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POLITICA & GIUSTIZIA: “COSA SALVARE” – DI GOFFREDO BETTINI

POLITICA & GIUSTIZIA: “COSA SALVARE” – DI GOFFREDO BETTINI

BETTINI – POLITICA E GIUSTIZIA COSA SALVARE.PDF

di Goffredo Bettini

 Pubblichiamo la trascrizione, rivista dall’autore, dell’intervento del Senatore Goffredo Bettini alla tavola rotonda “Politica & Giustizia: cosa salvare”, tenuta in occasione della presentazione della nostra rivista avvenuta il 25 e 26 settembre 2020. Le trascrizioni integrali saranno pubblicate sul quarto numero 2020 della rivista, di prossima pubblicazione.

POLITICA & GIUSTIZIA: “COSA SALVARE”

Coordina e modera Avv. Francesco Petrelli

Intervengono Sen. Goffredo Bettini, Avv. Gian Domenico Caiazza, Dott. Riccardo De Vito, Avv. Beniamino Migliucci, Prof. Avv. Gaetano Pecorella

Presentazione Diritto di Difesa – 26.09.2020 – L’intervento del Sen. Goffredo Bettini

Avv. Francesco Petrelli.

Buongiorno a tutti grazie a coloro che partecipano qui in sala ai nostri lavori e grazie anche a tutti coloro che seguono questo evento in diretta, su Camere Penali TV. Stiamo concludendo il nostro evento dedicato alla presentazione della rivista dell’Unione delle Camere Penali, Diritto di Difesa, presentazione che si conclude questa mattina con una tavola rotonda dedicata ai rapporti tra politica e giustizia. Mi corre l’obbligo di portarvi i saluti e le scuse di Lorenzo Zilletti, responsabile del nostro Centro Studi che avrebbe dovuto essere qui con noi questa mattina ma che non ha potuto abbandonare i lavori di un altro importante evento che si sta svolgendo a Bari, la quarta giornata in onore di Leonardo Sciascia, in occasione del centesimo anniversario della sua nascita. Intanto saluto i partecipanti a questa tavola rotonda partendo dal Presidente Caiazza che è il padrone di casa e che ci ospita e passando, poi, a due ospiti importanti, il Sen Goffredo Bettini e Riccardo De Vito, Presidente di Magistratura Democratica e poi altri due ospiti che però sono di casa, due Past President, l’amico Gaetano Pecorella e Beniamino Migliucci che è in collegamento da Bolzano mentre Riccardo De Vito credo che sia in collegamento da Sassari. Saluto tutti ed inizio con una brevissima introduzione, tra l’altro sarò un moderatore molto “moderato” perché vorrei riuscire a fare almeno due giri di tavola rotonda per cui i miei interventi saranno davvero una rapidissima interlocuzione.

Presentiamo la rivista dell’Unione delle Camere Penali che si intitola “Diritto di Difesa” e quindi voglio partire proprio da alcune riflessioni che riguardano le condizioni nelle quali oggi si trova un difensore all’interno del processo. Sentiamo voci strane levarsi intorno a noi: dalla Commissione Antimafia si sente dire che tutti i mali della giustizia derivano dal numero degli avvocati, gli avvocati sono troppi; forse come per i parlamentari ci dobbiamo aspettare anche noi un taglio lineare, non so se per numero di clienti, per censo, per età, staremo a vedere. Una voce ancora più sinistra si leva invece dal CSM, da un suo componente illustre: l’idea che gli avvocati si trovino dalla parte sbagliata, come se il processo non servisse proprio ad accertare chi ha torto e chi ha ragione, chi ha ragione e chi invece sbaglia. Dico una voce sinistra perché, probabilmente, anche i nostri colleghi turchi si trovano dalla parte sbagliata; che gli avvocati vengano minacciati è cosa che accade sempre più di frequente. Era qualche anno fa un evento eccezionale, ora non c’è processo che abbia una qualche visibilità mediatica nella quale non si confonda il difensore dell’imputato dal difensore del reato, l’accusa dall’accusato. Possiamo immaginare che si tratti, diciamo così, di effetti collaterali di quello che ora ormai noi, convenzionalmente, chiamiamo il populismo penale. Il dubbio che ci viene – che sarà poi oggetto dei vostri interventi – è che tutto questo non sia un fatto di superficie, che non si tratti appunto di eventi estemporanei, ma che tutto questo affondi le sue radici in una cultura del processo, in un rapporto malato tra politica, cultura collettiva e processo penale; un processo penale visto spesso, troppo spesso, dalla politica come uno strumento da agitare contro i propri avversari; una politica che vede il garantismo come l’altra faccia di questo strumento delle battaglie politiche e, allora, ci viene inevitabilmente da porre una domanda: da dove ricominciare? Possono bastare le riforme dei codici se non si interviene e non si prova a riformare questo rapporto malato, questo rapporto che è, oramai, deragliato da quelli che dovrebbero essere i fondamenti del processo in una moderna società democratica?

Voglio dare la parola subito al Sen. Goffredo Bettini, intanto, perché sappiamo ed abbiamo apprezzato alcuni suoi recenti interventi proprio in materia di garanzie processuali e di riforma del processo penale, ma poi anche do volentieri a lui per primo la parola anche, diciamo così, per una ragione affettiva, perché voglio ricordare a tutti che il padre di Goffredo Bettini, l’Avv. Vittorio Bettini è stato uno dei fondatori ormai nel lontano 1960 della Camera Penale di Roma.

Sen. Goffredo Bettini

Vi ringrazio di questa occasione che per molti aspetti, è come ritornare a casa. Avete ricordato mio padre e la temperie culturale nella quale sono cresciuto.

Mio padre era un avvocato repubblicano molto amico di Ugo la Malfa che spesso veniva a casa nostra con Oronzo Reale, allora Ministro della Giustizia, e tante altre personalità democratiche. Fin da bambino, ho conosciuto gli avvocati del tempo; assistevo ai processi di mio padre e poi lui mi invitava anche a sentire le arringhe di suoi colleghi: tra questi, ad esempio, ricordo Bruno Cassinelli, un avvocato che mi impressionò tantissimo. I primi cinque minuti delle sue difese erano anche un po’ difficili; aveva una voce ed un modo di parlare un po’ aspro, nel senso di un suono non usuale, ma, dopo cinque minuti, rimanevi abbagliato dal suo argomentare, una sorta di lunga preparazione che arrivava subito dopo al nodo folgorante e fondamentale della sua arringa, che penetrava in tutti i suoi aspetti; ricordo anche Nicola Madia nel processo di Raoul Ghiani e Fenaroli che ebbe un avvio bellissimo: “Chi è – rivolto al Presidente – Raoul Ghiani?” Già lì c’era quell’attenzione verso la persona dell’imputato, verso i suoi sentimenti, la sua storia; quello scavare psicologico, che in seguito diventò molto usuale; ma in quegli anni era tra le prime volte che si poteva ascoltare. Io nasco e cresco dentro questo ambiente, nutrito da certi ideali, legati alla missione dell’avvocato. Papà mi diceva spessissimo: “Meglio dieci colpevoli fuori dalla galera che un innocente dentro”; e poi richiamava, con grande forza, uno degli aspetti fondamentali del processo, vale a dire la sproporzione di forza tra il Giudice che ha dietro, nel momento specifico in cui si dispiega l’accusa, tutto lo Stato e tutto il suo potere e l’imputato che è solo (tranne nei casi in cui ha un contro-Stato che lo sostiene, la criminalità organizzata, un’organizzazione mafiosa o terroristica, e comunque anche in questo caso dovrebbe avere e la garanzia dei suoi diritti). Sì, è solo. Ecco questa mi pare una grande questione: la fragilità dell’imputato e persino la sua sfortuna. Mi ripeteva papà: attenzione Goffredo, l’imputato che arriva a giudizio è quello più sfortunato perché poi, in libertà, chissà quanti colpevoli ci sono che la fanno franca. Ecco perché un senso di umana pietà si deve sempre conservare nel momento del giudizio.

E, poi, la domanda che ha fatto Papa Francesco: “Chi siamo noi per giudicare?”. L’ha detto in riferimento a temi anche scottanti, suscitando tante polemiche e interrogativi nel mondo cattolico. Riferita al nostro incontro di oggi, la domanda “chi siamo noi per giudicare?” ci richiama al fatto che, alla fine, il potere giudiziario è un potere, comunque, umano. Porta con sé quindi tutti i limiti che hanno gli uomini e le donne e gli errori che essi possono compiere. Il potere giudiziario, diceva Montesquieu è terribile, sempre terribile: “Esso non dovrebbe essere affidato ad un senato permanente, ma dovrebbe essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell’anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richiede la necessità; in tal modo il potere giudiziario, così terribile tra gli uomini, non essendo legato né a un certo Stato né a una certa professione, diventa, per così dire, invisibile e nullo”. Naturalmente non siamo in grado al nostro tempo di lavorare su questa utopia. Ma il richiamo al carattere più possibilmente terzo, oggettivo, dubitativo che deve avere il potere giudiziario; questo sì è nelle nostre mani. Amo molto il cinema, mi viene in mente quella bellissima scena finale del film di Chaplin “Monsieur Verdoux” quando il protagonista, lo stesso Chaplin, va al patibolo e dice “voi mi avete accusato, tutto sommato, di aver ammazzato una decina di vecchiette; ma sempre voi che mi portate al patibolo, quanti morti avete procurato con le vostre guerre?”. È un paradosso ma dà il senso di una condizione umana che lotta contro un potere inappellabile, che ha però le sue colpe. La consapevolezza di questo è per me la base del garantismo. Il garantismo è prendere atto di questo squilibrio, di questa sproporzione di forza che continuamente si riproduce; è curarsi delle singole persone, della loro condizione di dolore, senza mai eliminare un sentimento di empatia e di pietà. Vengo da una storia politica in cui troppo spesso il “contesto” ha fatto premio sul resto. Vale a dire sull’individuo, sulla sua vita, da considerare sempre sacra. Sul carattere irripetibile della condizione umana. Questa impostazione ha portato anche a delle aberrazioni, perfino in grandi intellettuali e grandi poeti. Brecht, ad un certo punto, disse “ci tocca vivere in una epoca dove non è prevista la gentilezza”. Ma questo è sbagliato. Il coltivare la gentilezza, intesa in senso metaforico, è un lavoro che mai va sospeso. Lo stesso Brecht, infatti, ebbe a dire, a proposito dei processi staliniani: “Sì vanno bene, e tanto più gli imputati sono innocenti tanto più vanno condannati, perché, in quel momento condannare, comunque, rafforzava il potere sovietico, la sua immagine nel mondo. E le confessioni estorte confermavano l’esistenza di un complotto contro il comunismo”. Ho riflettuto su questa storia che in qualche modo mi appartiene. Ed ecco perché sento fortissimo il problema di un confronto vero nel partito democratico. Sui temi della giustizia. Se partecipo a questo dibattito, è certamente perché vengo da una famiglia di un certo tipo, ma anche perché c’è da svolgere un ruolo oggi, dentro la mia parte politica. Il Pd, almeno da un punto di vista storico- culturale, tanti nodi li ha sciolti, abbiamo totalmente abbandonato l’idea di una collettività opprimente che svaluta le persone. Ci nutriamo di un socialismo umano, unito alla sensibilità cristiana. Ho avuto un affettuosissimo rapporto con Marco Pannella; con la sua religione della legalità, delle istituzioni, del rispetto dei singoli, che veniva da una tradizione liberale e repubblicana; minoritaria nella politica italiana ma così forte, in quanto radice della Repubblica. Ci nutriamo, infine, dell’influenza determinante del pensiero cristiano, esistenzialista, da Mounier a Maritain. Ecco noi, il Pd, piuttosto che inseguire elucubrazioni astratte, dovremmo rafforzare e unificare queste nostre diverse radici. Penso che il nostro compito, anche il mio personale compito, sia spingere su questa strada.

Avv. Francesco Petrelli.

Grazie al Sen. Bettini che ha concluso il suo intervento proprio su di un punto assai interessante, del come e del perché, nella sinistra italiana, si sia allontanata questa idea della difesa, forte e convinta, dei principi del processo liberale e sul come e sul perché questo sia accaduto io inviterei proprio Gaetano Pecorella a dire qualcosa, se si vuole accomodare al tavolo dei relatori. Grazie.

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Secondo intervento del Senatore Bettini.

 Sen. Goffredo Bettini.

È stata chiamata in causa la politica. Dov’è che a un certo punto la politica ha smesso di funzionare, soprattutto attorno a questi temi della giustizia?

La data cruciale è il 1992.

La storia italiana è sempre stata sconnessa. C’è stata una storia ufficiale e una storia parallela; l’Italia, a causa delle sue alterne vicende, non ha mai avuto la forza di realizzare uno stato unitario, credibile e forte (al contrario della Francia, della Germania o dell’Inghilterra). Noi non abbiamo avuto la forza di affermare uno stato liberale e poi repubblicano in grado di essere un punto di riferimento stabile e duraturo e ponte positivo per un civile costume nazionale.

Dopo il ’45 i partiti di massa hanno svolto una grandissima funzione unificante di rappresentanza democratica, di civilizzazione delle masse. Perché ciò è accaduto in Italia, più che in altri Paesi?

Proprio i partiti di massa perché sono stati sostitutivi di qualcosa che mancava: hanno rappresentato non solo una parte, ma hanno svolto un lavoro “costituente” della Repubblica. Un lavoro di “tenuta della società”.

Quando – nel 1992 – salta tutto questo, la politica si è ritratta dal tentativo di cambiare per riproporre questa sfida democratica. Una volta colpita, non è riuscita a ricostruire, anche in forme diverse, quello che era andato perduto.

Penso (e l’ho scritto) che la sinistra abbia avuto – in quella fase – grandi responsabilità: quando Craxi fece in Parlamento una “chiamata di correo” a tutto il sistema politico, la nostra risposta fu debole, povera, insufficiente, politicista e ipocrita. Perché noi avremmo dovuto rispondere: “sì, tu te la vedrai con la giustizia, rispondendo di eventuali ruberie individuali, se ci sono stati fatti di corruzione”; noi (intendendo per noi il partito cui allora appartenevo, il PDS) non abbiamo praticato il lusso o festeggiato negli alberghi bevendo champagne, tuttavia anche noi siamo stati, fino in fondo, dentro un sistema che, in fin dei conti, mostrava da tempo di essere arrivato a conclusione. Perché il 30% degli appalti era destinato alle cooperative; perché stavamo dentro le Usl (così allora si chiamavano) per governare la sanità, secondo certi compiti non solo sul merito e sul funzionamento ma anche politici; perché i sindacati in molti casi decidevano le liste delle assunzioni.

Dovevamo rispondere, dunque: non “noi siamo i buoni e voi i cattivi” bensì “tu (poiché la responsabilità è individuale) ti difenderai circa i reati che ti contestano i magistrati ma tutto il sistema politico, tutto, va rinnovato. E noi siamo disponibili a farlo”.

Questo non è stato fatto.

Noi abbiamo sperato che lo schema dei “buoni” e dei “cattivi” avremmo preso più voti. In seguito, invece, nel 1994 è accaduto esattamente il contrario (ha vinto Berlusconi).

Non cogliemmo la sostanza di quel passaggio di crisi della democrazia italiana.

Questo errore cosa ha determinato?

Come puntualmente ha rilevato Pecorella, il vuoto non esiste: quando un potere decade e fugge se ne sostituisce un altro (è un fatto persino fisiologico). Nel nostro caso fu la magistratura, che, appunto, nella storia dell’illegalità italiana aveva svolto una funzione che, in certi casi, si può definire eroica (quanti magistrati sono morti per mano della camorra, della mafia, del terrorismo!).

Accanto a questa questione, tipicamente italiana, ce n’è stata un’altra più generale.

Certi processi di internazionalizzazione e di globalizzazione hanno spazzato via tante forme di rappresentanza, soprattutto politica.

Noi ci troviamo in una società senza forme.

Sono entrate in crisi le forme istituzionali (il Parlamento) ma, come è stato detto, molte altre forme della società: la famiglia; la Chiesa (per cui oggi il Papato deve allargare la sua visione, come sta facendo Papa Francesco).

La società si sta disperdendo, non ha più punti di riferimento certi: anche i ceti più protetti sentono la solitudine e la precarietà.

Qui Pecorella ha ragione: in questo disperdersi di forme, la “forma delle regole” e il rispetto della legalità vanno assolutamente salvati. Sono elementi da invocare e di garanzia per gli imputati e le vittime di reati.

Certo, parliamo di forme giuste e civili. Non delle leggi che siamo costretti a contraddire, perché mal concepite.

C’è un lavoro da fare per il Parlamento e la sinistra.

Sempre Montesquieu osservava che il potere giudiziario “deve essere talmente neutro” da diventare invisibile: è un’utopia ma va nel senso che diceva l’Avvocato Pecorella.

Ripartiamo da lì. Dalle regole, capaci di dare una misura certa a tutti i protagonisti del processo penale.

Certo, come ho già detto, nella consapevolezza dei limiti del giudizio umano. Per cui le regole vanno piegate a quella pietà e considerazione umana. Lo diceva il mio grande Maestro Pietro Ingrao: le regole da sole non riescono mai ad acchiappare tutto l’umano di una persona; c’è qualcosa che sfugge, di indicibile, misterioso. Che non si può misurare con un metro esclusivamente astratto.

Qui interviene la deontologia del magistrato.

Ricordo un meraviglioso intervento del magistrato Ferrajoli di qualche anno fa: parlando proprio della deontologia del magistrato, si riferiva al valore del dubbio che il giudice deve avere sempre dentro di sé; dell’incertezza della verità processuale; del fatto che occorre arrivare al vero nell’indifferenza della ricerca.

E poi, la singolarità del caso: vale a dire vedere il caso nella sua specifica verità e nella sua specifica dinamica, non collegandolo mai ad un contesto a lui estraneo.

E ancora, non piegarsi alle spinte del momento che vengono da un’opinione pubblica che, quando resta opinione pubblica indistinta è “plebe inconsapevole”. Paolo Bufalini mi suggeriva spesso (quando ero segretario giovanissimo del Pci di Roma): “Goffredo, stai attento perché il pericolo viene dagli avversari ma anche dal plebeismo che abbiamo dentro di noi. Non lo devi espellere, perché altrimenti diventi elitario. Non lo devi considerare di per sé estraneo, perché altrimenti ti isoli in una pedagogia inefficace. Lo devi attraversare, lo devi educare, con la politica. Devi rendere quella plebe (il popolo) consapevole”.

Infine, Ferrajoli invocava nel suo discorso il rispetto delle parti.

C’è oggi questo rispetto?

Si suscita la fiducia delle parti verso chi giudica? C’è la riservatezza necessaria affinché elementi esterni non diventino così preponderanti da ferire il processo nella sua equità, nella sua riservatezza, nel rispetto umano di tutti?

Diceva Ferrajoli: “non ci deve essere neppure lontanamente l’odore di una strumentalizzazione politica”. È così?

Quando invece molto è strumentalizzazione politica?

E chi ci rimette? La persona più esposta sopra la quale divampa una lotta. Spesso si giocano elementi in qualche modo politici. Non sono così convinto che questo descritto sia oggi in Italia un sentimento di minoranza. Piuttosto lo vedo diffondersi, a partire dalle esperienze di vita di tante persone.

Resta comunque non facile valorizzare la deontologia di Ferrajoli in un Paese in cui si usa per esempio la

carcerazione preventiva, in modo torturante. Orlando, da Ministro, svolse un lavoro importante per individuare delle forme alternative alla carcerazione, assolutamente più umane, meno incombenti sull’animo dell’imputato, che in certe condizioni è spinto anche a dire cose non vere.

Oppure quando la prescrizione – anche se vieni assolto e c’è, tuttavia, un’impugnazione della sentenza- è a fine vita. Abbiamo contestato l’ergastolo, per dire che la pena non è solo punizione ma anche possibilità di redenzione e poi lasciamo il giudizio sospeso in modo indeterminato. Questo significa nel lavoro, nei rapporti con la famiglia vivere una condizione di sofferenza e precarietà esistenziale spaventosa.

Oppure, le indagini preliminari che durano troppo e riducono per tanti la fase del dibattimento; del confronto tra difesa e accusa, che è il momento fondamentale per far prevalere la verità.

Oppure la mancanza di terzietà.

Che, francamente, è un concetto semplice: per avere un processo giusto, devi confrontare “uno, uno e uno”. Perché se sei “due e uno” non c’è più l’equilibrio tra l’accusa e la difesa.

Vedete, sono stato uno dei promotori del governo Conte II e l’ho difeso. Il Movimento 5Stelle ha cambiato tante posizioni su vari temi (l’Europa, l’utilizzazione della Scienza nella pandemia, l’economia e la crescita economica). Il loro è un mondo variegato (dove dentro c’è tutto e il contrario di tutto) ma sulla questione della Giustizia – l’ho detto pubblicamente – c’è un baratro tra quello che penso io e quello che pensano loro. Occorre quindi una grande battaglia ideale, culturale del nostro partito.

In fondo, siamo a Roma, dove si sono costruite le prime grandi forme del diritto. La civiltà greca ha dato straordinarie prove di speculazione filosofica, di qualità della democrazia, di ricerca dell’armonia e del bello. Ma siamo stati noi a costruire le forme più certe dei rapporti tra i cittadini e tra loro e lo Stato. Dovremmo riappropriarci di tale radice.

Avv. Francesco Petrelli.

Voglio, davvero e in maniera non formale, ringraziare il senatore Bettini per aver voluto – oggi e proprio qui – dire cose politicamente importanti e così giuridicamente profonde. Lo voglio ringraziare anche per un’altra ragione, perché con il suo intervento ci ha confortati sulla possibilità che la scienza giuridica/valoriale che contraddistingue la nostra Associazione può davvero non rimanere minoritaria e diventare, in questo paese, un sentire comune. Grazie davvero.