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LA TORMENTATA PARABOLA STORICA DELLA FATTISPECIE DI ABUSO DI UFFICIO. LE INTERPRETAZIONI-APPLICAZIONI DEMOLITIVE DEL NUOVO TIPO LEGALE. IL NODO GORDIANO DEL CD. SINDACATO DEL GIUDICE PENALE SULL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA – DI ROBERTO RAMPIONI

LA TORMENTATA PARABOLA STORICA DELLA FATTISPECIE DI ABUSO DI UFFICIO. LE INTERPRETAZIONI-APPLICAZIONI DEMOLITIVE DEL NUOVO TIPO LEGALE. IL NODO GORDIANO DEL CD. SINDACATO DEL GIUDICE PENALE SULL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA – DI ROBERTO RAMPIONI

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LA TORMENTATA PARABOLA STORICA DELLA FATTISPECIE DI ABUSO DI UFFICIO. LE INTERPRETAZIONI-APPLICAZIONI DEMOLITIVE DEL NUOVO TIPO LEGALE. IL NODO GORDIANO DEL CD. SINDACATO DEL GIUDICE PENALE SULL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA.

di Roberto Rampioni*

Una approfondita riflessione sulla fattispecie di abuso di ufficio, della sua tormentata parabola storica, del fenomeno dell’amministrazione difensiva e delle prime pronunce del giudice di legittimità, per arrivare all’esame di alcune interessanti riflessioni della dottrina e alle brevi considerazioni conclusive dell’autore.

 1. Il principio di riserva di legge nelle recenti pronunce della Corte costituzionale (n. 20 del 2021 e n. 8 del 2022). 2. Le questioni sollevate dal giudice rimettente. 3. La “tormentata parabola storica” dell’art. 323 c.p. 4. Il fenomeno della “amministrazione difensiva” e le sue ricadute nel pensiero della Corte costituzionale. 5. Le prime pronunce del giudice di legittimità sulla nuova norma. 6. Le posizioni dottrinali fortemente critiche nei confronti della novella. 7. La nuova configurazione dell’abuso di ufficio nella lettura di Riccardo Borsari e Nicola Pisani. 8. L’esame critico svolto da Tullio Padovani. 9. Abuso d’ufficio e cd. sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa. 10. La nuova “struttura” offerta alla fattispecie incriminatrice secondo il pensiero di Fabrizio Ramacci: da “eccesso dall’esercizio di un potere” ad “inosservanza di un obbligo specifico”. 11. Brevi considerazioni conclusive.

  1. Il principio di riserva di legge nelle recenti pronunce della Corte costituzionale (n. 20 del 2021 e n. 8 del 2022).

           Dopo la recente, ferma sentenza in tema di principio di riserva di legge e divieto di applicazione analogica della norma penale[1], la Corte costituzionale viene ora a illustrare con altrettanta fermezza quel principio sotto un diverso, ma concorrente, profilo.

            Con la prima pronuncia il Giudice delle leggi aveva inteso rivolgere  al giudice ordinario un chiaro rappel à l’ordre, ribadendo, per un verso, che la riserva assoluta di legge in materia penale «assegna alla sola legge ed agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato»; per l’altro, che «l’imperativo costituzionale rivolto al legislatore, di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intellegibilità dei termini impiegati», mira anch’esso a «evitare che in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando in luogo del legislatore i confini tra il lecito e l’illecito».

            Con la sentenza qui in esame la Corte costituzionale respinge le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente in ordine alle modifiche apportate all’art. 323 cp dall’art. 23, 1 c., d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (in parte ritenendone l’infondatezza, in parte l’inammissibilità), collocandosi sulla medesima linea di pensiero della precedente pronuncia. Si osserva, in particolare, che una censura di legittimità costituzionale non può basarsi «sul pregiudizio che la formulazione, in assunto troppo restrittiva, di una norma incriminatrice recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali, nella specie, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione». E si avverte in tal senso che «le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono, infatti, nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela». Si ha cura, peraltro, di precisare – sulla scia della sentenza n. 447 del 1998 intervenuta sulla riformulazione, sempre in senso restrittivo, dell’abuso d’ufficio ex lege n. 234 del 1997 – che «in linea di principio, neppure può tradursi in una questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice il rilievo che altre condotte, diverse da quelle individuate come fatti di reato dal legislatore, avrebbero dovuto essere a loro volta incriminate per ragioni di parità di trattamento o in nome di esigenze di ragionevolezza. La mancanza della base legale – costituzionalmente necessaria – dell’incriminazione, cioè della scelta legislativa di considerare certe condotte come penalmente perseguibili, preclude radicalmente la possibilità di prospettare una estensione ad esse delle fattispecie incriminatrici attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale».

            «In altre parole – conclude il proprio percorso argomentativo la Corte costituzionale – ove, pure, in ipotesi, la norma incriminatrice (non qualificabile come norma penale di favore) determinasse intollerabili disparità di trattamento o esiti irragionevoli, il riequilibrio potrebbe essere operato dalla Corte solo verso il basso (ossia in bonam partem): non già in malam partem, e in particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di rilevanza penale».

            In sintesi, se il primo giudice rimettente mirava ad ampliare l’ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice attraverso il ricorso al procedimento analogico in malam partem, il secondo puntava al medesimo risultato attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale del “nuovo” abuso di ufficio, pronuncia suscettiva – negli intendimenti del giudice – di riportare in vita la più ampia previsione previgente, peraltro da individuare nella “norma vivente” di matrice giurisprudenziale.

  1. Le questioni sollevate dal giudice rimettente.

          Come accennato, il giudice rimettente ha inteso innanzitutto eccepire la illegittimità costituzionale del procedimento di produzione della norma. In contrasto coll’art. 77 Cost. questa, infatti, risulterebbe carente del requisito della straordinaria necessità ed urgenza [per la «evidente estraneità» della norma censurata rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto legge che la contiene] ed in ogni caso «assolutamente avulsa dalle ragioni giustificatrici della normativa adottata in via d’urgenza dal Governo» [ragioni legate alla ritenuta necessità di introdurre misure di semplificazione amministrativa e di rilancio economico del Paese in costanza dell’emergenza epidemiologica].

            La Corte costituzionale, pur considerata la questione in astratto ammissibile [dal momento che la preclusione delle pronunce seppure in malam partem non viene in considerazione quando si discuta di vizi formali o di incompetenza relativi al procedimento di formazione dell’atto legislativo ed alla legittimazione dell’organo che lo ha adottato], la ritiene infondata; ed osserva in tal senso che per i decreti-legge ab origine a contenuto plurimo «quel che rileva è il profilo teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo d’urgenza».

            Ora, secondo il Giudice delle leggi, il fil rouge che lega la modifica dell’art. 323 c.p. al provvedimento consiste “nell’idea che la ripresa del Paese possa essere facilitata da una più puntuale delimitazione delle responsabilità. Paura della firma e burocrazia difensiva, indotte dal timore di un’imputazione di abuso d’ufficio, si tradurrebbero, in quanto fonte di inefficienza e di immobilismo, in un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente”. Dunque, la migliore delimitazione dell’area di applicazione della norma incriminatrice [si sottolinea significativamente, specie se «in rapporto alla precedente norma vivente di matrice giurisprudenziale»] non costituisce una monade isolata. Pertanto, si conclude, «non può sostenersi che la norma censurata sia palesemente estranea alla traiettoria finalistica portante del decreto».

            Su di un piano più marcatamente sostanziale rileva criticamente il Giudice delle leggi che neppure si versi in un’ipotesi di «evidente mancanza del presupposto della straordinaria necessità ed urgenza».

            Apodittico e non sorretto da adeguata base logica – si afferma – l’assunto secondo cui sarebbe, in linea generale, «opinabile, se non addirittura impossibile, che la depenalizzazione parziale di una figura criminosa rivesta caratteri di straordinaria necessità ed urgenza». E ciò precisato, si osserva come “l’intervento normativo oggi in discussione rifletta due convinzioni, per quanto si è visto, entrambe diffuse: a) che «il rischio penale e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della burocrazia difensiva; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione».

            L’esigenza di contrastare tali fenomeni – si riconosce – non nasce di certo dall’emergenza epidemiologica; e la necessità di una ridefinizione della portata del precetto dell’art.  323 c.p.  –  si avverte in termini fortemente critici – «si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi, tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere. Ma, se la necessità della riforma trae origine da quegli indirizzi, è però l’esigenza di far ripartire celermente il Paese…che – nella valutazione del Governo (e del Parlamento, in sede di conversione) – ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può considerarsi manifestamente irragionevole o arbitraria».

            Il giudice ordinario ha, poi, inteso censurare i contenuti della norma, sollevando la questione in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.

            Al riguardo il giudice rimettente invoca i precedenti (sentenza n. 394 del 2006 e n. 148 del 1983) in tema di sindacabilità in malam partem delle cd. norme penali di favore. La Corte costituzionale, tuttavia, esclude recisamente che alla norma in esame possa essere attribuita la qualifica di norma penale di favore, osservando che tale qualificazione non può essere fatta discendere, «come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte».

            Del resto – si sottolinea – “questa Corte ha già applicato, peraltro, i ricordati principi all’evoluzione legislativa dell’abuso d’ufficio, dichiarando inammissibili, con la sentenza n. 447 del 1998, questioni analoghe a quelle ora in esame, sollevate in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 97 Cost.), aventi ad oggetto l’art. 323 cod. pen., come riformulato – anche allora in senso restrittivo – dalla legge n. 234 del 1997”.

  1. La “tormentata parabola storica” dell’art. 323 c.p.

          Ed in effetti è la storia che si ripete: per questa sorta di perdurante, inestinguibile sete di sindacato dell’attività amministrativa da parte del magistrato penale [vano sarebbe chiedersi sindacato operato sulla scorta di quali parametri obbiettivi e, ancor prima, operato in forza di quale formazione professionale specifica].

            Come noto, nell’aprile del 1990 con la legge n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) si è cercato di allineare questa classe di delitti al mutato quadro politico-costituzionale come al differente assetto amministrativo-organizzativo dello Stato.

            Con la riforma del ‘90, preso coscienza del nuovo rapporto cittadino-Stato a seguito dell’avvento della Carta costituzionale[2], si è inteso contrastare i rigorismi interpretativi della giurisprudenza (la meno propensa a dismettere letture in chiave autoritaria del risalente dato normativo) tutti fondati su un artificiale ed illiberale oggetto di tutela: il prestigio della P.A.

            Si è così proceduto – oltre ridisegnare le nozioni delle qualifiche soggettive – all’abrogazione [artt. 315 e 324: malversazione a danno di privati; interesse privato in atti di ufficio] ovvero alla riformulazione-introduzione ex novo [art. 314: peculato, con l’introduzione del peculato cd. d’uso; art. 316 bis: malversazione a danno dello Stato; art. 319 ter: corruzione in atti giudiziari; art. 322: istigazione alla corruzione, con la previsione della condotta di sollecitazione; art. 323: abuso di ufficio; art. 326: rivelazione di segreti di ufficio, con la previsione della figura della utilizzazione; art. 328: rifiuto e omissione di atti di ufficio] di non poche norme incriminatrici.

            Se in tal senso si è voluto avviare il potenziamento della risposta punitiva in ordine alle diverse forme di affarismo del funzionario pubblico, si è innanzitutto mirato a scongiurare prassi giurisprudenziali irragionevolmente rigoriste. Scopo questo perseguito, da un lato, attraverso una descrizione più precisa e determinata dei tipi legali; dall’altro, attraverso il contenimento del cd. sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, non infrequentemente causa di interferenze sul piano delle valutazioni politico-amministrative riservate alla P.A.[3]

            Gli interventi modificativi, non inserendosi in una più ampia ed approfondita rivisitazione della materia, non soltanto si sono di frequente rivelati peggiorativi rispetto alle originarie soluzioni codicistiche, ma soprattutto non sono valsi a superare l’originaria impostazione autoritaria e ad impedire interpretazioni che, frutto della “destrutturazione” del modello legale e della “sterilizzazione” dell’interesse protetto, hanno preteso nuovamente sanzionare l’infedeltà del pubblico agente piuttosto che la lesione o messa in pericolo di beni giuridici, materiali e personali, quali l’imparzialità ed il buon andamento della P.A.

            In tema di abuso di ufficio (qualificato prima della riforma, “innominato”) la Corte costituzionale avverte fondatamente la necessità di ripercorrere le molteplici tappe della “travagliata vicenda normativa e giurisprudenziale” dell’art. 323 c.p., parlando appunto di “tormentata parabola storica della figura”.

            Fattispecie incriminatrice tra le più problematiche come, appunto, dimostra la sua tribolata evoluzione normativa. Novellata in sede di riforma del ‘90, del tutto riformulata con la l. n. 234 del 1997, modificata nel trattamento sanzionatorio dalla l. n. 190 del 2012 [così da consentire l’adozione di misure cautelari personali], l’art. 23 del d.l. n. 76 del 2020 è venuto a ridefinire per la terza volta il perimetro applicativo del delitto di abuso di ufficio[4].

            Con la novella del ‘90 l’abuso di ufficio cessa di essere una norma di carattere sussidiario e viene ad assumere un ruolo centrale, non più di chiusura – la fattispecie “base” – nella repressione delle condotte abusive dei pubblici agenti. La diversa formulazione della clausola di riserva chiarisce che la fattispecie di abuso è ora sussidiaria non più rispetto a qualsiasi specifica ipotesi di reato, ma soltanto riguardo a fatti abusivi che valgano ad integrare gli estremi di un reato “più grave”. Nel quadro normativo originario l’art. 323 c.p. coesisteva con il peculato per distrazione, con la malversazione e con l’interesse privato in atti di ufficio; oggi è, invece, chiamato a coprire, almeno in parte, gli spazi applicativi risultanti dall’abrogazione di tali fattispecie. Si è, così, cercato di valorizzare il fatto di abuso di ufficio e di potenziarne – sempre più nel tempo – la tipizzazione legislativa: – sia per contenere il fenomeno, a volte allarmante, del sindacato del giudice penale in materie riservate alla discrezionalità politica (e non solo) della P.A.; – sia per scongiurare le interpretazioni “allargate” delle evanescenti figure di reato sopra richiamate; – sia per eliminare in radice la vexata quaestio attinente la corretta individuazione della linea di confine tra le rispettive aree di operatività delle originarie fattispecie di abuso innominato di ufficio e di interesse privato di atti d’ufficio.

            Tuttavia, con la riforma del ‘90 non si era, comunque, riusciti ad offrire una migliore tipizzazione della norma, così da delineare una fattispecie incriminatrice realmente precisa e determinata. Col riproporre, in buona sostanza, il nucleo della vecchia formulazione dell’art. 323 c.p. (“abusando dei suoi poteri…commette qualsiasi fatto…”; “…abusa del suo ufficio…”), non si era ovviato a quei profili di illegittimità costituzionale per difetto di precisione e determinatezza che, piuttosto, erano venuti ad acuirsi per l’amplificazione dell’ambito di operatività della disposizione e per la sua riconfigurazione sul piano strutturale quale reato a dolo specifico. Come oggi osserva la Corte costituzionale, «i risultati [di questi interventi] non furono, tuttavia, quelli sperati. L’abuso d’ufficio acquistava di colpo [con la riforma del ‘90] una centralità applicativa in precedenza ignota, non accompagnata, però, da un reale incremento di determinatezza della fattispecie tipica, la quale restava incentrata su una condotta in sé vaga – quale quella di abusare dell’ufficio – senza che il requisito dell’ingiustizia del vantaggio o del danno, oggetto del dolo specifico, si rivelasse capace di delimitare adeguatamente i confini del tipo. Il rivisitato art. 323 c.p. divenne, così, il nuovo strumento per un penetrante sindacato della magistratura penale sull’operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante spettro dell’avvio di indagini in loro danno».

           Si è così proceduto nel ‘97 a novellare ulteriormente la disposizione che, pur non ancora esente da ambiguità, da un lato, è venuta a descrivere in modo più puntuale la “condotta”, legandola alla “violazione di legge o di regolamento”; dall’altro, richiede per la propria integrazione la realizzazione di un “evento naturalistico” (danno ingiusto a terzi ovvero vantaggio ingiusto a sé o ad altri) e, corrispondentemente, un “dolo intenzionale”, non più specifico.

            Risulta, pertanto, in modo marcato la chiara e perdurante intenzione del legislatore – criterio interpretativo non irrilevante, almeno nei casi di recente novellazione – di circoscrivere, contenendola, l’area del penalmente rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p.

            Osserva ancora criticamente il Giudice delle leggi, «le intenzioni del legislatore hanno dovuto, però, fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale, dopo una fase iniziale di ossequio allo spirito della novella, è virata verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare e a riaprire ampi scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale».

            In tal senso si è, innanzitutto, consolidato un indirizzo secondo cui la “violazione di legge” risulta integrata anche dalla inosservanza del generalissimo principio di imparzialità enunciato dall’art. 97 Cost., del tutto erroneamente, quanto strumentalmente, ritenuto regola di comportamento di immediata applicazione. Si è, poi, dato vita ad una lettura trasbordante della nozione pur tecnica di “regolamento” secondo i più puri canoni del diritto libero. E, soprattutto, con soluzione interpretativa fatta propria dalle Sezioni Unite[5], si è inteso ampliare l’area di rilevanza penale del reato di abuso di ufficio agli atti viziati da eccesso di potere nella forma dello sviamento. La violazione di legge – si è affermato in tal senso – ricorrerebbe non soltanto quando la condotta dell’agente pubblico si ponga in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse (pubblico) collidente con quello per il quale il potere è attribuito: vizio di “sviamento” asseritamente suscettivo di integrare la violazione di legge, non essendo stata la potestà esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione.

            Osserva la Corte costituzionale, «si è venuta a creare, in questo modo, una situazione che riecheggia, per molti versi, quella registratasi all’indomani della l. n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997 aveva inteso por rimedio. Ciò, peraltro, in presenza di un [duplice] inasprimento della pena edittale del reato».

  1. Il fenomeno della “amministrazione difensiva” e le sue ricadute nel pensiero della Corte costituzionale.

           Come stigmatizza la Corte costituzionale, “la vicenda ora descritta non è rimasta…priva di ricadute”.

            La diffusione del fenomeno comunemente definito “amministrazione difensiva” (la cd. paura della firma in ragione della gran mole dei procedimenti promossi per abuso di ufficio come per il timore della collegata responsabilità erariale) – nel momento in cui, a seguito dell’emergenza pandemica, si è posto il problema di dare nuovo slancio all’economia nazionale – ha fatto maturare il convincimento della necessità di una maggiore tipizzazione della fattispecie incriminatrice così da restringerne l’ambito di applicazione.

            E così sul fronte della responsabilità penale si è inteso ridefinire per la terza volta il perimetro applicativo dell’art. 323 c.p., ma “incidendo in modo mirato sulla prima delle due condotte tipiche” col sostituire la locuzione “norme di legge o di regolamento” con l’altra “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

            Viene, dunque, meno il parametro costituito dalla norma semplicemente regolamentare e si richiede che la violazione abbia ad oggetto regole specifiche, previste in modo espresso da fonti primarie, regole che non lascino al funzionario pubblico margini di discrezionalità. E puntualizza al riguardo la Corte costituzionale: «Particolarmente su questo secondo versante, risulta trasparente l’intento di sbarrare la strada alle interpretazioni giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operatività della norma introdotta dalla legge n. 324 del 1997: la puntualizzazione che l’abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad impedire che si sussuma nell’ambito della condotta tipica anche l’inosservanza di norme di principio, quale l’art. 97 Cost.; richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge e tali da non lasciare “margini di discrezionalità” si vuol negare rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere».

  1. Le prime pronunce del giudice di legittimità sulla nuova norma.

             La motivazione della sentenza del Giudice delle leggi, per vero, verrà depositata in un momento successivo (18 gennaio 2022) ai primi arresti della Corte di Cassazione sulla disposizione novellata. Non v’è dubbio, tuttavia, che il giudice di legittimità, a dispetto della comunque chiara intentio legis, non intenda minimamente recedere dalla sindacabilità degli atti viziati da eccesso di potere nella forma dello sviamento. In linea con la soluzione interpretativa delle Sezioni Unite si intende ribadire che la violazione di legge, cui fa riferimento anche l’attuale art. 323 c.p., ricorre non solo quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando sia volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, dando così luogo al vizio di “sviamento”; vizio integrante la violazione di legge, in quanto la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione.

            E così con una prima pronuncia, che interviene a decreto legge non ancora convertito, si rileva che quella in esame è «una modifica che investe solo uno dei due segmenti di condotta che sono considerati rilevanti ai fini dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio che punisce con lo stesso trattamento sanzionatorio, accomunandone il relativo disvalore, sia la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che nello svolgimento delle funzioni o del servizio viola le norme di legge che ne disciplinano l’esercizio e sia quella, del medesimo soggetto qualificato, che ometta di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un proprio congiunto o negli altri casi prescritti. Per effetto di tale modifica l’abuso di ufficio nella prima opzione, ovvero quello della violazione delle norme di legge che disciplinano lo svolgimento delle funzioni o del servizio, può essere ora integrato solo dalla violazione di “regole di condotta previste dalla legge o da atti aventi forza di legge”, cioè da fonti primarie, con esclusione dei regolamenti attuativi, e che abbiano, inoltre, un contenuto vincolante precettivo da cui non residui alcuna discrezionalità amministrativa. Ma siffatta modifica, seppure di grande impatto ove non dovessero intervenite ulteriori modifiche in sede di conversione, e sebbene medio tempore abbia notevolmente ristretto l’ambito di rilevanza penale del delitto di abuso d’ufficio con inevitabili effetti di favore applicabili retroattivamente ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, riguarda esclusivamente e più specificamente l’inosservanza dell’obbligo di astensione, rispetto al quale la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella stessa norma penale salvo che per il rinvio agli altri casi prescritti, rispetto ai quali non pare ugualmente pertinente la limitazione alle fonti primarie di legge, trattandosi della violazione di un precetto vincolante già descritto dalla norma penale, sia pure attraverso il rinvio, ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, ad altre fonti normative extra-penali che prescrivano lo stesso obbligo di astensione»[6].

            Con una successiva statuizione si afferma, poi, che l’interpretazione della nozione di “violazione di legge” – cui era già pervenuta la precedente giurisprudenza – risulta «pienamente condivisibile nel mutato quadro normativo: il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi – ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 – “alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente”. Dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p. Seguendo questa elaborazione giurisprudenziale, deve ribadirsi che i piani urbanistici non rientrano nella categoria dei regolamenti, come ritenuto da risalente e superato orientamento giurisprudenziale, che nel mutato quadro normativo escluderebbe la fattispecie di abuso in atti di ufficio, ma in quella degli atti amministrativi generali la cui violazione, in conformità dell’indirizzo ermeneutico consolidato, rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (artt. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001), normativa cui deve farsi riferimento per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 c.p. anche a seguito della modifica normativa. La normativa in questione integra inoltre l’ulteriore requisito richiesto dalla modifica normativa, in quanto si tratta di norme specifiche e per le quali non residuano margini di discrezionalità: l’art. 12 cit. detta i requisiti di legittimità del permesso a costruire e il successivo art. 13 cit. detta la disciplina urbanistica che il dirigente del settore è tenuto a rispettare nel rilascio del permesso a costruire»[7].

            Da subito, tuttavia – ciò che più rileva – si svuota la portata della riforma, facendo sopravvivere per via interpretativa ciò che il legislatore intendeva scongiurare: la sindacabilità dell’eccesso di potere nella forma del cd. sviamento.

            Laconicamente riconosciuto che «la nuova disposizione normativa ha…un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa», si rileva: «si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie)  e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto».

            Ma prontamente si puntualizza al riguardo: «Beninteso: sempreché l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi…in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi»[8].

            L’opera di erosione, lo svuotamento della riforma non si arresta. Per un verso, si viene ad affermare che «è configurabile il delitto di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., come modificato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito nella l. 11 settembre 2020, n. 120, non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta è connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto  (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio»[9]; per l’altro, che «a seguito della riformulazione del reato di abuso di ufficio …, ai fini della integrazione del reato, la violazione di norme contenute in regolamenti può rilevare nel caso in cui esse, operando quali norme interposte, si risolvano nella specificazione tecnica di un precetto comportamentale già compiutamente definito nella norma primaria e purché questa sia conforme ai canoni della tipicità e tassatività propri del precetto penale»[10].

            Con la prima pronuncia si rileva, infatti, che la linea interpretativa proposta «del nuovo art. 323 c.p. appare, peraltro, coerente con le conclusioni cui è pervenuta la più attenta giurisprudenza amministrativa che, valorizzando il dettato della l. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies, ha riconosciuto che il provvedimento amministrativo è annullabile, per violazione delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, non solo quando sia espressione di un potere vincolato in astratto, cioè disciplinato da disposizioni che non contemplano alcuno spazio di discrezionalità demandato all’amministrazione, ma anche quando esso sia esplicazione di un potere, in astratto discrezionale, che sia divenuto vincolato in concreto: vale a dire di un potere che, per le scelte che il pubblico agente ha compiuto nell’ambito di quello stesso procedimento amministrativo, non poteva che essere quello indicato dalla legge perché oramai caratterizzato da un avvenuto esaurimento di ogni spazio di discrezionalità».

            Con la seconda pronuncia si osserva, inoltre, che «al di là del tema, obiettivamente rilevante, della valenza dei rinvii indefiniti derivanti dall’elemento normativo “in violazione di specifiche regole di condotta” contenuto nel nuovo art. 323 c.p. e del se, in ragione dei rinvii in questione, vi siano ancora margini per attrarre all’interno dei parametri di qualificazione della condotta abusiva, anche la violazione di norme sub-primarie emanate in forza della legge, ed usate, quindi, come norme interposte, ciò che tuttavia pare rilevante è che la norma di legge violata, nell’ambito della tipicità della fattispecie di cui all’art. 323 c.p., si conformi, come appunto nel caso di specie, ai canoni della tipicità e della tassatività propri del precetto penale, atteso che solo in tali casi è possibile ammettere un livello minimo di etero-integrazione della fonte secondaria che si risolva – si è fatto acutamente notare in dottrina – solo in una specificazione tecnica di un precetto comportamentale, già compiutamente definito nella norma primaria».

            Soluzioni interpretative – queste richiamate – ben distanti dal successivo pronunciamento della Corte costituzionale, il cui rilievo di fondo, svolto a proposito della riforma del ‘97, vale a maggior ragione oggi: «Le intenzioni del legislatore hanno dovuto, però, fare i conti con le soluzioni della giurisprudenza, la quale…è virata verso interpretazioni estensive degli elementi di fattispecie, atte a travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva inteso fissare e a riaprire ampi  scenari di controllo del giudice penale sull’attività amministrativa discrezionale».

Sembrerebbe, dunque, imporsi un serio ripensamento dell’indirizzo giurisprudenziale – seppur accreditato dalle Sezioni Unite del 2011 – e che si intende perpetuare a dispetto di qualsivoglia riforma.

  1. Le posizioni dottrinali fortemente critiche nei confronti della novella.

           Contro il “decreto semplificazioni” – convertito nella legge 11 settembre 2020 n. 120 – almeno per ciò che afferisce alla riforma dell’abuso di ufficio, alta si è levata, tuttavia, anche la voce di buona parte della dottrina penalistica.

            Da “Spazza-corrotti” a “basta paura” titola nell’immediatezza Gian Luigi Gatta[11]. Osserva, innanzitutto, in linea generale l’autore che «la storia dell’abuso d’ufficio, come conferma l’ultimo capitolo che ora stiamo leggendo, è la storia della continua ricerca, per via normativa e giurisprudenziale, della delimitazione di una fattispecie di chiusura del sistema, configurabile “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”. Se la “valvola” dell’abuso d’ufficio non viene opportunamente stretta – conferendo alla fattispecie legale contorni definiti, compatibili con il principio di precisione (da qui nasceva, con la riforma del 1997, il riferimento alla “violazione di norme di legge e di regolamento”, in luogo del generico “abuso dell’ufficio”) – il rischio è che la suddetta “funzione repressiva di chiusura” trasmodi in panpenalizzazione; se però quella valvola risulta troppo stretta, il rischio è inverso e non meno preoccupante – in termini di impunità e di inefficacia preventiva dell’incriminazione – specie in un sistema nel quale, come ricordavo, quando l’intervento penale nel settore pubblico si ritrae spesso non trovano spazio, come invece sarebbe opportuno, forme diverse di responsabilità, come quella disciplinare, che potrebbero appagare la domanda di giustizia delle vittime e fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica (lo conferma un dato: il numero dei procedimenti disciplinari avviati è di gran lunga inferiore a quello dei procedimenti penale)».

            Si ritiene, in tal senso, “irragionevole” il primo intervento modificativo ovvero l’esclusione dei regolamenti dal novero delle fonti normative la cui inosservanza può dar luogo all’abuso di ufficio. «Proprio nei regolamenti – si rileva – spesso frutto di processi di delegificazione, si rinvengono infatti regole di condotta espresse e specifiche, relative alla funzione o al servizio esercitato in una determinata amministrazione pubblica e, pertanto, più vicine al caso concreto e capaci di orientare e uniformare l’operato degli amministratori».

            Si critica, altresì, il secondo intervento modificativo che mira a ridurre l’area di rilevanza dell’incriminazione, escludendo che “la violazione di principi generali” possa integrare l’abuso di ufficio. Il problema – come noto – si è posto in particolare in relazione ai principi fissati dall’art. 97 Cost.; secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, infatti, il requisito della violazione di legge può essere integrato anche dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità. Ora, secondo l’autore – si direbbe “a dispetto” della novella – «non sembra potersi escludere che, valorizzando la portata precettiva della disposizione costituzionale, la giurisprudenza possa comunque ravvisare, nell’art. 97 Cost., una espressa e specifica regola di condotta ai sensi della riformulata fattispecie dell’abuso d’ufficio».

            Quanto al terzo intervento modificativo con il quale si è inteso attribuire rilevanza penalistica alle sole regole che non implicano l’esercizio di un potere discrezionale, si osserva che «la sfiducia nella capacità della giurisprudenza di selezionare gli abusi penalmente rilevanti, compresi gli eccessi di potere, è eccessiva e nel complesso infondata”; meglio affidarsi al “prudente apprezzamento della giurisprudenza, eliminando dalla norma il riferimento ai margini di discrezionalità…la discrezionalità, nella pubblica amministrazione, è pervasiva e multiforme: discrezionalità amministrativa, discrezionalità tecnica e discrezionalità politica. E l’esperienza insegna che gli abusi si annidano spesso nelle maglie della discrezionalità, che nascondono l’uso strumentale di poteri e funzioni per interessi privati».

            Non mancano preziosi suggerimenti all’interprete perché nulla cambi: «Se la norma non dovesse essere modificata in sede di conversione in legge, è peraltro verosimile che, per evitare lacune di tutela, ed esiti irragionevoli, la giurisprudenza valorizzi la modalità alternativa dell’abuso d’ufficio, non interessata dalla riforma in commento. Mi riferisco alla omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto “o negli altri casi prescritti”. Valorizzando quest’ultima locuzione di potrebbe dare rilievo tanto ai regolamenti, quanto alle norme che esprimono principi generali, quanto, soprattutto, alle regole di condotte caratterizzate da più o meno ampi margini di discrezionalità».

            Del pari fortemente critico nei confronti della novella Marco Gambardella che commenta i primi arresti giurisprudenziali[12].

            Muovendo, innanzitutto, dal rilievo che l’intervento modificativo «non esplica alcun effetto con riguardo al segmento di condotta che, in via alternativa rispetto al genus della violazione di legge, concerne l’inosservanza dell’obbligo di astensione; nei confronti del quale non opera l’attuale limitazione alle fonti primarie di legge…fattispecie incentrata su una situazione di “conflitto di interessi” non toccata dalla novella del 2020, ed erede dell’abrogata figura del 1990 dell’interesse privato in atti d’ufficio (art. 324 c.p.): ipotesi criminosa – si paventa o, forse, si auspica – che sembrerebbe, a seguito della riforma del 2020, in sostanza “tornata in vita”». Si osserva, invero, che «a seguito della riscrittura della sottofattispecie della violazione di norme di legge, pare essersi venuto a creare un profondo solco tra le due condotte tipiche: la situazione di conflitto di interessi è rilevante come abuso d’ufficio anche quando faccia difetto una specifica disciplina dell’astensione, nel senso che quest’ultima non trovi la sua fonte in una norma di legge; mentre la prima condotta tipica pare esigere una specifica regola di condotta di espressa fonte legale. Non è da escludere che adesso la giurisprudenza potrebbe far rientrare, nella seconda condotta tipica relativa alla violazione dell’obbligo di astensione, sia alcuni casi di eccesso di potere nello svolgimento dell’attività discrezionale sia le violazioni di norme di fonte regolamentare».

            Sulla scia, poi, delle richiamate Sezioni Unite del 2011 si viene a riconoscere “la persistente rilevanza dell’eccesso di potere”. L’art. 323 c.p. – si rileva in tal senso – è “norma di chiusura” posta a tutela “dei valori fondanti dell’azione della P.A. che l’art. 97 Cost. indica nel buon andamento e nella imparzialità”. «Nel delitto di cui all’art. 323 c.p. l’argomento del controllo sulla legalità dell’azione dei pubblici poteri assume un ruolo preminente, al fine di stabilire il corretto spazio di verifica giudiziaria sull’attività discrezionale della pubblica amministrazione nell’ambito dell’ordinamento penale…L’accertamento dell’eccesso di potere – con il limite segnato dal genuino “merito amministrativo”, il quale altro non è che l’opportunità del provvedimento stesso: si tratta in pratica di accertamenti e valutazioni che sono di esclusiva competenza dell’amministrazione – rappresenta indubbiamente lo strumento più adeguato, di cui il giudice penale possa essere dotato, per valutare il rispetto da parte del pubblico amministratore del principio di legalità sostanziale dell’attività amministrativa. E dunque per ancorare il delitto di abuso d’ufficio alla concreta offesa degli interessi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.)».

            Abuso d’ufficio e sindacato sulla discrezionalità amministrativa individuerebbero in tale ottica un “binomio indissolubile”. Dunque, “nei fatti” l’intento perseguito con la riforma sarebbe quello di escludere l’attività discrezionale dal campo applicativo dell’art. 323 c.p.: a questo punto – si assume – “meglio avere il coraggio di eliminare del tutto la figura dell’abuso di ufficio”. All’interno del perimetro dell’incriminazione resterebbe, infatti, l’attività vincolata, campo applicativo “del tutto residuale e di scarso disvalore” in cui difetterebbe – proprio per il modo di essere dell’attività – il momento pubblicistico, l’esercizio del potere pubblico.

            Posto di fronte alla “precisa scelta” del legislatore, l’autore anche qui, dopo aver rilevato che in ogni caso la prima giurisprudenza «è andata in direzione opposta, iniziando a formare un diritto vivente analogo al precedente», non manca di fornire all’interprete preziosi suggerimenti: da un lato, infatti, si consiglia di valorizzare «la seconda condotta tipica dell’abuso imperniato su una situazione di conflitto di interessi: rispetto alla quale potrebbero essere ricondotti alcuni dei casi di sviamento di potere e di violazione di norme regolamentari»; dall’altro, si suggerisce di puntare «ancora una volta sulla valorizzazione dell’art 97 Cost.; il principio costituzionale di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, sulla scorta del quale la limitazione di responsabilità penale introdotta dalla riforma del 2020 opera sempreché l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità…».

            Per venire a concludere: «Si è modificata ancora una volta la configurazione dell’abuso d’ufficio, ma il risultato sembra essere sempre lo stesso: permane il sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa e l’eccesso di potere».

  1. La nuova configurazione dell’abuso di ufficio nella lettura di Riccardo Borsari e Nicola Pisani.

            Parimenti critiche le posizioni di Riccardo Borsari e di Nicola Pisani.

            Borsari interviene sulle prime due pronunce del giudice di legittimità post riforma che – si afferma fondatamente – “ripropongono l’inesausta e irrisolta, forse perché irresolubile, questione della strutturazione dell’abuso di ufficio, “gigantesco contenitore” oggetto di critiche ricorrenti specialmente sul piano della carenza di determinatezza” e che «reca ontologicamente con sé il più generale tema del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa»[13].

            L’idea del legislatore della novella – si osserva – è quella della risposta ai timori dei pubblici amministratori di fronte alle “invasioni di campo” della magistratura penale, ma – prontamente si soggiunge – «se la nozione di abuso (del potere) risiede ontologicamente nello sviamento della causa tipica al cui perseguimento lo stesso è funzionale, la discrezionalità amministrativa non può non costituire uno dei possibili versanti – anzi, il principale, per così dire – del giudizio penale sul reato di abuso d’ufficio. E, difatti, la precedente, sintetica disamina delle due recenti sentenze ha evidenziato che se, da una parte, la Cassazione penale, dopo avere rinunciato a sindacare la discrezionalità del pubblico funzionario per mancato superamento dei limiti interni alla stessa, ha aperto il campo all’eccesso di potere estrinseco, dall’altra, invocando a proprio sostegno la giurisprudenza amministrativa, ha sanzionato l’esercizio di un potere, in astratto discrezionale, in ragione del fatto che sia divenuto vincolato in concreto». Del resto – si rileva ancora – è proprio attraverso il cattivo esercizio del potere discrezionale che si realizzano le forme più gravi e diffuse di sfruttamento dell’ufficio a fini privati.

            Ora, si avverte, la questione dei cd. limiti del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa «viene tuttavia mal posta: non si tratta di ammettere un sindacato sull’opportunità quanto, piuttosto penetrare nella sfera valutativa della Pubblica Amministrazione, verificare che un merito amministrativo esista e non si dia, al contrario, un “merito privato”. È sulla possibilità di ammettere o meno il sindacato giudiziale circa l’estraneità-pertinenza dei fini in concreto perseguiti, rispetto a quelli istituzionali, che si colloca il discrimine e, eventualmente, l’entità dell’ingerenza del giudice stesso rispetto all’operato dell’amministrazione».

            E rilevato che «sono…molteplici le concezioni di discrezionalità susseguitesi nel tempo, mentre è rimasto sostanzialmente univoco l’atteggiamento di dottrina e giurisprudenza che tendono ad avvicinare quei principi posti a fondamento dell’azione amministrativa all’agire del giudice penale», si viene a sostenere che «si impone pertanto una idea di discrezionalità impregnata di ragionevolezza, che dovrebbe orientare l’universo dell’agire pubblico, suscettibile di tradursi in eccesso di potere quanto all’azione amministrativa, alla cassazione delle pronunce irragionevoli e nell’incostituzionalità delle leggi. Così ragionando, tra sindacato di legittimità in termini di incongruità e razionalità e sindacato di merito non sussiste differenza ontologica imperniandosi ambedue, seppure con graduazioni diverse, sull’accertamento di detta razionalità. Ancora oggi sembra, in definitiva, difficile se non impossibile scindere l’abuso d’ufficio da un sindacato sulla discrezionalità, ancorata a canoni più concreti quali la ragionevolezza. Si tratta di un legame indissolubile perché fondato sulla ragion d’essere stessa dell’incriminazione: proteggere il buon andamento e l’imparzialità della Pubblica Amministrazione, possibile solo se si ammette una forma di controllo del giudice penale sui suoi atti e sulla attività in genere».

            E conclude l’autore coll’osservare che le prime pronunce della giurisprudenza sembrano indicare una tendenza simile a quanto «verificatosi in passato a seguito delle precedenti riforme, anche in ragione del rischio, in caso contrario, di sostanziale abrogazione del reato ex art. 323 c.p.» e ci si chiede in tal senso «se, piuttosto che una riforma così (male) costruita, non sarebbe stato meglio avere il coraggio di espungere la fattispecie dall’ordinamento, allo stato indirizzata a colpire le violazioni meno significative e lasciare, invece, impunite le forme più gravi di distorsione del potere pubblico».

            Nicola Pisani, affrontando il “nodo centrale” della nuova formulazione dell’abuso di ufficio, si chiede: «cosa ha voluto intendere il legislatore quando ha previsto l’assenza di margini di discrezionalità come “elemento negativo” della fattispecie? Secondo una prima lettura, la riforma a tutti gli effetti “sterilizza” l’art. 323 c.p., lasciando un residuo, angusto spettro applicativo per quelle forme di abuso commesse nell’esercizio delle attività vincolate della pubblica amministrazione: l’abuso dovrebbe risolversi nell’inosservanza di un dovere vincolato nell’an, nel quid e nel quomodo dell’attività»[14].

            Escluso l’art. 97 Cost. dal novero dei parametri della violazione di legge, in quanto “norma di principio, priva di contenuto regolatorio-precettivo”; e del pari escluso che “norme di cd. rilevanza legislativa indiretta”, quali i regolamenti, possano integrare il requisito della violazione di legge – “pena la trasgressione del divieto di analogia oltre che del principio di riserva di legge” – rileva purtuttavia l’autore che «esistono forme di distorsione funzionale dell’atto dai fini pubblici contrassegnate da una tale gravità da tradursi nella violazione delle norme (di relazione) attributiva del potere in concreto al pubblico agente. Nel caso in cui il pubblico ufficiale si sia limitato a fare un “cattivo uso del potere discrezionale”, pur muovendosi all’interno delle possibili opzioni che la norma attributiva del potere discrezionale gli consentiva – tutte coerenti rispetto ai fini tipici dell’atto – l’eventuale incoerenza del risultato ottenuto agli interessi della pubblica amministrazione non può di per sé integrare la fattispecie delittuosa in esame (cd. eccesso di potere intrinseco) …Viceversa, l’esercizio della discrezionalità in contrasto con il modello legale e, cioè, al di fuori dei presupposti di fatto di esercizio del potere discrezionale, appare riconducibile al paradigma della “violazione di norme di legge” e non rientra nella zona franca della discrezionalità, essendovi solo un’apparenza di esercizio di potere discrezionale (eccesso di potere estrinseco)».

            Se si segue questa linea interpretativa, segnala l’autore, la riforma «non chiude del tutto la strada all’orientamento giurisprudenziale cui già si faceva cenno, che recupera l’eccesso di potere per sviamento allorquando nei provvedimenti discrezionali il potere medesimo sia esercitato in vista della realizzazione di un interesse collidente con quello per cui il potere è attribuito, purché tale distorsione funzionale di traduca nell’inosservanza di una precisa regola comportamentale e cioè in una violazione estrinseca del dettato normativo».

  1. L’esame critico svolto da Tullio Padovani.

             Anche Tullio Padovani affronta, e da par suo, il tema, spinoso, della riforma, l’ennesima, dell’art. 323 c.p.[15].

            Segnala, già in apertura, che «l’insofferenza verso le maglie lasche dell’art. 323 è…risalente, e poggia, indubbiamente, su di uno iato vistoso tra la legalità “offerta” dalla norma, quale selettore dell’iniziativa di indagine, e la legalità “raggiunta” all’esito del procedimento, quando sulla base della norma si definiscono i limiti concreti di rilevanza di quella o quella condotta contestata».

            E si rileva al riguardo che la pretesa periodica di risolvere il problema della “lasca” formulazione della norma incriminatrice è risultata nel tempo senza esito e, dunque, ci si ritrova anche oggi “allo stesso punto di partenza”.

            Avvertendo così l’esigenza di offrire uno “sguardo retrospettivo, per recuperare le origini” della norma, innanzitutto si indica il carattere “sussidiario” – nella sua forma estrema – della tutela approntata dall’art. 323 c.p., in ragione della clausola di riserva assolutamente indeterminata. «Rinserrata fra due giganti normativi che la facevano, per così dire, da padrone nell’esercizio del controllo di legalità sull’attività amministrativa», il peculato per distrazione e l’interesse privato in atti d’ufficio, l’abuso “innominato” d’ufficio vedeva «la propria sfera applicativa confinata in un ambito marginale: minute prevaricazioni, per un verso, favoritismi indebiti, per l’altro».

            Con la riforma del ’90 – si prosegue – «l’art. 323 venne riformulato essenzialmente allo scopo di poter fungere da “legatario” di una parte delle condotte originariamente sussumibili nell’art. 314 e nell’art. 324 c.p., assicurando (almeno secondo le intenzioni) un filtro selettivo più adeguato a definire la loro offensività. Si stabiliva che l’abuso di ufficio (esteso anche agli incaricati di un pubblico servizio) dovesse essere finalizzato ad un vantaggio, proprio od altrui, “ingiusto”, o a un danno altrui del pari “ingiusto”, prevedendo un titolo di maggiore responsabilità qualora il vantaggio fosse “patrimoniale”. La previsione della “doppia illiceità” avrebbe dovuto assicurare una ancor più congrua delimitazione del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa, che, per quanto illegittima, non poteva assumere connotati di illiceità penale se l’evento perseguito non fosse stato di per sé contrario a diritto».

            E venendo al cuore del problema, Padovani afferma: «La prospettiva era intrinsecamente illusoria. In linea di principio, il giudice penale non sindaca affatto un’attività amministrativa; valuta se sussista una condotta criminosa secondo i requisiti tipici stabiliti da una norma incriminatrice; e, se essa sussiste, di “merito” amministrativo non è neppure il caso di parlare. Merito amministrativo e merito criminoso sono presenze alternativamente incompatibili nello stesso spazio giuridico: dove c’è l’uno, non può esserci l’altro, e viceversa».

            La portata selettiva del testo normativo del 1990, ritenuta insufficiente ad assicurare un agevole vaglio di rilevanza penale, innesca un nuovo percorso di riforma che conduce alla novella del 1997 (testo che, appunto, risulterà vigente sino al novum del 2020).

            L’art. 323 c.p. nella formulazione del 1997 – rileva Padovani – risulta caratterizzato dalla necessaria violazione di legge o di regolamento (o, in alternativa dall’inosservanza di un obbligo di astensione) e dalla illiceità “intrinseca” del danno o del vantaggio patrimoniale (quello non patrimoniale perde rilevanza); presenta così due filtri selettori di particolare rigidità e, in pratica, l’abuso postula una norma imperativa (di natura legislativa o regolamentare) diretta al pubblico agente e riferita specificamente al tipo di attività svolta in concreto. «Dal punto di vista della razionalità legislativa – si prosegue – l’intento perseguito era però ispirato ad una sorta di follia. Si compiva, in effetti, una selezione “inversa”: colpendo attività tanto vincolate da rendere ictu oculi evidente l’illegittimità, si calava una cortina impenetrabile proprio sulle distorsioni funzionali più gravi, compiute nell’ambito dell’attività discrezionale più ampiamente intesa. L’evidente asimmetria logica della nuova formulazione ha finito con il determinare una vera e propria “riconversione ermeneutica” sfociata in una sostanziale “riscrittura” del testo legislativo, il cui ambito viene, alla fine, ricondotto alle origini».

            All’area della rilevanza penale del fatto abusivo sono così recuperate le norme di carattere cd. procedimentale (pareri, attività istruttorie), le norme-principio (art. 97 Cost.), le norme di rilevanza legislativa indiretta (prescrizioni del piano regolatore), gli atti viziati da eccesso di potere nella forma dello sviamento.

            «Il cerchio – si afferma conclusivamente sul punto – si chiude con la sentenza delle SS.UU. del 2011…In tempo di “formante giudiziario”, che plasma la legalità, è illusorio pensare ancora che la legge possa equiparare quadrata rotundis o fare de albo nigrum: anzi, più pretende di farlo, più ottiene l’effetto contrario».

            Con la novella del d.l. n. 76 del 2020 si persegue nuovamente l’intento di meglio definire lo spettro di applicazione della norma. Ed al riguardo l’autore osserva che «ancorando la condotta tipica alla violazione “di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, si è inteso proclamare con irta tassatività che l’abuso si deve risolvere nell’inosservanza di un dovere vincolato nell’an, nel quid e nel quomodo dell’attività: per l’appunto, senza “margini di discrezionalità” in alcuno dei momenti qualificanti il comportamento definito dalla legge e dall’atto ad essa equiparato». Atti, in definitiva, attinenti ad una sfera minuta dell’attività amministrativa, l’area della mera esecuzione. «Dunque, il requisito inserito nella fattispecie (“…dalle quali non residuino margini di discrezionalità”) si configura dogmaticamente come un vero e proprio elemento negativo del fatto, la cui sussistenza viene in radice meno se tale elemento (il potere discrezionale) ricorre».

            Qui giunto, tuttavia, osserva (si direbbe, con piglio improntato a populismo giudiziario) Padovani: «il rilievo cruciale, per chi si occupa di diritto penale, è che il sistema dei controlli amministrativi interni si è da tempo affievolito ed è addirittura scomparso. Quella che dovrebbe essere l’ultima Thule del controllo di legalità – e cioè l’intervento del giudice penale – è così divenuto, in realtà, la sua prima (e talvolta unica) istanza. In questo contesto suona stridula la denuncia, ricorrente e reiterata, che addebita agli interventi giudiziali un’arbitraria ingerenza nella discrezionalità amministrativa, per la quale si rivendica una franchigia dal sindacato del giudice. Ma – come si è già notato – il merito amministrativo, rispetto ai delitti dei pubblici ufficiali tra la P.A., non è, e non può mai essere una zona franca sottratta al vaglio giurisdizionale…In questa prospettiva, l’illegittimità dell’atto, se emerge a priori, rappresenta un sintomo dell’abuso, ma non ne esaurisce la sostanza: non è la violazione di legge a determinare l’abuso, ma è piuttosto la distorsione del potere dal suo scopo istituzionale e la sua finalizzazione ad un’utilità privata».

            E ciò porta Padovani a concludere che «non si può dunque negare che la deriva ermeneutica cui il testo dell’art. 323 c.p. è stato sottoposto corrisponda alla logica di sistema e alla natura delle cose che non possono essere cancellate con un tratto di penna. Le norme devono vivere nella realtà, non nei desideri (o nelle pie illusioni) di chi le confeziona, spesso senza criterio né ragione».

            Il giudizio fortemente critico dell’autore sulla riforma, nondimeno, si stempera nel rilevare che per i veri nodi da sciogliere in materia – nodi che vivono fuori dal diritto penale – è chiamato impropriamente a risolverli il diritto penale. E si riconosce, peraltro, che la situazione di crisi in cui versa l’apparato amministrativo non garantisce l’efficienza, né assicura le garanzie proprie di uno stato di diritto, in difetto di parametri di riferimento normativo sufficientemente determinati. «Ciò significa che, per quanto si possa (e si debba) assicurare alla fattispecie incriminatrice un contenuto rigorosamente determinato, la garanzia così attuata resterà fatalmente incompleta, se non si provvederà nel contempo a definire modi, finalità e limiti delle diverse funzioni amministrative in forma meno contorta, confusa e slabbrata di quanto non sia sinora accaduto.…La prima e più efficace difesa dell’amministratore e del politico deve quindi potersi rinvenire nelle norme ch’essi applicano: nitide e precise. Solo a queste condizioni le indagini troveranno un argine naturale e un percorso meno ondivago e periclitante, L’”invadenza” attribuita alle procure scaturisce invero dalla facilità con cui ogni scelta amministrativa di qualche rilievo può essere attaccata, censurata e investita dal sospetto di favoritismo, prevaricazione o indebito profitto»[16].

            Il fenomeno – si assume, dunque, conclusivamente e non senza qualche profilo di contraddittorietà – trova la propria origine «nel sommo disordine che caratterizza il nostro sistema amministrativo, nel tumultuoso accavallarsi delle competenze, nel viluppo inestricabile delle procedure, nell’aleatorietà degli strumenti normativi, della formidabile carenza di efficaci controlli interni».

  1. Abuso d’ufficio e cd. sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa.

            Davvero, parturient montes, nascetur ridiculus mus?

            Innanzitutto, alcune considerazioni sull’assunto secondo cui abuso d’ufficio e sindacato del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa individuerebbero un “binomio indissolubile” (per giunta) “per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio”[17].

            Chi scrive, in realtà, ancor prima della riforma del ’90 aveva affrontato il tema dell’ambito di operatività da riconoscere al sindacato del giudice penale sull’atto amministrativo, pervenendo alla conclusione che “nelle ipotesi in cui il compimento o la omissione di un determinato atto amministrativo integra la stessa condotta penalmente rilevante, il sindacato sull’atto medesimo appare irrilevante o imprescindibile a seconda che…l’attività o l’inattività rispetto ad esso esaurisca la condotta tipica, ovvero debba essere qualificata da ulteriori note caratterizzanti. Certo è, comunque, che in entrambi i casi…non è mai l’atto amministrativo in quanto tale a costituire oggetto della valutazione giudiziale, ma la condotta umana consistente nell’aver posto in essere od omesso quel determinato atto. Ed è chiaro che in tale prospettiva il cd. sindacato del giudice penale non è affatto incidentale, costituendo l’oggetto diretto ed immediato dell’accertamento giudiziale al pari di ogni elemento di fattispecie, e tendenzialmente non sopporta alcuna limitazione aprioristica”[18].

            Così, nell’allora “abuso innominato di ufficio” e sino alla recente novella, l’attività amministrativa posta in essere dal pubblico funzionario ha rappresentato “il fondamento per l’accertamento della responsabilità penale” ed è risultata suscettiva di verifica “anche sotto il profilo della legalità sostanziale, rientrando tale suo esame nel normale processo ermeneutico condotto in relazione ad un elemento (normativo) della fattispecie”. Discorso valido, ovviamente, anche per gli “atti discrezionali” che ben possono integrare il substrato oggettivo essenziale della condotta delittuosa e valido, in particolare, per l’eccesso di potere, che rende praticabile il controllo non solo sulla forma, ma anche sul contenuto dell’atto discrezionale eventualmente “sviato” dal suo fine tipico.

            Il problema del cd. sindacato del giudice penale sugli atti della P.A. si risolve, dunque, attraverso l’analisi delle varie ipotesi di reato, verificando quale ruolo svolga in esse l’atto medesimo (e l’eventuale questione della legittimità o meno di esso, come avviene ancor oggi per le tuttora vigenti forme di corruzione “propria” e “impropria”). Il riferimento non è ai poteri del giudice, ma alla rilevanza penale del dato, oggetto di valutazione. L’esercizio del potere di sindacato da parte del giudice, in definitiva, «si sviluppa nella sfera della sua ordinaria attività di accertamento, limitandosi egli a verificare la sussistenza degli elementi del reato (tra i quali, la legittimità o meno del provvedimento amministrativo laddove appunto rilevi), così che in simili ipotesi appare addirittura “improprio” parlare di un sindacato sull’atto»[19]. Laddove il compimento o la omissione di una determinata attività integra la stessa condotta costitutiva del reato, sia che in tale attività od inattività si esaurisca la condotta tipica (come avveniva, ad es., nell’art. 328 c.p. ante riforma), sia che debba essere qualificata da ulteriori note caratterizzanti, quali, l’abusività, l’arbitrarietà e così via (come accade, ad es., nell’art. 323 c.p.), il giudice penale verifica in forza degli elementi descrittivi di fattispecie la sussistenza del reato.

            Come da tempo ha fondatamente inteso rilevare Gaetano Contento, non è mai l’atto amministrativo in quanto tale a costituire l’oggetto della valutazione giudiziale, ma la condotta umana consistente nell’aver posto in essere od omesso quel determinato atto; ed è chiaro che in tale prospettiva il cd. sindacato del giudice penale non è affatto incidentale, costituendo l’oggetto diretto od immediato dell’accertamento giudiziale al pari di ogni elemento di fattispecie[20].

            Nessun dubbio, dunque, che condotta abusiva e sindacato del giudice penale diano vita ad un “binomio indissolubile”, ma è altrettanto indubbio che il sindacato presupponga l’esistenza di una fattispecie incriminatrice caratterizzata da elementi costitutivi il cui accertamento implichi una simile verifica. Tale binomio, indissolubile già sul piano della logica, non può circolarmente “imporre” la sopravvivenza di una fattispecie incriminatrice né, come si propone, una totale “rimodulazione” del testo normativo novellato per la “sopravvivenza” di un sindacato non più consentito. Le condotte (abusive) di omissione-ritardo di atti di ufficio della vecchia formulazione dell’art. 328 c.p. sul piano normativo non esistono più e non possono tornare in vita in forza della avvertita esigenza da parte dell’interprete di un controllo sull’attività – sebbene atipica – realizzata dal pubblico funzionario.

            Una volta chiarito che, lungi dall’avere un’avversione pre-concetta al cd. sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa, si è concordi nel ritenere che la condotta abusiva, ove tipizzata, implichi un pieno accertamento giudiziale, è tuttavia la ultratrentennale “storia” della disposizione in esame a palesare quale sia stata la progressiva scelta di politica criminale operata dal legislatore all’esito del bilanciamento dei diversi contrastanti interessi: inizialmente, contenere, fino ad annullare, oggi, il sindacato del giudice penale sulle scelte “discrezionali” del pubblico funzionario. Scelta necessitata, al di là delle contingenze dettate dalla pandemia, per il pervicace atteggiamento di rifiuto da parte della giurisprudenza di quell’idea di “contenimento”. Anche a voler trascurare il tema del rispetto del principio di riserva di legge “stretta” in materia penale, «la sfiducia nella capacità della giurisprudenza di selezionare gli abusi penalmente rilevanti, compresi gli eccessi di potere» lungi «dall’essere eccessiva e nel complesso infondata»[21] trova fondamento reale nell’utilizzazione “abusiva” della fattispecie di abuso di ufficio: davvero una sorta di “apriscatole” per avviare procedimenti e indagini volti a controllare l’operato dei pubblici amministratori, in vista della contestazione di reati più gravi (ad es., la corruzione)»[22]. E le “statistiche giudiziarie”, meglio, la pratica giudiziaria illustra ampiamente la frequente strumentalizzazione della norma [anche in ragione delle possibili conseguenze processuali: adottabilità di misure coercitive personali in ragione degli inaspriti livelli sanzionatori]; strumentalizzazione che non può essere ricondotta – in modo bonario e riduttivo – a «scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato oltreché delle indagini preliminari»[23]; fenomeno, se mai tale, comunque, di eccezionale gravità e meritevole di attento sindacato.

            Dunque, è ben vero che «l’intento “nei fatti” è quello di “depenalizzare” l’abuso di ufficio» e ne costituisce manifesta riprova «il chiaro tentativo del legislatore del 2020 di escludere l’attività discrezionale dal campo applicativo dell’art. 323 e di assegnare rilevanza alla sola attività vincolata»[24]. Ed allora, lo schema normativo che, seppur “confezionato con approssimazione”[25], è manifesta espressione di simile intento, può venire riscritto in omaggio ad un binomio, in astratto indissolubile, ma che in concreto difetta di uno dei due fattori costitutivi ovvero la condotta abusiva?

  1. La nuova “struttura” offerta alla fattispecie incriminatrice secondo il pensiero di Fabrizio Ramacci: da “eccesso dall’esercizio di un potere” ad “inosservanza di un obbligo specifico”.

          In realtà, come col consueto acume osserva Fabrizio Ramacci, v’è da operare «ulteriori considerazioni rivolte a individuare la spiegazione della riforma del 2020. Le variazioni sul tema dell’abuso d’ufficio non possono, infatti, essere spiegate semplicisticamente, soltanto come un aggiustamento del tiro con correzione del precedente errore di mira da parte del legislatore, che prima non aveva fatto bene il suo lavoro»[26].

            L’intentio legis –rileva l’autore – è appunto dimostrata dal sensibile restringimento dell’ambito del penalmente rilevante come abuso di ufficio: la punibilità della condotta genericamente “in violazione di norme di legge o di regolamento” si riduce, con il nuovo testo, alla punibilità della sola “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

            Ed operato un richiamo ai profili essenziali della distinzione tra attività amministrativa, vincolata e discrezionale, il chiaro autore avverte che allo scopo di «mettere ordine logico tra la ragion d’essere della norma riformante e le sue prospettive applicative occorre concentrare l’attenzione sulle variazioni del testo dell’art. 323 c.p., che assumono l’importanza fondamentale di esprimere il significato specifico dell’innovazione legislativa»[27].

            Ora – correttamente si puntualizza – il potere discrezionale non è mai «privo di elementi di vincolo, ma questi si stringono quando l’azione della pubblica amministrazione è regolata da prescrizioni di legge “specifiche”; ne deriva che la discrezionalità amministrativa può assumere in concreto diverse gradazioni fino a scomparire». Quando l’attività è vincolata da specifiche e espresse disposizioni di legge, all’eliminazione della discrezionalità sull’an, può associarsi anche quella sul quomodo (la modulazione dell’intervento) e sul quando (la tempistica dell’intervento).

            «Se così è – osserva Ramacci – la violazione di legge che produce l’abuso d’ufficio si connota come inosservanza di un obbligo e non come eccesso dall’esercizio di un potere»[28].

            Una volta stabilito che l’abuso di ufficio può sussistere soltanto in caso di “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge”, la fattispecie incriminatrice è, all’evidenza, strutturata come violazione di un obbligo e non possono sussistere margini residuali di discrezionalità. Quando, al contrario, la legge presenti “maglie larghe”, «allora non si potrà ritenere configurato un abuso di ufficio, che appunto risulta oggi strutturato sulla violazione di uno specifico obbligo di legge, ma, ove ne ricorrano gli estremi, altro e diverso reato»[29].

  1. Brevi considerazioni conclusive.

             Palese, dunque, quanto risulti “distante” dall’attuale configurazione del tipo legale l’orientamento interpretativo tracciato dalle sentenze sopra richiamate, che pretendono appunto di ribadire sul piano applicativo la precedente (quanto problematica) “norma vivente” di matrice giurisprudenziale.

            Distanza ora non più colmabile alla luce della sopraggiunta pronuncia della Corte costituzionale che ha inteso, appunto, chiarire che l’esigenza di contrastare fenomeni di “burocrazia difensiva” – ridefinendo la portata del precetto dell’art. 323 c.p. – non nasce con l’emergenza epidemiologica, «ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi, tanto la violazione dell’art. 97 Cost. quanto lo sviamento di potere».

            Sancendo, peraltro, l’infondatezza del rilievo secondo cui l’attuale formulazione della norma – di taglio asseritamente troppo restrittivo – recherebbe pregiudizio a valori di rango costituzionale, quali l’imparzialità ed il buon andamento della pubblica amministrazione, si è appunto inteso affermare che «le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono… nella tutela penale, ben potendo essere soddisfatte con altri precetti e sanzioni: l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela»[30].

In tal senso semplicemente incomprensibili ed ingiustificabili si appalesano quei “suggerimenti” offerti all’interprete che, asseritamente e tralaticiamente tesi ad “evitare lacune di tutela ed esiti irragionevoli”, individuano in concreto odiosi aggiramenti dei canoni della legalità.

A proposito di lacune e ragionevolezza, come fondatamente si è inteso affermare, in effetti, è il “punire la passione contemporanea”; “passione” dalla quale scaturiscono (oltre al profluvio di fattispecie incriminatrici, anche) interpretazioni-applicazioni autoritarie, illiberali del dato normativo, indifferenti alle reali cause strutturali dei fenomeni criminali e del tutto inefficaci sul fronte della protezione dai medesimi fenomeni. Orientamento fautore di un diritto penale, non “minimo” e realmente “ragionevole”, ma “massimo”, “smisurato” e “perpetuo”, in quanto tale gravemente lesivo dei diritti fondamentali del cittadino[31]. L’ipertrofia del diritto penale – da tempo denunciata – comporta in concreto la cd. “ibertà frammentaria”: con drastico rovesciamento dei postulati tradizionali il diritto penale tende alla onnicomprensività, così che la frammentarietà assurge a carattere della libertà[32].

            In tal senso stupisce (o, forse meglio, impaurisce) la stessa idea di ricorrere a “grimaldelli” per mantenere in vita la “norma giurisprudenziale” in passato creata per sanzionare il cd. sviamento di potere. Grimaldello, quello invocato (l’art. 97 Cost.), che si rivela, per giunta, arnese del tutto inadatto allo scopo e solo nell’erroneo quanto strumentale pensiero della S.C. “precisa regola di comportamento di immediata applicazione”. Come con fondamento ammonisce al riguardo Padovani, tramontato anche il postulato della legge quale unica fonte del diritto penale, la libertà si appalesa, appunto, “precaria”: «precetti senza legge affollano l’ordinamento distribuendo l’intervento a vari livelli e ribaltando l’antica gerarchia delle fonti»[33].

            Evaporata la certezza del diritto, vano sarebbe affidarsi alla cd. prevedibilità della decisione giudiziaria e, nel singolo caso, al “prudente apprezzamento” del giudice. Come osserva Vallini, «se si sposta la fonte di legittimazione dell’opzione incriminatrice dal criterio (formale) della riserva di legge a quello (sostanziale) della prevedibilità, il contributo del giudice – che può essere prevedibile tanto quanto altre fonti – risulta potenzialmente sostitutivo della legge»[34].

            La legalità penale – giova ricordarlo –  quale espressione del principio di riserva di legge,  è essenzialmente strumento di “garanzia” del cittadino[35], in specie se imputato; di qua la regola dell’irretroattività, di qua il divieto di analogia e, dunque, il “carattere” contenitivo, frammentario della norma penale, norma «la quale, diversamente dalle regole di diritto operanti negli altri rami dell’ordinamento, non crea in positivo la fattispecie giuridica, ma la genera piuttosto per restrizione»[36].

            La legge penale non si prefigge il solo scopo di neutralizzare nel giudizio la “variabile soggettiva”, ma soprattutto di mettere al riparo l’imputato dall’applicazione di un innominato ed alternativo parametro di valutazione.

            Il principio di riserva non garantisce soltanto l’iter procedimentale di introduzione e la legittimazione della norma, ma anche e soprattutto, attraverso il collegato principio di legalità, la chiarezza, precisione, determinatezza e tassatività della norma medesima. Affidare al giudice il compito di definire, tramite pronuncia, i confini del precetto penalmente sanzionato e, in definitiva, l’ambito di un’interpretazione che si mantenga al di qua del limite del divieto di analogia individua, davvero, un “clamoroso paradosso” frutto di un’evidente petizione di principio e, ancor prima, di una chiara inversione di metodo e di piani.

           Ed indubbiamente concreta un chiaro aggiramento dei canoni della legalità, ad esempio, l’invito a far rientrare nella (alternativa) condotta tipica della violazione dell’obbligo di astensione, “sia alcuni casi di eccesso di potere nello svolgimento dell’attività discrezionale, sia le violazioni di norme di fonte regolamentare”. Lungi, infatti, dall’essersi creato con la novella un “profondo solco” tra le due condotte tipiche, come è stato correttamente osservato, posti di fronte al rischio che simile forma di abuso possa subire “manovre dilatative”, si rivela non solo ragionevole, ma ancor prima corretto sul piano dell’interpretazione sistematica «richiedere che l’obbligo di astensione debba essere espressamente previsto dalla legge…se si considera che il disvalore della condotta omissiva risiede nella situazione tipica presupposta dell’obbligo di astenersi posto a carico del pubblico agente»[37].

                Né vale agitare lo spettro di un “risveglio” delle figure del peculato per distrazione e dell’interesse privato in atti d’ufficio. Ove, appunto, si continui a ragionare nell’ottica di un contenuto offensivo tipicamente definito e selettivo nell’identificazione delle condotte penalmente rilevanti, non potrà essere ritenuta “appropriazione” rilevante nello schema dell’art. 314 l’arbitraria destinazione di un bene pubblico ad una finalità diversa da quella stabilita, ma pur sempre pubblica; né, all’opposto, come già in passato, potrà essere qualificata semplicemente “distrattiva” e, dunque, atipica nel medesimo schema, la cessione da parte del pubblico funzionario ad un proprio familiare del denaro pubblico di cui dispone.

                 Ed il discorso corre analogamente per la “presa d’interesse” a vantaggio proprio dell’agente o di persona a lui direttamente riconducibile. È questa, appunto, l’area di operatività dell’abrogato art. 324 c.p. ovvero di quelle situazioni di conflitto di interessi che oggi assumono rilevanza penale solo allorquando attraverso la condotta abusiva l’agente non persegua l’interesse pubblico e realizzi uno degli eventi normativamente previsti: il vantaggio patrimoniale per sé o per altri; ovvero il danno (anche non patrimoniale) arrecato ad altri. Vantaggio e danno che per rilevare dovranno risultare qualificati dalla nota dell’”ingiustizia. L’ingiustizia si atteggia, infatti, quale elemento qualificante dell’evento costitutivo del reato e presenta un significato autonomo rispetto alla condotta di violazione di legge o di omessa astensione. Appare, pertanto, fondata la tesi della c.d. doppia ingiustizia: l’ingiustizia del vantaggio e del danno va ricavata da elementi “ulteriori” rispetto ai parametri sulla scorta dei quali apprezzare il carattere abusivo della condotta; essa non coincide colla contrarietà ad una particolare fonte normativa, ma consiste nella non conformità all’intero ordinamento. La sua presenza nello schema descrittivo assegna alla fattispecie la nota della antigiuridicità speciale.

*Avvocato del Foro di Roma, Ordinario di Diritto Penale all’Università di Tor Vergata

[1] C. Cost., 14-28 aprile 2021 n. 20, in questa Rivista, 2021, con nota di R. Rampioni, Ragioni di giustizia vs. divieto di analogia in malam partem. Il richiamo all’ordine del giudice costituzionale.

[2] F. Mantovani, Stato costituzionale e diritto penale costituzionalizzato, in Giust. Pen., 2011, I, 235 s.

[3] F. Bricola, La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione: cenni generali, in AA. VV., Reati contro la pubblica amministrazione, a cura di F. Coppi, Torino, 1993, 13 s. Più in generale sul tema AA. VV., La riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, a cura di A. Stile, ISISC, Napoli, 1987.

[4] La formulazione a seguito della novella del ‘90 era del seguente tenore: Abuso di ufficio – “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni. Se il fatto è commesso per procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni”. La formulazione del 1997 – inasprita nel 2012 nel solo trattamento sanzionatorio – così recitava: Abuso d’ufficio “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni (poi divenuta: “..da un anno a quattro”).       La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”.

[5] Cass. pen., Sez. Un., 29 settembre 2011, n. 155.

[6] Cass. pen., Sez. fer., 25 agosto 2020, n. 32174, in Cass. pen., 2021, 479.

[7] Cass. pen., Sez. VI, 17 settembre 2020, n. 31873, in Cass. pen., 2021, 488; in termini Cass. pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 7007, in Cass. pen., 2021, p. 3093.

[8] Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2020, n. 442, in Cass. pen., 2021, 490.

[9] Cass. pen., Sez. VI, 28 gennaio 2021, n. 8057, in Cass. pen., 2021, 1574.

[10] Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2021, n. 33240, in Cass. pen., 2021, 3913. In senso conforme più di recente Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021 n. 16609, in Penale. Diritto e Procedura, online, 2022, con annotazione di V. Santoro.

[11] G. L. Gatta, Da “pazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso di ufficio, approvata dal governo “salvo intese” (e la riserva di legge?), in Sistema penale, 17 luglio 2020.

[12] M. Gambardella, La modifica dell’abuso di ufficio al vaglio della prima giurisprudenza di legittimità: tra parziale abolitio criminis e sindacato sulla discrezionalità amministrativa, in Cass. pen., 2021, p. 493 s.

[13] R. Borsari, A volte ritornano, Riforma dell’abuso d’ufficio e sperimentazioni applicative, in Sistema pen., 2021, 9, 43 s., il quale così prosegue: tema del sindacato, “il quale a propria volta ne involve altri di ancor più ampio respiro come (la teoria del) l’interpretazione e l’atteggiarsi della separazione dei poteri”.

[14] N. Pisani, La riforma dell’abuso d’ufficio nell’era della semplificazione, in Dir. pen. processo, 2021, 9 s.

[15] T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso di ufficio, in Giurispr. pen.,

[16] Corsivo di chi scrive

[17] Così titola da ultimo M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale, 2020, n. 7, 133 s.

[18] R. Rampioni, Bene giuridico e delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., Milano, 1984, 393 s.

[19] R. Rampioni, op. ult. cit., 390.

[20] G. Contento, Giudice penale e pubblica amministrazione, 1979, Bari, 99, 116 s.

[21] Così G. L. Gatta, op. cit.

[22] Così G.L.Gatta, op. cit.

[23] Così M. Gambardella, op. cit., 496

[24] M. Gambardella, op. cit., 501.

[25] Osserva con fondamento F. Ramacci, Vecchi broccardi e nuove riforme per lo scontento di un giurista crepuscolare, in Studi senesi, 2021, n. 2, 459 s.: «La rilevanza dell’abuso di ufficio viene così ristretta alla violazione di tassative e dettagliate disposizioni di legge o di atti aventi forza di legge: questa previsione poteva essere sufficiente allo scopo ma, forse improvvidamente, il legislatore della riforma ha ritenuto di dover precisare che dalle regole di condotta fissate dalla legge non devono residuare “margini di discrezionalità”. L’intenzione legislativa è evidentemente quella di affermare a contrario, rispetto alla violazione di “specifiche” regole di condotta espressamente previste, che quando e dove c’è discrezionalità, anche se marginale, non può esserci abuso d’ufficio. All’evidenza dell’intenzione non corrisponde però una felice scelta testuale perché il riferimento, anche se negativo, (“non residuino”), alla discrezionalità, scopre un aspetto problematico, che potrebbe costituire un punto debole della riforma».

[26] F. Ramacci, op. cit., 459.

[27] F. Ramacci, op. cit., 460, il quale precisa: «La più autorevole dottrina di diritto amministrativo è concorde nell’affermare che l’attività vincolata, interamente regolata dalla legge, con esclusione di ogni possibilità di scelta da parte della pubblica amministrazione, concerne un numero ristretto di atti. Soprattutto, a mio avviso, è importante, al riguardo, il rilievo che nell’attività vincolata la componente dell’obbligo prevale su quella dell’esercizio del potere. Tradizionalmente, all’attività vincolata viene contrapposta l’attività discrezionale, che, tuttavia, non può essere intesa come completa libertà di scelta o autonomia: la pubblica amministrazione deve sempre perseguire, infatti, nel rispetto dei principi fissati nell’art. 97 Cost., tanto l’interesse pubblico generale quanto quello specifico del settore nel quale esercita il potere di azione».

[28] F. Ramacci, op. cit., 461.

[29] F. Ramacci, op. cit., 461.

[30] Già sostanzialmente in tal senso C. cost., sent., 28 dicembre 1998, n. 447, (con riferimento alla formulazione dell’art. 323 c.p. secondo la novella del 1997), in Giust. pen., 1999, I, c. 250.

[31] D. Fassin, Punire, Una passione contemporanea, Milano, 2018.

[32] In argomento v. F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Venti tesi, Bologna, 2019; R. Rampioni, Diritto penale. Scienza dei limiti del potere punitivo, Torino, 2020.

[33] T. Padovani, Prefazione a F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Venti tesi, Bologna, 2019.

[34] A. Vallini, Le due legalità: quale convivenza nel diritto penale, Tavola rotonda, in Criminalia, 2013, 247 s.

[35] In argomento v. F. Ramacci, Corso di dir. pen., 7a ed., 2021, 8 s.

[36] D. Micheletti, Jus contra lex. Un campionario dell’incontenibile avversione del giudice penale per la legalità, in Criminalia, 2016, 161 s. Parla al riguardo di <<deontologia interpretativa>> del giudice penale E. Lupo, Sistema delle fonti, diritto giurisprudenziale e legalità penale, in Cass. pen., 2022, 404 s.

[37] N. Pisani, op. cit., 18. In questo senso già con riguardo alla precedente formulazione della disposizione S. Seminara, sub art. 323 c.p., in Commentario breve al codice penale, a cura di G. Forti-S. Seminara- G. Zuccalà, Padova, 2017, 5.