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PROCESSO PENALE DA REMOTO: PRIME RIFLESSIONI SULLA VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI LEGALITÀ COSTITUZIONALE E CONVENZIONALE – DI MANES-PETRILLO-SACCONE

PROCESSO PENALE DA REMOTO: PRIME RIFLESSIONI SULLA VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI LEGALITÀ COSTITUZIONALE E CONVENZIONALE – DI MANES-PETRILLO-SACCONE

MANES-PETRILLO-SACCONE PROCESSO PENALE DA REMOTO- PRIME RIFLESSIONI SULLA VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI LEGALITÀ COSTITUZIONALE E CONVENZIONALE.pdf

di Vittorio Manes*, Luigi Petrillo**, Giuseppe Saccone***

 

Sommario: 1. Premessa. 2. La violazione del principio della Riserva di legge: il contrasto con l’art. 111, I co. Cost. 3. La violazione del diritto di difesa e l’irragionevole bilanciamento rispetto ai presunti interessi contrapposti: il contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. 4. La violazione del principio di uguaglianza nell’esercizio del diritto di difesa: il contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. 5. La violazione del giusto processo costituzionale e convenzionale: il contrasto con gli artt. 111 e 117 Cost. 6. La violazione del principio di uguaglianza nell’attuazione del giusto processo costituzionale e convenzionale: il contrasto con gli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma Cost. 7. La violazione del principio di immediatezza ed oralità: il contrasto con l’art. 111 Cost.

 

  1. Premessa.

 

Le disposizioni della cui legittimità costituzionale si discute costituiscono l’ultimo precipitato della legislazione emergenziale derivata dalla necessità di fronteggiare, anche in ambito processualpenalistico, la grave situazione epidemiologica in atto[1].

È stato il primo D.L. “giustizia” 8 marzo 2020, n. 11 all’art. 2, comma settimo (ora già abrogato), ad ampliare le limitate ipotesi di collegamento da remoto previste dall’art. 146 bis Disp. Att. c.p.p. estendendo, ove possibile, e sino al 31 maggio p.v., tale modalità di “partecipazione” a qualsiasi udienza, per tutte le persone detenute, internate o in stato di custodia cautelare.

Si è inoltre stabilito che le modalità di tali collegamenti da remoto debbano esser individuate e regolamentate con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia (d’ora innanzi DGSIA).

Con provvedimento del 10 marzo 2020 il DGSIA dava sintetica attuazione alla delega e all’art. 3 si prescrive per le udienze penali l’utilizzo degli strumenti già adottati per i collegamenti di cui all’art. 146 bis Disp. Att. a disposizione degli istituti penitenziari e degli uffici giudiziari; o, in alternativa, i programmi attualmente a disposizione dell’Amministrazione – cioè Skype for Business e Teams – previsti per il settore civile all’art. 2 del medesimo provvedimento.

Entrambe le piattaforme indicate da DGSIA sono piattaforme commerciali di proprietà della Microsoft Corporation.

Con il D.L. 18 del 17 marzo 2020 al comma 12 dell’art. 83 veniva riproposta, prorogandola sino al 30 giugno p.v., identica previsione di collegamento da remoto per qualsiasi udienza penale, per tutte le persone detenute, internate o sottoposte a misura cautelare, con le medesime modalità di regolamentazione (provvedimento del DGSIA) di cui al precedente Decreto 11/2020, la cui disposizione veniva contestualmente abrogata.

Il DGSIA, in attuazione della nuova delega ex art. 83, riproponeva in data 20 marzo 2020 l’identico sintetico provvedimento di individuazione e regolamentazione: trattandosi di persone detenute, internate o sottoposte a misura cautelare, ove possibile il collegamento avviene utilizzando gli strumenti di videoconferenza già a disposizione degli istituti penitenziari e degli uffici giudiziari per le ipotesi di cui all’art. 146 bis Disp. Att.; in alternativa sono riproposti gli applicativi della Microsoft Skype for Business e Teams.

In data 9 aprile, in sede di conversione, il Governo poneva la fiducia su di un unico emendamento complessivo che introduceva notevoli modifiche in relazione all’utilizzo dei collegamenti da remoto nel settore penale.

Svincolando l’uso della videoconferenza dallo stato di detenzione del soggetto che dovrebbe “beneficiarne”, venivano inseriti all’art. 83 diversi commi volti ad estendere il sistema dei collegamenti da remoto ben oltre le originarie previsioni di cui ai due decreti legge.

La partecipazione a distanza, dunque, non era più legata allo stato di detenzione della parte necessaria, ma diviene, di fatto, regime ordinario “possibile” in udienza per pubblico ministero, parti private e rispettivi difensori, ausiliari del giudice, ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, nonché per interpreti, consulenti e periti; questo sino al 30 giugno 2020 (comma 12-bis).

Solo in sede di nuova decretazione – D. L. 30 aprile 2020 n. 28 – ancora soggetta a conversione in legge, si è, peraltro, parzialmente derogato a questo nuovo regime “generalizzato”, stabilendo che “Fermo quanto previsto dal comma 12, le disposizioni di cui al presente comma non si applicano, salvo che le parti vi acconsentano, alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio e a quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti”.

Il collegamento da remoto resta comunque “possibile” anche nella fase delle indagini preliminari (comma 12-quater) per il compimento di specifiche attività; nonché come modalità per le deliberazioni collegiali in camera di consiglio di tutti gli organi giurisdizionali, Corte di Assise compresa (comma 12-quinquies) e della Corte di Cassazione (comma 12-ter che richiama il 12-quinquies).

Al momento il DGSIA non ha ancora dato attuazione alle nuove deleghe di cui all’art. 83, previste nella legge di conversione e dunque non è possibile sapere se riproporrà, per la terza volta, l’identico sintetico provvedimento che individuerebbe – a questo punto come unico strumento – l’utilizzo delle piattaforme Microsoft Skype for Business e Teams, non risultando più coinvolti nei collegamenti gli istituti di pena e dunque gli strumenti predisposti ai sensi dell’art. 146 bis disp. att. c.p.p.

Le riflessioni che seguono, benché riferite ai testi normativi del D.L. n. 18 del 17.03.2020, convertiti in L. 24.04.2020, n. 87, costituiscono una valida base di ragionamento al fine di valutare la congruità, rispetto al dettato costituzionale e convenzionale, della disciplina del processo da remoto.

  1. La violazione del principio della riserva di legge: il contrasto con l’art. 111, I co. Cost.

Il primo comma dell’art. 111 della Costituzione, per come riformulato dalla L. Cost. 23.11.1999, n. 2. stabilisce che “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Non pare potersi dubitare del fatto che quella disegnata dal legislatore costituzionale italiano è una riserva di legge assoluta, la quale comporta “esclusione dalla materia che ne forma oggetto, oltre che di normazione regolamentare – ad eccezione soltanto (stando all’opinione preferibile) – dei regolamenti di stretta ‘esecuzione’ della legge – anche di concreti provvedimenti discrezionali” degli organi preposti alla sua applicazione, “solo ammettendosi interventi ‘vincolati’ alla legge, che ne costituiscano necessaria applicazione[2].

L’esame della fonte normativa che ha introdotto la “temporanea normalizzazione” del processo telematico con i principi costituzionali sembra già prospettare – sul piano del metodo – profili di dubbia compatibilità con l’art. 77 Cost., vista l’ampiezza e generalità dell’intervento, specie rammentando che la Corte costituzionale ha già mostrato sfavore circa l’adozione di riforme organiche introdotte nell’ordinamento mediante decreto-legge, qui persino gravato dalla questione di fiducia: posto che discipline originate sì dall’emergenza, ma mirate alla costruzione di nuove modalità di erogazione del processo penale, si pongono in contrasto col suddetto parametro costituzionale (sent. n. 230 del 2013).

Ma i profili di contrasto sono amplificati dal meccanismo di rinvio che la disciplina d’urgenza implica, richiamando la necessaria eterointegrazione da parte fonti subordinate, segnatamente, di rango subnormativo.

In particolare, il co. 12 bis dell’art. 83 del D.L. n. 18 del 17.03.2020, conv. in L .24.04.2020, n. 27[3] appare essere prima facie una disposizione in bianco che rinvia a un “provvedimento” nemmeno del Ministro della giustizia, ma del Direttore generale dei sistemi informativi del Ministero. Dunque, stando alla lettera della norma, viene demandato ad un provvedimento emesso da un funzionario del ministero della giustizia il compito di “individuare e regolamentare i collegamenti” necessari a consentire lo svolgimento delle udienze da remoto in modo da “garantire il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti”. Si tratta, come agevolmente intuisce l’interprete, dello strumento tecnico attraverso il quale il contraddittorio e l’effettiva partecipazione (sia pure a distanza) devono trovare concreta attuazione in un ambiente – quale è quello digitale – destinato a surrogare l’aula d’udienza garantendo, nel contempo, il medesimo livello di efficienza.

È stato, sul punto, autorevolmente osservato[4] che il legislatore non può limitarsi ad imporre che «lo svolgimento dell’udienza avvenga con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti», demandando al funzionario ministeriale il compito di decidere quali concrete modalità siano rispettose dei principi costituzionali invocati.

Se si vuole smaterializzare l’atto processuale, la sua nuova consistenza tecnologica finisce per costituire proprio l’oggetto della disciplina che non può essere delegato a una fonte amministrativa.

D’altra parte, la procedura seguita dalla DGSIA in occasione del varo dei decreti legge nn.11 e 18 del 2020, è risultata in aperta violazione del D. Lgs. n. 51 del 2018, come correttamente osservato dal Garante per la protezione dei dati personali con nota del 16.04.2020.

In essa è dato leggere: “Questa Autorità non è stata investita di alcuna richiesta di parere sulle norme emanate in merito, con decretazione d’urgenza, né sulle determinazioni della DGSIA in ordine alla scelta della piattaforma e dell’applicativo da indicare, ai fini della celebrazione da remoto del processo penale. I tempi contratti nei quali tali opzioni sono maturate hanno, verosimilmente, indotto ad omettere un passaggio – ritengo di evidenziare – tutt’altro che formale e che ha, invece, consentito sinora di realizzare un confronto sempre utile al fine di massimizzare la tutela dei vari beni giuridici in gioco, tra i quali appunto anche il diritto alla protezione dei dati personali. Il d.lgs. n. 51 del 2018, infatti, nel disporre la piena applicabilità della disciplina di protezione dati, anche ai trattamenti di dati svolti nell’esercizio della funzione giurisdizionale – pur con tutte le modulazioni ivi previste (anche rispetto ai poteri del Garante, ex art. 37, comma 6) – ha sancito un principio rilevantissimo sul piano delle garanzie e dell’effettività dei diritti individuali. È bene che questo spirito riformatore e le potenzialità proprie di questa scelta legislativa non siano frustrati nella prassi della gestione ordinaria e che, pur in un contesto difficile quale quello che viviamo, non venga meno quella leale cooperazione istituzionale rivelatasi, senza eccezioni, estremamente proficua per tutti gli interessi giuridici in gioco”.

La violazione ad opera del Governo delle disposizioni richiamate dal Garante nel corso dell’emanazione del provvedimento destinato a stabilire le modalità di collegamento da remoto rende, se possibile, ancor più evidente il vulnus inferto in punto di legalità costituzionale.

 La norma appare dunque apertamente in conflitto con il I co. dell’art.111 della Costituzione, poiché demanda all’autorità amministrativa ed a una fonte secondaria una potestà regolatoria delle cadenze fondamentali del processo, riservata dalla Carta Fondamentale alla legge.

Il contrasto con il parametro costituzionale evocato è peraltro amplificato dall’ampiezza del margine di intervento concesso al menzionato provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi del Ministero, per la disciplina dei collegamenti da remoto; consegnando parallelamente al giudice un compito altrettanto generico ed indeterminato, ossia quello di assicurare che lo svolgimento dell’udienza avvenga “con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva  partecipazione  delle parti”: così rimettendo alla discrezionale ed insindacabile valutazione del giudice (il gravoso onere di garantire) aspetti essenziali e fondamentali delle garanzie previste dagli artt. 24 e 111 Cost., con una latitudine valutativa difficilmente compatibile con quando la stessa Corte costituzionale ha stabilito ripudiando apertamente – nell’ordinanza n. 24 del 2017 – l’idea del “giudice di scopo”, ritenuta incompatibile con la stessa soggezione del giudice alla legge (art. 101, comma secondo, Cost.).

  1. La violazione del diritto di difesa e l’irragionevole bilanciamento rispetto ai presunti interessi contrapposti: il contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost.

 

Benché l’intervenuta, citata modifica dell’art. 12-bis – operata in sede di nuova decretazione d’ urgenza (D. L. 30 aprile 2020 n. 28 ancora soggetto a conversione) – subordini al consenso delle parti lo svolgimento da remoto delle “udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio”, e “quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti”, resta fermo lo svolgimento da remoto di diverse e salienti fasi processuali, a cui corrispondono, comunque, gravose deroghe al contraddittorio “reale” (si pensi alla introduzione dei capitolati di prova, alla discussione su questioni preliminari, alle produzioni documentali, etc.).

Del resto, come evidenziato in una perspicua pronuncia del Consiglio di Stato avente ad oggetto proprio le limitazioni al contraddittorio – e il “contraddittorio cartolare coatto” – introdotte a fronte dell’emergenza sanitaria in atto sul versante, ben meno problematico, del processo amministrativo, “[…] il comma 2 dell’art. 111 della Costituzione, nello stabilire che il “giusto processo” – qualsiasi processo – debba svolgersi “nel contraddittorio delle parti, in condizione di parità”, impone, non solo un procedimento nel quale tutti i soggetti potenzialmente incisi dalla funzione giurisdizionale devono essere necessariamente “parti”, ma anche che queste ultime abbiano la possibilità concreta di esporre puntualmente (e, ove lo ritengano, anche oralmente) le loro ragioni, rispondendo e contestando quelle degli altri” (Cons. Stato, sez. VI, ord. 16 aprile 2020 – dep. 21 aprile 2020, rilevando, più in generale, che il “contraddittorio cartolare coatto” rappresenterebbe “[…] una deviazione irragionevole rispetto allo “statuto” costituzionale che si esprime nei principi del “giusto processo”).

Ciò premesso, e come accennato, le peculiari modalità di svolgimento da remoto delle udienze, introdotte dal citato decreto-legge, troverebbero appunto ragione nelle esigenze di prevenzione del – i.e. diminuzione del rischio di – contagio riferibili alla “grave emergenza epidemiologica da COVID-19 in atto”, e come tali giustificherebbero le limitazioni al contraddittorio inter presentes, e le limitazioni che – parallelamente – vengono imposte al diritto di difesa (art. 24 Cost., art. 6 CEDU): diritto, come noto, qualificato come principio supremo dell’ordinamento nei più recenti tracciati della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 238 del 2014).

3.1. Ora, e come noto, tali principi – per giurisprudenza costante della Corte costituzionale – possono in taluni casi consentire deroghe, che però sono assoggettate allo scrutinio di legittimità, e come tali sono costituzionalmente ammissibili solo qualora siano sorrette da giustificazioni ragionevoli, ovvero – segnatamente – risultino giustificate da esigenze di tutela di interessi di pari rilievo costituzionale.

In particolare, lo scrutinio di ragionevolezza delle deroghe implica da un lato – come ogni disposizione limitativa di un diritto fondamentale – il necessario riscontro empirico delle ragioni che a tale deroga sono sottese (ex tra le altre, mutatis mutandis, sentenza n. 265 del 2010); dall’altro, a tale scrutinio può garantirsi esito positivo se – e solo se – il sacrificio imposto al singolo diritto comporti un incremento di tutela del diritto contrapposto, anche solo “prima facie” (così, chiaramente, sentenza n. 143 del 2013, che nel dichiarare costituzionalmente illegittima la disposizione che aveva apportato restrizioni ai colloqui difensivi per i detenuti in regime di 41-bis ord. pen. ha evidenziato che “nelle operazioni di bilanciamento, non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango”).

3.2. Se è così, le deroghe imposte al contraddittorio e al diritto di difesa – asseritamente orientate a garantire una diminuzione del rischio di contagio – non risultano, nel caso in esame, né empiricamente fondate né, in ogni caso, capaci di assicurare un incremento di tutela del diritto contrapposto: posto che gli spazi delle aule dei tribunali – secondo un dato di esperienza generalizzato – sono certamente molto più ampi di quelli degli studi o delle abitazioni dei difensori, dove dovrebbero riunirsi i medesimi con gli assistiti e gli eventuali codifensori; che tali spazi possono (rectius: debbono) essere muniti di dispositivi individuali di protezione che potrebbero mancare – e di regola mancano – in contesti privati; con la conseguenza che proprio le concrete modalità di svolgimento del collegamento da remoto – e il contatto tra imputato ed assistito, possono (non diminuire bensì) accrescere il rischio di contagio, alimentando il mancato “rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie”, gli “assembramenti” e comunque i “contatti ravvicinati tra le persone”.

Di qui l’irragionevolezza della norma, e la conseguente illegittimità, per contrasto con gli art. 24 e 111 Cost.

 

 

  1. La violazione del principio di uguaglianza nell’esercizio del diritto di difesa: il contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost.

La ricostruzione che precede costituisce, altresì, una solida base concettuale per denunciare la disposizione in esame sotto un diverso profilo.

La censura investe, altresì, le determinazioni amministrative con cui il DGSIA in attuazione delle deleghe ex art. 83, ha riproposto l’identico sintetico provvedimento di individuazione e regolamentazione secondo cui ove possibile il collegamento avviene utilizzando gli strumenti di videoconferenza già a disposizione degli istituti penitenziari e degli uffici giudiziari per le ipotesi di cui all’art. 146 bis Disp. Att.; in alternativa sono riproposti gli applicativi della Microsoft Skype for Business e Teams.

Come in precedenza rilevato, la tecnologia in grado di consentire i collegamenti necessari allo svolgimento delle udienze da remoto costituisce lo strumento tecnico attraverso il quale il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. – inteso quale diritto di partecipare al procedimento di formazione e valutazione della prova (nel che si sostanzia il “metodo” del contraddittorio) – deve trovare concreta attuazione.

In altri termini, l’ambiente informatico è destinato a surrogare l’aula d’udienza, dovendo nel contempo garantire un egual livello di “efficienza” della partecipazione digitale.

Diversamente la smaterializzazione dell’atto determinerebbe la sostituzione del contraddittorio reale, con un contraddittorio solo formale e, quindi, non effettivo.

Orbene, è (anche empiricamente) evidente la differenza che intercorre tra gli strumenti tecnici di cui all’art. 146 bis Disp. Att. e quelli costituiti dagli applicativi Microsoft Skype for Business e Teams: mentre nel primo caso è lo Stato a garantire lo standard della dotazione tecnica necessaria al collegamento, cui rimane estraneo il difensore, nel secondo caso, invece, è proprio quest’ultimo a dover assicurare la connessione dell’imputato con le altre parti e con il Giudice, con la conseguenza che il grado di efficienza del sistema dipenderà non solo dal livello di competenze che ciascun avvocato sarà stato in grado di sviluppare in periodo emergenziale, ma anche dalla adeguatezza dei collegamenti internet che non possono definirsi uniformi su tutto il territorio nazionale (si immagini il vulnus che si determinerebbe in tutti i casi in cui, nel momento in cui venga svolta una questione in merito all’ ammissione di una prova o in merito ad un’ eccezione processuale, il collegamento manda il sistema in stand by).

Ecco allora che il grado di efficienza del “contraddittorio partecipato” dipenderà o dalla concreta disponibilità degli strumenti tecnici di cui all’art. 146 bis Disp. Att. (alternativi agli applicativi Microsoft) oppure, nel caso in questi manchino, dal livello delle competenze digitali del difensore ovvero dalla potenza della connessione internet (presente in un dato territorio in misura disomogenea rispetto ad altri).

Ne consegue la disparità di trattamento dei cittadini nell’esercizio del diritto di difesa in considerazione del fatto che l’accesso agli strumenti necessari allo svolgimento delle udienze da remoto non è garantito dallo Stato alle parti in maniera tecnologicamente uniforme ed in condizioni di parità.

  1. La violazione del giusto processo costituzionale e convenzionale: il contrasto con gli artt. 111 e 117 Cost.

 

Onde pienamente apprezzare l’ulteriore profilo di illegittimità costituzionale che si intende proporre e che afferisce il canone della necessaria pubblicità del processo penale di merito, evidentemente conculcata dalla disciplina introdotta dal co.12 bis dell’art.83 del D.L. n. 18 del 17.03.2020, conv. in L.24.04.2020, n. 27, mette conto affrontare gli approdi della giurisprudenza costituzionale sin qui maturata sul tema della pubblicità delle udienze.

Con la sentenza n. 93 del 2010, la Corte Costituzionale dichiarava costituzionalmente illegittime le norme del procedimento di prevenzione, «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica».

Nella circostanza, la Corte anzitutto ricordava  come, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale fosse costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008).

In questa prospettiva, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro.

A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: «ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato».

Su tale premessa, la Corte Costituzionale rilevava come il sesto e il decimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 – con disposizioni valevoli anche in rapporto alle misure patrimoniali antimafia previste dall’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (il cui primo comma richiama il procedimento regolato dalla legge del 1956) – stabiliscano specificamente che il giudizio per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, sia in primo grado che nel giudizio di impugnazione davanti alla corte d’appello, «in camera di consiglio»: perciò, «senza la presenza del pubblico», secondo il generale disposto, in tema di procedura camerale, dell’art. 127, comma 6, cod. proc. pen.

Sempre in occasione delle medesima pronunzia, si rilevava, altresì, come tale assetto normativo sia stato in più occasioni censurato dalla Corte di Strasburgo, per contrasto con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, in forza del quale «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […] pubblicamente […] da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, cui hanno fatto seguito, in senso conforme, le sentenze 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno contro Italia, e 2 febbraio 2010, Leone contro Italia).

La Corte europea ha ribadito, al riguardo, che la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette a una giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, concorrendo con ciò all’attuazione dello scopo dell’art. 6 della Convenzione: ossia l’equo processo.

Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorità giudiziarie di derogare al principio di pubblicità: ma l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della sua durata, deve essere comunque «strettamente imposta dalle circostanze della causa».

Alcune circostanze eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possono giustificare, in effetti, che si faccia a meno di un’udienza pubblica: ma nella maggior parte dei casi in cui la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è pervenuta a tale conclusione in rapporto a procedimenti davanti ad autorità giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel merito, il ricorrente aveva avuto, comunque, la possibilità di chiedere che la causa fosse trattata in udienza pubblica.

La situazione è diversa, per contro, quando, sia in primo grado che in appello, una procedura «sul merito» si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che la persona soggetta a giurisdizione fruisca dell’anzidetta facoltà: non potendo una simile procedura considerarsi conforme all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

Con riguardo alla fattispecie in discussione, la Corte di Strasburgo – in replica ai rilievi svolti dal Governo italiano – non ha contestato che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (e, in particolare, delle misure patrimoniali) possa presentare un elevato grado di tecnicismo, in quanto tendente al «controllo delle finanze e dei movimenti di capitali»; ovvero che possa coinvolgere «interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di terze persone indirettamente interessate dal controllo finanziario». Ciò non consente, tuttavia, di trascurare l’entità della «posta in gioco» nelle procedure stesse, le quali incidono in modo diretto e significativo sulla situazione personale e patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione: il che induce a dover reputare essenziale, ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone […] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

A fronte di tali indicazioni, la Corte Costituzionale ha quindi concluso che le norme censurate violavano, in parte qua, l’art. 117, primo comma, Cost., dovendo senz’altro escludersi che la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea, «contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione».

Ai fini di interesse, è necessario soffermarsi sul successivo passaggio motivazionale.

Per consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, pure in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, «la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione» (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989). D’altra parte, pur dovendosi anche precisare che il principio in questione «non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative», ciò tuttavia si giustifica solo quando le stesse risultino «obiettive e razionali» (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, «collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale» (sentenza n. 12 del 1971).

In tempi più recenti, la Corte Costituzionale è ritornata sul tema della pubblicità delle udienze, sollecitata da un incidente di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari si svolga, su richiesta dell’indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza», denunciato per contrasto con gli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU).

In tale circostanza[5], dopo aver ricordato come gli arresti della giurisprudenza europea – ritenuti pienamente compatibili «con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione» – siano stati posti dalla stessa Corte a base di declaratorie di illegittimità costituzionale attinenti non soltanto al procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione (sentenza n. 93 del 2010), ma anche a procedimenti ulteriori e distinti rispetto a quelli presi in esame in sede europea (sentenza n. 135 del 2014, con riguardo al procedimento per l’applicazione di misure di sicurezza; sentenza n. 97 del 2015, in relazione al procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, nelle materie di sua competenza; sentenza n. 109 del 2015, in ordine al procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca in sede esecutiva), il Supremo Collegio rammenta che in ognuna di tali circostanze, le norme censurate sono state dichiarate costituzionalmente illegittime – in linea con le indicazioni della Corte di Strasburgo – «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati», i procedimenti considerati si svolgano «nelle forme dell’udienza pubblica», quanto ai gradi di merito.

Dopo avere osservato che in occasione dell’inserimento in Costituzione dei principi del «giusto processo» ad opera della legge cost. n. 2 del 1999, non si è ritenuto di includervi quello della necessaria pubblicità dell’udienza, “nondimeno, proprio nel pronunciarsi sulla tematica oggi in esame – quella del diritto alla pubblicità delle udienze nei procedimenti camerali – questa Corte ha ritenuto di poter ravvisare nella previsione del novellato primo comma dell’art. 111 Cost. (secondo la quale «[l]a giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge») il referente primario cui agganciare, nell’attuale panorama normativo, la rilevanza costituzionale del principio di pubblicità. Ciò, sull’implicito presupposto che – anche alla luce di quanto disposto dall’art. 6 della CEDU – detto principio rappresenti, comunque sia, una componente naturale e coessenziale del processo «equo».

La dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni di volta in volta censurate è stata, infatti, pronunciata non solo per la riscontrata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., conseguente al loro contrasto con la disciplina convenzionale, ma anche per quella dell’art. 111, primo comma, Cost. (sentenze n. 109 e n. 97 del 2015, n. 135 del 2014).

Davvero dirimente ai fini di interesse è lo svolgimento del successivo percorso motivazionale che, pure, perviene ad escludere che possa fondatamente ravvisarsi un vulnus costituzionale nella norma che non consente la pubblicità dell’udienza di riesame personale.

Osserva la Corte: “Nel caso odierno, peraltro – escluso, per quanto detto, che l’esigenza di estendere il meccanismo della “pubblicità a richiesta” al procedimento di riesame possa essere desunta dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU – deve parimente escludersi che l’intervento auspicato dal giudice a quo possa ritenersi imposto dalla norma costituzionale interna sul «giusto processo».

Nella specie, non si può non considerare il fatto che il riesame costituisce un procedimento incidentale, innestato sul tronco di un più ampio procedimento penale e non inerente al merito della pretesa punitiva (non diretto, cioè, a stabilire se l’imputato sia colpevole o innocente), ma finalizzato esclusivamente a verificare, in tempi ristrettissimi e perentori, la sussistenza dei presupposti della misura cautelare applicata.

Non si tratta, inoltre, di una sede deputata all’acquisizione della prova (e, in particolare, della prova orale-rappresentativa): attività in rapporto alla quale, come posto in evidenza da questa Corte, soprattutto si apprezza l’esigenza di un controllo diretto del pubblico sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso di chiunque nella sala di udienza (sentenza n. 80 del 2011). Il perimetro cognitivo del tribunale del riesame è, infatti, segnato dagli atti trasmessigli dall’autorità giudiziaria procedente ai sensi dell’art. 309, comma 5, cod. proc. pen., nonché dagli «elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza» (art. 309, comma 9, primo periodo, cod. proc. pen.). Si tratta, quindi, di un giudizio preminentemente cartolare, condotto sulla base di dati raccolti fuori dal contraddittorio. Per giurisprudenza unanime, il tribunale del riesame è privo di poteri istruttori, incompatibili con la speditezza del procedimento incidentale de libertate, né la disciplina dell’art. 127 cod. proc. pen., richiamata per regolamentare lo svolgimento della procedura, autorizza – incentrata, com’è, sulla mera “audizione” delle parti – a ritenere ammissibile un’attività di elaborazione probatoria nel corso dell’udienza, con particolare riferimento all’assunzione in forma orale dei contenuti informativi.

Ancora, la decisione assunta in sede di riesame è intrinsecamente provvisoria, essendo destinata a rimanere superata dagli esiti del successivo giudizio. Il cosiddetto giudicato cautelare, suscettibile di formarsi all’esito della decisione del tribunale del riesame – figura elaborata dalla giurisprudenza nella prospettiva di evitare una defatigante reiterazione delle medesime istanze – non è, notoriamente, un giudicato vero e proprio, esaurendosi nel mero impedimento alla riproposizione, rebus sic stantibus, di richieste al ‘giudice della cautela’ basate su motivi già dedotti.

Di contro, questa Corte, nelle citate sentenze n. 135 del 2014 e n. 93 del 2010, ha identificato proprio nella idoneità ad incidere in modo definitivo su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati uno degli elementi che valgono a differenziare i procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione e di sicurezza «da un complesso di altre procedure camerali», conferendo «specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato».

            Le considerazioni che precedono non lasciano dubbi sullo stridente contrasto con i principi appena ricordati del disposto del co.12 bis dell’art.83, così come prefigurato dalla L.24.04.2020, n.27, allo stato, tuttavia reso inoffensivo, dal D.L.28/2020.

 

  1. La violazione del principio di uguaglianza nell’attuazione del giusto processo costituzionale e convenzionale: il contrasto con gli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma Cost.

Né pare potersi fondatamente sostenere che l’emergenza in atto[6] costituisca ex se una ragione di deroga alla pubblicità, così integrando quelle condizioni che, come si è già visto, nella giurisprudenza della Corte, rivestano il carattere dell’obbiettività e della razionalità (sentenza n. 212 del 1986), o siano «collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale» (sentenza n.12 del 1971).

Sul punto, va innanzitutto ribadito che nel pensiero della Corte è costante l’insegnamento per il quale la necessità dell’udienza deve essere comunque «strettamente imposta dalle circostanze della causa» e non può originarsi da fatti esterni ad essa.

In secondo luogo, va subito notato che la disposizione qui denunziata appare del tutto irrazionale alla luce della tipologia di attività che essa tende a disciplinare, comparata con le altre per le quali il legislatore non ha previsto alcuna analoga disciplina.

 È noto che lungo tutto il periodo dell’emergenza sanitaria non è mai stato inibito l’ingresso in taluni pubblici esercizi, così come, anche alla luce del DPCM del 08.03.2020 e della direttiva n. 2/2020 emanata dal Ministro per la pubblica amministrazione, mai sia stato ritenuto necessario inibire l’accesso ai pubblici uffici, pur prevedendosi misure idonee ad evitare assembramenti o flussi di ingresso eccessivi.

Né sono emerse evidenze scientifiche di una diffusività del contagio nelle aule di giustizia maggiore che negli esercizi pubblici sin qui sempre aperti ovvero negli edifici destinati agli altri servizi pubblici.

Né, la norma, appare in sé obbiettivamente razionale in relazione all’esigenza di prevenire il rischio contagio, se è vero, come è vero, che la preoccupazione di contenere la diffusione  del virus pare fermarsi sulla soglia delle aule di giustizia, non essendo prevista alcuna misura di contenimento a garanzia dei siti pubblici dai quali dovrebbe attrezzarsi il collegamento da remoto ovvero a garanzia del sito dal quale può collegarsi il difensore dell’imputato libero, cui viene sostanzialmente imposto di accogliere e di identificare l’ assistito libero che intenda prendere parte al dibattimento.

Tali inequivoche argomentazioni indurrebbero a ritenere certamente fondata la denunzia di incostituzionalità delle disposizioni normative che escludono la pubblicità dell’udienza da remoto nella quale si formi la prova mediante l’escussione di periti, consulenti ed ufficiali di P.G.[7], per contrasto con gli artt. 3, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU)[8].

  1. La violazione del principio di immediatezza ed oralità: il contrasto con l’art. 111 Cost.

Il co.12bis dell’art. 83 del D.L.n.18 del 17.03.2020 conv. in L.24.04.2020, n.27, dispone che parte dell’attività istruttoria dibattimentale e la discussione finale possano svolgersi non alla presenza fisica del giudice né con la contestuale partecipazione delle altre parti processuali: il Giudice, il difensore, il pubblico ministero e l’imputato “prendono parte” all’udienza mediante collegamento “da remoto”, stabilito, quanto al giudice ed al pubblico ministero, con un luogo ignoto, quanto all’imputato in vinculis ed al suo difensore con quello della sua detenzione.

Anche in questo caso, occorre prendere le mosse da un recente arresto della Corte Costituzionale.

Al Supremo Collegio veniva sottoposta la questione di legittimità costituzionale degli artt. 511, 525, comma 2, e 526, comma 1, del codice di procedura penale, e richiesto di valutare «se i medesimi siano costituzionalmente illegittimi in relazione all’art. 111 della Costituzione, se interpretati nel senso che ad ogni mutamento della persona fisica di un giudice, la prova possa ritenersi legittimamente assunta solo se i testimoni già sentiti nel dibattimento, depongano nuovamente in aula davanti al giudice-persona fisica che deve deliberare sulle medesime circostanze o se invece ciò debba avvenire solo allorquando non siano violati i principi costituzionali della effettività e della ragionevole durata del processo».

È noto che l’incidente di costituzionalità veniva disatteso con la decisione n. 132/2019.

Proprio nel dare risposta negativa alla denunzia di incostituzionalità la motivazione così si esprime: “Nell’impianto del vigente codice di procedura penale, il principio di immediatezza della prova è strettamente correlato al principio di oralità: principi, entrambi, che sottendono un modello dibattimentale fortemente concentrato nel tempo, idealmente da celebrarsi in un’unica udienza o, al più, in udienze celebrate senza soluzione di continuità (come risulta evidente dal tenore dell’art. 477 cod. proc. pen.). Solo a tale condizione, infatti, l’immediatezza risulta funzionale rispetto ai suoi obiettivi essenziali: e cioè, da un lato, quello di consentire «la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio”.

Che per immediatezza debba intendersi compresenza fisica in un unico contesto spazio-temporale di giudice e testimone, oltre che di imputato e del suo difensore, lo si evince con maggiore sicurezza da altro precedente arresto del Supremo Collegio[9] sempre in tema di giudizio di non irragionevolezza del principio di immutabilità del giudice.

In tale occasione il relatore osservava comela ratio giustificatrice della rinnovazione della prova non si richiama, dunque, ad una presunta incompletezza o inadeguatezza della originaria escussione, ma si fonda sulla opportunità di mantenere un diverso e diretto rapporto tra giudice e prova, particolarmente quella dichiarativa, non garantito dalla semplice lettura dei verbali: vale a dire la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio, così da poterne poi dare compiutamente conto nella motivazione ai sensi di quanto previsto dall’art. 546 comma 1, lettera e), cod. proc. pen.”.

Appare sin troppo ovvio che il modello procedimentale qui oggetto di denunzia non garantisce in alcun modo che il giudice deliberante possa cogliere appieno tutti i connotati espressivi della prova dichiarativa assunta “da remoto” e che, dunque, confligge apertamente con il principio dell’immediatezza e dell’oralità implicitamente declinati dall’art. 111 Cost., per come costantemente interpretato dalla Corte Costituzionale.

E ciò a maggior ragione ove si consideri che, ai sensi del co. 12-quinquies dell’art. 83 del D.L. n. 18 del 17.03.2020, conv. in L. 24.04.2020, n.87, “le deliberazioni collegiali in camera di consiglio possono essere assunte mediante collegamenti da remoto…Il luogo da cui si collegano i magistrati è considerato camera di consiglio a tutti gli effetti di legge[10].

Non è dato a tal proposito comprendere in qual modo la norma intenda garantire la segretezza della discussione on line all’interno della camera di consiglio.

Così come non si disciplinano le modalità atte a garantire la necessaria riservatezza della quale dovranno fruire i giudici nel contesto spaziale – diverso dalla camera di consiglio collocata in tribunale – che essi intenderanno prescegliere per partecipare da remoto alla decisione collegiale (ma lo stesso discorso vale, in parte qua, anche per le deliberazioni del giudice monocratico).

Infine, nulla si dice a proposito del fascicolo del dibattimento: essendo noto che oggi esso viene collocato “sul tavolo”[11] intorno al quale si riunisce il collegio in funzione della deliberazione della sentenza, nella camera di consiglio virtuale dove si troverà? Nell’ abitazione del relatore, presumibilmente. E su quali basi documentali potrà svilupparsi la dialettica di costui con gli altri componenti del collegio, che dovranno essere messi nelle condizioni di poter sempre accedere agli atti di cui è consentita la lettura, a meno di doversi affidare, rinunciando all’ effettiva collegialità della decisione, alla prospettiva del solo relatore?

Anche sotto tale ultimo profilo appare, dunque, irrimediabilmente vulnerato il principio di immediatezza tra giudice (componente del collegio) e fonti di prova cristallizzate nei verbali di dibattimento[12].

*Vittorio Manes, Avvocato, Professore Ordinario di Diritto Penale, Responsabile Osservatorio Corte Costituzionale Unione Camere Penali Italiane

**Luigi Petrillo, Avvocato, Presidente della Camera Penale Irpina

***Giuseppe Saccone, Avvocato, Professore, Past President della Camera Penale Irpina

[1] La ricostruzione della sequenza normativa è tratta dal documento redatto dal Centro Marongiu per l’Unione Camere Penali del 14.04.2020, tenendo anche conto delle modifiche introdotte con il recente D. L. 30 aprile 2020 n. 28 ancora soggetto a conversione.

[2] Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, L’ ordinamento costituzionale italiano, II, 1, Padova 1975, pagg.52-53.

[3] Non modificato in parte qua dal D.L.n.28/2020.

[4] Mazza, Distopia del processo a distanza, in Arch. pen. fasc. 1 – 2020.

[5] Sent.n.263/2017.

[6] Sulla valenza delle congiunture emergenziali sull’ assetto dei valori costituzionali, si V. Cartabia, Relazione di Sintesi sull’ attività della Corte Costituzionale nel 2019, “Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri”.

[7] Attualmente l’art. 83 del D.L. n. 18 del 17.03.2020, conv. in L.24.04.2020, n. 27, parzialmente modificato dal recente D. L. 30 aprile 2020 n. 28 ancora soggetto a conversione.

[8] Anche in questo caso la novella introdotta dal D.L.28/2020 allontana la possibilità del verificarsi nella pratica di tale evenienza processuale, essendo questa rimessa al consenso delle parti.

[9] Ord.C.Cost.n.205/2010.

[10] Disposizione modificata dal D. L. 30 aprile 2020 n. 28, ancora soggetto a conversione; cfr. 1. Premessa.

[11] Mazza, op. e loc. cit.

[12] Anche in questo caso la novella introdotta dal D.L.28/2020 allontana la possibilità del verificarsi nella pratica di tale evenienza processuale, poiché è stato introdotto al co.12 quinquies un ulteriore periodo, secondo il quale “Nei procedimenti penali, le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle deliberazioni conseguenti alle udienze di discussione finale, in pubblica udienza o in camera di consiglio, svolte senza il ricorso al collegamento da remoto.