 1988, alla luce di tutti i rattoppi e le interpolazioni, anche giurisprudenziali, nel corso di trent’anni anni di vigenza ha cambiato volto: è (diventato) un codice per il colpevole; non già per l’imputato, men che meno per il presunto innocente.

Nel codice di procedura penale elaborato nel 1988 non vi è alcuna previsione che rimandi, esplicitamente, al “contraddittorio”. Neppure nella legge delega figurava tale espressione, a dispetto di un altro valore: l’oralità.

Esso doveva costituire il baluardo irrinunciabile del processo penale, giammai barattabile in nome di istanze emergenziali ovvero securitarie.

Non casualmente, una delle disposizioni di attuazione del codice del 1988 disciplina (persino) la logistica dell’aula di udienza dibattimentale.

Si tratta dell’art. 146 (per l’appunto, delle norme di attuazione) ove si prevede: “nelle aule di udienza per il dibattimento i banchi riservati al pubblico ministero e ai difensori sono posti allo stesso livello di fronte all’organo giudicante”. La chiusura è emblematica: “Il seggio delle persone da sottoporre ad esame è collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”.

Orbene, al di là delle suggestioni estetico-architettoniche, volendo ricorrere ad enunciato per nulla eufemico, anzi degradante nel vernacolo, il legislatore ha preteso che il giudice e le parti “devono guardare in faccia” la fonte dichiarativa (in un luogo specifico che è, non a caso, l’aula di udienza).

Soltanto in questo modo, ipostatizzandosi i valori della “immediatezza” e, per l’appunto, della “oralità” il giudice può (deve!) formare il suo libero convincimento in maniera genuina, cogliendo gli elementi non verbali della comunicazione e saggiando i non secondari dati extralinguistici di cui essa si compone.

Si dirà: è questa la liturgia del contraddittorio; è questo l’inverarsi del mistero del processo, unico strumento capace di far rivivere accadimenti allocati in un contesto cronologico ormai esaurito. Per dirla con il compianto Cordero il processo penale “è mistero e teatro”.

Eppure, i rammentati canoni supremi, che avrebbero dovuto conferire democraticità, prima che regalità garantista, al nuovo prodotto codicistico sono stati spazzati via non tanto e non solo dai noti rigurgiti inquisitori di inizio anni ’90 ma, soprattutto, da una significativa pronuncia del 2019 delle sezioni unite, spartiacque irrefutabile del passaggio dal processo parlato al processo “cartolare”.

Si tratta della più nota “sentenza Bajrami” la quale per prima ed a prescindere dalla tanto discussa remotizzazione (espressione lessicale davvero infelice) del processo ne ha mortificato i connotati di essenza. Le prassi, le lungaggini processuali, le esigenze di smaltimento dei carichi giudiziari hanno seppellito la portata letterale dell’unica disposizione codicistica (l’articolo 525) per la quale Gian Domenico Pisapia aveva preteso, non casualmente, la suprema nullità: quella assoluta.

C’è un passaggio significativo di questa decisione che merita di essere posto in risalto, al di là degli aspetti più propriamente tecnici ad essa sottesi: “…nei trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale, i dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza costituiscono l’eccezione ad una regola rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni: in una simile situazione, il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro: anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo”.

Ecco il salto culturale, ormai non più emendabile; ecco la proiezione ideologica verso la burocratizzazione dell’accertamento tale da elidere i canoni informatori del modello accusatorio e da svilire la ritmica e le pulsioni del processo “costituzionalmente orientato”, sotto i colpi di un sentimento inquisitorio supportato da una giurisdizione pervasa da una visione proprietaria e da una “piazza” inneggiante all’etica della giustizia.

Al cospetto di tutto questo, il processo “telematico” (espressione preferibile a quella “da remoto”) costituisce inezia dalla portata quasi risibile.

Non c’era affatto bisogno del processo “da lontano” per estromettere la difesa dall’accertamento; il dado è stato già tratto in epoca pre-pandemica.

Ed il paradosso è proprio questo.

La pulsione convulsa verso la moralizzazione della giustizia, a mo’ di ossimoro culturale, ha via via pervaso la liturgia sacrale del processo piegandolo alla sua logica trasformandolo in instrumentum regni, affidando alla teologia del Pubblico Ministero l’uso e l’abuso.

Per cogliere la portata della affermazione, bisogna calare l’epocale arresto giurisprudenziale innanzi citato nel contesto processuale moderno, guardando al sistema nel suo complesso e rifuggendo dalla tentazione di conferire portata valoriale dirimente agli ultimi – gli ennesimi – progetti di riforma.

Orbene, il pubblico ministero è il dominus delle indagini preliminari, recte: della notizia di reato, dei suoi tempi di iscrizione oltre che dei tempi di durata della fase; per come categoricamente sancito da una ulteriore decisione, sempre delle sezioni unite, con la quale si è detto, in soldoni, che il pubblico ministero “può fare quel che gli pare”, non essendo suscettivo di controllo alcuno.

Passando oltre, la udienza preliminare è momento pressoché inutile (come i dati statistici, a partire da tangentopoli in poi, hanno drammaticamente dimostrato); peraltro svilita dalla spinta ordinamentale ad optare per i deflattivi, ed inquisitori, riti alternativi.

Giunti al dibattimento, cioè alla fase (in ipotesi) delle garanzie per antonomasia, al di là delle denunciate distorsioni afferenti alla oralità, alla immediatezza ed al contraddittorio, con la (semi)abolizione della prescrizione essa avrà durata tendenzialmente infinita, con un (ulteriore) corollario per nulla irrilevante. Ancora una volta, per sacro riconoscimento giurisprudenziale, fino alla pronuncia del dispositivo di sentenza il pubblico ministero potrà introdurre tutte le fonti dichiarative sopravvenute ritenute utili alla sua causa, pressoché ad libitum, con inconsistente vaglio esperibile da parte del giudice funzionalmente competente.

Non solo.

Durante lo svolgimento del dibattimento il pubblico ministero potrà, indisturbato, continuare a svolgere indagini e, dunque, nella segretezza dei reconditi anfratti delle sedi investigative calibrare la strategia meglio aderente alle contingenze processuali e, soprattutto, alla totale insipienza delle nova da parte dell’imputato e del suo difensore.

Altro cha parità delle parti!

Viepiù, potrà procedere alla modifica della originaria imputazione nonostante sia obbligato alla completezza delle indagini.

Nel caso, infine, dovesse sopraggiungere (raramente) sentenza di assoluzione, il pubblico ministero potrà proporre appello e, contestualmente, chiedere di risentire testi e collaboratori di giustizia, anche se già escussi in primo grado. La Corte di Appello adita sarà obbligata a dare corso a tali richieste, in tal modo materializzandosi una schizofrenia di indicibile paradossalità. Da un lato, con la citata sentenza Bajrami si è svilita la oralità e, con essa, contraddittorio ed immediatezza, dall’altro, si è dato corso ad un meccanismo che “impone” la attuazione di tali valori, addirittura nel giudizio di appello, nel sol caso ad impugnare sia il pubblico ministero.

Concludendo, sembra alquanto evidente che, in realtà, il codice delle garanzie e dei diritti coniato nel 1988, alla luce di tutti i rattoppi e le interpolazioni, anche giurisprudenziali, di trent’anni anni di vigenza ha cambiato volto: è (diventato) un codice per il colpevole; non già per l’imputato, men che meno per il presunto innocente.

Un prodotto normativo, insomma, di matrice punitiva ancora troppo condizionato dalla imperante cultura inquisitoria, giammai interessato da disegni di rivisitazione armonici refrattari al seme del giustizialismo persecutorio che riversa nella sovranità del Pubblico Ministero gli inevitabili guasti che le esperiente giuridiche moderne hanno ricusato e che, invece, Governi e Parlamenti – per utilità e convenienze elettorali – ancora alimentano, al pari del progressivo demansionamento difensivo.

Una prova di tutto questo? La menzionata “abolizione” (di fatto) dell’istituto della prescrizione accompagnata dalla recente proposta di introduzione della richiesta di condanna per confessione, istituto che ben disvelala mutazione genetica che ha pervaso il rito e che ha ridotto i suoi gangli vitali a simulacri post-garantisti.

Non si rimanga basiti, allora, se ad alleviare la bolsaggine indotta dal tedio delle domeniche pandemiche sovvengano biascicanti vaneggiamenti anti-trattativisti di un ministro della giustizia fustigato (in diretta nazionale) da uno dei simboli – riconosciuti – della lotta alla mafia.

Non si rimanga basiti, allora, se a settantadue anni dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana, e con essa del principio che assegna alla pena una funzione rieducativa, la sanzione penale possiede (ancora oggi) un significato rancoroso-vendicativo, tale da accompagnare l’imputato sino alla sua integrale espiazione.

Tutto questo e tanto altro può accadere nel Regno del pubblico ministero, di fatto imperante fino a quando non muterà la cultura dei diritti e delle garanzie e, con esse, il “palcoscenico” del processo.

Speriamo, nel frattempo, non sia troppo tardi; e che le assuefazioni qualunquiste e giustizialiste non abbiano annichilito le ultime resistenze sul fronte della affermazione della centralità delle prerogative individuali e della imprescindibilità della effettività della difesa.