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PRESUNZIONI OSTATIVE AGLI ARRESTI DOMICILIARI, PANDEMIA E SITUAZIONE DELLE CARCERI – DI GAETANO E PIETRO INSOLERA

PRESUNZIONI OSTATIVE AGLI ARRESTI DOMICILIARI, PANDEMIA E SITUAZIONE DELLE CARCERI – DI GAETANO E PIETRO INSOLERA

di Gaetano Insolera e Pietro Insolera

SOMMARIO. 1. Lo stato delle carceri italiane. 2. La pandemia. 3. «Detenuti in attesa di giudizio». 4. Interpretazione conforme o remissione alla Corte costituzionale.

1.  La pandemia e i relativi provvedimenti di contrasto adottati in uno scenario di fonti  – a volte confuso – hanno anche introdotto nel nostro lessico quotidiano parole inusuali, ad esempio, «tamponi», «mascherine»; nuovi concetti, «zona rossa», «zona arancione», «sintomatico», «poco sintomatico», «asintomatico», «immunità di gregge» su tutti, però, e per tutti gli esperti, «distanziamento sociale»; martellanti slogan: «state a casa», «non abbassate la guardia», «niente polemiche», infilati in ogni programma televisivo, all’insegna dell’intrattenimento pandemico. Ancora il bollettino quotidiano della punizione delle nuove disobbedienze, con i numeri sbandierati accanto a quelli dei morti del giorno e degli infetti.
Questi ingredienti dell’attuale discorso pubblico, si sono però dimenticati di una città di medie dimensioni, 60.000 abitanti circa, con almeno 300 frazioni o zone, ci pare.
Per molti motivi (controllo, amministrazione, vettovagliamento, assistenza, manutenzione, visite parenti, ingresso di investigatori etc.) i suoi abitanti non possono essere distanziati dal mondo che sta fuori dalla loro città: pur vivendo in una particolare quarantena «in comunità». Sono chiusi al mondo, ma permeabili dal mondo.
Le nostre carceri, nella pandemia, a differenza della distopica New York del 1999, sono in un abbandono, che, se comporta la vulnerabilità dei suoi cittadini, alimentata da disattenzione, se non dal disprezzo dei decisori, può infettare tutti coloro che, necessariamente, devono venirne in contatto, cominciando dalla polizia penitenziaria.
Anche nella babele dei virologi su come combattere la pandemia in corso, vi è quasi concordia nel proporre anzitutto quel distanziamento sociale, che ha cambiato le nostre vite.  
Ma è noto che il sistema penitenziario nazionale, negli ultimi anni, ha cronicamente sofferto, e continua a soffrire, di gravi problemi strutturali di sovraffollamento carcerario, più volte censurati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[1].
Nonostante si siano succeduti, nel corso degli anni, dopo tale fondamentale pronuncia, molteplici provvedimenti normativi finalizzati ad alleggerire l’intollerabile, costituzionalmente[2] e convenzionalmente illegale situazione di overcrowding negli istituti penitenziari italiani[3], pur a fronte di alcuni risultati temporaneamente conseguiti in termini di riduzione del tasso di sovraffollamento, alla data del 29 febbraio 2020 la popolazione penitenziaria ammontava a 61.230 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931[4].
La concomitanza di tale grave e diffuso sovraffollamento carcerario con la conclamata emergenza sanitaria in atto, scatenata dalla pandemia globale di Covid-19, determina all’evidenza un elevatissimo livello di rischio di contagio all’interno degli istituti di pena, in un contesto che è stato propriamente definito come potenziale «bomba epidemiologica».
Da un lato, poiché, in ragione del sovraffollamento, non possono essere implementate le necessarie e ben note misure di «distanziamento umano e sociale», di almeno un metro tra le persone, indispensabili per frenare e contenere il contagio; dall’altro, le notorie pessime condizioni igienico-sanitarie nella maggior parte degli istituti di pena nazionali costituiscono un ambiente favorevolissimo alla propagazione e circolazione del virus, che ben può essere veicolato all’interno delle strutture dalla molteplicità di soggetti che necessariamente entrano ed escono dal carcere (ad esempio: Polizia Penitenziaria; personale medico e socio-sanitario; personale amministrativo e dirigenziale etc.).
E sono stati già documentati numerosi casi di Covid-19 tanto tra il personale penitenziario, quanto tra la popolazione detenuta, e si assiste in questi giorni ad una costante ed allarmante crescita dei contagi[5].
L’esplosione dell’epidemia, accompagnata dalla limitazione dei colloqui disposta con D.L. n. 11/2020 e dalla fondata consapevolezza da parte dei detenuti di essere particolarmente esposti ad un elevato rischio di infezione da Covid-19 ha innescato violente proteste in numerosissime carceri italiane, verificatesi nei giorni 8, 9 e 10 marzo 2020, durante le quali sono morti ben 13 detenuti[6].
Il Governo ha cercato di affrontare e risolvere tale drammatico quadro attraverso l’emanazione del cd. Decreto «Cura Italia», DECRETO-LEGGE 17 marzo 2020, n. 18, Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19. (20G00034) (GU Serie Generale n.70 del 17-03-2020).
In particolare, le misure di modifica dell’ordinamento penitenziario adottate allo scopo di alleggerire rapidamente lo stato di sovraffollamento carcerario, sono identificabili nelle seguenti disposizioni: l’ art. 123,  Disposizioni in materia di detenzione domiciliare, prevede, ai sensi della l. n. 199/2010 e fino al 30 giugno 2020, che la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena, sia eseguita su istanza presso il domicilio, salve eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati; l’art. 124,  Licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, prevede che le licenze possono durare fino al 30 giugno 2020, in deroga all’art. 52 ord. penit[7].
Come rilevato unanimemente da una pluralità di istituzioni, riconducibili, peraltro, a posizioni politico-ideologiche le più varie, si tratta, per una serie di ragioni, di misure di mera cosmesi, se osservate in un’ottica di sistema, dall’impatto minimo, e dunque del tutto inadeguate a perseguire lo scopo prefissato, nei tempi strettissimi imposti dal rapido dilagare dell’epidemia di Covid-19.
Si vedano al proposito, senza pretesa di completezza ed a mero titolo esemplificativo, le prese di posizione delle seguenti istituzioni: l’Associazione Nazionale Magistrati[8], il Consiglio Superiore della Magistratura[9],Magistratura Democratica[10],l’Associazione Italiana dei Professori di diritto penale[11],l’Associazione tra gli studiosi del Processo penale «G.D. Pisapia»[12],l’Unione delle Camere Penali Italiane[13].
Altre istituzioni nazionali e sopranazionali avevano peraltro già sottolineato, prima dell’emanazione del D.L. 18/2020, la necessità urgente di implementare misure realmente incisive, per diminuire il sovraffollamento carcerario e limitare il pericolo di contagio nelle carceri, tra di esse: il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza[14], l’Alto Commissario delle Nazioni Unite[15], il Comitato per la prevenzione della tortura e delle punizioni e dei trattamenti inumani e degradanti[16].
Tra le raccomandazioni del Comitato per la prevenzione della tortura, si veda in particolare il principio n. 5, che recita: «As close personal contact encourages the spread of the virus, concerted efforts should be made by all relevant authorities to resort to alternatives to deprivation of liberty. Such an approach is imperative, in particular, in situations of overcrowding. Further, authorities should make greater use of alternatives to pre-trial detention; commutation of sentences, early release and probation; reassess the need to continue involuntary placement of psychiatric patients; discharge or release to community care, wherever appropriate, residents of social care homes; and refrain, to the maximum extent possible, from detaining migrants». Si noti, ancora, la raccomandazione del Comitato per la prevenzione della tortura nella parte in cui sottolinea l’assoluta urgenza dell’azione nei sistemi nazionali che soffrono di sovraffollamento e richiede che si faccia un utilizzo il più parco possibile della custodia cautelare in carcere.
Ciò, all’evidenza, assume un significato ancora più pregnante in un sistema, come quello italiano, contraddistinto dal tasso di sovraffollamento più elevato d’Europa (circa il 120%), e nel quale circa il 30% dei detenuti totali è ristretto in stato di carcerazione preventiva. A tale proposito si confronti anche il citato comunicato dell’Associazione tra gli studiosi del Processo penale «G.D. Pisapia», laddove si rileva criticamente che, pur costituendo i detenuti in Italia in stato di custodia cautelare circa 1/3 del numero totale, le misure introdotte con DL n. 18/2020, inspiegabilmente, non hanno previsto alcun intervento specifico in tale ambito, per diminuire i tassi di sovraffollamento carcerario. Si veda, infine, il monito del Consiglio d’Europa[17].
Nonostante le numerose e convergenti prese di posizione, che attestano l’estrema gravità della situazione, e le unanimi critiche nei confronti dell’inadeguatezza delle misure di cui agli artt. 123 e 124, D.L. n. 18/2020, l’attuale Ministro della Giustizia, nel rispondere alle interrogazioni dei deputati della Camera nel Question Time dedicato all’emergenza nelle carceri, il 25 marzo 2020[18], ha sostenuto che le suddette misure adottate sono adeguate ad affrontare il sovraffollamento carcerario e i rischi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19, aggiungendo che «soltanto» 15 detenuti risultavano contagiati e in caso di infezioni questi ultimi possono essere collocati in «isolamento sanitario».
A questo proposito occorre seriamente interrogarsi e avere accesso ai dati «ufficiali» comunicati dal Governo italiano, e specificamente dal Ministero della Giustizia[19]. Non vogliamo pensare che, nella nostra democrazia costituzionale, possano sussistere i dubbi fatti propri, in altre circostanze, dalla Corte EDU, quando ha dato rilievo a fonti pubbliche diverse e confliggenti con quelle governative, quanto a contenuto informativo, come quelle di autorevoli Organizzazioni non governative[20].
Ci imponiamo di credere che la nostra realtà carceraria, nella pandemia, sia agli antipodi rispetto a quella descritta nella sentenza Saadi c. Italia della Corte EDU, escludendo un contegno come quello attribuito alle autorità tunisine. Ciò che preme evidenziare è però come occorra tenere«conto dell’autorità e della reputazione degli autori dei rapporti in questione, della serietà delle indagini su cui si basano, del fatto che sui punti in questione le conclusioni combaciano e che sono in sostanza confermate da altre numerose fonti … la Corte non dubita dell’affidabilità di questi rapporti. Peraltro, il governo convenuto non ha prodotto elementi o rapporti capaci di confutare le affermazioni provenienti dalle fonti citate dal ricorrente».
Ed è questa la situazione che sembra ravvisabile nella sottovalutazione della situazione carceraria rinvenibile nella comunicazione del Ministero competente a fronte degli allarmi convergenti sopra richiamati. Infine, temiamo che sia altamente improbabile che vengano introdotte nuove e più incisive misure, pur autorevolmente auspicate da più parti, tese a ridurre il sovraffollamento, in sede di conversione del D.L. n. 18/2020.
 
2. Nel contesto di una micidiale pandemia mondiale, la questione carceraria assume un’importanza ogni giorno ingravescente. Mette in gioco tutte le diverse evenienze che possono condurre alla esecuzione di misure carcerarie.
Se comune è lo stato di eccezione – definito dal Segretario generale dell’ONU l’evento globale più grave dopo la seconda guerra mondiale – il principio di adeguatezza da utilizzare per legittimare le misure restrittive della libertà, con gli impliciti bilanciamenti, si rivolge a diversi interlocutori: gli interpreti giudiziari o il legislatore.
La responsabilità graverà sulle interpretazioni giudiziarie in sede applicativa di misure cautelari da parte dei Giudici delle indagini preliminari.
Ovviamente l’adeguatezza di misure alternative al carcere dovrà essere seriamente e realisticamente valutata in tutte le fasi processuali nelle quali deve valere la presunzione di non colpevolezza (art. 27, c. 2, Cost.).
Come stigmatizzato dall’Associazione tra gli studiosi del processo penale, il D.L. n. 18/2020, esso sembra dimenticarsi della realtà «immorale» (un pensiero a Massimo Nobili), della detenzione carceraria preventiva, prima del giudizio[21].
Le insufficienti misure adottate «svuotano l’oceano col cucchiaino», lo abbiamo già ricordato, e si rivolgono ai soli condannati in esecuzione. Producono anche conseguenze contraddittorie: ad esempio producendo una ulteriore rarefazione dei braccialetti elettronici[22].
Per i detenuti in esecuzione, infine, occorre finalmente infrangere un tabù, pronunciare l’impronunciabile: indulto, provvedimenti legislativi generali e astratti estintivi[23]
È difficile cogliere una disattenzione nei confronti della carcerazione preventiva.
Più realistico vedervi una ulteriore manifestazione di una repubblica [co]governata dai pubblici ministeri: con le sue icone, ospiti sul quotidiano di regime o negli studi televisivi compiacenti. L’ultima performance televisivain tema, quella di un Procuratore, già fattosi apprezzare per le doglianze rivolte ai media che non magnificavano le sue retate di mafiosi, e che oggi rilancia la tranquillizzante contabilità ministeriale: «si è più sicuri in carcere che fuori»[24].
Un borborigmo ricorrente è quello di rilanciare l’edilizia penitenziaria[25].
Anche un bambino capisce che, quanto ai tempi della pandemia, qualcosa non torna.
Un soprassalto, però.
La Cina è vicina, ce lo ricorda ogni giorno dagli schermi, un Ministro degli esteri[26].
Non sarà che si pensa a imprese come quella dell’enorme ospedale da campo di Wuhan, in dieci giorni. La parola campo associata a carcere può essere molto indigesta!
Da sorvegliare anche l’eventuale pratica di trasferimenti di detenuti, alla ricerca, illusoria, di soluzioni «abitative» più distanziate. Viene in mente un modo di dire, «le vacche o gli aerei di Mussolini», per la magica capacità, attraverso adeguati spostamenti, di dare una compiacente rappresentazione di una realtà, non veritiera. La natura diffusa, cronica e strutturale del sovraffollamento carcerario in Italia, come noto, riguarda la gran parte degli istituti di pena.
È forse superfluo ricordare, infatti, come in punto distanziamento umano-sociale e adeguata strumentazione preventiva, la situazione riguardi l’intero sistema penitenziario italiano di fronte all’emergenza pandemica.
 
3. Intendiamo soffermarci su un tema: quello della definizione di criteri di adeguatezza della vigente disciplina della esecuzione di misure cautelari personali. La concretizzazione di quei criteri, nella situazione determinatasi nelle carceri a causa della pandemia, è affidata alla magistratura.  
Più in particolare ci soffermeremo sulla situazione più problematica. Quella disciplinata dall’ art. 275, c. 3, c.p.p.
Le presunzioni di adeguatezza della sola custodia preventiva carceraria sono graduate in due fattispecie.
L’ ultima parte del comma 3, che si riferisce ad un variegato gruppo di incriminazioni, consente di superare la presunzione quando «siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure». Il riferimento al caso concreto non solo consente, ma impone, nel relativizzare la presunzione, di considerare gli effetti della pandemia sul sistema carcerario.
Ma dobbiamo entrare nel cuore della Gehenna: quel secondo periodo riferito agli artt. 270, 270 bis e 416 bis c.p., che consente di superare la presunzione di adeguatezza della carcerazione preventiva nel solo caso di acquisizione di «elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».
E una domanda: è ragionevole oggi questa presunzione, che sembra escludere soluzioni alternative capaci di soddisfare le esigenze cautelari attenuando la conclamata situazione di rischio epidemico nelle carceri e le sue potenzialità diffusive?
Occorre una interpretazione sistematica degli artt. 275, c. 3 e c. 4 bis, e 277 c.p.p., in conformità all’art. 117, c. 1, Cost., con riferimento agli artt. 2 e 3 CEDU (diritto alla vita e divieto di tortura o di pene e trattamenti inumani o degradanti), nel significato loro attribuito dalla giurisprudenza-fonte della Corte di Strasburgo.
La tesi che si vuole anzitutto dimostrare è che, anche in presenza di quel disposto, è possibile sostituire la misura custodiale con quella degli arresti domiciliari, eventualmente accompagnata dalle particolari modalità di controllo elettronico prescritte dall’art. 275 bis c.p.p. (cd. braccialetto elettronico).
Alcune autorità giudiziarie, sollecitate a pronunciarsi su istanze di sostituzione della misura della custodia cautelare intramuraria con gli arresti domiciliari, anche in ipotesi cd. ostative del secondo tipo, hanno disposto la sostituzione, stante l’impossibilità, a fronte della pandemia di Covid-19, di garantire idonea protezione della salute e della vita dei detenuti in ambiente inframurario[27].
L’elevato e ineliminabile pericolo concreto di lesione del diritto alla salute, e finanche del diritto alla vita, rendono, anche nelle ipotesi di cui al secondo periodo dell’art. 275, c. 3, c.p.p., la privazione di libertà in custodia cautelare in ambiente carcerario, del tutto sproporzionata ed in contrasto con il principio di adeguatezza.
Abbiamo richiamato l’art. 277 c.p.p.[28] – ma torneremo su questa norma – che sembra cancellata nelle prassi interpretative, ma che, oggi, ben può costituire, nella legge ordinaria, una indicazione centrale nella definizione del perimetro dell’adeguatezza.
Altro riferimento fondamentale, quello dell’obbligo di interpretazione conforme all’art. 2 e all’art. 3 della C.E.D.U. ed alla relativa giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Obbligo che richiama il principio di civiltà giuridica sancito dall’art. 277 c.p.p. quando prescrive che «le modalità di esecuzione delle misure devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta, il cui esercizio non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto».  Ancora, e in tutti i casi, il riferimento al caso concreto, come visto invece assente nel secondo periodo dell’art. 275,che non può che implicare la considerazione di ogni fattore implicato dalla costrizione carceraria.
In sostanza, posto che la finalità di garanzia sottesa al principio di adeguatezza finirebbe con l’essere svuotata di qualsiasi contenuto concreto ove non si vincolasse al medesimo canone anche la fase della esecuzione concreta della misura prescelta, l’art. 277 c.p.p. sottolinea la necessità che l’articolazione in concreto delle misure avvenga in termini tali daassicurare il godimento di diritti inalienabili di cui la anche persona detenuta è titolare.
Da ciò consegue l’illegittimità della esecuzione, o della protrazione, di misure cautelari che si rivelino in concreto vessatorie e persecutorie in quanto lesive della dignità e delle libertà fondamentali dell’individuo e non necessarie, perché diversamente assicurabili, alla luce delle esigenze cautelari. E nella valutazione in termini concreti, come detto, deve rientrare la realtà della pandemia nelle nostre carceri: oltre alla esposizione all’elevato rischio di contagio da Covid-19, con il conseguente stato psicologico che ne deriva, la situazione concreta, è caratterizzata inoltre dall’angoscia per la possibile esplosione di ulteriori rivolte, anche violente, tali da mettere a repentaglio l’incolumità anche dei reclusi del tutto estranei ad esse.
Il «cumulo» di queste circostanze non può che attingere un livello qualitativo di compressione dei diritti fondamentali che si qualifica come non necessario, contrario al senso di umanità, lesivo della dignità umana, crudele e degradante, e dunque incompatibile con il disposto dell’art. 277 c.p.p.
Tra i diritti condensati nella clausola/limite generale dell’art. 277 c.p.p., invero, rientrano senz’altro tutti gli interessi riconosciuti e presidiati dalla nostra Carta costituzionale, nonché dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali.
Ed infatti, assumono rilevanza l’art. 27, comma 3, Cost., ai sensi del quale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», nonché l’art. 3 della Convenzione, in base al quale «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Ben nota è la ratio sottesa alla norma costituzionale, e cioè l’esclusione dalla sanzione penale di ogni sofferenza ed umiliazione che oltrepassi il limite di afflizione insito in ogni pena.
Parimenti l’art. 3 della C.E.D.U., nel cui ambito di applicazione, per effetto del riferimento ai «trattamenti», è ricompreso ogni misura privativa della libertà che non rientri nel novero delle pene, non si limita a vietare le condotte lesive dell’integrità fisica dell’individuo: annoverando anche le pene e i trattamenti degradanti, che producono sofferenze non fisiche, ma morali (quali l’umiliazione e l’avvilimento), la norma si pone quale fondamentale garanzia della dignità della persona.
Proprio in ragione del valore degli interessi tutelati, la portata assoluta del precetto convenzionale, che non ammette deroga alcuna, è stata più volte affermata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: «Anche nelle circostanze più difficili, quali la lotta al terrorismo o al crimine organizzato, la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti disumani o degradanti (…) il divieto di tortura o delle pene o trattamenti disumani o degradanti è assoluto, quale che sia la condotta della vittima» (Corte eu., 06.04.2000, Labita c. Italia, par. 119); «la natura della violazione contestata è irrilevante» (Corte eu. 28.02.2008, Saadi c. Italia, in GD, 2008, 3, 79).
Nell’individuare le condotte vietate dall’art. 3 della C.E.D.U. la Corte Europea si è sempre rifiutata di fare considerazioni teoriche, attribuendo rilevanza alle circostanze di fatto di ogni singolo caso[29]. E difatti, così si esprimono i Giudici di Strasburgo nella appena citata fondamentale sentenza SaadiSecondo la giurisprudenza consolidata della Corte, per rientrare nel campo di applicazione dell’art. 3, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di questo livello è relativa; essa dipende dal complesso delle circostanze della causa, in particolare dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici e psichici, nonché, talvolta, dal sesso, dall’età e dalle condizioni di salute della vittima» (Corte eu. 28.02.2008, cit., par. 134). Ebbene, partendo dalla considerazione che lo stato di detenzione, a qualunque titolo eseguito (fermo di polizia, custodia cautelare, esecuzione di una pena detentiva), non priva l’interessato delle garanzie dei diritti definiti dalla C.E.D.U., gli organi di tutela della Convenzione hanno più volte qualificato come trattamento disumano e degradante la reclusione in strutture fatiscenti e in condizioni di sovraffollamento (ad es., senza pretesa di completezza, C. eur. 06.03.2001, Dougoz c. Grecia; più di recente, v. C. eur. 08.01.2013, Torreggiani e altri c. Italia), come pure la detenzione in condizioni di grave nocumento per la salute dei detenuti,(Commissione, dec. 02.03.1998, Venetucci c. Italia; rapp.  17.12.1981, Charter c. Italia, DR, 33, 41); e investiti della questione hanno considerato quali fattori idonei a misurare il rispetto della previsione convenzionale, «la gravità delle condizioni di salute del ricorrente, la qualità delle visite mediche ricevute e la compatibilità dello stato di salute con la detenzione»[30].
La necessità di rendere effettiva la tutela della dignità umana ai sensi dell’art. 3 della C.E.D.U. ha portato gli organi di Strasburgo a porre a carico degli Stati aderenti obblighi positivi di garanzia, atti a realizzare una prevenzione efficace che metta al riparo le persone soggette alla loro giurisdizione da trattamenti lesivi della loro integrità fisica (Cfr. Comm. Rapp. 08.07.1993, H. c. Svizzera, par. 79, ove la Commissione, ancora una volta qualifica come trattamenti disumani e degradanti l’assenza di adeguate cure mediche).
In pratica, la portata precettiva dell’art. 1 della C.E.D.U., ai sensi del quale «Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della presente Convenzione», è tale che l’obbligo di assicurare il diritto protetto deve essere adempiuto dallo Stato anche quando la condotta lesiva venga realizzata da terzi, ivi compresi altri Stati non aderenti alla Convenzione[31].
In tal senso la Corte è giunta a ravvisare un trattamento inumano, che impegna la responsabilità dello Stato procedente ai sensi della Convenzione, nell’espulsione di un individuo«quando vi siano motivi seri e certi di ritenere che l’interessato, se espulso verso il Paese di destinazione, correrebbe un rischio reale di essere sottoposto a un trattamento contrario all’art. 3. In tal caso, l’art. 3 comporta l’obbligo di non espellere la persona in questione verso tale paese», ricorrendo altrimenti la responsabilità «dello Stato contraente per aver posto in essere un atto che ha come risultato diretto di esporre qualcuno a un rischio di maltrattamenti proibiti» (Corte eu. 28.02.2008, Saadi,cit., par. 125-126);
Alla luce di tali statuizioni, risulta che uno Stato Contraente inerte, che consapevolmente omette di attuare misure effettivamente idonee a ridurre il sovraffollamento carcerario al fine di limitare il propagarsi di una malattia altamente infettiva e potenzialmente letale, come il Covid-19, quale è la Repubblica Italiana in questo momento, viola anche l’obbligo positivo convenzionalmente imposto di tutelare la salute e finanche la vita delle persone recluse negli istituti di pena (art. 2 CEDU).
Ritorniamo all’ art. 277 c.p.p., per sottolineare con forza come, a fortiori, la formula usata – esercizio dei diritti – trattandosi di diritto alla salute e alla vita, comprenda piuttosto e anzitutto il loro rispetto incondizionato da parte del pubblico potere coercitivo.
 
Orbene, da un lato, occorre rilevare che l’emergenza pandemica in corso non ha, quanto ad eccezionale portata e pericolosità, precedenti storici dal momento di istituzione del Consiglio d’Europa e dalla ratifica da parte dell’Italia ed entrata in vigore della Convenzione EDU.
Non vi sono dunque sentenze della Corte EDU che abbiano specificamente affrontato ed eventualmente sanzionato violazioni dei diritti fondamentali nella situazione penitenziaria, da parte degli Stati Contraenti, consistenti nell’omissione di adeguate misure di prevenzione e contenimento di un potenziale contagio di tali proporzioni e virulenza.
Il 1° aprile 2020 il segretario generale delle Nazioni Unite ha definito l’attuale pandemia l’evento planetario più grave verificatosi dopo la Seconda guerra mondiale. Con specifico riferimento alla promiscuità carceraria, tale da eludere la regola prima di contrasto costituita dal distanziamento sociale, è intervenuto l’Alto Commissario ONU per i diritti dell’uomo Michelle Bachelette, sollecitando l’adozione di misure alternative alla detenzione da parte degli Stati[32].
D’altro lato, tuttavia, in alcune decisioni relative ad altre malattie infettive, possono individuarsi rationes decidendi,applicabili estensivamente o per analogia alla straordinaria situazione attuale, che conducono a riscontrare profili di responsabilità in capo allo Stato Contraente inerte, per violazione degli artt. 2 e 3 della Convenzione, imponendosi soluzioni in concreto rispettose, di fronte ad una situazione assolutamente eccezionale e nuova, che siano rispettose del principio di adeguatezza.
Ad esempio, la Corte di Strasburgo ha evidenziato che la diffusione di malattie contagiose, e, in particolare, di tubercolosi, epatite e HIV, deve essere considerata e affrontata come questione di salute pubblica, specialmente nell’ambiente carcerario.
In questa materia, la Corte ha ritenuto desiderabile che, con il loro consenso, i detenuti possano avere accesso, entro un tempo ragionevole dopo il loro ingresso in prigione, a test gratuiti per diagnosticare la positività a tubercolosi, epatite e HIV  (Cătălin Eugen Micu c. Romania, 2016, § 56; v. anche, Jeladze c. Georgia, 2012, § 44, ove la Corte ha stabilito che un ritardo di tre anni prima di sottoporre il ricorrente ai test per l’epatite C integrava una negligenza da parte dello Stato rispetto ai suoi obblighi generali di adottare misure efficaci per impedire la trasmissione dell’epatite C o di altre malattie infettive in prigione[33].
Sulla scorta di queste statuizioni, l’inerzia, la trascuratezza o la grossolana minimizzazione del Governo italiano e dell’Amministrazione penitenziaria, rende illegittima la mancata adozione di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere e ben può costituire una violazione degli artt. 2 e 3 CEDU.
Agli illustrati manifesti profili di contrasto costituzionale e convenzionale (artt. 117, c. 1, Cost., in relazione agli art. 2 e 3 CEDU), l’Autorità giudiziaria investita dalle relative questioni deve rimediare in via ermeneutica, attraverso la sostituzione delle misure inflitte in carcerazione preventiva con arresti domiciliari, eventualmente corredati dal cd. braccialetto elettronico, ai sensi dell’art. 275 bis c.p.p.
Al riguardo, non può essere posta in dubbio la immediata vincolatività per il giudice interno dei diritti e delle garanzie stabiliti dalla C.E.D.U., così come delle pronunce dei Giudici di Strasburgo che, via via, ne attualizzano la portata precettiva in singole ipotesi. Ciò è stato, infatti, reiteratamente riconosciuto in maniera inequivocabile, sia dalla Corte di Cassazione, laddove afferma l’efficacia vincolante delle decisioni rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo anche rispetto a situazioni ritenute in contrasto con il diritto all’equo processo e che pure mettono in discussione il giudicato interno[34], sia soprattutto dalla Corte costituzionale.
La Consulta, nelle celebri pronunce nn. 348 e 349 del 2007, cd. «sentenze gemelle», non solo ha ribadito il valore interpretativo della CEDU attraverso il principio per cui la peculiare rilevanza delle norme della Convenzione si è tradotta «nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare», ma è giunta persino a sancire l’immediata «giustiziabilità» delle norme interne contrastanti con la disciplina convenzionale. In altri termini, è la stessa Corte costituzionale che impone al giudice comune di attivare, ove possibile, ogni torsione interpretativa capace di conciliare il dettato normativo interno rispetto al tracciato convenzionale ed alla relativa giurisprudenza; e solo dove una tale interpretazione ‘convenzionalmente’ conforme non sia permessa dal testo della norma nazionale, esitando in una lettura del precetto chiaramente contra legem, è sempre la Corte costituzionale a pretendere che sia sollevata una specifica questione di illegittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, c. 1, Cost.
Tale elaborazione interpretativa, relativa alle «norme interposte» di natura convenzionale, che integrano il parametro di cui all’art. 117, c. 1, Cost. – come noto – si è sviluppata ed è stata via via precisata e delimitata da parte della Corte costituzionale.
Il «protocollo metodologico» inizialmente fissato dalle cd. sentenze gemelle – interpretazione conforme alla Convenzione o, soltanto in caso di impossibilità di conformazione, proposizione della questione di costituzionalità per violazione «mediata» dell’art. 117, c. 1, Cost. – è stato in prima battuta accettato senza riserve dalla Consulta (cfr. ad es. C. cost., sentt. n. 311/2009, 39/2008, 317/2009, 138 e 187/2010, 113/2011, e soprattutto 170/2013, secondo cui possono essere ritenute vincolanti per l’ordinamento italiano anche le sentenze rese dalla Corte EDU nei confronti di altri Stati Contraenti, nella misura in cui esse «contengano affermazioni generali, che la stessa Corte europea ritiene applicabili oltre il caso specifico»).
In seguito, il Giudice delle leggi ha progressivamente attenuato il vincolo interpretativo desumibile dalla giurisprudenza convenzionale, allo scopo di consentire ai giudici comuni, tramite esercizio del cd. «margine di apprezzamento nazionale», di tenere in considerazione le peculiarità ordinamentali interne e frenare un’applicazione indiscriminata di statuizioni e principi, il più delle volte strettamente connessi al caso concreto giudicato dalla Corte europea, e dunque non immediatamente estensibili alla generalità delle fattispecie.
L’approdo più importante in tal senso – come noto – è rappresentato dalla importante sentenza C. cost. n. 49/2015, laddove si è statuito che il vincolo di adeguamento sussiste unicamente quando la giurisprudenza europea possa reputarsi generatrice di un «diritto consolidato», ovvero quando si tratti di una cd. sentenza pilota. Più nello specifico, il Giudice delle leggi, ha enumerato, in negativo, una serie di «indici sintomatici» dell’assenza di un «diritto consolidato», tali da permettere al giudice ordinario di discostarsi dalla linea ermeneutica espressa dalla Corte EDU[35]. Tale elencazione, che, peraltro, non può ritenersi in alcun modo esaustiva, dovendo residuare un margine di valutazione, «caso per caso», in capo all’interprete nazionale, è stata nella sostanza ribadita in sentenze costituzionali ancora più recenti (cfr. C. cost., n. 120/2018, 25/2019).
Ebbene, con riferimento al nostro tema – dovere di interpretare le disposizioni codicistiche di cui all’art. 277 c.p.p. e all’art. 275, c. 3 e c. 4 bis c.p.p. in maniera conforme alle «norme interposta» di cui all’art. 2 e 3 CEDU (diritto alla vita e divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti)  così da imporre nell’attuale temperie pandemica la sostituzione della misura cautelare con un presidio meno afflittivo – occorre rimarcare che il case-law della Corte di Strasburgo in materia presenta tutte le caratteristiche delineate nella giurisprudenza costituzionale per potersi dire «consolidato», e dunque tale da imporre un effettivo vincolo di conformazione interpretativa.
Non soltanto la natura dei valori presidiati, assoluta e inderogabile (vita, dignità umana), o comunque primaria (salute), ma la stessa evoluzione giurisprudenziale concernente gli artt. 2 e 3 CEDU si mostra sufficientemente univoca e consolidata, da potere orientare con sufficiente determinatezza lo sforzo di interpretazione adeguatrice.
Come si è illustrato sopra, infatti, la vita, la dignità umana e la salute dei detenuti sono stati ripetutamente affermati quali valori fondamentali presidiati dalle disposizioni convenzionali. Se ne è conseguentemente ricavato un obbligo positivo inderogabile di tutela in capo agli Stati Contraenti, che ben può essere violato in caso di omesso intervento in sede legislativa o amministrativa, con misure adeguate volte a rimuovere condizioni di vita detentiva tali da ledere i diritti fondamentali dei detenuti.
Con specifico riferimento al diritto alla salute, un obbligo positivo di prevenzione della diffusione del contagio di malattie infettive e di cura nel caso di detenuti affetti da tali patologie in capo agli Stati Contraenti è stato di recente statuito nelle pronunce sopra richiamate (Cătălin Eugen Micu c. Romania, 2016, § 56; Jeladze c. Georgia, 2012, § 44).
Mai, però, è stato affrontato dalla Corte di Strasburgo il tema del sovraffollamento carcerario – per il quale pure l’Italia è stata condannata con la nota decisione Torreggiani e altri c. Italia che, va ricordato, è una «sentenza pilota» – inteso quale condizione strutturale e sistematica del sistema penitenziario, tale da «agevolare» la diffusione del contagio, non affrontata con adeguate misure di contenimento da parte dello Stato Contraente in ambito penitenziario.
L’assenza di precedenti specifici – collegata alla «straordinarietà» della attuale pandemia da Covid-19, quanto a eccezionale portata e virulenza mondiale – non impedisce quindi di applicare, attraverso un’interpretazione teleologica ed evolutiva, i principi ripetutamente stabiliti dal Giudice europeo con riguardo alla salvaguardia di cui agli artt. 2 e 3 CEDU.
Ciò conduce a identificare chiari profili di incompatibilità con quest’ultime disposizioni nella condotta di uno Stato che omette di porre in essere misure idonee a diminuire il tasso di overcrowding al fine di contenere e frenare le infezioni da Covid-19 in ambiente intramurario.
La via di un’interpretazione dell’art. 275, c. 3 e 4 bis, c.p.p. dando l’illustrato rilievo al principio generale, singolarmente negletto nelle prassi applicative, dell’art. 277 c.p.p., ancorché conforme alle garanzie di cui all’art. 2 e all’art. 3, come meglio specificata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, appare percorribile e, dove possibile, doverosa da parte dei giudici penali.
Questo in considerazione anche dell’inadeguatezza delle iniziative governative: dubbi sulle informazioni ufficiali sono inoltre alimentati dalla sottovalutazione del problema dei diritti umani dei reclusi rinvenibili in discorsi e slogan adottati dall’autorità competente. Come detto all’ inizio, l’attuale situazione delle carceri può essere raccontata come quella di una città di media grandezza, una zona rossa, di fatto abbandonata a sé stessa.
Argomenti ulteriori, e, se possibile, ulteriormente robusti a favore di una interpretazione convenzionalmente conforme debbono derivare dalla previsione dell’art. 275, c. 4 bis, c.p.p.: in questo caso interviene con forza un criterio di ragionevolezza.
Anzitutto, il riferimento all’AIDS ci conduce a ritenere – e torniamo alle considerazioni sviluppate sopra – che tale limite, da una parte, non abbia considerato un fenomeno epidemico delle dimensioni e soprattutto con le caratteristiche di quello che stiamo combattendo: rispetto all’AIDS altre erano le problematiche epidemiche, non certo contrastabili con il distanziamento sociale. Misura che oggi viene rappresentata come assolutamente decisiva, ma, ahinoi, del tutto impraticabile nelle nostre carceri.
Ancora, la pandemia, non immaginata nei modi in cui si è manifestata, ci impone di leggere le norme in questione non in considerazione di una grave patologia in atto o di condizioni che risultino già e ora incompatibili con lo stato di detenzione. Il tipo di rischio mortale rappresentato dal Covid-19 deve essere affrontato prescindendo dal fatto che in concreto esso si sia già tradotto in pericolo ovvero, nell’ evento di danno: la malattia e la morte.
Orbene, ai sensi dell’art. 275, comma 4 bis, c.p.p. «non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta (…) da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere».
Trattasi di un importante corollario del principio di adeguatezza, posto a tutela della salute del soggetto, che pone una presunzione di non necessità della misura carceraria correlata ad una presunzione di non pericolosità del soggetto proprio in considerazione delle condizioni fisiche e psichiche in cui versa. Come precisato dalla Cassazione, detta presunzione in bonam partem non può essere superata né in base all’art. 275, c. 3, c.p.p., né un generico riferimento alla negativa personalità dell’indagato, «ma soltanto in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, risultanti da concreti, specifici e attuali elementi, altamente indicativi dell’esistenza di un eccezionale, oggettivo pericolo che deriverebbe alla comunità sociale» (Cass. sez. I, 13.03.2003, n. 11965, Cerrito, in CED rv 224668). Con riferimento alla gravità della malattia cui fa riferimento la norma, essa non deve essere valutata in sé, ma soprattutto in relazione alla possibilità di effettuare interventi diagnostici e terapeutici in ambiente carcerario (ad esempio, Cass. 25.01.1996, Coco, in Riv. pen. 1996, 1386). Ed infatti le situazioni prese in considerazione dal legislatore sono sostanzialmente due: da un lato, l’incompatibilità delle condizioni di salute con lo stato detentivo da valutarsi in relazione alla concreta praticabilità dei necessari interventi terapeutici che valgano anche solo ad evitare un peggioramento della malattia; e dall’altro, l’impossibilità a ricevere cure adeguate nell’ambiente carcerario (Cass. 02.05.2003, Santapaola, in Riv. pen. 2004, 257).
Ebbene lo sforzo di adeguamento ermeneutico della disposizione di cui all’art. 275, c. 4 bis, c.p.p. all’art. 117, c. 1, Cost., con riferimento agli artt. 2 e 3 CEDU, impone oggi di aggiungere alle dette ipotesi l’ulteriore caso in cui risulti, sulla base di attendibili elementi di fatto, che il detenuto sia esposto a concreto pericolo di contagio da Covid-19 in ragione delle condizioni detentive.
Come già affermato, è necessario leggere la disposizione non in considerazione di una grave patologia in atto o di condizioni che risultino già e ora incompatibili con lo stato di detenzione. Il tipo di rischio mortale rappresentato dal Covid-19 è profondamente diverso, e perciò dev’essere disciplinato a prescindere dal fatto che esso si sia già tradotto in pericolo ovvero, nell’evento di danno: la malattia e la morte. L’illegittimità del mantenimento della cautela intramuraria in tali ipotesi, poi, dovrebbe essere prevista anche in base ad una fondamentale esigenza di pari trattamento, riconducibile al principio costituzionale di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3, c. 1, Cost. A volere ragionare diversamente, infatti, l’ordinamento appresterebbe un presidio normativo ed un livello differenziato di protezione ai medesimi beni/valori fondamentali della vita e della salute dei detenuti (artt. 2, 32, 27, c. 4, Cost.) senza alcuna giustificazione logica, e dunque in maniera arbitraria.
 
4. Qualora non sia ritenuta percorribile la prospettata interpretazione convenzionalmente conforme degli artt. 275, c. 3 e c. 4 bis e 277 c.p.p., occorre ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle anzidette disposizioni, per contrasto dell’art. 117, c. 1, Cost., in relazione agli artt. 2 e 3 CEDU, nella parte in cui, pur in presenza di accertate e documentate condizioni detentive di sovraffollamento e insufficienza di assistenza medica, tali da porre concretamente in pericolo la salute e finanche la vita del detenuto, in ragione di un’emergenza sanitaria da pandemia Covid-19 in atto, non adeguatamente fronteggiata dallo Stato Contraente, non consentono di disporre la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari.
Come è noto è questa la via tracciata dalle fondamentali decisioni della Corte costituzionale che hanno aperto in confronto con la Corte sovranazionale posta a tutela dei diritti fondamentali.
L’epidemia mondiale interviene in un momento nel quale non solo ci troviamo in presenza di una classe politica improvvisata e inadeguata[36], ma essa è anche insensibile, in massima parte, ai diritti civili fondamentali.
La fazione populista, poi, è ad essi ostile, continuando a vedere nella galera l’unica soluzione di ogni male.
Queste idee non devono trovare ascolto nel nostro ordinamento costituzionale, alla cui fedeltà sono vincolati gli appartenenti all’Ordine giudiziario[37].




[1] Cfr., tra tutte, la sentenza «pilota» Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, Causa Torreggiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013, che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione EDU, Divieto di tortura e di pene o trattamenti inumani o degradanti, a causa delle diffuse condizioni di sovraffollamento carcerario, tali da integrare una sistematica violazione del divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti, priva di effettivo rimedio in base alla normativa interna.
[2] Come affermato esplicitamente nella nota sentenza di «incostituzionalità accertata, ma non dichiarata», C. cost. n. 279/2013, che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, sollevate, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione EDU. L’inammissibilità, accompagnata da un pressante monito al legislatore, è stata dichiarata unicamente per l’assenza di «soluzioni costituzionalmente vincolate» in grado di offrire un meccanismo adeguato di rimedio preventivo alla lesione dei diritti dei detenuti determinata dal sovraffollamento, tale non potendosi ritenere il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena di cui all’art. 147 c.p. indicato dal rimettente. Come si osserva in dottrina (M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, in Rivista AIC, 2019, 2, pp. 644 ss., in ptc. p. 654, nt. 24),la questione potrebbe oggi avere un esito diverso, alla luce del nuovo orientamento della giurisprudenza costituzionale, che ha superato il dogma delle «rime obbligate», essendo oggi sufficiente individuare soluzioni costituzionalmente «adeguate» all’interno del sistema, dopo un primo monito al legislatore caduto nel vuoto (v. C. cost. sent. n. 222 e 233/2018; 40 e 99/2019).
[3] D. Pulitanò, Sulla pena. Tra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 2, pp. 641 ss., pp. 651-652, ci ricorda l’importanza «sistematica» della sentenza Corte. cost. n. 279/2013. Rilevato uno scarso approfondimento nella riflessione giuridica sulla «dimensione materiale delle pratiche punitive», l’Autore osserva che «depurata dalla materialità del carcere, la pena diviene (e forse viene applicata) come misura astratta di un disvalore, accostabile a un voto scolastico», e ciò non è più conciliabile con il principio di umanità delle pene, sancito dall’art. 27, c. 3, Cost. e inscindibile rispetto al paradigma rieducativo accolto nella Carta fondamentale. Nel prendere le mosse dall’affermata «rilevanza normativa delle condizioni materiali della pena» (Corte cost. n. 279/2013) – allora – occorrerebbe focalizzarsi sul problema della «variabilità del quantum di afflizione, pur nell’invarianza formale della pena», essendo necessario moltiplicare il quantum di pena irrogato per un «coefficiente che corrisponde al diverso grado di afflizione concreta nelle diverse situazioni», che può variare grandemente, sia per ragioni soggettive (ad es. caratteristiche personologiche del detenuto) che per ragioni oggettive (ad es. condizioni di vita nell’istituto di pena, magari accompagnate, come avviene oggi, dalla «spada di Damocle» di una pandemia in atto).
[4] Cfr. le fonti ufficiali del Ministero della Giustizia, reperibili all’indirizzo web https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST250530&previsiousPage=mg_1_14. Alla data in cui si scrive – 4 aprile 2020 – vi è stata una leggera diminuzione dell’ammontare complessivo dei detenuti, soprattutto in ragione dell’applicazione da parte della magistratura di sorveglianza della detenzione domiciliare per pene non superiori ai 18 mesi, ex l. n. 199/2010. Secondo quanto comunicato dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nel bollettino del 3 aprile 2020, i detenuti sono 56.830, a fronte di 47.000 posti realmente disponibili, permanendo un elevato tasso di affollamento, di circa il 121%. Si veda l’URL   http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/it/comunicati_stampa.page.
 
[5] Alla data del 3 aprile 2020, si stima che siano circa 130 gli agenti di polizia penitenziaria infettati dal Covid-19 e oltre 20 i detenuti, cfr. l’URL https://www.rassegna.it/articoli/allarme-polizia-penitenziaria-131-agenti-positivi. Nel carcere di Bologna, intanto, si è verificata la prima morte per Covid-19, di un detenuto di 76 anni: cfr. https://www.lastampa.it/cronaca/2020/04/02/news/nel-carcere-di-bologna-c-e-il-primo-detenuto-morto-per-coronavirus-1.38670356.
[6] Sulle rivolte, si veda la esaustiva rassegna stampa disponibile per la consultazione all’URL http://www.ristretti.it/commenti/2020/marzo/10marzo.htm. Nel vago tuttavia l’informazione sulle circostanze relative ad ogni specifico decesso.
[7] Per una disamina critica delle innovazioni normative v. E. Dolcini, G.L. Gatta, Carcere, coronavirus, decreto ‘cura-italia’: a mali estremi, timidi rimedi, in Sistema penale, 20 marzo 2020.
[8] Cfr. http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2020/03/24/coronavirus-allarme-dellanm-sulle-carceri-intervenire-sono-luogo-di-contagio_73a24975-fee2-48af-919e-f7be035840e2.html.
[9] V. https://www.huffingtonpost.it/entry/csm-boccia-cura-italia-su-carceri-per-molti-inefficace-sul-sovraffollamento-per-di-matteo e indultomascherato_it_5e7cd910c5b6cb08a929b483.
[10] Cfr. http://www.magistraturademocratica.it/comunicato/non-aspettare_3060.php.
[11] Cfr. https://sistemapenale.it/it/documenti/associazione-professori-di-diritto-penale-emergenza-carcere-coronavirus-covid-19.
[12] Cfr. https://sistemapenale.it/it/documenti/associazione-professori-di-diritto-penale-emergenza-carcere-coronavirus-covid-19.
[13] Cfr. https://www.camerepenali.it/cat/10394/emergenza_carcere_basta_mistificazioni!.html.
[14]V.https://www.repubblica.it/cronaca/2020/03/16/news/coronavirus_i_magistrati_chiedono_misure_urgenti_per_le_carceri-251444844/.
[15] V. http://www.ristretti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=88562:lappello-dellonu-qcovid-devastante-per-i-detenuti-liberateliq&catid=220:le-notizie-di-ristretti&Itemid=1.
[16] Cfr. https://sistemapenale.it/pdf_contenuti/1584794857_cpt-covid-statement-of-principles.pdf.
[17]Cfr.https://www.camerepenali.it/cat/10396/anche_il_consiglio_deuropa_lancia_un_monito_allitalia_sullemergenza_carceri,_mentre_continua_il_silenzio_di_conte_e_bonafede.html.
[18] V. https://www.gnewsonline.it/il-ministro-bonafede-risponde-al-question-time-alla-camera-4/, v. in particolare interrogazione dei deputati On. Gennaro Migliore e On. Giorgio Silli.
[19] <<La mancanza di trasparenza che caratterizza il funzionamento delle carceri, in questo momento è accentuata>>, intervista a G. Fiandaca, <<Gratteri irresponsabile Mattarella, dai la grazia”  di G. Mannino, in Il Riformista, 4 aprile 2010.
[20] Cfr. per tutte la nota sentenza Corte eu. 28.02.2008, Saadi c. Italia, in GD, 2008, 3, nella quale la Corte ha riscontrato la violazione del divieto di cui all’art. 3 nell’espulsione in Tunisia di un soggetto sospettato di terrorismo, che sarebbe stato esposto a trattamenti inumani e degradanti in carcere. In particolare, sul profilo delle fonti dei dati informativi, v. § 143, «Nel caso di specie, la Corte ha innanzitutto tenuto in considerazione i rapporti di Amnesty International e di Human Rights Watch riguardanti la Tunisia (paragrafi 65-79 qui sopra), che descrivono una situazione preoccupante. Peraltro, queste conclusioni sono corroborate dal rapporto del Dipartimento di Stato americano (paragrafi 82-93 qui sopra]».
[21] Da ultimo, v. L. Zilletti, L’immoralità pericolosa: il carcere nell’epoca del coronavirus, in Discrimen, 26 marzo 2020.
[22] Cfr. G. Spangher, Pochi braccialetti e innocenti in cella. La beffa di Bonafede aizzerà la rivolta, in Il Riformista, 20 marzo 2020; F. Mirabelli, Basta coi braccialetti, ora salviamo i detenuti dal virus, in Il Riformista, 3 aprile 2020.
[23] In questo senso, v. V. Maiello, La funzione terapeutico-costituzionale di una clemenza generale nella quarantena dello Stato di diritto, in Il Riformista, 26 marzo 2020; si veda anche la citata intervista di G. Fiandaca a Il Riformista.
[24] D. Allegranti, “Più sicuri in carcere che fuori”, dice Gratteri. Intanto a Bologna il primo morto”,in Il Foglio, 3 aprile 2020.
[25] Questa impostazione ideologica sembra davvero degna della più barbara versione, ormai ampiamente (e per fortuna!) superata persino oltreoceano, della retorica «lock’em up and throw away the key»e «do the crime, do the time», che ha accompagnato l’inedita escalation punitiva statunitense negli ultimi 40 anni, producendo la tragedia umanitaria a tutti nota dell’incarcerazione di massa. Non è un caso che in tale contesto, oltre al continuo rilancio e finanziamento dell’edilizia carceraria, per soddisfare le incessanti pulsioni punitive, si assista ad una opposizione aprioristica ad ogni tipo di pubblica discussione circa l’opportunità di emettere provvedimenti di clemenza e cd. second look mechanisms della condanna inflitta, contrastanti intrinsecamente con la ineluttabile «certezza della pena detentiva». Cfr. sul punto, diffusamente, R.E. Barkow, Prisoners of Politics. Breaking the Cycle of Mass Incarceration, Harvard University Press, Cambridge (Ma)-London, 2019, in ptc. pp. 73 ss., 81-87. Se si vuole, a tale proposito, v. la recensione del volume: P. Insolera, Depoliticizzare il sistema di giustizia penale? Un approccio “istituzionalista” contro il populismo penale, in Criminal Justice Network, 20 gennaio 2020.
[26] Su questa pericolosa deriva nelle relazioni di politica estera, si veda la largamente condivisibile analisi critica di M. Ferraresi, China Isn’t Helping Italy. It’s Waging Information Warfare, in Foreign Policy, 31 marzo 2020.
[27] Si veda, ad esempio, il provvedimento di scarcerazione del Gip presso il Tribunale di Catanzaro nei confronti di un soggetto indagato quale vertice di un’associazione ‘ndranghetista nell’ambito di una nota inchiesta, che – va precisato – risultava affetto da gravi problemi di salute e ristretto in una struttura non in grado di offrirgli cure adeguate, cfr. la notizia https://www.site.it/mafia-e-coronavirus-salute-a-rischio-lanciano-indagato-ndrangheta-scarcerato/.
[28] Cfr. in dottrina il commento in S. Furfaro (a cura di), F. Giunchedi, C. Santoriello (aggiornamento), sub art. 277 c.p.p., Codice di procedura penale commentato, Wolters Kluwers, 2020 (versione on line).
[29] A. Esposito, sub art. 3 CEDU, in AA.VV., Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. Bartole, B. Conforti, G. Raimondi, Cedam, 2001, 57.
[30] Cfr. A. Esposito, sub art. 3 CEDU, cit., 70.
[31] Cfr. A. Esposito, sub art. 3 CEDU, cit., 61.
[32] Cfr. https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2020/03/25/coronavirus-onu-misure-urgenti-carceri_5d5cddeb-a838-4091-b4e3-c4dd13760885.html.
[33] Per ulteriori riferimenti nella giurisprudenza convenzionale relativa all’obbligo degli Stati Contraenti di tutelare la vita e la salute dei detenuti, prevenendo la diffusione di malattie infettive, nel particolarmente esposto ambiente carcerario, caratterizzato da sovraffollamento e standard igienici molto bassi, v. Guide on the case law of the European Convention on Human Rights – Prisoners’ Rights, agg. 31 dicembre 2019, consultabile all’URL  https://www.echr.coe.int/Documents/Guide_Prisoners_rights_ENG.pdf, pp. 32-34; F. Cecchini, La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, in www.penalecontemporaneo.it, pp. 29-30.
 
[34] Cfr. ad es., originariamente, Cass. sez. I, 01.12.2006, n. 2800, Dorigo, in Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 3, 345.
[35] «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti, che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano». Per una più diffusa trattazione dell’obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione EDU in materia penale, come delineato nella giurisprudenza costituzionale, v. da ultimo V. Napoleoni, L’onere di interpretazione conforme, in V. Manes, V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Giappichelli, Torino, 2019, spec. pp. 129 ss.
[36] A. Panebianco, Ma la politica non può abdicare, in Corriere della sera, 4 aprile 2020.
[37] Cfr. già G. Insolera, Il buio oltre la siepe. La difesa delle garanzie nell’epoca dei populismi, in Discrimen, 16 novembre 2018.