PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA RESPONSABILITÀ PENALE DEL SANITARIO – DI ALESSANDRA PALMA
PALMA – PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA RESPONSABILITÀ PENALE DEL SANITARIO.pdf
PROSPETTIVE DI RIFORMA DELLA RESPONSABILITÀ PENALE DEL SANITARIO
di Alessandra Palma*
La nomina di una Commissione Governativa “per lo studio e l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica” rappresenta l’occasione per la ripresa del dibattito in ordine alla limitazione della responsabilità penale del personale sanitario. Il contributo analizza, ripercorrendo anche le pronunce della giurisprudenza di legittimità, i profili di criticità sorti all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 590 sexies c.p. ed avanza alcune proposte di riforma.
1. Il percorso normativo di limitazione della responsabilità penale del medico. 2. I limiti dell’art. 590 sexies c.p. e l’intervento della giurisprudenza di legittimità. 3.Limiti dell’art. 590 sexies e prospettive di riforma. 3.1 L’ancoraggio dell’esclusione della punibilità al rispetto delle linee guida. 3.2 L’esclusione della responsabilità limitata ai soli casi di imperizia. 3.3 L’assenza di una chiara definizione di colpa grave. 4. Alcune brevi considerazioni conclusive.
- Il percorso normativo di limitazione della responsabilità penale del medico.
Negli ultimi mesi ha ripreso vigore il dibattito sulla necessità di prevedere forme di limitazione della responsabilità penale del personale sanitario. L’occasione è fornita dall’istituzione, in seno al Ministero della Giustizia, della “Commissione per lo studio l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica” la quale ha il precipuo compito di esplorare l’attuale quadro normativo e giurisprudenziale in cui si inscrive la responsabilità colposa sanitaria individuandone limiti e criticità e di proporre un dibattito in ordine a possibili prospettivi di riforma ([1]).
In effetti, il dilagare del fenomeno della medicina difensiva, quale spontanea reazione da parte del personale sanitario al vorticoso incremento dei processi a suo carico, per reali o presunti errori, ha, da tempo, reso sempre più evidente – anche al legislatore – la necessità di limitare la responsabilità penale.
Come noto, un primo passo in questa direzione era già stato intrapreso con il d.l. 13 settembre 2012, n. 158, c.d. “decreto Balduzzi” (convertito con modificazioni nella l. 8 novembre 2012, n. 189) il cui articolo 3 restringeva la responsabilità colposa degli esercenti la professione sanitaria alle sole ipotesi di colpa grave ove vi fosse stata applicazione di linee guida o buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. La disposizione (che, per vero, all’atto pratico aveva suscitato diversi dubbi interpretativi) rappresentava, comunque, un primo significativo recepimento di alcune proposte avanzate dagli studiosi, per cercare di ripristinare un equo rapporto tra medico e paziente ([2]).
La scelta del legislatore del 2012 era stata, quindi, quella di introdurre una disposizione che circoscriveva la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria ai soli casi di colpa grave, escludendo, conseguentemente, la rilevanza penale della colpa lieve. Cionondimeno, tale limitazione non veniva estesa a tutti i casi di responsabilità colposa in ambito sanitario, ma solo a quelli in cui vi fosse stata applicazione, come detto, di linee guida o buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, che assurgevano, così, al rango di regole cautelari ([3]). Restavano, quindi, escluse dall’ambito di applicazione della norma tutte le ipotesi, per vero prevalenti, in cui non vi fosse stata applicazione di linee guida o buone pratiche.
Il pur pregevole intento perseguito dal legislatore con l’introduzione dell’articolo 3 del decreto Balduzzi è stato, però, almeno in parte, vanificato da una serie di problematiche applicative, non di poco conto, sorte all’indomani della sua entrata in vigore. Tra queste, innanzitutto, quelle concernenti la natura e la fonte di produzione delle linee guida e delle buone pratiche ([4]), la nozione di colpa grave ([5]) e la riconducibilità ad essa delle sole ipotesi di colpa per imperizia o anche, invece, di quelle per negligenza ed imprudenza ([6]).
La necessità di superare alcune delle problematiche applicative sorte nella vigenza del decreto Balduzzi e, soprattutto, la volontà di un più generale riordino della responsabilità medica ha indotto il legislatore ad intervenire nuovamente, dopo poco più di quattro anni, con legge 28 marzo 2017, n. 24 (nota come legge Gelli-Bianco). Quest’ultima disegna, anzitutto, un ampio sistema di risk management e di sicurezza delle cure e introduce importanti novità in tema di responsabilità civile e penale. Con riguardo specifico all’ambito penale, come noto, la legge n. 24 del 2017 ha introdotto nel codice penale un nuovo art. 590 sexies “(Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario)” suddiviso in due commi. Se il primo comma di questa nuova disposizione codicistica non evidenzia particolari profili di originalità (salvo quello dell’introduzione di una norma incriminatrice ad hoc per lesioni ed omicidio colposi da medical malpractice) rispetto alla disciplina previgente – rimanendo il medico assoggettato alle pene previste, in generale, dagli artt. 589 e 590 c.p. – il secondo comma, al contrario, rappresenta indubbiamente un novum in quanto introduce, per la prima volta, nel codice una esclusione di punibilità per il personale sanitario, pur riprendendo, in parte, l’impostazione del decreto Balduzzi.
- I limiti dell’art. 590 sexies p. e l’intervento della giurisprudenza di legittimità.
Anche nel nuovo art. 590 sexies c.p. la scelta del legislatore rimane quella di ancorare l’esclusione della responsabilità colposa al sistema delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali di cui, però, viene creato un apposito sistema di accreditamento espressamente disciplinato dall’art. 5 Legge Gelli-Bianco. La disposizione, inoltre, a differenza di quella previgente che, come visto,, rimaneva silente sul punto, limita espressamente l’esclusione della responsabilità ai soli casi di imperizia.
Sennonché, la norma di nuovo conio, pur pregevole negli intenti, ha dato luogo sin da subito a controversie interpretative relative, soprattutto, alla riscontrata difficoltà di ritagliarle – anche a causa di una infelice formulazione – un effettivo spazio applicativo. Invero, già all’indomani dell’adozione dell’art. 3 del decreto Balduzzi in dottrina si era sottolineata la possibile contraddizione di ritenere sussistente una condotta colposa da parte del sanitario che si fosse attenuto alle linee guida (e, quindi, in sostanza, avesse rispettato le regole cautelari) ([7]). La contraddizione è, invero, divenuta ancor più evidente, anche a causa di una improvvida formulazione letterale, nell’art. 590 sexies c.p. il quale da subito ha suscitato dubbi circa la sua stessa concreta applicabilità ([8]). Alcuni tra i primi commentatori hanno, infatti, sottolineato come non sia possibile affermare il “rispetto” delle linee guida da parte di un soggetto che versi in colpa per imperizia. Delle due l’una: o le linee guida sono state rispettate e non potrebbe residuare, quindi, alcun margine per la configurabilità della colpa (in nessuna forma), oppure non sono state rispettate, ed allora il medico dovrà rispondere del fatto colposo ([9]).
Era inevitabile, quindi, che tale contrasto arrivasse anche all’attenzione giurisprudenziale dove si è assistito al rapido susseguirsi, in seno alla stessa IV Sezione della Corte di cassazione, di due decisioni tra loro radicalmente difformi. La prima, probabilmente nel tentativo di salvare la disposizione dal rischio di illegittimità costituzionale, aveva proposto una interpretazione talmente restrittiva della norma da annullarne sostanzialmente i margini di applicabilità. Il Supremo Collegio, infatti, giunge a ravvisare la portata innovativa dell’art. 590 sexies c.p. non tanto nella previsione della non punibilità del sanitario (nonostante l’uso di tale dizione da parte del legislatore), quanto, piuttosto, nella tutela della “pretesa [del sanitario] a vedere giudicato il proprio comportamento alla stregua delle medesime direttive impostegli”. La disposizione, al contempo, contribuirebbe a chiarire il significato della nuova fattispecie incriminatrice, fornendo “un inedito inquadramento precettivo, focalizzato sulle modalità di svolgimento dell’attività sanitaria e di accertamento della colpa”, che offre al giudice “precise indicazioni in ordine all’esercizio del giudizio di responsabilità”.
La nuova disposizione, quindi, così interpretata, si risolverebbe in una regola di giudizio probatoria in forza della quale al medico che abbia rispettato linee guida verrebbe garantito di veder giudicata la propria condotta sulla base di quelle medesime linee guida. Nessun rilievo verrebbe, inoltre, attribuito all’espressione “a causa di imperizia”, se non in termini, ancora una volta meramente processuali, di astratta contestazione dell’imperizia: la regola del giudizio secondo linee guida troverebbe, quindi, applicazione quando l’addebito che viene mosso coinvolge in via ipotetica la violazione di leges artis e, quindi, il profilo dell’imperizia ([10]).
La seconda decisione, invece, ponendo l’accento sulla voluntas legis e sui vincoli dell’interpretazione letterale, aveva cercato di ritagliare un ambito applicativo alla disposizione evidenziando come potessero residuare profili di colpa con riferimento alla fase esecutiva ([11]). In sostanza, quindi, l’art. 590 sexies c.p. prevederebbe una esclusione di punibilità per il medico che seguendo linee guida adeguate e pertinenti pur tuttavia sia incorso in una ‘imperita’ applicazione di queste nella fase ‘esecutiva’ dell’applicazione. L’esclusione di responsabilità, peraltro, per la Corte avrebbe dovuto operare in caso tanto di colpa lieve quanto di colpa grave non essendovi alcuna limitazione espressa all’interno della norma ([12]).
Il palese e insanabile contrasto interpretativo ha reso necessario, da subito, l’intervento delle Sezioni Unite che nella nota sentenza Mariotti hanno salvato la norma dal rischio di abrogazione di fatto (implicita nella sentenza Tarabori) restringendone, tuttavia, la portata applicativa rispetto a quanto statuito nella decisione Cavazza ([13]).
Le Sezioni Unite, infatti, ad esito del proprio percorso argomentativo, pur ammettendo la configurabilità di un error in executivis – realizzabile, quindi, anche nel rispetto di linee guida – concludono nel senso che l’esclusione della responsabilità debba essere circoscritta alle sole ipotesi di colpa lieve. Nonostante il silenzio del testo normativo, i giudici di legittimità ritengono, infatti, che tale limitazione debba essere introdotta per via interpretativa, in linea con la previgente disposizione del decreto Balduzzi e con la tradizione giuridica.
L’esclusione della punibilità viene, quindi, limitata alle sole ipotesi di colpa lieve da imperizia mentre il dettato dell’art. ex art. 590 sexies c.p. non opera in tutti i casi in cui:
a) l’evento si sia verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) l’evento si sia verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee–guida o dalle buone pratiche clinico assistenziali;
c) l’evento si sia verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nell’individuazione e nella scelta di linee–guida o di buone pratiche clinico–assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
d) l’evento si sia verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee–guida o buone pratiche clinico–assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico.
A prescindere dalla correttezza di una interpretazione giurisprudenziale che inserisca requisiti di applicabilità della norma, ritenuti inespressi dal testo ([14]), l’intervento delle Sezioni Unite ha avuto il merito di ritagliare un ambito applicativo alla norma (fino a quel momento, come visto, rimasto assai dubbio) cercando di non vanificarne interamente gli effetti favorevoli per il personale sanitario.
Cionondimeno la norma rappresenta un innegabile passo indietro rispetto ai più ampi ambiti di non punibilità del decreto Balduzzi e continua a presentare evidenti limiti interpretativi che suggeriscono una rivalutazione complessiva dello statuto della responsabilità penale colposa del personale sanitario.
- Limiti dell’art. 590 sexies e prospettive di riforma.
3.1 L’ancoraggio dell’esclusione della punibilità al rispetto delle linee guida.
Si sono già evidenziate le problematiche relative alla possibilità di configurare una residua responsabilità colposa nonostante il rispetto delle linee guida e come le stesse siano state, invero, superate dalla giurisprudenza, ritenendo che l’errore possa cadere nella fase esecutiva della prestazione. Tale conclusione, invero, appare condivisibile in quanto proprio la natura di mere raccomandazioni delle linee guida, il loro carattere sovente elastico e la necessità di adeguamento delle stesse al caso concreto, determina una necessaria commistione tra la regola scritta e le più generali regole di prudenza, diligenza e perizia. In sostanza, quindi, anche nelle attività governate da linee guida si potrebbero ravvisare, nonostante l’attuazione delle stesse, profili di responsabilità colposa proprio con riguardo a quegli aspetti dell’attività che richiedono un’integrazione ad opera di una regola di cautela generica e che determinano, conseguentemente, un concorso tra regola cautelare positivizzata (che risulterebbe osservata) e regola cautelare generica (non rispettata).
Il superamento di questo profilo problematico non appare, però, dirimente rispetto alla scelta perpetrata dal legislatore di assoggettare la non punibilità del medico al rispetto delle linee guida. I possibili effetti positivi di questa opzione vengono, infatti, superati dagli indubbi limiti, in generale, del sistema delle linee guida e, in particolare, dell’applicazione di tale sistema all’ambito penale.
L’ancoraggio dell’irrilevanza penale della condotta del medico alle linee guida poteva, infatti, rappresentare una, positiva, presa d’atto da parte del legislatore della necessità di restituire determinatezza all’illecito colposo tanto che, da più parti, si è parlato di un processo di progressiva positivizzazione delle regole di cautela e di uno sconfinamento dalla colpa generica alla colpa specifica. L’individuazione di una regola cautelare predeterminata, avrebbe, infatti, l’innegabile vantaggio di consentire al soggetto agente la conoscibilità ex ante e di trasformare effettivamente il giudice in mero fruitore, e non facitore, della regola. Questo comporterebbe l’ulteriore e conseguente vantaggio di eliminare, in punto di accertamento della responsabilità colposa, il ricorso all’agente modello, ovvero agli usi, che, non di rado, portano a una identificazione ex post della regola di cautela.
Non si può, però, ignorare che le linee guida si dimostrano del tutto inadeguate, per loro stessa natura, al perseguimento di tale, pur pregevole, scopo. Le linee guida, come noto, nascono come mere raccomandazioni, come strumenti di indirizzo, privi, pertanto, di vincolatività nei confronti del medico. L’attività sanitaria, peraltro, difficilmente potrebbe essere imbrigliata in schemi standardizzati che si ripetono sempre uguali a sé stessi prescindendo dalle peculiarità del singolo caso concreto. Le linee guida, quindi, quali strumenti generali, difficilmente si prestano a poter fungere da parametro di imputazione penale rispetto al caso singolo nel quale assumono rilevanza le peculiarità diagnostiche e terapeutiche.
Deve, poi, evidenziarsi che il rischio connesso a una standardizzazione dell’attività è quello di un livellamento verso il basso delle competenze tecniche: il medico sentendosi in qualche modo tutelato dal cappello protettivo delle linee guida potrebbe tendere a non discostarsi da esse anche nel caso in cui la situazione lo richieda.
D’altro canto, le linee guida si rivelano inadeguate ai fini penali anche sotto il profilo contenutistico. Sovente queste raccomandazioni, che ricordiamo nascono per scopi completamente differenti rispetto a quello della riduzione del rischio, sono prive di un contenuto autenticamente cautelare. Nella maggior parte dei casi sono costruite in funzione di un effetto tipicamente clinico o terapeutico (riduzione del divario tra conoscenza scientifica e pratica clinica, conseguimento di miglioramenti della pratica clinica o, semplicemente limitazione delle variazioni di trattamento, riscontrate nella prassi) e non già, di prevedibilità ed evitabilità dell’evento infausto per il paziente, come, invece, richiederebbe la regola cautelare. Non mancano, poi, linee guida che, addirittura, si prefiggono scopi diversi da quelli della diffusione di metodi uniformi di comportamento per la diagnosi e la terapia, essendo governate da scopi – talvolta esclusivi – di riduzione della spesa sanitaria e prive, quindi, ancora una volta, di contenuto cautelare.
Per non parlare, poi, delle difficoltà connesse ai sistemi di accreditamento e ai tempi necessari per l’adeguamento delle linee guida tali da determinare giudizi non di rado fondati su raccomandazioni ormai vetuste e non più corrispondenti alle nuove conoscenze tecnico-scientifiche che hanno rapide evoluzioni ([15]).
Ma, soprattutto, il più grande limite del sistema disegnato dall’art. 590 sexies c.p. è quello di lasciare residuare la punibilità per tutte quelle situazioni in cui non sono disponibili linee guida trattandosi di patologia nuova o di scoperte tecnico-scientifiche o di attività peculiari difficilmente inquadrabili in schemi predeterminati di trattamento (es. quella psichiatrica). Quest’ultimo profilo, già concordemente segnalato in dottrina all’indomani dell’approvazione del decreto Balduzzi, si è manifestato in tutta la sua portata nella recente pandemia in cui il rapido diffondersi di un virus, fino a quel momento sconosciuto – e per la cui diagnosi e cura, quindi, non esistevano linee guida accreditate – ha, di fatto, lasciato privi di tutela gli operatori sanitari.
La constata incapacità dell’art. 590 sexies c.p. di munire di appropriata tutela gli operatori sanitari che si trovavano ad operare in una situazione completamente nuova priva di stabilizzate conoscenze scientifiche, e in condizioni emergenziali tali da determinare anche il compimento di scelte tragiche, ha determinato il legislatore ad intervenire con disposizioni ad hoc. Con il d.l. 44/2021 sono state introdotte due disposizioni, art. 3 e art. 3 bis, volte a limitare, rispettivamente, la responsabilità dei vaccinatori e dei sanitari, per errori (riconducibili alla colpa lieve) commessi durante l’emergenza pandemica da Covid-19 ([16]).
Da ultimo, si segnala l’incongruenza di una differenziazione delle responsabilità tra chi ha osservato e chi non ha osservato le linee guida. Se, infatti, secondo l’attuale interpretazione dell’art. 590 sexies c.p., la norma copre i casi di errori commessi nella fase di esecuzione delle linee guida e, quindi, in un ambito (appunto quello esecutivo) che non è più coperto dalle linee guida, ma dalle ordinarie regole di perizia, prudenza e diligenza, non appaiono esservi ragioni per l’introduzione di un differente trattamento. La condotta del medico che abbia scelto correttamente l’intervento da eseguire, seguendo i dettami delle linee guida, e ciononostante abbia cagionato la morte del paziente per aver erroneamente reciso un vaso nel corso dell’intervento stesso non appare, invero, meno riprovevole di quella del medico che, discostandosi dalle linee guida, abbia eseguito un intervento che sia comunque adeguato rispetto alla patologia, recidendo, però, anch’egli, nel corso dell’esecuzione, un vaso. Il primo, però, ove versi in colpa lieve andrebbe esente da responsabilità, il secondo non potrebbe avvantaggiarsi di nessuna clausola di non punibilità, salvo rimettersi al saggio apprezzamento del giudice circa la possibilità di applicare i principi generali dell’art. 2236 c.p.
In prospettiva di riforma si riterrebbe, quindi, opportuno ripensare lo statuto della colpa disancorando l’esclusione della punibilità dal sistema delle linee guida che, come visto, si è rivelato del tutto inidoneo a porsi come parametro di valutazione della tipicità della condotta colposa. Tale opzione normativa non escluderebbe, peraltro, la possibilità di continuare a riconoscere rilevanza anche alle linee guida spostandola, però, nella fase di accertamento del grado della colpa. In tal senso si potrebbe, ad esempio, prevedere che il rispetto delle linee guida possa essere causa di esclusione della colpa grave.
3.2 L’esclusione della responsabilità limitata ai soli casi di imperizia.
Un altro profilo problematico riscontrato nell’applicazione dell’art. 590 sexies c.p. è rappresentato dalla previsione della esclusione della punibilità nei soli casi di imperizia che lascia, quindi, inalterato l’ordinario regime di imputazione colposa nelle ipotesi di negligenza ed imprudenza. Tuttavia, la differenziazione tra negligenza, imprudenza e imperizia, frutto indubbiamente di un retaggio storico ([17]), appare priva di razionalità in quanto la condotta imperita non appare meno riprovevole di quella negligente o imprudente.
Ma, soprattutto, ripetutamente è stata segnalata, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, la difficoltà di distinguere queste tre forme di colpa, in quanto a fronte di definizioni formali, e tutto sommato abbastanza condivise, all’atto pratico non sempre è possibile qualificare correttamente la condotta non conforme alle regole generiche di condotta anche a causa, sovente, della possibile interferenza dei tre fattori. Come osservato in dottrina “non sempre è facile la qualificazione della condotta come negligente o imperita e spesso neppure possibile: si pensi ai casi di esistenza di plurimi trattamenti farmacologici per la medesima patologia, ai casi di alternativa tra trattamenti chirurgici e farmacologici, alla mancata o ritardata richiesta di accertamenti preliminari ritenuti necessari, ecc. Il medico ha compiuto la sua scelta perché non adeguatamente informato sulle conseguenze che ne sarebbero derivate (imperizia) o per semplice trascuratezza, mancanza di attenzione o disinteresse (negligenza)?” ([18]).
Se, invero, sino all’entrata in vigore del decreto Balduzzi questa commistione era sostanzialmente irrilevante (in quanto la qualificazione del comportamento come negligente o imprudente, piuttosto che imperito non aveva nessuna conseguenza pratica) ([19]), dopo la novella del 2012, e ancor più, dopo quella più recente del 2017, l’inquadramento del comportamento sotto l’una o l’altra categoria assume un rilievo preminente.
Scorrendo la giurisprudenza ci si avvede delle difficoltà di differenziazione delle tre categorie tanto che casi, indubbiamente, riconducibili alla tradizionale nozione di imperizia vengono, invece, qualificati come negligenti o imperiti. È l’esempio dell’omessa o ritardata diagnosi, generalmente ricondotta dalla giurisprudenza alla negligenza, ovvero alla condotta del non agire quando si dovrebbe agire e, quindi, ad una disattenzione. In realtà, l’omessa diagnosi non sempre è frutto di trascuratezza da parte del medico, in quanto ben può essere la conseguenza del fatto che il medico non si sia avveduto, per erronea lettura del quadro clinico, dell’esigenza di effettuare o accelerare approfondimenti diagnostici e, quindi, di un comportamento imperito.
Del resto, le insidie connesse alla difficile delimitazione dei tre concetti aveva indotto proprio la giurisprudenza di legittimità formatasi nella vigenza del decreto Balduzzi ad evidenziare la non opportunità di una limitazione dell’ambito di applicazione dell’art. 3 del citato decreto ai soli casi di imperizia, osservando che «la scienza penalistica non offre indicazioni di ordine tassativo, nel distinguere ipotesi di colpa generica … tanto che nella distinzione delle qualifiche di negligenza, imprudenza e imperizia, è stato pure osservato che la distinzione interna, tra negligenza e imprudenza, deve ritenersi secondaria» ([20]).
Non può, quindi, sfuggire, sotto questo profilo, l’indeterminatezza della fattispecie, la cui applicazione è sostanzialmente rimessa all’interpretazione giurisprudenziale del concetto di imperizia: più ampi sono i confini, maggiori sono gli ambiti di impunità, mentre la riduzione delle aree di imperizia a tutto vantaggio (come visto essere accaduto sino ad ora) della negligenza e dell’imprudenza comporta di fatto una abolitio della nuova disposizione.
La soluzione parrebbe, quindi, essere quella della previsione di una generale esclusione della responsabilità indipendentemente dalla individuazione della tipologia della regola violata (di diligenza, prudenza o perizia). L’eliminazione della distinzione permetterebbe, infatti, di disegnare uno statuto della colpa professionale dei sanitari maggiormente razionale e più conforme anche ai principi costituzionali consentendo l’eliminazione di quelle forme di discrezionalità giurisprudenziale tali da risolversi anche in manifeste disparità di trattamento (le medesime situazioni sono, infatti, talvolta ricondotte alla negligenza e imprudenza, altre volte – per vero numericamente inferiori – all’imperizia).
3.3. L’assenza di una chiara definizione di colpa grave.
L’esclusione della responsabilità dei sanitari era stata limitata espressamente dal decreto Balduzzi ai soli casi di colpa grave, mentre l’art. 590 bis c.p. sul punto non prevede alcunchè. Come già osservato, tuttavia, le Sezioni Unite Mariotti, hanno ritenuto necessario circoscrivere l’ambito della norma riconoscendo rilevanza alla sola colpa lieve. Pur nel silenzio del testo normativo, quindi, i giudici di legittimità hanno introdotto tale limitazione per via interpretativa ([21]) ritenendola in linea con la previgente disposizione del decreto Balduzzi e con la tradizione giuridica (e, in particolare, con le ricostruzioni ermeneutiche relative alla rilevanza in ambito penale dell’art. 2236 c.c. e alla differenziazione della colpa grave e della colpa lieve) ([22]). Nel senso che l’art. 590 sexies c.p. continui a sottendere la nozione di colpa lieve, secondo i giudici, deporrebbero inoltre i lavori parlamentari, in quanto il testo originario approvato dalla Camera mostrava di voler differenziare i differenti gradi della colpa ([23]).
Di fatto, quindi, a seguito dell’interpretazione correttiva delle Sezioni Unite anche l’art. 590 sexies c.p. limita la punibilità alle sole ipotesi di colpa lieve ([24]) e questo rappresenta, indubbiamente, un ulteriore limite nell’applicazione della norma, non essendo reperibile nel nostro ordinamento una definizione di colpa grave/lieve. La definizione è, quindi, ancora una volta, rimessa alla discrezionalità giurisprudenziale nelle cui mani è integralmente lasciata la possibilità espansiva o riduttiva della esenzione da responsabilità per la classe medica.
Anche sotto questo profilo, pertanto, appare opportuno un intervento modificativo volto, in particolare, ad individuare una definizione di colpa grave e lieve, sulla scorta di quanto, peraltro, proprio di recente, già fatto dal legislatore con l’art. 3 bis d.l. 44/2021 ([25]). Nella formulazione di una definizione dei gradi della colpa sarebbe, però, opportuno il definitivo abbandono del criterio della speciale difficoltà tecnica fino ad oggi di fatto il principale (se non unico) parametro per la delimitazione della colpa lieve/colpa grave. La definizione dei gradi della colpa – a cui, peraltro, potrebbe essere riconosciuta una funzione meramente orientativa e non esaustiva – potrebbe rappresentare, infatti, anche un importante momento per il recupero della colpevolezza colposa attraverso la valorizzazione di situazioni soggettive (quali particolare stanchezza del medico a causa di ritmi di lavoro stressanti, minor esperienza, urgenza, etc.) e di fattori esogeni ambientali (quali gravi deficit organizzativi e strutturali) ([26]).
- Alcune brevi considerazioni conclusive.
L’esperienza pratica ha evidenziato gli insuperabili limiti del dettato dell’art. 590 sexies c.p. che, di fatto, non è in grado di fornire appropriata risposta ai timori dei sanitari e di conseguenza alla perniciosa pratica della medicina difensiva. Per questo si è tornati insistentemente a parlare di una riscrittura della norma che, effettivamente, appare più che mai opportuna.
Certo, già a norme invariate, la compiuta valorizzazione dei principi che governano la materia penale, in generale, e l’accertamento dell’illecito colposo, in particolare, potrebbe determinare un importante restringimento della punibilità e, ancor prima, dell’iscrizione dei sanitari nel registro degli indagati.
è nota, infatti, la consuetudine degli Uffici di Procura di iscrivere nel registro delle notizie di reato tutti i sanitari che hanno, a qualsiasi titolo ed in qualsiasi momento, partecipato alla cura del paziente. Già l’iscrizione nel registro degli indagati (pur funzionale a garantire l’esercizio dei diritti di difesa quale ad esempio la nomina di propri consulenti di parte per gli accertamenti tecnici irripetibili, tra cui l’esame autoptico) rappresenta motivo di apprensione per il sanitario che deve, comunque, approntare una propria difesa anche se in un momento successivo potrebbe essere esclusa la sua responsabilità per il fatto.
Già in questo ambito, ad esempio, si potrebbero limitare le “tensioni” derivanti dall’avvio dell’indagine penale applicando correttamente i canoni in materia di individuazione dei soggetti responsabili essendo spesso evidente, sin dalle prime battute, che alcuni dei sanitari intervenuti nella cura (e, nondimeno, iscritti) non avevano la gestione dell’area di rischio da cui è scaturito l’evento lesivo. Nell’ambito della delimitazione delle competenze le linee guida, ma soprattutto i protocolli, potrebbero tornare a fornire un valido ausilio laddove individuino le competenze di ciascun soggetto coinvolto nella prestazione sanitaria. In tal senso, ad esempio, i protocolli sulla conta dei ferri e delle garze al termine dell’intervento chirurgico che rimettono tale attività ad un sanitario precipuamente individuato (il c.d. ferrista). Ciononostante in genere, nel caso in cui si verifichi una derelizione di oggetti, l’intera équipe chirurgica viene, non solo iscritta nel registro degli indagati, ma, addirittura ritenuta responsabile ([27]).
La limitazione di responsabilità, inoltre, già oggi sarebbe possibile se venisse riposta maggiore attenzione nell’accertamento dell’esigibilità della condotta del sanitario. L’esame della giurisprudenza mostra, infatti, una sostanziale carenza della fase dell’accertamento della colpevolezza colposa. La tendenza è quella di una eccessiva normativizzazione della colpa, con predominio dell’accertamento della violazione della regola cautelare a discapito della verifica circa la sussistenza, ancora sul piano oggettivo, degli elementi della concretizzazione del rischio e del comportamento alternativo lecito e, su quello soggettivo, dell’esigibilità del rispetto della regola cautelare e, quindi, dell’attribuibilità soggettiva della violazione ([28]).
I possibili benefici derivanti, come visto, dalla corretta applicazione dei principi non escludono, comunque, la necessità di un intervento normativo che delimiti, in termini chiari e precisi, i profili di responsabilità penale dei sanitari. A tal riguardo si ritengono utili due notazioni conclusive.
Anzitutto, si osserva che un eventuale ulteriore restringimento della punibilità dei sanitari ([29]) non pare mostrare profili di irragionevolezza. Già all’atto dell’entrata in vigore del decreto Balduzzi, prima, e della legge Gelli-Bianco, successivamente, la questione della legittimità di un regime di responsabilità differenziato – con riferimento, soprattutto, alla disparità di trattamento rispetto ad altre professioni che presentino particolare complessità tecnica (es. piloti d’aereo, ingegneri strutturisti, etc.) – si è posta all’attenzione degli interpreti i quali in linea generale sono stati tendenzialmente concordi nell’escludere profili di irragionevolezza di una normativa di favore per i sanitari.
In effetti, nel nostro ordinamento assistiamo, seppur in chiave aggravatrice, a sempre più frequenti regimi di responsabilità colposa differenziati (es. illeciti da circolazione stradale o da infortuni sul lavoro) che, quindi, rendono di fatto tale situazione già sedimentata nel nostro ordinamento.
D’altro canto, seppur vero che vi sono altre professioni egualmente complesse (es. progettazione di un ponte, pilotare un aereo, etc.) le stesse non presentano, però, la caratteristica saliente dell’attività medica: la condotta del medico si inserisce nell’ambito di un decorso causale già attivato dalla malattia dove spesso l’intervento, per quanto corretto, non è in grado di arrestare la naturale evoluzione del rischio già instauratosi. La smisurata fiducia nella medicina e l’incapacità di accettare i pur frequenti esiti sfavorevoli, non necessariamente legati ad errori, determina, quindi, più che in altri settori il ricorso allo strumentario penale.
Uno sguardo comparatistico permette, peraltro, di rilevare che quelle del restringimento del penalmente rilevante è il percorso già seguito in altri ordinamenti sia di common law (Gran Bretagna e Stati Uniti) sia di civil law (ad esempio Austria e Spagna)
Certo è che specularmente alla ridefinizione degli ambiti di non punibilità penale occorrerebbe, però, ridisegnare le tutele civilistiche. Non si può, infatti, non constatare come, spesso, il processo penale venga utilizzato dalle vittime o dai loro congiunti come strumento di pressione per il perseguimento del risarcimento del danno. Un percorso di valorizzazione dell’azione civile è già stato, in effetti, compiuto dalla legge Gelli-Bianco, ma sarebbe opportuno un suo ampliamento, pensando, ad esempio (tra i vari interventi) ad eliminare in questo ambito la soglia della colpa grave.
Una tutela di stampo civilistico che conduca, contestualmente a rendere eccezionale l’intervento penale, peraltro, non deve essere ritenuta necessariamente inferiore in quanto la stessa potrebbe rivelarsi in concreto maggiormente efficacie e soddisfacente. I dati statistici dimostrano, infatti, come molti dei processi penali per responsabilità medica si concludano con una pronuncia di prescrizione e anche nei casi in cui si giunga ad una sentenza di condanna la stessa, generalmente, non viene eseguita grazie alla concessione della sospensione condizionale o della pena sostitutiva della pena pecuniaria.
*Avvocato del Foro di Ferrara
[1] Il lavoro costituisce il testo della relazione (ampliata anche con l’aggiunta di note) svolta nel corso dell’audizione innanzi alla Commissione governativa in rappresentanza dell’Unione Camere Penali Italiane.
[2] Per un più approfondito esame del decreto Balduzzi si rinvia a P. Piras. In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it; A. R. Di Landro, Le novità normative in tema di colpa penale (l. 189/2012 c.d. Balduzzi). Le indicazioni del diritto comparato, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 833 ss; C. Brusco, Le modifiche introdotte dal c.d. decreto Balduzzi, in www.penalecontemporaneo.it; P. F. Poli, Legge Balduzzi tra problemi aperti e possibili soluzioni interpretative: alcune considerazioni, in www.penalecontemporaneo.it; C. Cupelli, I limiti della codificazione terapeutica (a proposito della colpa grave del medico e linee guida), in www.penalecontemporaneo.it; A. Vallini, L’art. 3 del “decreto Balduzzi” tra retaggi dottrinali, esigenze concrete, approssimazioni testuali, dubbi di costituzionalità, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 744 ss.; F. Giunta, Protocolli medici e colpa penale secondo il «decreto Balduzzi», in Riv. it. med. leg., 2013, p. 820; O. Di Giovine, In difesa del decreto Balduzzi (ovvero perché non è possibile ragionare di medicina come se fosse diritto e di diritto come fosse matematica, in Arch. pen., 2014, p. 6. Sia, inoltre, consentito rinviare a A. Palma, La progressiva affermazione delle linee guida. Il definitivo tramonto della colpa generica nell’attività medica?, in Ind. pen., 2014, pp 585 e ss. e bibliografia ivi richiamata.
[3] In questo senso cfr. L. Risicato, Le linee guida e i nuovi confini della responsabilità medico-chirurgica: un problema irrisolto, in Dir. pen. proc., 2013, p. 203, che evidenzia come la nuova norma qualifichi l’osservanza delle linee guida quale limite della tipicità colposa dell’attività medico-chirurgica; G. L. Gatta, Colpa medica e art. 3, co. 1, d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi con colpa lieve, in www.penalecontemporaneo.it; M. Caputo, Filo d’Arianna o flauto magico? Linee guida e checklist nel sistema della responsabilità per colpa medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012; F. Giunta, Protocolli medici e colpa penale secondo il «decreto Balduzzi», in Riv. it. med. leg., 2013, p. 820. Prima dell’introduzione della norma autorevole dottrina aveva evidenziato che la misura della diligenza richiesta al medico poteva già rilevare a livello di tipicità con limitazione della rilevanza penale della colpa. In tal senso F. Giunta, La normatività della colpa penale. Lineamenti di una teorica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1999, p. 107. Si evidenzia che, anche nell’ambito della dottrina che riconduce la misura della diligenza alla colpevolezza, si precisa che, nondimeno, essa potrebbe riverberare i propri effetti già sul piano della tipicità nel caso in cui il legislatore introducesse ipotesi specifiche di irrilevanza penale di fatti offensivi, ma dotati di colpa esigua. In tal senso D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, p. 543. Nel senso che quella introdotta dall’art. 3 d.l. 158/2012 sia una causa di non punibilità cfr. D. Pulitanò, Responsabilità medica: letture e valutazioni divergenti del novum legislativo, in www.penalecontemporaneo.it.
[4] Il decreto Balduzzi non aveva disposto alcunché in ordine alle fonti di produzione e al contenuto delle linee guida, limitandosi a disporre che le stesse (così come le buone pratiche) dovessero essere “accreditate dalla comunità scientifica”. Nessuna regolamentazione era, invece, prevista con riguardo al metodo di accreditamento, all’autorevolezza della comunità di produzione (con riguardo tanto alla composizione quanto alla diffusione locale, nazionale o internazionale), al contenuto (linee guida evidenced based, fondate sul consenso di un gruppo di esperti, standard minimo di trattamento o trattamento secondo la miglior scienza ed esperienza, etc.).
[5] L’assenza nel nostro ordinamento di una definizione normativa di colpa grave ha sin da subito messo in evidenza le difficoltà di delimitarne la nozione.
[6] La giurisprudenza si era inizialmente orientata nel senso di ritenere applicabile l’art. 3 del decreto Balduzzi ai soli casi di imperizia (Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11493, Pagano, in CED n. 254756; Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2013, n. 16237, Cantore, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di F. Viganò, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità in una importante sentenza della Cassazione; Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 2015, n. 16944, Rota, in CED n. 263389; Cass. pen., sez. IV, 27 aprile 2015, n. 26996, Caldarazzo, in CED n. 263826), ma aveva, poi, progressivamente mutato il proprio orientamento ritenendo la norma (che nulla disponeva in merito) anche alle ipotesi di negligenza e imprudenza (Cass. pen., sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Denegri, in www.penalecontemporaneo.it; Cass. pen., 20 febbraio 2017, n. 8080, in D&G online, 21 febbraio 2017; Cass. pen., sez. IV, 1 luglio 2015, n. 45527, Cerrachio, in CED n. 264897; Cass. pen., sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Stefanetti, in CED n. 260739).
[7] P. Piras, In culpa sine culpa, in www.penalecontemporaneo.it. In senso contrario in giurisprudenza v. V. Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2013, n. 16237, Cantore, cit.
[8] La disposizione, peraltro, rappresenta un arretramento nella tutela del medico rispetto all’art. 3 del decreto Balduzzi. L’introduzione della locuzione “sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto” ha, infatti, determinato un restringimento dell’area della non punibilità che non potrà più ricomprendere i casi – invece pacificamente ricondotti al campo di applicazione dell’art. 3 del decreto Balduzzi – in cui il sanitario abbia errato nella scelta della linea guida o si sia attenuto ad una linea guida che, tenuto conto delle peculiarità della situazione di fatto, non doveva essere osservata
[9] In tal senso in particolare v. fra tutti P. Piras, Imperitia sine culpa non datur, in www.penalecontemporaneo.it, secondo il quale “se le linee guida sono rispettate e adeguate alle specificità del caso concreto, l’imperizia non è ipotizzabile. Non è possibile perché le linee guida sono un consolidato parametro di giudizio di colpa del medico. La conformità della condotta ad esse e l’adeguatezza al caso concreto non possono che escludere l’imperizia. Non c’è alcuno spazio teorico per un’imperizia di risulta. Nessuna forma di colpa è possibile. Neppure negligenza o imprudenza, qualora le linee guida contengano relative regole. E ciò a prescindere dal neonato articolo: è infatti sempre bastato l’art. 43 alinea III c.p. già in epoca risalente”.
[10] Cfr. Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, Tarabori, in Dir. pen. proc., 2017, p. 1369.
[11] Alla medesima conclusione si era, peraltro, pervenuti con riferimento alle medesime problematiche sollevate con riferimento all’art. 3 del decreto Balduzzi.
[12] Cass. pen., sez. IV, 31 ottobre 2017, n. 50078, Cavazza, in www.penalecontemporaneo.it con nota di C. Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia? La Cassazione torna sull’ambito applicativo della legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite.
[13] Cass. pen., sez. un., 21 dicembre 2017, n. 8770, Mariotti, in www.giurisprudenzapenale.com.
[14] Sul punto, in chiave critica, sia consentito rinviare a A. Palma, Una lettura dell’art. 590 sexies c.p. “sulla responsabilità dell’esercente la professione sanitaria” alla luce dei principi di legalità e ragionevolezza, in Ind. pen., 2018.
[16] Sui limiti mostrati dalla normativa in epoca pandemica e sui tempi di accreditamento delle linee guida cfr L. Risicato, La metamorfosi della colpa medica nell’era della pandemia, in Discrimen, 25 maggio 2020, 3 ss.
[17] La fonte principale della limitazione della non punibilità ai soli casi di imperizia è da rinvenirsi nella nota sentenza della Corte costituzionale n. 166 del 1973 (Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166, in Foro it., 1974, c. 19). Nella decisione la Corte, respingendo una questione di legittimità costituzionale degli artt. 589 e 42 c.p., per possibile violazione del principio di uguaglianza, ammetteva l’applicabilità in ambito penale dell’art. 2236 c.c., limitandone, però, la portata ai soli casi di imperizia. Il differente trattamento dell’imperizia trovava la sua ragion d’essere proprio nella disciplina dell’art. 2236 c.c. che escludeva la rilevanza della colpa lieve nei casi di speciale difficoltà tecnica. Il giudizio benevolo per il medico che avesse commesso un’imperizia era, quindi, direttamente proporzionale (come rilevato dalla Corte) alla difficoltà del caso. Tale limitazione non appare, però, più giustificata nell’ambito di una normativa, quale quella dell’art. 590 sexies c.p. che esclude senza alcun legame con la difficoltà tecnica del caso.
[18] C. Brusco, Informazioni statistiche sulla giurisprudenza penale di legittimità in tema di responsabilità medica, in www.penalecontemporaneo.it, p. 4.
[19] L’individuazione corretta del contenuto della regola cautelare assunta violata non ha, invero, mai costituito un problema neppure con riferimento alla formulazione dell’imputazione da parte del Pubblico Ministero. Con orientamento uniforme (anche se non condivisibile) la giurisprudenza di legittimità ha, infatti, sempre affermato che non vi sia alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza in tutti i casi di modifica della regola cautelare (sia nei casi di modifica della regola cautelare all’interno, comunque, di un’ipotesi di colpa generica, sia addirittura nel caso in cui da un iniziale profilo di colpa generica si giunga alla condanna per violazione di una regola cautelare specifica, o viceversa). In tal senso cfr. Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2013, n. 36394, in One legale; Cass. pen., sez. IV, 19 aprile 2013, n. 31300, Farinotti ed altro, in One legale.
[20] Cass. pen., sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Denegri, cit. In dottrina, sulla non necessarietà della distinzione tra le tre diverse forme di colpa generica cfr. G. Marinucci, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965.
[21] V. Cass. pen., sez. un. 21 dicembre 2017, n. 8770, Mariotti, cit. punto 5 ove la Corte rileva che “il canone interpretativo posto dall’art. 12, comma primo, delle preleggi prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione nonché della intenzione del legislatore … si evince un solo vincolante divieto per l’interprete, che è quello riguardante l’andare “contro” il significato delle espressioni usate … Non gli è invece vietato andare “oltre” la letteralità del testo quando l’opzione ermeneutica prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni, sia l’unica plausibile e perciò compatibile col principio di prevedibilità del comando …”.
[22] Secondo la Corte anche la scelta della legge Gelli-Bianco di circoscrivere la portata della non punibilità alla sola imperizia spinge verso l’opzione di delimitare il campo di operatività alla sola colpa lieve.
[23] L’eliminazione di riferimenti espressi al grado della colpa pare, invero, il frutto di un errato coordinamento del testo, e degli emendamenti apportati, piuttosto che di un’effettiva volontà del legislatore. Il testo, originariamente approvato alla Camera il 28 gennaio 2016, disponeva che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività cagiona a causa di imperizia la morte o la lesione personale della persona assistita risponde dei reati di cui agli artt. 589 e 590 solo in caso di colpa grave. Agli effetti di quanto previsto dal primo comma è esclusa la colpa grave quando, salve le specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”. In sostanza, quindi, il disegno di legge, inizialmente, prevedeva l’esonero da responsabilità per colpa grave nei casi in cui fossero state rispettate le linee guida e, quindi, sostanzialmente escludeva qualsiasi rilevanza della colpa da imperizia nel caso di rispetto delle linee guida. La formulazione era, però, stata oggetto di critica da parte della Commissione Giustizia del Senato, che aveva evidenziato come la nuova norma differisse dal previgente art. 3 del decreto Balduzzi: là, infatti, era esclusa la sola responsabilità per colpa lieve qui, invece, anche quella per colpa grave. Quest’ultima, infatti, doveva ritenersi esclusa ove fossero state rispettate le linee guida. D’altro canto, la stessa Commissione rilevava come quella formulazione fosse in contrasto con principi costituzionali ed anche contraria a quanto affermato dalla giurisprudenza che costantemente aveva ritenuto irrilevante, ai fini dell’esclusione di responsabilità, la colpa grave. La norma, quindi, facendo proprie le proposte di emendamenti giunte anche dalla Commissione Igiene e Sanità, veniva modificata nei termini che sono stati poi oggetto di approvazione da parte del Senato e, in seconda lettura, della Camera. Dalla lettura dei lavori parlamentari emerge che la volontà del legislatore nel passaggio della legge al Senato era, invero, quella di reintrodurre la rilevanza della distinzione tra colpa lieve e colpa grave e di eliminare qualsiasi esclusione di responsabilità per i casi di colpa grave. Sennonché, la formulazione finale non ha rispettato tale volontà, finendo, invece, per determinare un’abolizione generalizzata della rilevanza della colpa da imperizia in caso di rispetto delle linee guida.
[24] Per una critica all’interpretazione delle Sezioni Unite soprattutto in punto di compatibilità con il principio di legalità sia consentito il rinvio a A. Palma, Una lettura dell’art. 590 sexies c.p., cit.
[25] Art. 3 bis, comma 2, d.l. 44/2021 “ai fini della valutazione del grado della colpa, il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità, della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS – COV-2 e sulle terapie appropriate, nonché della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare, oltre che del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza”.
[26] Con riguardo alla responsabilità sanitaria per carenze strutturali ed organizzative si potrebbe ipotizzare anche la previsione di una responsabilità dell’ente ex d.lgs. 231/2001. Per una disamina più approfondita del tema sia permesso il rinvio ad A. Palma, Paradigmi ascrittivi della responsabilità penale nell’attività medica plurisoggettiva: tra principio di affidamento e dovere di controllo, Jovene, 2016.
[27] Nel senso che tale attività competa al ferrista, dovendosi, quindi, escludere la responsabilità dell’équipe si è, ad esempio, espressa Cass. pen., sez. IV 6 aprile 2005, n. 22579, Malinconico, in Cass. pen., 2006, p. 2834. Con riguardo al controllo dei ferri alla conclusione dell’intervento, ha operato un corretto riparto delle competenze, con esclusione della responsabilità dell’anestesista, anche Cass. pen., sez. IV, 30 ottobre 1984, n. 9525, Passarelli, in CED rv. 166435. In senso contrario, però, Cass. pen., sez. IV, 5 agosto 2016, n. 34503, Cannariato, in CED rv. 267548. Ha affermato che il controllo dei ferri competa all’intera équipe chirurgica Cass. pen., sez. IV, 6 ottobre 2004, n. 39062, Picciurro, in CED rv. 229832; Cass. pen., sez. IV, 13 maggio 2008, n. 19506, Malagnino, in F. Giunta, G. Lubinu, D. Micheletti, P. Piccialli, P. Piras, C. Sale, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità (2004-2010), Napoli, 2011, p. 53; Cass. pen., sez. IV, 29 aprile 2014, n. 36229, P. F., in Ragiusan, 2014, p. 367.
[28] In generale sulla tendenza oggettivizzante della prassi giurisprudenziale v. D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009, p. 573. Emblematici in tal senso sono i casi di accertamento della responsabilità del medico specializzando in cui viene affermato il principio fatto proprio anche da Cass. pen., sez. IV, 16 febbraio 2018, n. 7667, Capodiferro, in CED rv. 272264 secondo cui “l’assistente ospedaliero collabora con il primario e con gli aiuti nei loro compiti, deve seguire le direttive organizzative dei superiori, ha la responsabilità degli ammalati a lui affidati e provvede direttamente nei casi di urgenza. Egli, nella qualità di collaboratore del primario e degli aiuti, non è tenuto, nella cura dei malati, ad un pedissequo ed acritico atteggiamento di sudditanza verso gli altri sanitari perchè, qualora ravvisi elementi di sospetto percepiti o percepibili con la necessaria diligenza e perizia, ha il dovere di segnalarli e di esprimere il proprio dissenso e, solo a fronte di tale condotta, potrà rimanere esente da responsabilità se il superiore gerarchico non ritenga di condividere il suo atteggiamento”. Il problema di fondo non appare tanto quello di riconoscere in capo al medico in posizione subalterna un dovere di dissenso – che, effettivamente può discendere dalla riconosciuta autonomia – quanto, piuttosto, quello dell’effettiva esigibilità del rispetto di tale dovere. Quest’ultimo tema non risulta, invero, mai oggetto di indagine da parte della giurisprudenza che, come visto, afferma, apoditticamente, la responsabilità del medico in posizione subalterna in tutti i casi in cui non abbia dissentito rispetto alle scelte erronee del superiore.
[29] Come osservato si suggerisce, infatti, un passaggio dall’attuale formulazione normativa ad una che preveda una generalizzata esclusione della responsabilità colposa dei sanitari per colpa lieve, indipendentemente dall’inquadramento dalla tipologia di regola cautelare violata (di diligenza, prudenza, perizia) e dal rispetto o meno di linee guida.