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OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE PENALE/PARITÀ DELLE PARTI:  UN BINOMIO INCONCILIABILE. – DI GAETANO PECORELLA

OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE PENALE/PARITÀ DELLE PARTI: UN BINOMIO INCONCILIABILE. – DI GAETANO PECORELLA

PECORELLA OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE PENALE – PARITÀ DELLE PARTI- UN BINOMIO INCONCILIABILE.PDF 

 di Gaetano Pecorella*

L’obbligatorietà dell’azione penale, che ne maschera la vera natura discrezionale, crea una frattura tra la politica criminale espressa dal Parlamento con le leggi, e la concreta politica criminale posta in essere dagli organi dell’accusa. L’autonomia dell’organo dell’accusa nel perseguire i reati deve avere come contrappeso la sua responsabilità, nel rispetto però delle linee di indirizzo dettate dal Parlamento. In assenza di una politica giudiziaria vincolante, tutto è “riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti”.

            Non mi stancherò mai di ripetere ciò che ho scritto anche di recente[1] , e cioè che il giusto processo non ha retto alla prova dei fatti, perché ha privato giudice e P.M. di non pochi poteri, inducendoli alla sua tacita disapplicazione, ma e soprattutto perché non ha una copertura costituzionale, o meglio ce l’ha in una norma, l’art. 111, ma questa norma è contraddetta, o, quantomeno, non è supportata, da tutte le altre risalenti al 1948. La Costituzione, infatti, per quel che concerne il modello di processo penale, ha, per così dire, due anime: una che risale al Costituente del 1948, che non aveva, all’epoca, la cultura del processo accusatorio, stante l’antica tradizione italiana del processo inquisitorio; l’altra, introdotta nella Costituzione con la riforma dell’articolo 111 (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), che, con la formazione della prova in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, ha fatto una scelta chiara, nel senso del modello accusatorio. Ciò fa sì che vi siano in Costituzione numerose norme che costituiscono principi di garanzia, ma che riflettono una visione inquisitoria del processo; mentre mancano del tutto altre norme che darebbero piena attuazione ai principi del processo accusatorio, e che si possono riassumere nella terzietà del giudice, nell’onere della prova a carico del pubblico ministero, nella facoltatività dell’azione penale, nel ruolo della giuria e nella parità delle parti nel contraddittorio.

            È venuto il momento di fare una scelta definitiva nel senso di un modello coerente di processo penale: e questo non può che essere il modello accusatorio, perché in questa direzione si è mossa oramai tutta la cultura giuridica del nostro Paese, e, soprattutto, perché risponde ad una idea di giustizia propria di una società democratica in cui la dialettica è il metodo per la soluzione dei conflitti. Per fare ciò è necessario intervenire su una serie di articoli della Costituzione, modificandoli, sostituendoli o introducendoli ex novo.

            Prima di affrontare, e approfondire la posizione istituzionale del P.M., nei riflessi sulla terzietà del giudice (che tratterò in altro intervento), conviene considerare una norma della Costituzione, l’art. 112, che, già di per sé, fa sì che il P.M. non possa essere considerato parte, alla pari del difensore, ma, tutt’al più, come talora si è detto: “Una parte imparziale”. È, questa, una invenzione italica, uno di quei giochi di parole privi di senso logico: chi è “parte” non è “imparziale”, e, ovviamente, chi è “imparziale” non è, e non può essere “parte”. La realtà è che l’obbligatorietà dell’azione penale – come si dirà – è poco più di un mito dietro al quale si nascondono, talora, o spesso, precise scelte politiche: tuttavia, è proprio questa presunta, e persistente, “obbligatorietà” a creare una insuperabile disparità tra accusa e difesa. Se il P.M. agisce senza che a lui sia imputabile una scelta politica, sia pure nell’interesse generale, o dichiarato tale, o, meglio, dello Stato – amministrazione, il suo è un ruolo “vincolato”, contrapposto e distinto rispetto al difensore, che, dichiaratamente, è al servizio di una parte, per di più privata.

            È logicamente impossibile mettere sullo stesso piano chi è tenuto a compiere una attività giudiziaria, perché a ciò obbligato dalla legge, e chi rappresenta istituzionalmente un centro di interessi, per realizzare i quali fa, e deve fare, scelte mirate a questo scopo, con il solo limite della deontologia professionale. Il primo ha in comune con il giudice il requisito, che a questi è proprio, che lo identifica, e cioè l'”imparzialità”, il secondo ha in comune con il suo assistito l’obiettivo di far prevalere gli interessi di quest’ultimo e, quindi, la “parzialità”. L’art. 102, dunque, non può convivere con l’art. 111, e viceversa. Ma come tutti sappiamo, le cose non stanno così. La realtà è quella descritta da Giovanni Falcone. Ha osservato, infatti, come, in assenza di una politica giudiziaria vincolante, “tutto sia riservato alle decisioni assolutamente irresponsabili dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti“. Ed ha aggiunto: “Mi sento di condividere l’analisi secondo cui, in mancanza di controlli istituzionali sull’attività del pubblico ministero, saranno sempre più gravi i pericoli che influenze informali e collegamenti occulti con centri occulti di potere possano influenzare l’esercizio di tale attività. Mi sembra giunto, quindi, il momento di razionalizzare e di coordinare l’attività del pubblico ministero finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’obbligatorietà dell’azione penale e della mancanza di efficaci controlli sulla sua attività“. (Fondazione Giovanni e Francesca Falcone, Giovanni Falcone, interventi e proposte (1982/1992), Firenze, Sansoni, 1994, pagine 173 e 174). Il tutto con la conseguenza di dare anche una “immagine della giustizia che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema” (ibidem, pagine 180 e 181).

            Peraltro, la “frammentazione” delle iniziative dei pubblici ministeri e la totale assenza di responsabilità per l’esercizio personalizzato di un potere discrezionale di notevole ampiezza hanno ulteriormente moltiplicato le occasioni di diseguale trattamento dei cittadini davanti alla legge penale, che derivano comunque dalla mancata regolamentazione della discrezionalità. Ciò ha creato le condizioni più favorevoli per un uso distorto di ciò che il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, Jackson, ha definito come “il potere più pericoloso del pubblico ministero“, ossia, “quello di scegliere le persone da colpire piuttosto che i casi su cui indagare“, e, quindi, effettuare su loro indagini a tutto campo (R.H. Jackson, The Federal Prosecutor, “Journal of the American Judicature Society”, 1940); un’accusa che, infatti, è stata ripetutamente mossa ai nostri pubblici ministeri più attivi.

            I pubblici ministeri, se lo vogliono, possono decidere, in relazione ai singoli casi e secondo le rispettive inclinazioni, se e in che misura esercitare direttamente funzioni di polizia giudiziaria, in che misura utilizzare gli strumenti investigativi disponibili e che ampiezza dare alle indagini (e quindi, in buona misura, le sorti del singolo caso). In altre parole, è considerato pienamente legittimo che ciascuno di essi inizi e conduca, in assoluta indipendenza, indagini di qualsiasi tipo su qualsiasi cittadino, utilizzando le varie forze di polizia per accertare, o, peggio per andare alla ricerca di reati che essi stessi (più o meno fondatamente) ritengono essere stati commessi. E non possono in alcun modo essere ritenuti responsabili per queste decisioni, nemmeno qualora le accuse – come è di fatto ricorrentemente successo – si rivelino, negli anni successivi, del tutto infondate nel corso del dibattimento, cioè quando le molteplici sanzioni sociali, politiche, economiche o familiari, che di fatto spesso si collegano alle iniziative penali, hanno già prodotto appieno i loro dirompenti effetti sui cittadini indagati o imputati e sulle loro famiglie. Nella sostanza, l’obbligatorietà dell’azione penale formalmente e definitivamente trasforma qualsiasi atto discrezionale del pubblico ministero in “atto dovuto”. L’analisi delle decisioni che sono prese nella gestione del personale togato e persino nella giurisprudenza ordinaria rivelano ulteriori aspetti della discrezionalità dei magistrati inquirenti che rivestono notevole interesse: l’effettuazione di indagini assolutamente improduttive, anche di notevole costo, non tiene conto “della gravità e della concreta offensività del reato, del pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dell’interesse della persona offesa”, anche “indipendentemente dalla data del commesso reato o da quella delle iscrizioni del procedimento”.

            È di tutta evidenza, insomma, che le scelte che si effettuano nell’esercizio dell’azione penale e nell’uso dei mezzi di indagine sono, per loro natura, scelte di grande rilievo politico. Dal loro concreto esercizio dipende non solo l’effettiva protezione di valori che riguardano la libertà e la dignità dei cittadini, ma anche la definizione di una rilevantissima parte delle scelte di politica criminale relative alla repressione dei fenomeni criminali e quindi anche l’efficacia complessiva dell’azione repressiva nei confronti della criminalità. È una discrezionalità che, a differenza degli altri Paesi democratici, viene da noi esercitata in piena indipendenza da un corpo burocratico che in nessun modo può essere chiamato, neppure indirettamente, a rispondere delle scelte che compie nell’ambito dell’ufficio a cui questo appartiene, o anche, solidalmente con il capo dell’ufficio medesimo.

            Peraltro, l’obbligatorietà dell’azione penale, che ne maschera la vera natura discrezionale, crea una frattura tra la politica criminale espressa dal Parlamento con le leggi, e la concreta politica criminale posta in essere dagli organi dell’accusa: con la conseguenza della caduta libera del principio di legalità, inteso anche come scelte nella difesa dei beni e interessi collettivi secondo una visione “politica” della società.

            C’è traccia di questo raccordo tra gli indirizzi politici del Parlamento, e la loro concreta attuazione da parte dell’organo dell’accusa nei lavori della Commissione ministeriale per la riforma dell’ordinamento giudiziario, nominata con decreto dell’allora Ministro di grazia e giustizia Conso nel febbraio del 1993 e composta in maggioranza da magistrati di varie correnti. La Commissione aveva riconosciuto l’impossibilità di perseguire tutti i reati, anche con la più ampia depenalizzazione, e aveva pertanto ritenuto che fosse necessario stabilire alcune priorità nell’esercizio dell’azione penale. Rimase soccombente tuttavia l’orientamento che, data la natura politica della materia, il compito di fissare le priorità spettasse al Parlamento (proposta da Zagrebelsky). Prevalse invece la decisione che fossero le stesse Procure della Repubblica a stabilire le priorità (Documenti Giustizia), 1994, p. 1100).

 

            È da queste ultime considerazioni che si deve partire. Sono due i criteri che entrano in gioco: da un lato, deve esservi coerenza tra le scelte di Governo e parlamento in materia di politica criminale e gli indirizzi applicativi da parte delle Procure; dall’altro, il Pubblico ministero deve restare autonomo nelle iniziative in ordine ai singoli reati da perseguire. Ciò è possibile affidando al Parlamento di indicare le priorità in relazione a determinate aree criminali, eventualmente differenziando regione per regione; e, per altro verso, lasciando alle Procure la discrezionalità di perseguire i singoli fatti criminosi, con il rispetto delle priorità stabilite dal Parlamento.

            È nell’ambito di queste scelte, anch’esse politiche, che i Procuratori si assumono la responsabilità per come utilizzano le risorse messe a loro disposizione. Starà agli organi di controllo (allo stato: il CSM) approvare o censurare tali scelte, sia nella coerenza con gli indirizzi politici del Parlamento, sia nella selezione dei casi da perseguire e dei mezzi da utilizzare.

            L’azione penale resta, e non può che restare obbligatoria, visto che tutti i reati, in astratto, debbono essere perseguiti. Tuttavia si deve dare per scontato che l’azione penale abbia, e non possa non avere, ampi margini di discrezionalità: lo impone la realtà stessa secondo cui non tutti i reati possono essere perseguiti, stante la sproporzione tra i reati e chi ha il compito di indagare su fatti ed autori.

            Una parte molto rilevante delle politiche pubbliche nel settore criminale dipende, inevitabilmente, dalle scelte che i Pubblici ministeri adottano nel concreto esercizio dell’azione penale. Sicché la loro collocazione si trova su un crinale dal difficile equilibrio. Da un lato, la consapevolezza che il Pubblico ministero partecipa alla formulazione e all’attuazione delle politiche criminali, impone l’adozione di meccanismi atti ad assicurare che il ruolo svolto in questo cruciale settore sia in qualche modo disciplinato e controllato nell’ambito del processo democratico. Dall’altro, l’esigenza di garantire che l’azione penale sia esercitata con rigore, uniformità e correttezza impone di evitare un collegamento troppo stretto con il potere politico, che potrebbe essere usato dalle maggioranze del momento allo scopo di influenzare la  condotta (attiva od omissiva) del Pubblico ministero per obiettivi di parte; più in generale tale esigenza risponde anche all’obiettivo di assicurare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale e tutta la trasparenza possibile alla formulazione e alla gestione delle politiche criminali.

            La risposta possibile è l’autonomia dell’organo dell’accusa nel perseguire i reati, a cui fa da contrappeso la sua responsabilità, nel rispetto però delle linee di indirizzo dettate dal Parlamento. Le linee qui tracciate sembrano rispettare questi obiettivi.

            Ma, e soprattutto, di fronte a una parte che. istituzionalmente, è chiamata a fare scelte prioritarie, e dunque a perseguire i reati secondo scelte certamente politiche, verrà meno il mito di un Pubblico ministero “asettico”, contrapposto a un difensore, “parziale”. Sarebbe, questo, un ulteriore passo avanti verso una effettiva parità delle parti nel processo penale.

*Professore, Avvocato, Past President dell’Unione Camere Penali Italiane

[1] L’ordinamento giudiziario alla luce della norma costituzionale sul giusto processo, in Diritto di Difesa