TUTELA DELLA SALUTE DEI DETENUTI IN TEMPO DI PANDEMIA E DELLE VITTIME DEI REATI VIOLENTI – DI SETTIMIO MONETINI
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di Settimio Monetini*
Alcune riflessioni a margine della sentenza della Corte Suprema di Cassazione, V sezione penale, 13 ottobre 2020 – 5 gennaio 2021, n. 165.
La sentenza che si commenta esamina ampiamente la questione del raccordo tra le norme che intendono tutelare la salute del detenuto imputato, di età avanzata e con patologie che lo espongono ad un rischio particolare nella fase pandemica da Coronavirus e le norme che negli ultimi anni hanno inteso offrire alla vittima di reati violenti alcuni strumenti a sua tutela, ad esempio consentendo la sua partecipazione al procedimento penale o prevedendo l’onere di informazione preventiva della vittima. La sentenza dichiara le esigenze di giustizia – che costituiscono il fondamento dei diritti della persona offesa, come declinati nella recente produzione legislativa, recessive rispetto al diritto alla salute del detenuto. L’ampia motivazione della sentenza offre lo spunto per definire il ruolo assegnato dall’ordinamento all’Amministrazione sanitaria che ha in carico i detenuti; alcuni aspetti critici connessi al potere certificatorio attribuito talora ai sanitari stessi; alcuni aspetti problematici che caratterizzano l’attestazione, rimessa all’Amministrazione penitenziaria dalla legge 70/2020, sulla disponibilità di spazi detentivi per i detenuti ai quali sono revocati gli arresti domiciliari o il differimento della pena, quando concessi per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19. È infine valorizzato il ruolo che è attribuito dall’ordinamento all’Amministrazione penitenziaria ed a quella sanitaria per diminuire il rischio di recidiva dei condannati, a tutela delle vittime di reati violenti.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’incompatibilità col regime penitenziario durante la pandemia da Coronavirus. – 3. Aspetti qualificanti del servizio sanitario per i detenuti. – 4. Oneri certificatori o (solo) di segnalazione? – 5. La definizione della idoneità delle condizioni di detenzione tali da evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato. – 6. La attestazione di “disponibilità di strutture penitenziarie”. – 7. La tutela della vittima del reato. – 8. I servizi sanitari e penitenziari hanno un ruolo nella tutela delle vittime dei reati violenti?
- Premessa.
La Corte Suprema di Cassazione, Quinta sezione penale, con sentenza 5 gennaio 2021, n. 165, decisa nell’udienza del 13 ottobre 2020, «annulla senza rinvio» un’ordinanza emessa l’11 maggio 2020 dal Tribunale della Libertà di Palermo, la quale aveva confermato una precedente decisione del G.I.P. dello stesso Tribunale di Palermo con la quale era stata rigettata la richiesta di «sostituzione della custodia cautelare in carcere» ad un detenuto, imputato per partecipazione ad associazione per delinquere di stampo mafioso e reati connessi, «ultrasettantenne e soggetto al rischio di contrazione del virus denominato “Covid 19”». La Corte Suprema di Cassazione, in sintesi, non ha condiviso la decisione del Tribunale della Libertà di Palermo secondo la quale la difesa del detenuto «all’atto della presentazione dell’istanza di sostituzione del regime cautelare… (avrebbe dovuto) notificare la richiesta (di sostituzione della misura cautelare in carcere) alla persona offesa dal reato di estorsione aggravata dal metodo mafioso…» (art. 299, commi 2-bis e 3 c.p.p.). La questione giuridica verte essenzialmente sulla necessità di garantire un coordinamento tra alcune norme del codice di procedura penale che perseguono il fine di tutelare la salute dell’imputato detenuto (di età avanzata o con patologie o particolarmente a rischio di contagio da Coronavirus-2 durante la pandemia) e norme introdotte negli ultimi anni (decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 e legge 19 luglio 2019, n. 69) che intendono offrire tutela alla vittima di reati violenti, anche consentendo la sua partecipazione al procedimento penale o prevedendo l’onere di informazione preventiva della vittima (ad es. in caso di richiesta di revoca o di sostituzione della misure cautelari da parte dell’imputato), al fine, in estrema sintesi, di evitare che la parte lesa, una volta restituita la libertà all’imputato, sia esposta a «vittimizzazione secondaria».
Si tralascia in questa sede l’approfondimento di alcuni aspetti squisitamente giuridici (ad es. connessi all’applicazione di quanto previsto agli art. 299 e art. 597 c.p.p.), mentre si dedica particolare attenzione ad alcune questioni ritenute di particolare interesse relative all’assistenza sanitaria offerta ai detenuti.
- L’incompatibilità col regime penitenziario durante la pandemia da Coronavirus.
La giurisprudenza e letteratura medico legale sulla questione della incompatibilità col regime detentivo, nell’ultimo anno si è dovuta “confrontare” con le norme introdotte nell’anno 2020, in via d’urgenza, al fine di favorire la gestione della pandemia da Coronavirus negli istituti penitenziari (legge 25 giugno 2020, n. 70, che ha convertito in legge il decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28; decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29; decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, «Ulteriori misure in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19», convertito con modificazioni con legge 18 dicembre 2020, n. 176). Tali recenti provvedimenti legislativi, tra l’altro, intendono consentire l’uscita dal regime detentivo di detenuti a particolare rischio sanitario e favorirne l’accesso, ad esempio, alla detenzione domiciliare o al differimento della pena o ai permessi, anche al fine di diminuire l’affollamento delle sezioni detentive, evidentemente ritenuto occasione favorente la diffusione della pandemia.
In tale contesto, per i detenuti imputati o condannati per reati di eccezionale gravità, in considerazione della loro pericolosità sociale data dal loro essere inseriti in reti criminali, è stato valorizzato, nel contempo, il ruolo della Procura della Repubblica (inclusa quella presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna) e dell’Amministrazione penitenziaria.
Nel dettaglio, la legge 25 giugno 2020, n. 70, «Misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario», prevede all’art. 2 per detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis ord. penit., nei procedimenti relativi ai permessi ed alle detenzioni domiciliari, il parere, oltre a quello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di condanna o ove ha sede il giudice che procede, del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto.
L’art. 2-bis della stessa legge 70/2020 regolamenta, per i detenuti imputati o condannati per reati di particolare gravità, l’ammissione o la revoca della detenzione domiciliare o del differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19. È previsto altresì che tale valutazione sia effettuata immediatamente, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena. Prima di provvedere, l’autorità giudiziaria sente l’autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta della Regione, sulla situazione sanitaria locale; inoltre, acquisisce dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria le predette informazioni in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato o l’internato, ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena, può riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. L’autorità giudiziaria, insomma, provvede valutando se permangono i motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di ammissione alla detenzione domiciliare o al differimento della pena, nonché la disponibilità di altre strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato.
L’art 2-ter della legge 70/2020 prevede «Misure urgenti in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19»: per i detenuti imputati o condannati per reati di particolare gravità, è ammessa la sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19 ed anche in questo caso è previsto che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell’imputato. Il giudice, prima di decidere, sente l’autorità sanitaria regionale, in persona del Presidente della Giunta della Regione, sulla situazione sanitaria locale e acquisisce notizie dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria informazioni in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui l’imputato può essere nuovamente sottoposto alla custodia cautelare in carcere senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. Il giudice provvede valutando anche la permanenza dei motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di sostituzione della custodia cautelare in carcere. Quando non è in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice può disporre, anche d’ufficio e senza formalità, accertamenti in ordine alle condizioni di salute dell’imputato o procedere a perizia, nelle forme di cui agli articoli 220 e seguenti del codice di procedura penale (art. 2-ter, comma 2, decreto-legge 28/2020 e art. 3, comma 2, decreto-legge 29/2020).
Come appena ricordato, alcune misure (detenzione domiciliare o differimento della pena o sostituzione della misura cautelare in carcere) possono essere concesse «per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19» e, quindi, anche senza l’acquisizione di notizie sulle condizioni di salute del detenuto richiedente; è invece richiesta l’acquisizione di dati sulla «permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria» e di pareri del Procuratore distrettuale ed, eventualmente, di quello nazionale antimafia e antiterrorismo. Resta ferma la necessità di acquisizione della informativa del Presidente della Giunta regionale sulla situazione sanitaria locale e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria circa la disponibilità di strutture penitenziarie o reparti di medicina protetta.
Non nell’art. 2 («Disposizioni urgenti in materia di detenzione domiciliare e permessi») né nell’art. 2-bis («Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19»), ma solo nell’art. 2-ter («Misure urgenti in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19») del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, nel testo coordinato con la legge di conversione 25 giugno 2020, n. 70, è previsto che il giudice, se deve sostituire la custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19, e se non è «in grado di decidere allo stato degli atti» – può discrezionalmente disporre, anche d’ufficio e senza formalità, accertamenti in ordine alle condizioni di salute dell’imputato o procedere a perizia nelle forme di cui agli articoli 220 e seguenti del c.p.p.
Anche in caso di richiesta di revoca o di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere fondata sulle condizioni di salute di cui all’articolo 275 c.p.p., comma 4-bis, ovvero su condizioni di salute segnalate dal servizio sanitario penitenziario o risultanti in altro modo al giudice, e se questi non ritiene di accogliere la richiesta «sulla base degli atti», il giudice dispone con immediatezza, e comunque non oltre il termine previsto nel comma 3, gli accertamenti medici del caso, nominando perito ai sensi dell’articolo 220 e seguenti c.p.p., il quale deve tener conto del parere del medico penitenziario e riferire entro il termine di cinque giorni, ovvero, nel caso di rilevata urgenza, non oltre due giorni dall’accertamento.
L’art. 275 c.p.p., al comma 4-bis, infatti, prevede che «non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere».
Se, invece, il giudice deve decidere sulla rivisitazione (revoca) dei provvedimenti di applicazione della detenzione domiciliare o del differimento della pena, per i detenuti in espiazione di pena («condannati») deve valutare (solo) la «permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria» ed i pareri del Procuratore distrettuale, ed, eventualmente, di quello nazionale antimafia e antiterrorismo, nonché l’informativa del Presidente della Giunta regionale e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
- Aspetti qualificanti del servizio sanitario per i detenuti.
La grande attenzione dell’opinione pubblica e del legislatore alle (secondo il linguaggio utilizzato nel c.p.p.) «scarcerazioni» (rectius: dimissioni[1]) di detenuti imputati o condannati per reati associativi, attesa la loro altissima pericolosità sociale, rischia di sminuire o travisare il compito del servizio sanitario nel contesto penitenziario. Infatti, se pure la stragrande maggioranza dei detenuti non sono inseriti nei circuiti 41-bis o.p. o alta sicurezza, anche il ricorso alla Corte suprema di cassazione che si è concluso con la recente sentenza che qui si commenta, riguarda un ricorso presentato da un detenuto imputato per reati di criminalità organizzata. Il servizio sanitario, però, deve interessarsi di tutti i detenuti (art. 3 e art. 117, comma 2, lettera m) Cost.), anche di quelli che non possono avvalersi, ad es. per indigenza, di periti di parte o servizi legali. L’acceso dibattito suscitato nell’ultimo anno di pandemia dalle asserite «scarcerazioni dei mafiosi», insomma, non può sminuire l’onere ricadente sui servizi sanitari e sulla magistratura di garantire la salute di tutti i detenuti, anche di quelli con meno risorse ed anche in occasione dell’attuale eccezionale pandemia da Coronavirus, in coerenza con i principi di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost. («pari dignità sociale»). Si richiama, in tale contesto, l’art. 49 del codice deontologico dei medici (che esige il «rispetto rigoroso dei diritti della persona») e gli artt. 30 e 31 del codice deontologico degli infermieri (che regolamenta la «responsabilità nell’organizzazione e valutazione dell’organizzazione»).
Pertanto, il servizio sanitario predisposto per i detenuti deve innanzitutto assicurarne la presa in carico, anche favorendo gli accertamenti diagnostici, dei detenuti a maggiore rischio sanitario, in quanto affetti da malattia particolarmente grave per effetto della quale le condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in vinculis. L’art. 275 c.p.p., comma 4-bis, prevede che «Non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da […] altra malattia particolarmente grave». Accertamenti sulle condizioni di salute del detenuto, segnalate dal servizio sanitario penitenziario, o che risultano in altro modo al giudice, qualora lo stesso lo ritenga necessario, sono disposti nominando perito ai sensi dell’articolo 220 c.p.p. e seguenti, il quale deve tener conto del parere del medico penitenziario.
Non risulta sia stato ancora sufficientemente valorizzato dalle stesse due Amministrazioni coinvolte, il fatto che l’ordinamento sanitario e quello penitenziario attribuiscono al servizio sanitario che opera presso gli istituti penitenziari l’onere di assicurare non solo la presa in carico del singolo detenuto che manifesta bisogni di salute, ma anche quello di adottare «interventi globali sulle cause di pregiudizio della salute» per far fronte alle «esigenze profilattiche» (art. 11 ord. penit.) sia individuali (fisiche, psichiche, culturali, economiche) che ambientali (connesse, ad esempio. alla convivenza forzata ed alla stessa privazione della libertà personale). L’ordinamento penitenziario, che ovviamente vincola anche i responsabili dei servizi sanitari, prevede espressamente la realizzazione di interventi dei «servizi sanitari e psicologico» in tema di «contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale» (art. 16 d.P.R. 230/2000)[2].
- Oneri certificatori o (solo) di segnalazione?
Sull’argomento, visto anche quanto previsto all’art. 2-ter del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito con legge 25 giugno 2020, n. 70, attesa la complessità della materia, in questa sede ci si limita ad evidenziare che risulta problematico che sia lo stesso servizio sanitario che ha in carico il detenuto a certificarne le condizioni di salute, e, nello stesso tempo, anche l’idoneità e adeguatezza dei servizi sanitari per la gestione dello stesso, quando tali certificazioni costituiscono fattore determinante nel procedimento, aperto presso una autorità giudiziaria, che verte sulla dimissione o immissione nel circuito detentivo (ad es. per ammissione o revoca di arresti domiciliari per gli imputati o detenzione domiciliare per i condannati). Tale esercizio della potestà certificatoria del medico curante (che non deve farsi condizionare dal paziente-detenuto) e di medico certificatore (che non deve limitare la sua autonomia) risulta potenzialmente contrastante con il codice di deontologia medica agli artt. 3, 4, 13 e 62; quest’ultimo, in particolare, sancisce i profili di incompatibilità tra attività medico legale ed attività di assistenza e cura). Conforme parere è espresso al paragrafo 7 del documento dal titolo «La salute dentro le mura» del Comitato Nazionale per la bioetica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (27 settembre 2013): «Sarebbe […] opportuno che questo giudizio (sulla incompatibilità delle condizioni di salute col regime carcerario) fosse lasciato a un medico diverso da quello di reparto, per evitare di ledere il rapporto medico curante – paziente». Sussistono molteplici ragioni, non solo di natura deontologica[3], per ritenere che il medico che ha in cura il detenuto non debba essere lo stesso che deve esprimersi sulla compatibilità delle condizioni di salute del detenuto col regime “carcerario” (?) (art. 299, comma 4-ter, c.p.p.), né sulla sussistenza delle condizioni per il differimento della pena (art. 684 c.p.p.) secondo la procedura di cui agli artt. 146 e 147 c.p., potendo ricorrersi alla nomina di un perito ex art. 220 c.p.p.
Rafforza il giudizio di “problematicità” della prassi nella quale è delegato il medico del servizio che ha in carico il detenuto a fornire dati sanitari (sulle condizioni di salute del detenuto e sulla idoneità dei servizi attivati nella sede penitenziaria), l’annotazione che è normativamente sancito l’onere di segnalazione all’autorità giudiziaria, per il tramite del direttore dell’istituto penitenziario, da parte dell’Amministrazione sanitaria, della sussistenza nel detenuto di condizioni cliniche di interesse, incluse quelle relative alla ipotizzata incompatibilità col regime penitenziario. Tale onere di segnalazione all’autorità giudiziaria, fondato sulle notizie fornite ovviamente dall’Amministrazione sanitaria, ricade sul direttore dell’Istituto penitenziario, quando le condizioni cliniche potrebbero comportare la dimissione del detenuto, ai sensi dell’art. 23, comma 2, d.P.R. n. 230/2000, oppure sul “gruppo di osservazione e trattamento” quando risulta possibile proporre benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione, nell’interesse del detenuto (art. 57 ord. penit.). In merito alla segnalazione dello stato di incompatibilità col regime detentivo si rinvia anche agli artt. 286-bis, comma 1 e 299, comma 4-ter, c.p.p. Analogamente, in tutti i casi di «grave infermità fisica o psichica» (grave, non necessariamente gravissima!), sussiste l’obbligo della direzione dell’istituto penitenziario di dare attuazione all’art. 29, secondo comma, della legge 354/75: «In caso di decesso o di grave infermità fisica o psichica di un detenuto o di un internato, deve essere data tempestiva notizia ai congiunti ed alle altre persone eventualmente da lui indicate». È però evidente che in tutti i casi sopra richiamati i dati sanitari, peraltro solo se pertinenti e strettamente necessari a dare attuazione agli oneri di segnalazione previsti dalle norme sopra richiamate, non possono che essere forniti all’Amministrazione penitenziaria dall’Amministrazione sanitaria (ASL). Risulta possibile sostenere che la comunicazione corretta ed adeguata ai congiunti del detenuto di notizie sanitarie non possa che essere correttamente veicolata non dagli operatori penitenziari, ma da quelli sanitari. Infatti, si ritiene che l’art. 29, secondo comma, cit. nella formulazione in vigore dal 1975, risenta del mancato aggiornamento del testo della legge (ord. penit.), risalente al 1975 e quindi all’epoca nella quale i servizi sanitari per i detenuti erano ancora erogati dall’Amministrazione penitenziaria. La previsione di cui all’art. 29 ord. penit. risulta coerente e “complementare” con quella contenuta all’art. 46 («Assistenza post-penitenziaria»), comma 3, dello stesso ord. penit.: i dimessi affetti da gravi infermità fisiche o da infermità o anormalità psichiche sono segnalati, per la necessaria assistenza, anche agli organi preposti alla tutela della sanità pubblica. Previsioni integrative di quelle appena cit. e coerenti con le stesse, sono contenute anche negli artt. 23, 63, 89 e 108 del d.P.R. 230/2000, ai quali si rinvia.
Spetta all’ Amministrazione sanitaria adottare le iniziative organizzative e gestionali perché i propri servizi siano adeguati non solo ai bisogni di salute dei singoli detenuti, ma alle prescrizioni contenute nel D.P.C.M. 12 gennaio 2017, «Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza …»; in particolare, degli artt. 33, «Assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disturbi mentali» (cfr. comma 5); 34, «Assistenza sociosanitaria semiresidenziale e residenziale alle persone con disabilità», e 58, «Persone detenute ed internate negli istituti penitenziari e minorenni sottoposti a provvedimento penale»).
- La definizione della idoneità delle condizioni di detenzione tali da evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato.
La giurisprudenza relativa alla questione della incompatibilità col regime carcerario è consolidata nel senso di ritenere indispensabile che il giudice effettui un esame comparativo da un lato della gravità delle condizioni cliniche (ad es.: per presenza di una patologia che mette in pericolo la vita) e dall’altro delle modalità di esecuzione della pena (ad esempio della effettiva disponibilità di cure necessarie e/o di un contesto di vita che ha conseguenze sulla salute del detenuto). La incompatibilità deve essere affermata dal giudice se si addiviene alla situazione di esistenza al di sotto di una soglia di dignità, valore insopprimibile da rispettarsi pure nella condizione di restrizione carceraria e che richiede, nella valutazione conclusiva del giudice, la considerazione congiunta dell’esigenza di non ledere il fondamentale diritto alla salute e del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, come riconosciuti dagli artt. 32 e 27 Cost. (Cass. Pen., sez. I, n. 19594/2020). Il sovraffollamento delle sezioni detentive, la promiscuità forzata tra persone detenute e la scarsità di disponibilità di presidi igienico-sanitari sono riconosciute comunemente come concause facilitanti la diffusione della pandemia nelle comunità “chiuse” come gli istituti penitenziati. Quando è stato prescritto ai detenuti, dalla primavera del 2020, l’obbligo di igiene della mani o, in alcune situazioni, di indossare la mascherina ed i guanti, ad esempio in occasione dei colloqui visivi con i familiari o della sottoposizione a visita medica o dei colloqui in presenza con gli operatori sanitari o penitenziari, l’Amministrazione penitenziaria ha anche disposto di mettere a disposizione dei detenuti i prodotti ed i dispositivi di prevenzione necessari, vista la generalizzata indigenza tra i detenuti e l’interesse alla tutela della salute dell’intera comunità penitenziaria, composta da tutti i detenuti e dal personale delle diverse Amministrazioni (penitenziaria, sanitaria, scolastica…) operanti negli stessi ambienti detentivi.
A proposito della normativa eccezionale emanata nel 2020 per limitare il diffondersi della pandemia da Coronavirus nelle sezioni detentive e delle prassi che ne sono seguite, va dato particolare risalto alla necessità di dare attuazione alla previsione contenuta all’art. 11, comma 13, dell’ord. penit., che recita: «13. Il direttore generale dell’azienda unità sanitaria dispone la visita almeno due volte l’anno degli istituti di prevenzione e di pena, allo scopo di accertare, anche in base alle segnalazioni ricevute, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive e le condizioni igieniche e sanitarie degli istituti».
È quindi doveroso che gli Assessorati regionali della salute, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed i Magistrati di sorveglianza informino se, ad esempio nei due semestri del 2020 interessati dalla pandemia, le Aziende Sanitarie Locali abbiano dato attuazione all’art. 11, comma 13, dell’ordinamento penitenziario e con quali esiti. Risulta correlato a tale onere ricadente sulle ASL quanto disposto al successivo comma 14: «14. Il direttore generale dell’azienda unità sanitaria riferisce al Ministero della salute e al Ministero della giustizia sulle visite compiute e sui provvedimenti da adottare, informando altresì i competenti uffici regionali, comunali e il magistrato di sorveglianza».
Infine: in una pur succinta trattazione delle misure sanitarie e penitenziarie adottate per la prevenzione della diffusione del Coronavirus nelle sezioni detentive si deve annotare che neppure in occasione della eccezionale pandemia iniziata nel 2020 l’Amministrazione penitenziaria ha dato attuazione alle previsioni contenute nell’art. 6 della legge 354/1975 (ord. penit.), ovvero al relativo regolamento di esecuzione risalente al 1976 e confermato nel 2000, sulle condizioni igieniche dei locali e delle camere detentive (conseguenti ad esempio, alla presenza di finestre adeguate all’aerazione ed al tasso di affollamento degli spazi detentivi), a quelle sui servizi igienici ed a quella sull’igiene personale (artt. 6, 7 e 8 d.P.R. 230/2000). Inoltre, l’Amministrazione penitenziaria non ha ancora emanati i decreti ministeriali previsti all’art. 8, comma 1 (sulla definizione delle quantità e qualità degli oggetti necessari per la cura e la pulizia della persona) ed all’art. 9 (sulla definizione degli oggetti che costituiscono il corredo del letto, i capi di vestiario e di biancheria personale da fornire ai detenuti) del d.P.R. 230/2000, in verità, con identica formula, previsti già dal d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431.
- La attestazione di «disponibilità di strutture penitenziarie».
In merito alle previsioni contenute nei già cit. decreti emanati in via di urgenza nel 2020 in materia di contenimento della pandemia da Coronavirus negli istituti penitenziari, si evidenzia l’onere ricadente sull’Amministrazione penitenziaria di «comunicare la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena» ovvero «idonei ad evitare il pregiudizio per la salute del detenuto o dell’internato»[4]. Si osserva che il giudizio sull’adeguatezza delle «strutture penitenziarie» alle condizioni di salute di un detenuto, non risulta riconducibile alla mera verifica della disponibilità di un posto letto in una camera di detenzione, risultando evidente che i servizi sanitari offerti o prescritti ed i bisogni sanitari espressi dalla collettività dei detenuti non sono valutabili pienamente dall’Amministrazione penitenziaria (ma da quella sanitaria). Non solo: la recentissima sentenza della Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite penali, n. 0655551/2021, udienza 24.9.2020, a 8 anni dalla sentenza della Corte EDU dell’8.1.2013 (“Torreggiani c. Italia”) e dalla emanazione del decreto-legge 146/2013, convertito con legge n. 10/2014, testimonia che la definizione adottata dall’Amministrazione penitenziaria del concetto di “sovraffollamento” e di “spazio minimo individuale” non è ancora pienamente conforme al dettato dell’art. 3 della Convenzione Edu[5]. Infine, in riferimento ai servizi sanitari di degenza, “interni” alle strutture penitenziarie (ad es.: SAI, ATSM, infermerie), la normativa non consente di affermare l’equivalenza tra “capienza regolamentare” e “capienza tollerabile” (a voler utilizzare il linguaggio gergale in uso da decenni nell’Amministrazione penitenziaria)[6] e “posti letto” (delle strutture sanitarie di degenza). Infatti, mentre la definizione delle capienza (“regolamentare” o “tollerabile”) di una camera detentiva è operata dall’Amministrazione penitenziaria secondo consuetudini e prassi, cioè sulla base di interpretazioni largamente discrezionali della stessa amministrazione -mutevoli nel tempo- sempre e solo in riferimento alla superficie della sola “camera detentiva” (e non, ad esempio dei servizi e degli spazi collettivi offerti nella stessa sezione ai detenuti[7]), la definizione dei “posti letto” dei servizi sanitari (inclusi, ovviamente, quelli attivi all’interno degli istituti penitenziari, come i SAI e le ATSM o le infermerie), alla luce dell’ordinamento sanitario, deve essere effettuata in considerazione non solo della superficie del pavimento delle camere (di degenza e, nel contempo, detentiva) ma di eterogenei e normativamente predefiniti standard strutturali, tecnologici e gestionali, non solo della camera di degenza ma dell’intero servizio sanitario, pur se attivo in un istituto penitenziario, in considerazione della necessità di sottoporre a formale procedimento autorizzatorio e di accreditamento, a cura della Regione, tutti i servizi sanitari, anche quelli allocati all’interno degli istituti penitenziari[8]. Ad oggi, non si ha notizia se l’Amministrazione penitenziaria (che pure è chiamata a fornire ai giudici la comunicazione in merito alla disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena») sia a conoscenza se nei servizi di degenza per i detenuti, attivi all’interno degli istituti penitenziari italiani, i posti letto siano stati quantificati in provvedimenti formali della Regione di accreditamento/autorizzazione degli stessi servizi sanitari[9].
In conclusione, il parere fornito al giudice dall’Amministrazione penitenziaria sulla “disponibilità di strutture penitenziarie” in quanto previsto dalla legge 70/2020 per i SAI (Servizi Assistenza Intensificata) o per le ATSM (Articolazioni Tutela Salute Mentale) o per le «infermerie», in quanto servizi a prevalente connotazione e destinazione Sanitaria (ASL), non può non tenere conto degli aspetti appena richiamati.
- La tutela della vittima del reato.
La Corte Suprema di cassazione nella sentenza n. 165/2021 che qui si commenta affronta la correlazione tra le norme che garantiscono la tutela della salute del detenuto e quelle che intendono offrire una tutela particolare alle vittime di alcuni reati (ad es.: violenza di genere e violenza domestica) in caso di dimissione del detenuto (imputato o condannato). Ampia parte della motivazione della sentenza tratta proprio questo aspetto, attesa la necessità di dare attuazione alle norme di tutela introdotte per ultimo con la legge 19 luglio 2019, n. 69, recante «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», ma già con legge 15 ottobre 2013, n. 119, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere…».
La Corte Suprema di Cassazione ha deciso sul seguente quesito: se l’imputato nel richiedere la sostituzione della misura cautelare in carcere con una misura meno afflittiva, avesse dovuto ottemperare all’obbligo di darne informativa alla «persona offesa dal reato». La Corte osserva che tale obbligo di notifica non è previsto in via generalizzata, ma solo in alcuni casi (art. 299, comma 3, c.p.p.); pertanto, ha stabilito che il c.p.p. non assicura in via generale alle vittime di certi reati la «possibilità di conoscere l’evolvere delle vicende cautelari aventi per protagonista l’imputato, né il diritto al contraddittorio cartolare». Nel caso in esame, atteso che la richiesta presentata del detenuto era fondata sull’applicazione dell’art. 275 c.p.p. (e non dell’art. 299, comma 3, c.p.p.), la Corte conclude che la richiesta del detenuto di trasformazione della misura cautelare del carcere è ammissibile, pur se non notificata alla parte offesa dal reato da parte dei difensori del detenuto.
Comunque, anche se l’istanza del detenuto è motivata da ragioni di salute e quindi se è stata incardinata ai sensi dell’art. 275, comma 4-bis, c.p.p. (che non prevede espressamente l’onere di comunicazione alla parte lesa da parte dell’imputato), la Corte ha scrupolosamente inteso esaminare anche la eventuale fondatezza dell’ipotesi che tale onere (di informativa e di partecipazione nel procedimento penale della vittima) possa essere ritenuto sussistente in via «interpretativa». La Corte conclude per una «giustificazione valoriale» alla scelta operata dal legislatore di non prevedere l’onere di informativa e di partecipazione al procedimento della vittima anche per le decisioni in materia di dimissione del detenuto per «ragioni di salute»[10].
Le motivazioni della Corte Suprema di Cassazione sono dettagliatamente esposte ai paragrafi da 3.5. a 3.11 della sentenza e concludono affermando la centralità e prevalenza nell’ordinamento del diritto alla salute del detenuto: «le esigenze di giustizia- che costituiscono il fondamento dei diritti della persona offesa, come declinati nella recente produzione legislativa- non posso che essere recessive rispetto al diritto alla salute del detenuto…», anche perché per l’imputato (anche se sottoposto a custodia cautelare in carcere) trova applicazione il principio di «presunzione di non colpevolezza» e sono salvaguardati i «diritti dell’autore del reato»”. La Corte osserva che la presenza di «condizioni di salute fragili» dell’imputato, quando accertate, possono contribuire a diminuire la sua pericolosità; peraltro, la vittima (persona offesa dal reato), se non può vantare un diritto alla comunicazione di richiesta di revoca e sostituzione della misura cautelare in carcere se non nei casi espressamente indicati all’art. 299 c.p.p. (e non nei casi di cui all’art. 175 c.p.p.), è sempre raggiunta dalla comunicazione della «scarcerazione» dell’imputato prevista all’art. 90-ter c.p.p. per le stesse finalità di prevenzione della recidiva a danno della stessa parte lesa.
Ai paragrafi da 3.5.a 3.11 della sentenza della Corte Suprema di Cassazione è esposto un puntuale richiamo alle norme che danno centralità alla tutela delle condizioni di salute dei detenuti («valore costituzionalmente supremo»): sia agli artt. 3 e 27 e 32 Cost. che alla giurisprudenza applicativa della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (artt. 2, 3 e 8), in quanto fondanti la centralità della tutela della salute del detenuto, esplicitata nel c.p.p. e nell’ord. penit.
- I servizi sanitari e penitenziari hanno un ruolo nella tutela delle vittime dei reati violenti?
La sentenza che si commenta, della V sezione penale della Corte Suprema della Cassazione n. 165/2021, non può essere interpretata come sminuente le finalità perseguite dalle leggi contro la violenza domestica e di genere emanate in Italia[11]. Tali leggi sono state emanate in attuazione dei principi generali sanciti nella Costituzione italiana e nelle convenzioni internazionali[12].
La sentenza è, invece, l’occasione per valorizzare quelle previsioni con le quali la normativa emanata a tutela delle vittime di violenza domestica o di genere, la quale attribuisce oneri non solo alla polizia giudiziaria o al sistema giudiziario penale, ma anche al sistema penitenziario ed a quello sanitario che ha in carico i detenuti. Per identificare i nuovi oneri si richiamano le norme che integrano il catalogo dei reati già previsti all’art. 13-bis ord. penit. (introdotto con legge 172/2012 e modificato con legge 69/2019) con i delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso (art. 583-quinquies c.p.) e di stalking (art. 612-bis c.p.); si evidenzia pure la previsione della comunicazione obbligatoria e tempestiva, da parte degli Uffici esecuzioni penali delle Procure, alla persona offesa da un reato di violenza domestica o di genere e al suo difensore dell’adozione di provvedimenti di dimissione, anche temporanea, di cessazione della misura di sicurezza detentiva, di evasione (art. 90-ter c.p.p. introdotto con d. lgs. 212/2015), nel presupposto che la persona offesa lo abbia richiesto.
Tra gli oneri, invece, previsti specificatamente a carico delle Amministrazioni penitenziaria e sanitaria, si richiamano quelli che perseguono il fine di prevenire la recidiva e garantire il recupero dei condannati per tali reati:
- la possibilità di favorire ed ammettere alla partecipazione di specifici «corsi di recupero pressi enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati» per i reati indicati e che intendono chiedere la sospensione condizionata della pena (artt. 165 c.p., 5° comma, nel testo introdotto dall’art. 6, comma 1, legge n. 69/2019);
- la possibilità di favorire ed ammettere i condannati per delitti sessuali in danno di minori, a un trattamento psicologico con finalità di recupero e di sostegno, suscettibile di valutazione ai fini della concessione dei benefici penitenziari (art. 13-bis legge 354/75, introdotto dall’art. 7 della legge 1 ottobre 2012, n. 172 e modificato con legge 69/2019).
A quasi dieci anni dall’entrata in vigore della legge 172/2012 ed a due anni dall’entrata in vigore della legge 69/2019, l’Amministrazione penitenziaria -tenuta comunque a provvedere alla osservazione scientifica della personalità ed al trattamento individualizzato dei condannati, ex art. 13 ord. penit.- e quella sanitaria -tenuta al trattamento socio-sanitario di tutti i detenuti- stentano ancora ad intraprendere la collaborazione con gli enti ed associazioni elencati all’art. 165 c.p.[13]. Occorre quindi che ogni Regione fornisca alle ASL ed all’Amministrazione penitenziaria l’elenco degli enti ed associazioni accreditati elencati all’art. 165 c.p., 5° comma. Le due Amministrazioni, poi, non assicurano sempre l’adeguata offerta di «trattamento psicologico» dei condannati prevista all’art. 13-bis ord. penit.[14], in tale contesto operativo, i servizi devono ancora valorizzare la differenza tra le attività psicologiche e quelle psicoterapeutiche (artt. 1 e 3 legge 18 febbraio 1989, n. 56) ed assicurare la continuità tra i trattamenti psicologici effettuati all’interno dell’istituto penitenziario e quelli effettuati presso i servizi sanitari territoriali (per i detenuti dimessi).
L’assenza di coordinamento nazionale tra le due Amministrazioni cit. sulla specifica materia che qui si esamina, nonostante il ruolo attribuito alla Conferenza unificata, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, emerge ulteriormente nella sua problematicità con l’entrata in vigore del comma 27 dell’art. 1 della legge 30 dicembre 2020, n. 178, «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021…»[15], e con la decisione dell’Amministrazione penitenziaria di gestire i relativi fondi specificatamente resi disponibili dal Parlamento. Tale recentissima decisione spinge alla “conclusione” che per l’Amministrazione penitenziaria pure l’analogo trattamento psicologico dei condannati previsto da 10 anni dall’art. 13-bis ord. penit., ad esempio di quelli con reati a danno di minori, sia anch’esso di competenza dell’Amministrazione penitenziaria, in quanto “trattamento penitenziario rieducativo” e non dell’Amministrazione sanitaria, tenuta ad offrire i “trattamenti socio-sanitari”. Resta ora da valutare il futuro di alcune, pur non numerose, iniziative locali che in questi anni, peraltro con la collaborazione formalmente assicurata dagli istituti penitenziari territorialmente interessati, affidano alle ASL, e non all’Amministrazione penitenziaria, la presa in carico ai fini del trattamento anche psicologico degli aggressori o degli autori delle violenze, anche se detenuti, ai fini della riduzione della recidiva e, quindi, della tutela delle vittime.
*Già Dirigente dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della giustizia, specializzato in diritto penale e criminologia; laureato in psicologia, sociologia e servizio sociale; già direttore degli Uffici Detenuti e Trattamento presso alcuni Provveditorati Regionali dell’Amministrazione Penitenziaria.
[1] Artt. 43 e 46 legge 26 luglio 1975, n. 354 (ord. penit.)
[2] L’art. 16, comma 2, d.P.R. 230/2000 nel dare indicazioni per la gestione della «permanenza all’aria aperta» dei detenuti «come strumento di contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale», prevede, ampiamente disatteso, a carico dell’Amministrazione penitenziaria e di quella sanitaria, «valutazioni dei servizi sanitario e psicologico». Si evidenzia che l’ordinamento impone di erogare ai detenuti servizi non solo con finalità di diagnosi e cura ma anche di prevenzione; ex plurimis: decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, «Riordino della medicina penitenziaria, a norma dell’articolo 5 della legge 30/11/1998, n. 419»; decreto Ministri della sanità e della giustizia 21 aprile 2000, «Approvazione del progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario»; decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2008, «Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria»; accordo assunto presso la Conferenza Unificata il 22 gennaio 2015, «Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli istituti penitenziari per adulti; implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali»; D.P.C.M. 12 gennaio 2017, «Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza …»; intesa assunta presso la Conferenza unificata il 27 luglio 2017, «Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti».
[3] Il riferimento è qui operato ad alcune norme sulle quali non risulta testimoniata sufficiente attenzione da parte dell’Amministrazione sanitaria e di quella penitenziaria: norme poste a tutela della incolumità del personale sanitario dai rischi connessi all’espletamento dell’attività lavorativa, anche all’interno degli istituti penitenziari (legge 14 agosto 2020, n. 113, «Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni»); norme finalizzate a garantire il benessere sui luoghi di lavoro, anche all’interno degli istituti penitenziari (decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, «Tutela della salute e della sicurezza sul lavoro»); norme introdotte per prevenire fenomeni corruttivi e che, tra l’altro, intendono favorire la trasparente gestione dei potenziali conflitti di interesse per il personale, anche sanitario, che opera all’interno degli istituti penitenziari (legge 6 novembre 2012, n. 190, «Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione»).
[4] Decreto–legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito con legge 25 giugno 2020, n. 70: art. 2-bis («Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19) e 2-ter («Misure urgenti in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19»). Decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29, art. 2 («Misure urgenti in materia di detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19», art. 3 («Misure urgenti in materia di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19»; il decreto-legge 10 maggio 2020, n. 29 è stato abrogato con l’art. 1 della legge 25 giugno 2020, n. 70.
[5] Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art. 3 – Proibizione della tortura: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
[6] La lettera circolare del Ministero della giustizia, Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena, prot. n. 649773/1.5.28 del 17.11.1988 opera, forse per prima, un riferimento esplicito al decreto del Ministero della sanità 5 luglio 1975, assunto nell’occasione quale fonte, “per analogia”, del criterio per calcolare la capienza “«ottimale» della «cella”» (?): per un detenuto è prevista una superficie di 9 metri quadri; per ogni ulteriore detenuto sono previsti ulteriori 5 metri quadri. La stessa lettera circolare definisce il criterio per calcolare un’altra capienza, definita “tollerabile”, della “cella” e precisa che, per le sezioni infermerie ed isolamento, non vanno conteggiate le capienze, “trattandosi di zone dell’istituto destinate ad ospitare i detenuti temporaneamente”. Il decreto del Ministero della sanità 5 luglio 1975 richiamato espressamente, come già detto, dall’Amministrazione penitenziaria già nel 1988, in realtà regolamenta i requisiti che devono possedere i “locali di abitazione” e prevede (all’art. 2) che “ogni alloggio deve essere dotato di una stanza di letto di superficie minima di mq 9, se per una persona, e di mq 14, se per due persone”. Tale “stanza da letto” dell’abitazione civile, così dimensionata dal Ministero della salute ai fini igienico-sanitari, non è destinata quindi ad ospitare persone per la gran parte della giornata come invece avviene per le «celle» (rectius: camere di detenzione). Nei tre decenni successivi l’Amministrazione penitenziaria, in alcune “fasi storiche”, ha inteso favorire il prolungamento della permanenza dei detenuti “fuori dalla camera detentiva” nelle ore diurne (ad es.: circolare n. 3663/6113, prot. 0355603 del 23.10.2015), soprattutto negli anni nei quali era sentita forte la necessità di trovare dei “rimedi” alla condanna dell’Italia da parte della II Camera della Corte europea dei diritti umani (CEDU), con la sentenza “pilota” nel caso Torreggiani e altri c. Italia (ricorsi nn. 4357/09, 46882/09, 55400/09; 57875/09, 61535/09, 35315/10, 37818/10), adottata all’unanimità l’8 gennaio 2013, che ha condannato lo Stato italiano per la violazione dell’art. dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani (CEDU). Tali decisioni dell’Amministrazione penitenziaria, negli anni immediatamente successivi al 2013, portarono a valorizzare non solo la “questione” dei “metri quadri mediamente disponibili per ogni detenuto assegnato nella camera detentiva, ma anche, cumulativamente, «altri aspetti delle condizioni detentive» (aerazione, servizi igienici riservati, disponibilità di acqua calda, accesso alla luce ed all’aria, rispetto delle condizioni di salute e accesso maggiore alla permanenza all’aria aperta …). Negli ultimi decenni, però, l’Amministrazione penitenziaria ha assunto anche la decisione, senza il coinvolgimento dell’Amministrazione sanitaria, di determinare anche per le camere detentive delle sezioni sanitarie (ad es.: infermerie, ATSM, SAI) la capienza (regolamentare e tollerabile), al pari delle camere delle sezioni ordinarie, senza valorizzare quindi la natura sanitaria di tali spazi ed il ruolo gestionale dell’Amministrazione sanitaria su tali servizi. Si evidenzia, poi, che la determinazione della capienza delle camere di detenzione anche delle sezioni a “destinazione vincolata” (quali infermerie, ATSM, SAI, ma anche “transiti”, nuovi giunti” ecc.) era stata consapevolmente non prevista nelle direttive originarie dell’Amministrazione penitenziaria, ad es. nella lettera circolare del 17.11.1988 sopra cit.; attualmente, l’inclusione nella capienza complessiva (sia regolamentare che tollerabile) degli istituti penitenziari non solo delle camere di detenzione ordinarie ma anche di quelle “a destinazione vincolata”, le quali possono, ovviamente, spesso risultare inutilizzate, rende fuorviante il raffronto per ogni istituto penitenziario tra numero complessivo detenuti presenti e numero complessivo posti detentivi, anche quando si intende calcolare il tasso di “sovraffollamento”. Cfr. A. Albano, F. Picozzi, Gli incerti confini del sovraffollamento carcerario, in Cass. pen., 07/08, 2014, pp. 2398-2405.
[7] I commi 1 e 2 dell’art. 6 ord. penit. prevedono alcuni criteri minimi di adeguatezza, anche se necessariamente da declinare in provvedimenti regolamentari esecutivi, ancora da emanare, sia delle camere di detenzione che degli altri spazi detentivi ad uso individuale e collettivo, così come il correlato comma 1 dell’art 6 del d.P.R. 230 /2000, che esige la “adeguatezza igienica” di tutti locali nei quali si svolge la vita detentiva e quindi non solo delle camere detentive ma anche dei “locali nei quali si svolge la vita dei detenuti” o delle “aree residenziali” e degli “spazi comuni” (ad uso individuale o collettivo). Solo i commi 3 – 6 dell’art. 6 cit. fissano criteri strutturali (comma 3) e gestionali (commi 4-6) delle sole camere detentive. Si evidenzia, in conclusione, che mentre l’ordinamento penitenziario definisce standard minimi di adeguatezza strutturale per tutti gli ambienti detentivi, non solo delle camere detentive, i dati statistici periodicamente pubblicati dall’Amministrazione penitenziaria sulla “capienza” degli Istituti e le notizie fornite al Giudice sulla «disponibilità di strutture penitenziarie […] (adeguate) alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato » (come previsto dai decreti-legge 28/2020 e 29/2020 e, poi, dalla legge 70/2020, emanati in costanza di pandemia da Coronavirus) non sono relativi alla adeguatezza strutturale degli spazi detentivi diversi dalle “camere detentive”, né indicano se tali spazi sono sussistenti né, se sussistenti, sono gestionalmente resi disponibili ai detenuti, nè se, comunque, risultano adeguati alle indicazioni, di natura strutturale e gestionale, di cui ai commi 1-2 dell’art. 6 ord. penit. e del comma 1 dell’art 6 del d.P.R. 230/2000.
[8] Cfr. art. 3 delle «Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti; implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali», adottate dalla Conferenza Unificata con accordo del 22 gennaio 2015.
[9] Si evidenzia che l’affermazione di “idoneità” di un istituto penitenziario a svolgere la sua funzione istituzionale, che può essere ricondotta certamente non solo all’onere di assicurare il “contenimento fisico” dei detenuti o internati, ma alla capacità di erogare gli eterogenei servizi penitenziari, previsti dall’ordinamento per favorire il raggiungimento della finalità di cui all’art. 27 Cost., presuppone imprescindibilmente una valutazione di coerenza tra la “realtà di fatto” (non solo strutturale ed architettonica, ma anche gestionale) sia con il decreto emanato dal Ministro della giustizia per quello specifico istituto – in attuazione dell’art. 66 ord. penit. – sia con il “regolamento interno” adottato anch’esso per il singolo istituto penitenziario dall’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 16 ord. penit. e degli artt. 36 e 37 del d.P.R. 230/2000. Il legislatore ha infatti posto all’Amministrazione penitenziaria vincoli ed oneri di trasparenza e legalità, oltre che di omogeneità di trattamento. Risulterebbe contra legem l’affermazione che l’unico requisito che deve possedere un istituto penitenziario per essere ritenuto idoneo a svolgere la sua rilevante funzione istituzionale è l’assicurazione ad ogni detenuto di una superficie della sola camera detentiva non inferiore ad un certo limite, qualunque sia. Diversamente, l’idoneità di un servizio sanitario, esterno o interno ad un istituto penitenziario, ad erogare prestazioni e servizi presuppone il rilascio di specifica certificazione da parte dell’Amministrazione sanitaria regionale sul possesso dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, a seguito di un procedimento amministrativo ai sensi dell’art. 8-bis, 8-ter ed 8-quater del d. lgs. n. 502 del 1992 e n. 517 del 1993 e del d.P.R. 14 gennaio 1997 e di successive intese (ad es. 19 febbraio 2015) tra lo Stato e le Regioni e le Province Autonome. L’autorizzazione e l’accreditamento dei servizi sanitari sono infatti due processi di valutazione sistematica e periodica il cui obiettivo è quello di verificare il possesso, da parte dell’Amministrazione sanitaria, di determinati requisiti relativi alle condizioni strutturali, organizzative e di funzionamento che influiscono sulla qualità dell’assistenza sanitaria e socio-sanitaria. Risulterebbe contra legem l’affermazione che il servizio sanitario erogato ai detenuti sfugge ad ogni regolamentazione formale ed a ogni verifica di predeterminati requisiti strutturali, tecnologici e gestionali o che sia vincolato ai soli requisiti previsti per qualunque istituto penitenziario. Tutti i servizi socio-sanitari, inclusi quelli strutturalmente collocati all’interno di un istituto penitenziario, devono essere oggetto di un provvedimento autorizzatorio e di accreditamento della Regione. Atteso che i servizi sanitari per i detenuti sono presenti in tutti gli istituti penitenziari d’Italia, i due ordinamenti, penitenziario e sanitario, richiedono coordinamento e attenuano l’autonomia programmatoria e gestionale di ognuna delle due Amministrazioni. Per assumere decisioni condivise e favorire la collaborazione ed il dialogo interistituzionale, il 31 luglio 2008 la Conferenza Unificata ha deliberato (Rep. Atti n. 81/CU) la costituzione del «Tavolo di consultazione permanente sulla sanità penitenziaria» di cui all’allegato A del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° aprile 2008. Un primo tentativo di definire tra le due Amministrazioni la rete nazionale dei servizi socio-sanitari per i detenuti in una prospettiva non solo localistica, è testimoniato dall’accordo stipulato presso la Conferenza unificata il 26 novembre 2009, ad oggetto “Strutture sanitarie nell’ambito del sistema penitenziario italiano”. È poi seguito l’accordo adottato in Conferenza Unificata del 22 gennaio 2015, «Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti; implementazione delle reti sanitarie regionali e nazionali». Analoghe procedure di condivisione della conoscenza e di coordinamento delle progettualità delle due Amministrazioni sono previste a livello regionale (Osservatorio regionale per la sanità penitenziaria) e locale (ASL ed istituto penitenziario).
[10] Art. 275, comma 4-bis, c.p.p.: «[…] malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere».
[11] Legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale»; legge 23 aprile 2009, n. 38, «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori»; legge 15 ottobre 2013, n. 119, «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere…»; decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24, «Attuazione della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI»; decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, «Attuazione della Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato».
[12] Convenzione dell’ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne, detta CEDAW, del 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 14 marzo 1985, n. 132); convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con legge 27 giugno 2013, n. 77; direttiva 2012/29/UE, del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata col citato decreto legislativo 15 dicembre 2015, n. 212.
[13] “[…] enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati […]” per i reati di cui agli artt. 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis, 582 e 683-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1 e secondo comma, c.p.
[14] Le attività psicologiche quali il sostegno, la consulenza o la diagnosi sono metodologicamente e finalisticamente diverse dalla psicoterapia: con quest’ultima sembra doversi identificare il previsto (art. 13-bis ord. penit.) “trattamento psicologico con finalità di recupero”. Sarebbe stato utile che in sede di Conferenza unificata, l’Amministrazione penitenziaria e quella sanitaria avessero concordato di definire la “natura” di tale “trattamento psicologico”: “trattamentale-educativa” (di preminente competenza, quindi, dell’Amministrazione penitenziaria) oppure “socio-sanitaria” (di preminente competenza delle ASL). Attesa la decennale assenza di una qualsiasi regolamentazione (condivisa o meno tra le due Amministrazioni cit.), si registra un’applicazione dell’art. 13-bis ord. penit. negli istituti penitenziati discontinua e carente. Qualora fosse affermata la competenza generale dell’Amministrazione penitenziaria, si evidenzia che la stessa nel redigere gli elenchi degli “esperti” psicologi redatti per ogni Distretto di Corte di Appello (ex art. 80, IV comma, ord. penit.; art. 132 d.P.R. 230/2000) perché gli istituti penitenziari si possano avvalere di tali professionisti-consulenti, non ha mai predisposto elenchi di “psicoterapeuti”; né mai si è avvalsa di tali professionisti (la cui attività è specificatamente regolamentata dall’art. 3 legge 18 febbraio 1989, n. 56, «Ordinamento della professione dello psicologo»); né ha mai valorizzato, nel momento della selezione dei candidati psicologi aspiranti all’inscrizione nei citati elenchi, la eventuale specifica “esperienza professionale”, sia in qualunque ambito di intervento che in quello che in questa sede interessa, ovvero nel campo del “trattamento psicologico con finalità di recupero” dei condannati per i reati cit. Si attendono, quindi, norme di indirizzo e direttive generali per l’attuazione delle leggi 172/2012 (emanata per la «protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale») e 69/2019 (emanata a «tutela delle vittime di violenza domestica e di genere»), in materia di trattamento psicologico dei condannati.
[15] Che recita: «27. Al fine di garantire e implementare la presenza negli istituti penitenziari di professionalità psicologiche esperte per il trattamento intensificato cognitivo-comportamentale nei confronti degli autori di reati contro le donne e per la prevenzione della recidiva, è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per ciascuno degli anni 2021, 2022 e 2023». Con nota del 21.4.2021, prot. n. 0154451.U del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento, Ufficio II, è stata data notizia che l’Amministrazione penitenziaria ha in gestione i relativi fondi previsti, avendo istituito il capitolo di bilancio 1766, p. 4. Tale recentissima decisione dell’Amministrazione penitenziaria non può che spingere alla conclusione che pure l’analogo trattamento psicologico dei condannati previsto da 10 anni dall’art. 13-bis ord. penit., ad esempio di quelli con reati a danno di minori, era anch’esso di competenza dell’Amministrazione penitenziaria (e non dell’Amministrazione sanitaria), in quanto “trattamento penitenzio rieducativo”. Si evidenzia che mentre il cit. comma 27, entrato in vigore l’1.1.2021, vede uno stanziamento di euro 2.000000,00 l’anno per tre anni e prevede l’affidamento a «professionalità psicologiche esperte», per il trattamento con finalità di recupero e sostegno previsto per i condannati a danno di minori ex art. 13-bis ord. penit., non sono mai stati previsti dall’Amministrazione penitenziaria appositi finanziamenti finalizzati, né agli istituti penitenziari è stata mai data indicazione di avvalersi di psicoterapeuti né di professionalità psicologiche «esperte». Sulla decennale mancata messa a disposizione di fondi ad hoc per i previsti trattamenti psicologici per i condannati per reati a danno di minori (o, fino al 2021, anche a danno delle donne) ex art. 13-bis ord. penit., si evidenzia che l’art. 10 legge 172/2012 recita: «Dall’attuazione della presente legge non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica»; similmente, l’art. 21 legge 69/2019 recita: «Dall’attuazione delle disposizioni di cui alla presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».