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PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEL NUOVO REGIME DI CIRCOLAZIONE DELLE INTERCETTAZIONI  (C.D. “PESCA A STRASCICO”) – DI ALBERTO DE SANCTIS

PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEL NUOVO REGIME DI CIRCOLAZIONE DELLE INTERCETTAZIONI (C.D. “PESCA A STRASCICO”) – DI ALBERTO DE SANCTIS

DE SANCTIS – PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEL NUOVO REGIME DI CIRCOLAZIONE DELLE INTERCETTAZIONI.PDF

PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DEL NUOVO REGIME DI CIRCOLAZIONE DELLE INTERCETTAZIONI (C.D. “PESCA A STRASCICO”)

PROFILES OF CONSTITUTIONAL ILLEGITIMACY IN THE NEW CIRCULATION REGIME OF WIRETAPPING (SO-CALLED “TRAWL FISHING”)

di Alberto de Sanctis*

La recente riforma delle intercettazioni telefoniche (legge n. 7 del 28 febbraio 2020) ha introdotto una disciplina che consente l’utilizzabilità del risultato probatorio in modo molto estensivo, in violazione del principio costituzionale della riserva di giurisdizione. La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 51 del 2 gennaio 2020, intervenuta poco prima della riforma legislativa, aveva invece il pregio di consentire l’utilizzabilità solo per i reati strettamente connessi al reato per il quale l’autorizzazione era stata concessa dal giudice. La stessa sentenza sembra quasi anticipare i profili di illegittimità costituzionale della nuova formulazione dell’art. 270 c.p.p.[1]

The recent telephone tapping reform (law n. 7 28th February 2020) introduced a regulation that allows the evidentiary result to be disposed of in a very broad way, violating the jurisdictional reserve of constitutional principle. The Supreme Court – United Sections verdict n. 51 2nd January 2020, occurring just before the law reform, was important because it allowed the use of telephone tapping only for felonies strictly tied to the original misdemeanor the judge had authorised it for. This same verdict appears to be disclosing the constitutional illegitimacy profiles of the new formulation of clause n. 270 of the code of criminal procedure.

Sommario: 1. Il contenuto “profetico” della sentenza delle Sezioni Unite n. 51 del 2020. – 2. Il bilanciamento costituzionale tra la segretezza delle comunicazioni e l’interesse dello Stato a reprimere i reati. – 3. La non dispersione della prova: un principio di diritto o un “mito” di formazione giurisprudenziale? – 4. Il nuovo regime di circolazione della prova: l’eccezione diventa la regola.

  1. Il contenuto “profetico” della sentenza delle Sezioni Unite n. 51 del 2020.

La nuova disciplina sulla circolazione delle intercettazioni, da ultimo modificata dalla legge n. 7 del 28 febbraio 2020 con cui è stato convertito il D.L. n. 161 del 2019, appare palesemente incostituzionale, a voler aderire alla tesi affermata dalle Sezioni Unite (n. 51 del 2020) che sembra quasi una lungimirante anticipazione della rilevanza della questione di illegittimità di una norma in quel momento non ancora diventata legge. Peraltro, la stessa tesi era stata prima ancora sviluppata dalle sentenze interpretative di rigetto della Corte Costituzionale n. 366 del 1991 e n. 63 del 1994, il cui contenuto è ampiamente richiamato dalle Sezioni Unite.

L’attuale art. 270 c.p.p., infatti, ammette un’autorizzazione in bianco e la “pesca a strascico” di tutte le captazioni, anche ulteriori rispetto al fatto-reato per il quale vi è la copertura giurisdizionale, in violazione del principio di cui all’art. 15 Cost. che le Sezioni Unite si sono sforzate di tutelare. L’unico limite è quello dell’astratta ammissibilità delle intercettazioni ai sensi dell’art. 266, primo comma, c.p.p. (intercettazioni telefoniche) e 266, comma 2-bis (captatore informatico)[2].

Le tesi sostenute in quel formante giurisprudenziale andrebbero ulteriormente rafforzate con un’analisi più approfondita sul reale “peso” giuridico e costituzionale degli interessi e diritti che devono essere comparati e bilanciati.

  1. Il bilanciamento costituzionale tra la segretezza delle comunicazioni e l’interesse dello Stato a reprimere i reati.

Il primo interesse in gioco è la segretezza di ogni forma di comunicazione, tutelata come diritto inviolabile dall’art. 15 Costituzione con una doppia riserva: riserva di legge e riserva di giurisdizione. Solo la legge può prevedere i casi in cui è consentita la limitazione della segretezza e solo un giudice può in concreto limitarla con un atto motivato. L’art. 15 è rafforzato dal principio generale di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost. Su questo asse portante è costruito l’apparato motivazionale delle due sentenze della Corte Costituzionale.

L’altro termine di paragone è duplice: l’interesse dello Stato a reprimere i reati ed in particolare i reati che suscitano un certo allarme sociale (in questo senso le due sentenze della Corte Costituzionale) e/o il principio – connesso all’interesse pubblico alla repressione del reato – di non dispersione della prova.

Sono interessi tra loro connessi ma che a bene vedere non hanno un valore costituzionale così marcato e definito. Almeno per quanto concerne il principio di non dispersione della prova, si può persino dubitare che abbia una dimensione di principio generale.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 366 del 1991 afferma che il diritto alla segretezza delle comunicazioni non può subire restrizioni o limitazioni se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un “interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante”. Se questa affermazione è del tutto condivisibile lo è meno la tesi in forza della quale l’esigenza di amministrare la giustizia ed in particolare di reprimere i reati corrisponda a un interesse pubblico primario, costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento è assolutamente inderogabile. La sentenza non richiama espressamente una norma della Carta fondamentale espressione di questo interesse pubblico alla repressione dei reati. Si limita a richiamare l’art. 112 Cost. nel riferire degli argomenti esposti dal giudice a quo ma senza approfondire oltre.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1994 non richiama, invece, alcun principio costituzionale da comparare con il diritto alla segretezza delle comunicazioni. Si limita a sottolineare l’ammissione della deroga alla regola generale del divieto di utilizzazione delle intercettazioni in altri procedimenti giustificata da un generico interesse all’accertamento dei reati di maggior gravità (quelli per i quali è previsto l’obbligo di arresto in flagranza).

Non si intende certo negare l’esistenza e la fondatezza dell’interesse all’accertamento e alla repressione delle condotte illecite ma in uno Stato di diritto tale legittimo obiettivo non è perseguito come prioritario al punto di conferirne una protezione costituzionale.

O meglio: la protezione costituzionale non può che essere quella dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. ma incastonata in uno scenario normativo tipico di uno Stato di diritto.

Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale sulla base delle prove assunte legittimamente. Pertanto, il principio di cui all’art. 112 è già intrinsecamente limitato dal sistema dei diritti costituzionalmente tutelati. In uno Stato di polizia l’interesse a perseguire i reati può essere senza limiti, in uno Stato di diritto quell’interesse ha un peso specifico diverso perché vive in equilibrio con il principio del giusto processo (111 Cost), con il diritto di difesa (24 Cost.) e con tutti gli altri diritti individuali tra i quali quello alla segretezza delle comunicazioni.

  1. La non dispersione della prova: un principio di diritto o un “mito” di formazione giurisprudenziale?

Il principio di non dispersione della prova, in qualche modo connesso all’esigenza della repressione dei reati, ha una statura valoriale ancora inferiore rispetto all’interesse alla repressione dei reati, di cui semmai ne è strumento.

È un principio di fonte meramente giurisprudenziale per il quale è arduo anche solo intravedere un fondamento normativo e men che meno costituzionale.

Nasce, nella sua formulazione più rigorosa, con la sentenza della Corte Costituzione n. 255 del 1992 e muore con l’introduzione del nostro ordinamento costituzionale del principio del giusto processo di cui all’art. 111 Cost.

È la sentenza con la quale fu dichiarato incostituzionale l’art. 500 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva l’acquisizione nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese a s.i.t. dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. L’art. 500 è stato riscritto nel 2001 prevedendo i casi in cui il verbale può essere acquisito ma ripristinando la prevalenza del principio di oralità.

La sentenza cristallizza il principio di non dispersione al diritto di agire in giudizio (art. 24 con particolare riferimento alla vittima del reato) e alla giurisdizione penale (art. 101). Quest’ultima norma non ha nemmeno implicitamente un barlume del principio di non dispersione della prova.  Infine, cita l’art. 3 sotto il profilo della ragionevolezza che come sappiamo è il contenitore di qualsivoglia forma di potenziale incostituzionalità quando in verità dovrebbe essere un principio in forza del quale è ragionevole una norma se disciplina diversamente fatti diversi così da evitare sperequazioni.

L’unico vero principio di non dispersione della prova è contenuto in quelle norme che tutelano la formazione della prova contro il rischio che a causa del tempo o della morte diventi impossibile la ripetizione. Per esempio: i casi di incidente probatorio o l’acquisizione delle s.i.t. di un testimone deceduto prima del dibattimento. Così rivisitato e ridimensionato il principio di non dispersione ha persino copertura costituzionale con l’art. 111, quinto comma, Cost. che prevede l’acquisizione della prova fuori dal contraddittorio per accertata impossibilità di natura oggettiva.

Ciò detto, non esiste un principio di non dispersione di una prova acquisita illegittimamente anche se l’illegittimità, come nel caso dell’intercettazione relativa ad un reato diverso da quello “coperto” da autorizzazione del giudice, è del tutto involontaria.

Possiamo persino affermare che nel nostro ordinamento esiste il principio opposto di dispersione della prova acquisita illecitamente o illegittimamente (art. 188 c.p.p. e soprattutto art. 191 c.p.p.). L’inutilizzabilità fisiologica o patologica è un istituto processuale espressione del principio di dispersione della prova acquisita illegittimamente.

Ed allora, in applicazione del principio di proporzionalità applicato in materia costituzionale, sull’asse della bilancia c’è un diritto fondamentale tutelato dagli artt. 2 e 15 Cost., con riserva assoluta di legge e di giurisdizione, dall’altro c’è il principio di obbligatorietà dell’azione penale che già in seno porta con sé la necessità di fondare l’esercizio di questo obbligo solo in forza di prove legittimamente acquisite.

Peraltro non sarebbe nemmeno necessario ridimensionare uno dei termini di paragone per sostenere l’incostituzionalità dell’art. 270 commi 1 e 1 bis c.p.p. ma sarebbe sufficiente richiamare la tesi sostenute dalle Sezioni Unite 51 del 2020:

La giurisprudenza della Consulta ha ritenuto costituzionalmente valida la deroga alla regola della limitazione dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni funzionale ad assicurare che l’abilitazione giudiziale non si trasformi in un'”autorizzazione in bianco”, a condizione, tuttavia, che tale deroga risponda a due condizioni, espressione, entrambe, dell'”eccezionalità” del regime di utilizzazione per reati non riconducibili all’autorizzazione giudiziale: come si è visto, i casi eccezionali devono essere “tassativamente indicati dalla legge” e l’utilizzazione deve essere circoscritta “all’accertamento di una categoria predeterminata di reati presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale”, ossia per l’accertamento di “reati di maggiore gravità[3].

La nuova disciplina non prevede “casi eccezionali”, come nella versione precedente con l’indicazione dei reati per i quali è previsto l’arresto in flagranza, ma si limita ad estendere l’utilizzabilità per tutti i reati per i quali l’intercettazione è ammissibile.

Ed ancora: “Fuori da tali eccezionali casi, tassativamente previsti dalla legge ed afferenti all’accertamento di reati di maggiore gravità presuntivamente capaci di destare particolare allarme sociale, l’autorizzazione del giudice si connota per una piena portata abilitativa e, dunque, costituisce non solo il fondamento di legittimazione del ricorso all’intercettazione, ma anche il limite all’utilizzabilità probatoria dei relativi risultati ai soli reati riconducibili alla stessa autorizzazione: senza tale limitazione, il provvedimento autorizzatorio si trasformerebbe, come si è detto, in un’inammissibile “autorizzazione in bianco”, secondo l’icastica espressione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale[4].

  1. Il nuovo regime di circolazione della prova: l’eccezione diventa la regola.

Il nuovo art. 270 ribalta la prospettiva, facendo diventare l’eccezione la regola.

Infatti il nuovo art. 270, al di là delle formule di stile della “rilevanza e indispensabilità”, prevede che per tutti i fatti di reato qualificabili nei limiti di ammissibilità degli artt. 266 comma 1 (intercettazioni tradizionali) e 266 comma 1 bis (captatore informatico) i risultati delle intercettazioni sono pienamente utilizzabili, anche se non sono connessi al reato per il quale il GIP ha autorizzato le intercettazioni.

È quindi sufficiente una prima autorizzazione del giudice per un fatto-reato per il quale l’intercettazione è ammissibile per autorizzare la c.d. “pesca a strascico”.

L’esegesi letterale è insuperabile.

L’art. 270 primo comma prevede l’utilizzabilità “per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266 comma 1”. È chiaro che la particella “e” estende la categoria dei reati per i quali è utilizzabile il risultato captativo altrimenti il legislatore avrebbe dovuto scrivere la norma diversamente: “per l’accertamento dei reati di cui all’articolo 266 comma 1 per i quali è previsto l’arresto in flagranza”.

Le schede esplicative che hanno accompagnato la riforma confermano questa volontà legislativa. In effetti, in seno alla Commissione affari costituzionali del Senato era emersa una proposta costituzionalmente orientata: deroga al divieto di utilizzazione in diverso procedimento per i reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza “fatti salvi i limiti di cui all’art. 266”.

Così come formulata la norma, salta completamente la riserva di giurisdizione.

La soluzione interpretativa delle Sezioni Unite aveva il pregio, nella sua inevitabile creatività, di “illuminare” di legittimità le intercettazioni aventi ad oggetto reati diversi ma connessi ex art. 12 c.p.p. al reato “coperto” dall’autorizzazione del GIP. Del resto la continuazione è una finzione giuridica che rende il reato unico se i fatti di reato sono commessi nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso. L’autorizzazione per uno si può traslare sugli altri che diventano componenti dell’unico reato continuato. Se si prescinde dalla continuazione significa autorizzare l’utilizzabilità di tutte le intercettazioni con l’unico limite dell’ammissibilità in astratto, senza nessuna verifica ex ante.

Peraltro, occorre ricordare che l’intercettazione è una prova di “secondo livello” che può essere ammessa solo in base ad un giudizio di sussistenza di gravi indizi di reato (art, 267 c.p.p.). La questione non è, come ha voluto prevedere l’art. 270, l’ammissibilità in astratto dell’intercettazione per determinate categorie di reato ma l’ammissione in concreto per quel fatto già delineato sulla base di altri elementi di prova.

Inoltre, non giova avere riproposto il concetto di “procedimento diverso” perché in concreto il procedimento diverso non esiste mai, nasce con l’acquisizione della notizia di reato nuova emergente dalle intercettazioni. Ed allora la soluzione delle Sezioni Unite, ancorché espressione di una forzatura rispetto al dato letterale, aveva il pregio di creare un equilibrio tra esigenze investigative e diritto alla segretezza delle comunicazioni.

Il legislatore avrebbe potuto codificare il richiamo all’art. 12 c.p.p. così da superare ab origine le questioni di legittimità costituzionale. Invece, sembra quasi aver deciso di correre ai ripari per consentire quello che le Sezioni Unite, poche settimane prima, vietavano: le autorizzazioni in bianco.

L’unico valore aggiunto che la sentenza ha ancora è quello di escludere l’utilizzabilità delle intercettazioni, anche in caso di connessione “forte” ex art. 12 c.p.p., per i reati per i quali non è ammessa l’intercettazione ex art. 266.

L’art. 270 comma 1 bis ha un contenuto speculare al comma 1 con l’unica novità, che semmai crea ancora più confusione, del riferimento al “reato diverso”.

Il richiamo al primo comma potrebbe essere interpretato come una “divaricazione” tra il caso di “procedimenti diversi”, disciplinato anche per il captatore informatico dal primo comma, ed il caso del “reato diverso” nell’ambito dello stesso procedimento, disciplinato dal comma 1 bis. Tale soluzione porterebbe a risultati assurdi con una estensione senza ragione dei risultati delle intercettazioni con captatore più ampi se il procedimento è diverso.

Ha senso ipotizzare che il richiamo al primo comma sia funzionale ad estendere l’utilizzabilità ai reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio.

Semmai non possiamo escludere un’interpretazione dell’art. 270 orientata a neutralizzare la portata delle Sezioni Unite che, comunque, escludono l’utilizzabilità per i reati connessi che non rientrano nei limiti di ammissibilità dell’art. 266, così prevedeva parte della giurisprudenza precedente.

Il nuovo divieto di utilizzazione riguarda solo i procedimenti diversi per i quali non è possibile utilizzare come prova le intercettazioni per i reati per i quali non è ammissibile l’intercettazione. Pertanto, potrebbe essere considerato come nel medesimo procedimento, proprio in forza del principio affermato dalle Sezioni Unite, il reato connesso a quello per cui è intervenuta l’autorizzazione ad intercettare. Se quello che non è vietato è consentito, allora si potrebbe persino sostenere che il vincolo di ammissibilità formale ex art. 266 c.p.p. valga solo per i “procedimenti diversi” e quindi non per il reato connesso ex art. 12 c.p.p.

Sarebbe evidentemente un’interpretazione “incostituzionale”.

Non credo, peraltro, che i requisiti di “rilevanza ed indispensabilità” delle risultanze probatorie siano in grado di limitare la circolazione della prova entro limiti di bilanciamento degli interessi giuridici costituzionalmente garantiti.

Peraltro il doppio requisito è previsto solo per il primo comma, mentre per il captatore informatico è sufficiente la indispensabilità. E già questo è un paradosso.

Peraltro, sono sottoinsiemi. Se una prova è indispensabile certamente è anche rilevante.

Una tesi orientata a giudicare costituzionalmente legittima la riforma superando le tesi sostenute fino ad oggi dalla Corte Costituzionale, e dalle Sezioni Unite, è stata sostenuta da parte della dottrina[5].

Il bilanciamento non dovrebbe essere tra i principi di cui agli artt. 112 e 15 Cost., rafforzato dall’art. 2, ma solo tra gli artt. 112 e 2, che pur riconoscendo il diritto alla riservatezza come diritto fondamentale attinente alla personalità dell’individuo non prevede una tutela cogente con riserva di giurisdizione. L’Autore distingue tra diritto alla segretezza e diritto alla riservatezza. Il primo diritto attiene al momento dell’autorizzazione del giudice, necessaria per la sua limitazione. La riservatezza attiene al momento successivo alla captazione avvenuta su un presupposto legittimo. Il segreto non esisterebbe più, esisterebbe solo un problema di riservatezza della conversazione captata. La circolazione della prova riguarderebbe quindi esclusivamente un problema di riservatezza, che è tutelabile con l’attuale art. 270 senza necessità di un provvedimento autorizzativo che peraltro sarebbe postumo.

Il bilanciamento sarebbe quindi più agevole senza il problema della riserva di giurisdizione, salvo comunque valorizzare a tutela della riservatezza il requisito della indisponibilità sul quale si dovrà comunque pronunciare il giudice del “procedimento diverso” davanti al quale la prova è utilizzata.

La Corte Costituzionale esclude la possibilità che questo percorso interpretativo sia costituzionalmente orientato: l’art. 270 è riconducibile esclusivamente all’art. 15 Cost e non all’art. 2 Cost, se non in funzione rafforzativa dell’art. 15. Non è ammissibile una dicotomia tra i due principi: “la libertà delle comunicazioni risulterebbe pregiudicata, gravemente scoraggiata o, comunque, turbata ove la sua garanzia non comportasse il divieto di divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si è venuti a conoscenza a seguito di una legittima autorizzazione di intercettazioni al fine dell’accertamento in giudizio di determinati reati[6].

Non esistono altre soluzioni interpretative costituzionalmente adeguate. La norma di cui all’art. 270 c.p.p. è incostituzionale, come sostanzialmente anticipato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 51 del 2020, pronuncia con la quale i giudici della Suprema Corte hanno inteso proprio arginare il rischio di un’interpretazione estensiva dell’utilizzabilità così da evitare forme illegittime di autorizzazione in bianco che invece il Legislatore ha improvvidamente ritenuto di introdurre.

*Avvocato del Foro di Torino

[1] Intervento svolto nella tavola rotonda sul regime della circolazione delle intercettazioni, a chiusura del corso “Intercettazioni di comunicazioni e tabulati” organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura (14-16 marzo 2022).

[2] Sulla riforma legislativa e/o a commento della sentenza n. 51/2020, da ultimo: C. PARODI – N. QUAGLINO, La nuova riforma delle intercettazioni, Giuffrè, 2020; F. ALVINO, La circolazione delle intercettazioni e la riformulazione dell’art. 270 c.p.p.: l’incerto pendolarismo tra regola ed eccezione, in Sist. Pen., 5, 2020; F.S. CASSIBBA, In difesa dell’art. 15 Cost.: illegittima la circolazione delle intercettazioni per la prova di reati diversi, in Giur. Pen., 2, 2020; S. SCHIAVONE, Intercettazioni a “strascico”: prospettive interpretative, in Giur. It., 11, 2021, p. 2487; A. VELE, Ambito d’applicazione dello strumento intercettazioni. Uso dei risultati in altri procedimenti, in Leg. Pen., 24 novembre 2020, p. 35; M.S. CHELO, Inutilizzabilità delle intercettazioni disposte in procedimento diverso: osservazioni a margine della recente ordinanza nel processo c.d. “Palamara bis”, in www.ilpenalista.it, 30 agosto 2021; G. CORATO, La riqualificazione dell’addebito nel quadro delle intercettazioni, in www.ilpenalista.it, 05.08.2021; G. SPANGHER, Il dl intercettazioni, in Giust. Ins., 26.02.2020; G. PECCHIOLI, Circolazione probatoria e intercettazioni – Intercettazioni e “diverso procedimento”: le Sezioni Unite sull’annoso nodo gordiano, in Giur. It., 2020, 6, 1503; F.A. MAISANO – C.M. PIAZZA, Nota a commento sulla nuova disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, in www.giurisprudenzapenale.it.

[3] Corte Cost., 24 febbraio 1994, n. 63.

[4] Cass. Pen., Sez. Un., 2 gennaio 2020, n. 51.

[5] F. ALVINO, cit.

[6] Corte cost., 23 luglio 1991, n. 366.