LA STAGIONE DEI DOVERI NEL RAPPORTO TRA PRESUNZIONE DI INNOCENZA E INFORMAZIONE GIUDIZIARIA – DI ANDREA APOLLONIO
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LA STAGIONE DEI DOVERI NEL RAPPORTO TRA PRESUNZIONE DI INNOCENZA E INFORMAZIONE GIUDIZIARIA
di Andrea Apollonio*
Relazione tenuta all’incontro di studio “Le emergenze del sistema penale” promosso dall’Unione delle Camere Penali Italiane a Capo d’Orlando il 19 maggio 2023 Sessione: “Presunzione di innocenza e informazione giudiziaria”
1. Costituzione e “società digitale”. 2. Il simulacro della presunzione di innocenza. 3. La libertà reputazionale. 4. La strada dei doveri. 5. Un’etica condivisa. 6. Una (possibile) conclusione.
- Costituzione e “società digitale”.
Per affrontare correttamente una rilevante questione giuridico-sociale, quale il problematico rapporto tra presunzione di innocenza e informazione giudiziaria, va anzitutto ripercorsa la nostra Carta per capire se i Padri Costituenti ne avessero immaginato o previsto i lineamenti, e quali soluzioni siano state, nel caso, approntate.
La Costituzione vede al centro l’individuo, attorniato da altri individui: vede al centro l’uomo, immerso nella società in cui opera. È immaginato, quest’uomo, che concretamente e materialmente interagisce in una agorà reale «ove si svolge la sua personalità» (per citare l’art. 2) in cui si esplica «l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (per citare l’art. 3). Il legislatore immaginava l’uomo attorniato da altri uomini, in luoghi geografici ben definiti, che il Costituente chiama «formazioni sociali» (Elia, 346).
Non poteva in alcun modo prevedere che quell’agorà sul finire del Millennio si sarebbe dematerializzata, divenendo una agorà virtuale senza più confini. Qui l’uomo non è più assieme ad altri uomini: egli è solo, al centro di una piazza virtuale, immerso in una società fluida (Bauman). Fluida al punto che le notizie – allo stesso modo in cui l’elettricità è condotta nell’acqua – arrivano istantaneamente, e ovunque.
Notizie vere o false, verosimili o mistificate, create ad hoc e veicolate soprattutto da piattaforme social: le notizie, in ogni caso, si diffondono istantaneamente.
Il Costituente, avendo a mente la società del suo tempo, ha immaginato una ghiera di diritti fondamentali per l’uomo, a tutela anzitutto delle sue libertà nei confronti dei poteri pubblici. Ma il Costituente non poteva immaginare una mutazione così radicale della società, che inevitabilmente stravolge il quadro dei diritti e delle libertà fondamentali.
Nella “società digitale” (Granieri) nuovi diritti e nuove libertà emergono con forza: esattamente quanto accade quando beni immateriali della persona vengono minacciati in modo inedito.
- Il simulacro della presunzione di innocenza.
La cartina di tornasole di un tale assetto costituzionale dissestato è, appunto, il rapporto tra informazione giudiziaria e presunzione di innocenza.
A scorrere il libro di Edmondo Bruti Liberati – non a caso titolato “Delitti in prima pagina” – ci si stupisce di quanto l’informazione giudiziaria fosse, fino a non molto tempo fa, ben più violenta nei toni e ben più mistificatrice di oggi (Bruti Liberati). Gli appellativi “mostro”, “assassino”, “rapinatore delle casse pubbliche”, erano all’ordine del giorno. La stampa era solita pubblicare (e ben prima che ne fosse accertata la colpevolezza) le foto di uomini in manette, di donne dietro le sbarre, e per titillare gli istinti dell’opinione pubblica anche di cadaveri riversi a terra. Tutto era lecito. Anche le opinioni, a volte ingenerose, a volte feroci, dei giornalisti, trovavano ampia risonanza.
Eppure la presunzione di innocenza è stata fin da subito inserita nella Costituzione, è lì da 75 anni. Perché, quando l’informazione giudiziaria aveva un piglio così aggressivo, nessuno riteneva leso il principio di cui all’art. 27? Perché, in altri termini, “solo” nel 2016 il legislatore europeo avverte l’esigenza di emanare una direttiva sulla presunzione di innocenza, direttiva poi recepita dal legislatore domestico cinque anni dopo con un decreto legislativo?
Il punto è che, con l’avvento della tecnologia digitale, con lo spalancarsi del mondo virtuale in uno scenario già globalizzato, la società ha subito la più radicale trasformazione dai tempi della rivoluzione industriale: e in questa cornice l’informazione da un lato dilaga: perché non ha più i limiti di diffusione della carta stampata, essa anzi entra senza richiesta in strumenti d’uso comune e continuativo come tablet e smartphone, di prepotenza, a volte contro lo stesso volere degli utilizzatori; e dall’altro, quale inevitabile conseguenza, traligna, si inselvatichisce, si primitivizza.
Basti pensare ai social media, che hanno reso tutti, al tempo stesso, informatori e utenti, giornalisti e lettori, comunicatori e pubblico. In una simile Babele tutti i filtri di verità, correttezza e continenza della notizia cadono improvvisamente; è caduta l’idea stessa di notizia, che oggi si mescola all’opinione, anche quella più becera e meno consapevole (Bassini, 88).
A ben vedere, passaggio intermedio di questo percorso che ha disciolto le <<formazioni sociali>> a cui pensava il Costituente è forse rappresentato dall’avvento delle televisioni commerciali e dei suoi giornalisti pronti a intercettare, come mai prima era accaduto, gli umori delle persone: e i prodromi di tutto questo possono essere rinvenuti nei processi di Tangentopoli trasmessi in prima serata (Chiara, 26).
La questione del rapporto tra informazione giudiziaria e presunzione di innocenza andrebbe dunque collocata in questo quadro storico-fattuale, in cui si è passati da una informazione selettiva (per le notizie e per il suo pubblico) ad una informazione generalista (per le notizie e per il suo pubblico).
Se la cronaca giudiziaria – che vuol dire poi, nella gran parte dei casi, fornire notizie su procedimenti penali che incidono sulla vita, sul patrimonio e sulle libertà del singolo – esonda dagli stretti canali di quella che un tempo era, in termini più generali ma anche più autentici, l’informazione, che raggiungeva solo coloro che volevano informarsi (nel senso etimologico di “dare forma”, di farsi una idea) ed erano predisposti a formarsi questa idea senza pregiudizi e con un bagaglio culturale e intellettuale adeguato, dilagando indiscriminatamente l’informazione la capacità di discernimento collettivo si disperde: ecco come la presunzione di innocenza, che per essere colta nel suo significato presuppone un bagaglio culturale e intellettuale minimo, adeguato a comprendere cosa sia una procedura giudiziaria, una misura cautelare o una sentenza definitiva, pur essendo da 75 anni un principio di rango costituzionale, diventa un mero simulacro.
Da qui i rimedi legislativi, che però a ben poco servono, perché come evidente si tratta di una questione che involge tanto il progresso tecnologico, tanto la propensione culturale e ideale di un popolo e delle categorie sociali e professionali di cui si compone.
Più che di rimedi legislativi, bisognerebbe parlare di rimedi valoriali: occorre così, per questa via, tornare alla Carta Costituzionale.
- La libertà reputazionale.
I Costituenti non potevano immaginare tutto questo.
Di fronte ad un panorama in cui la società minaccia in forma più subdola e massiva l’individuo, sempre più solo in questa vasta agorà virtuale, bisognerebbe riavvolgere il nastro e tornare alla Costituzione intesa quale deposito di valori. Si risalirebbe così alla super-categoria da cui discendono tutti gli altri diritti umani: che è la dignità.
Ma cosa possiamo intendere, oggi, per dignità? La definizione più calzante pare ancora quella proposta da Niklas Luhman. La dignità umana, secondo il sociologo, deve essere concepita come individualizzazione dell’autorappresentazione. In questo ambito l’uomo ha assoluto dominio, perché è lui che decide quale immagine o rappresentazione di sé rendere pubblica. In positivo e in negativo, per quello che di sé non vuole far conoscere agli altri (Luhman, 70).
Sotto questo profilo, l’uomo può essere leso nella sua dignità tutte le volte in cui un comportamento esterno è tale da ferirlo nel rispetto di sé, nella misura in cui con quel comportamento ci si è intromessi nel suo ambito privato.
Al primario bene della dignità pare evidente corrisponda quindi la libertà di espressione e di creazione della propria immagine pubblica: la libertà reputazionale, se così la si può definire.
La reputazione è oggi un bene primario, il primo e più importante riflesso della dignità umana. Eppure, nell’agorà virtuale, nell’umana solitudine della contemporaneità, è il bene più fragile, e quello che prima d’ogni altra cosa viene aggredito – talvolta irrimediabilmente – a seguito dell’avvio di una procedura giudiziaria. Tanto che, al riguardo, è stato correttamente affermato che tutelare la reputazione, oggi, è importante tanto quanto lo era tutelare la libertà un tempo, visto che gli spazi di ripristino in sede giudiziaria della libertà violata sono molto più efficienti rispetto a quelli della reputazione compromessa, che quando è tale lo è spesso senza possibilità di recupero (Pinelli).
Ma condividere l’idea che oggi il primo (e più minacciato) dei diritti sia la dignità, e che la più preziosa (e minacciata) delle libertà sia quella reputazionale, non basta. E almeno per questo diritto e per questa libertà, individuare una forma di tutela giuridica non è facile.
- La strada dei doveri.
La produzione normativa serve a poco, anche perché l’accumulo disordinato di regole, e quindi la prevalenza delle norme giuridiche su quelle etiche e sociali, impedisce lo sviluppo di una piena consapevolezza dei problemi. Serve a poco anche perché – come si è visto – quello di cui si parla è un problema molto più ampio delle definizioni giuridiche che vi si collegano; e che anche dentro le categorie giuridiche va maneggiato con estrema delicatezza, giacché riferendoci all’ informazione giudiziaria ci si riferisce pur sempre al diritto di cronaca e di libertà di manifestazione del pensiero: due valori costituzionali intangibili, al pari degli altri, al pari della dignità e della libertà reputazionale; valori che necessitano di essere bilanciati.
Forse è l’impostazione del problema ad essere fallace: non è con i diritti che dobbiamo ragionare, ma sui doveri.
In questo come in molti altri casi simili generati dalla modernità, e che attengono più alla cultura e al senso civico civico di un popolo che alla normazione cui tale popolo è soggetto, l’unica soluzione percorribile per superare questa empasse è la strada che già da alcuni anni ci viene indicata da Luciano Violante: che è – in un ribaltamento di prospettiva – quella dei doveri (Violante).
Nel momento in cui ci si rende conto che dal tessuto valoriale della società emerge (a seguito del suo profondo mutamento) un nuovo bene, rispetto al quale la produzione normativa non solo non è sufficiente ma è anche dannosa (perché è ormai ampiamente dimostrato che alla proliferazione di regole non corrisponde affatto una maggior tutela dei diritti e delle libertà), l’unica strada da intraprendere è quella del senso civico e della consapevolezza collettiva, della responsabilità di ciascuno: è la strada dei doveri.
La dignità e la reputazione dell’individuo nel mondo dell’informazione globale possono essere salvaguardati soltanto attraverso la rigenerazione dell’ etica pubblica, in grado di richiamare – nel caso che ci occupa – ciascun attore della giustizia alle proprie responsabilità.
Il magistrato deve essere responsabile, e quindi consapevole che ogni procedura giudiziaria che abbia appuntato un nome e cognome può, in determinate situazioni ambientali o contingenti, avere un riflesso ed una proiezione esterna del tutto ingovernabili. Ed anche se questo nome e cognome non sono tra quelli che compaiono sul registro degli indagati, può comunque verificarsi questa “fuga” all’esterno. Ci si riferisce al fatto che i media, da tempo, hanno coniato la categoria del “coinvolto”, che si affianca, quasi a pari titolo, a quella dell’”indagato”, dell’ “imputato” e del “condannato”.
Di tutto questo il magistrato, e soprattutto il pubblico ministero nell’esercizio delle sue funzioni, deve essere consapevole. Mai timoroso a fronte dei presupposti di legge che legittimano la sua azione, ma mai incosciente e sospinto da uno spirito di avventura quando si affonda la propria legittima azione nella vita degli individui. L’immediato riflesso della prudenza sta poi nel preciso dovere di riservatezza e probità che impedisce al magistrato qualsiasi indebita, impropria o inopportuna rivelazione. Il magistrato è, per sua stessa natura, e per gli affari del suo ufficio, votato al silenzio.
Ancora percorrendo questo profilo, declinato su un piano funzionale-organizzativo, va anche ricordato che non al Sostituto Procuratore, ma spetta esclusivamente al Procuratore della Repubblica, e quindi al capo dell’Ufficio inquirente (identicamente a quanto accade in quello giudicante), confrontarsi con il delicato tema della comunicazione, il quale valuta, di volta in volta, caso per caso, se e come rapportarsi con i media, per ragioni sempre legate all’interesse pubblico. Ed è giusto che qualsiasi ufficio giudiziario, se deve levare una voce, la levi unica dall’organo di vertice.
Ma anche l’avvocato deve essere responsabile – e quindi consapevole – rispetto ai suoi doveri di riservatezza, che non sono meno marcati di quelli del magistrato. E il suo rapporto con il cliente non dovrebbe essere meno prudente, tale da tenere al riparo il procedimento giudiziario da influenze esterne quali quelle mediatiche, che nei casi più eclatanti rischiano di trasformarlo in un vero e proprio “circo” (Larivière).
Il giornalista, non da ultimo, deve essere responsabile, e quindi consapevole che la qualità del giornalismo e della comunicazione, al tempo dei social media in particolare, è direttamente proporzionale al grado di profondità d’analisi dell’opinione e della selezione delle notizie in base alla loro effettiva rilevanza e alla loro reale continenza. Con il giornalismo “spazzatura”, in cui tutto è pubblicabile e più la notizia è pruriginosa (magari per un improprio collegamento tra fatti o persone) e più deve essere evidenziata, si suona la campana a morto della pubblicistica.
E’ l’intreccio di queste responsabilità a creare quella “cultura della comunicazione” (Apollonio, 197) volta anzitutto a preservare quel bene primario che è la fiducia che i cittadini devono riporre nel sistema-giustizia: bene di pari rango rispetto al diritto-dovere dell’indipendenza da parte del magistrato, e al diritto-dovere di cronaca da parte del giornalista.
- Un’etica condivisa.
È dunque vero che il ragionevole bilanciamento dei valori in gioco va ricercato operando anzitutto sul piano della professionalità, mediante la maturazione e l’elaborazione di modelli di comportamento condivisi (Salvato); mediante la leale collaborazione tra i vari attori della giustizia e in particolar modo tra magistratura e avvocatura.
È noto, peraltro, che la qualità della giurisdizione dipende dalla leale partecipazione delle parti; eppure, vi sono realtà giudiziarie in cui, nelle aule d’udienza o anche fuori i palazzi di giustizia, avvocati e magistrati si guardano con diffidenza e sospetto e vengono tacciati, gli uni e gli altri, del surrettizio aggiramento delle norme, di tatticismi, di slealtà processuali. Accade che decisioni di tribunali o provvedimenti della magistratura inquirente siano aspramente criticate da articolazioni associative dell’avvocatura, e che, al contrario, condotte professionali siano corrosivamente stigmatizzate da articolazioni associative della magistratura.
E questo, anche a favore della stampa, perché è il terreno mediatico quello su cui tale conflitto, quando c’è, quando lo si ricerca strumentalmente, si gioca. E quando c’è, magistratura e avvocatura sembrano contendersi una possibile verità giocando il ruolo di attori dei media anziché di attori della giurisdizione.
Ma il campo della comunicazione non può essere percorso dagli operatori del diritto quale strumento di ricerca della verità: perché risponde a regole ben diverse da quelle del processo e particolarmente preziosi sono i valori in gioco nell’amministrazione della giustizia per essere sottoposti, per mano degli stessi operatori, allo schizofrenico trattamento mediatico cui ci si è tristemente abituati.
Questa dinamica, correlata da una impropria esposizione mediatica, certamente offusca l’interesse pubblico che sorregge le rispettive figure e mette in disparte l’oggetto o il motore del processo: il cittadino che tutela i propri diritti o lo Stato che avanza le proprie legittime pretese punitive. Il fisiologico agonismo processuale, che anzi va visto con favore perché rende più attenti e scrupolosi gli operatori nell’azionare le norme che cadenzano la procedura, non può mai trasformarsi in conflitto, a detrimento dell’immagine che il sistema offre di sé a quel cittadino che spesso, timoroso e spaventato, varca le soglie del palazzo di giustizia.
In questo riparto di responsabilità e doveri, un ruolo centrale deve dunque rivestire la leale collaborazione tra magistratura e avvocatura, nelle aule giudiziarie e fuori di esse, volta a definire il perimetro di un’etica condivisa dentro cui l’informazione giudiziaria può esplicare il proprio fisiologico compito: una funzione che – come ha di recente ricordato il Presidente della Repubblica – deve essere garantita, con rinnovato impegno, nelle nuove architetture tecnologiche che stanno ridisegnando i modelli di convivenza rifuggendo ogni tentazione di subordinarla a velleitarie iniziative di controllo (Mattarella).
- Una (possibile) conclusione.
In definitiva, non la direttiva euro-unitaria, non il decreto legislativo, non le previsioni disciplinari, ma solo l’osmosi virtuosa tra queste responsabilità, che sono poi i richiami ai propri doveri, tutti sanciti dalla Carta, di lealtà legati alla pubblica funzione o alla professione, tutti in ogni caso superiormente proiettati all’obiettivo di una corretta amministrazione della giustizia, possono far interagire correttamente – e appunto virtuosamente – il principio di innocenza e il diritto-dovere di cronaca giudiziaria.
Solo l’avvio di una autentica stagione dei doveri, ancorata alla Costituzione, la quale enuncia sì i diritti e le libertà del cittadino, ma al fondo individua il pactum societatis, con il quale ci si accorda sulle condizioni dello stare insieme nel rispetto reciproco, solo così può venirsi a capo del problema, irrisolvibile sul piano normativo, del rapporto tra informazione giudiziaria e presunzione di innocenza, chiaro risvolto dell’esplicazione della dignità umana e della reputazione.
È inutile continuare a parlare di tutela dei diritti, e a maggior ragione di quei diritti ancora fragili perché emersi da poco dall’estrema complessità della stagione attuale, se ciascuno non si fa carico dei propri doveri.
Molto pertinenti e profetiche paiono quindi le parole che Aldo Moro, fine giurista e autorevole statista, pronunciò quasi cinquant’anni fa: «Questo Paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere».
La stagione dei diritti, cui Moro si riferiva, è ancora da consolidare. E questo senso del dovere, per conformazione o deformazione professionale, dovrebbero essere i giuristi, per primi, ad avvertirlo.
*Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Patti
Bibliografia
- Apollonio, La libertà di espressione del magistrato al tempo dei social media, in Migliorare il CSM nella cornice istituzionale, a cura di B. Bernabei e P. Filippi, Milano, 2020, p. 185 ss.
- Bassini, Libertà di espressione e social network, tra nuovi “spazi pubblici” e “poteri privati”. Spunti di comparazione, in Rivista di diritto dei media, 2, 2021, p. 86 ss.
- Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, 2011.
- Bruti Liberati. Delitti in prima pagina. La giustizia nella società dell’informazione, Milano, 2022.
- Chiara, Politica e magistratura negli anni della Seconda Repubblica: profili storici, in Processo e legge penale nella Seconda Repubblica, a cura di A. Apollonio, Roma, 2015, p. 25.
- Elia, Le norme sulle “formazioni sociali” nella Costituzione repubblicana, in Studi in onore di G. Vignocchi, Modena, 1992, p. 345 ss.
- Granieri, La società digitale, Roma-Bari, 2006.
- S. Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, Macerata, 1994.
- Luhmann, Globalization or World society: How to conceive of modern society?, in International Review of Sociology, 7, 1997, p. 67 ss.
- Mattarella, Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione dell’incontro con i componenti dell’Associazione Stampa Parlamentare, i Direttori dei quotidiani e delle agenzie giornalistiche e i giornalisti accreditati presso il Quirinale per la consegna del Ventaglio da parte dell’Associazione Stampa Parlamentare, Roma, 27 luglio 2023, rinvenibile in www.quirinale.it
- Pinelli, Intervento all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2023 dei penalisti italiani, Ferrara, 10 febbraio 2023, rinvenibile in www.csm.it
- Salvato, Profili della presunzione di innocenza e della modalità della comunicazione nel d.lgs. n. 188 del 2021, in Giustizia Insieme, 1° aprile 2022.
- Violante, Il dovere di avere doveri, Torino, 2014.