QUALE FUTURO PER IL RITO ABBREVIATO – DI GIOVANNI GAETANO SANTAGATA
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QUALE FUTURO PER IL RITO ABBREVIATO
WHAT THE FUTURE FOR THE SUMMARY TRIAL
di Giovanni Gaetano Santagata*
La Riforma “Cartabia”, entrata in vigore con la Legge 199/2022 all’esito di un iter a dir poco tortuoso, ha introdotto importanti novità in materia penale, allo scopo precipuo di ridurre i processi del 25% entro il 2026. Tuttavia, sul fronte dei procedimenti speciali in generale e del giudizio abbreviato in particolare, le modifiche hanno interessato aspetti del tutto marginali della disciplina, sprecando in tal modo un’occasione unica per il rilancio di un rito il cui valore all’interno dell’ordinamento processuale resta indiscusso.
“Cartabia” reform, approved with Act 199/2022 at the end of a very devious process, introduced important news in criminal matters, in order to reduce criminal trials by 25% not more than 2026. However, on the front of Special Proceedings and above all of the summary trial, there are very few changes, wasting a big chance to raise an institute whose value is indisputable in the penal system.
SOMMARIO: 1. Breve premessa – 2. Uno sguardo al passato: il modello “Vassalli” – 3. I modelli “Carotti” e “Orlando”. – 4. L’abbreviato oggi: la Riforma “Cartabia”. – 5. Prospettive per il futuro. – 6. Osservazioni conclusive.
- Breve premessa.
È noto che i procedimenti speciali siano stati tra le novità più dirompenti del Codice “Vassalli” del 1988-89. Per i compilatori della riforma essi rappresentavano il core-business del processo di stampo accusatorio.
Difatti, nel corso dei lavori preparatori era maturata la convinzione che il dibattimento non fosse «suscettibile di applicazione generalizzata per evidenti ragioni di economia processuale», onde la necessità di ampliare l’ambito di operatività dei riti alternativi, «secondo uno schema comune a tutti i sistemi processuali che si ispirano al modello accusatorio»[1].
Gli auspici, pur commendevoli, dei riformatori e la scommessa di rendere il giudizio abbreviato il “vero” rito ordinario hanno incontrato grossi ostacoli nella prassi vuoi per motivazioni tecnico-giuridiche vuoi per ragioni ideologico-culturali.
In questa sede ci limitiamo ad osservare che malgrado il rito abbreviato non abbia espresso mai appieno il proprio potenziale, le sue potenzialità restano ancora visibili agli occhi dell’interprete capace di coglierle.
Per farlo, occorre dapprima inquadrare correttamente il rito al momento dell’entrata in vigore del Codice Vassalli per poi ripercorrere il percorso di riforme che lo ha condotto, pur tra mille traversie, fino ai giorni nostri.
- Uno sguardo al passato: il modello “Vassalli”.
Nato come negozio abdicativo di natura processuale (in origine con il consenso necessario del p.m., poi caduto anche grazie ad una serie di pronunce della Consulta)[2], il rito abbreviato permette la definizione del processo in udienza preliminare, purché l’imputato rinunzi alla celebrazione del dibattimento e il giudice accerti la decidibilità «allo stato degli atti».
Idoneo incentivo per l’imputato, a fronte della rinuncia delle garanzie dibattimentali, è la possibilità di ottenere uno sconto di pena (pari ad un terzo) in caso di condanna[3].
Contrariamente al patteggiamento sulla pena – dove l’accordo tra p.m. e imputato attiene al merito dell’imputazione – nel giudizio abbreviato esso «concerne esclusivamente il rito semplificato da seguire»[4]. Da qui, la nota espressione di “patteggiamento sul rito”, ripresa più volte anche dalla giurisprudenza di legittimità.
Che una delle ragioni ispiratrici dell’introduzione dell’abbreviato attenga a finalità di “economia processuale” è fuori discussione. Ma quella deflativo-acceleratoria non è l’unica funzione del rito in esame.
Esiste un’altra importante funzione che va ricercata sul piano delle garanzie. Va premesso che la carenza di offerte di riti alternativi all’interno dell’ordinamento processuale previgente costituiva un problema non solo per il processo, che rischiava di dover sopportare (come di fatto è avvenuto) un numero troppo elevato di dibattimenti, con la conseguente dilatazione dei tempi processuali ma anche per l’imputato, impossibilitato ad intraprendere una strada di definizione alternativa della sua vicenda processuale. A tali carenze si sperava di porre rimedio con l’abbreviato, ragion per cui non è sbagliato sostenere che il rito sia nato (anche) in un’ottica di garanzia nei confronti dell’imputato che non voglia che il processo approdi in sede dibattimentale.
Chiarite le funzioni del rito abbreviato, bisogna ammettere che gli effetti del suo innesto nella prassi giudiziaria non sono stati tra i più felici.
Destinato nel pensiero del legislatore riformista ad attirare tutti i reati puniti con pene basse e di facile accertamento probatorio, il rito ha dimostrato di avere un’appetibilità di gran lunga superiore per i reati puniti con pene più alte (dove l’abbattimento secco di un terzo della pena produce effetti esponenzialmente più favorevoli per il condannato) che non per quelli puniti con pene medio-basse (dove la diminuente non è altrettanto incisiva).
Aggiungasi, poi, che il rito, negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del Codice, è stato vagliato più volte dalla Consulta che ne ha stravolto la conformazione originaria a suon di sentenze “manipolative” e pronunce interpretative di rigetto[5].
Tutto ciò non poteva che riverberarsi negativamente sulle sue capacità di assorbimento e definizione del contenzioso penale.
Come se non bastasse, un’altra problematica, di cui non si poteva prevedere la portata, ha contribuito a rendere più faticoso l’assestamento del rito all’interno dell’ordinamento processuale.
Si allude al rigetto culturale della premialità da parte di ampie fette della magistratura giudicante, poco inclini ad accettare l’idea che la semplice rinuncia al dibattimento da parte dell’imputato potesse, per ciò solo, giustificare una riduzione consistente di pena. Tale diffidenza è sfociata nella tendenza distorta dei giudici ad irrogare delle pene (in caso di condanna emessa all’esito di abbreviato) abbastanza alte da riassorbire la riduzione di un terzo per il rito, di fatto bypassando il dato normativo e annullando ogni beneficio per l’imputato.
In definitiva, motivazioni di carattere strettamente normativo, unitamente ad interventi della giurisprudenza costituzionale ed a ragioni di tipo culturale, hanno condotto il rito abbreviato ad un primo intervento radicale di riforma, che si è concretata in una vera e propria “rivoluzione del rito”.
- I modelli “Carotti” e “Orlando”.
La L. 479/1999 (c.d. Riforma Carotti) ha apportato profonde innovazioni nella disciplina del rito abbreviato.
Come già anticipato, è venuta anzitutto meno la necessità del consenso del p.m., a cui è sottratta ogni facoltà di interlocuzione sul punto. In questo senso l’abbreviato – complici anche i dicta della Consulta – ha assunto sempre più le vesti di un “diritto” dell’imputato di rinunciare alle garanzie dibattimentali in cambio dell’effetto premiale[6].
L’altra importante novità è stata l’eliminazione del controllo sulla ammissibilità della domanda di rito alternativo. Il meccanismo opera in modo quasi automatico[7]: la decisione di procedere nelle forme dell’abbreviato è rimessa esclusivamente all’imputato; il giudice, se gli perviene la richiesta, si limita ad ammettere il rito con ordinanza.
A queste due previsioni se ne è aggiunta anche una terza, la più significativa se guardata dall’angolo visuale della difesa: all’imputato viene offerta la possibilità di condizionare la richiesta di abbreviato allo svolgimento di una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione (c.d. abbreviato condizionato). Si è voluto così «riequilibrare la posizione della difesa rispetto a una ricostruzione della fattispecie basata in prevalenza sugli atti dell’accusa».[8]
Stavolta, però, il giudice deve valutare la compatibilità della richiesta con le ragioni di “economia processuale”[9] e disporne il rigetto ove il supplemento probatorio risulti troppo dispendioso in relazione ai tempi processuali. Al p.m., dal canto suo, è concessa la facoltà di chiedere la “prova contraria”, ove la richiesta di cui sopra sia oggetto di accoglimento.
È di tutta evidenza che dalla Riforma Carotti viene fuori un modello di abbreviato completamente ridisegnato rispetto alla sua versione originaria: da un lato il rito perde la tradizionale logica contrattuale dell’accordo tra le parti che caratterizzava l’impalcatura del modello Vassalli e diviene sempre più un “diritto” soggettivo dell’imputato; dall’altro, sdoppiandosi nelle due forme – dette, in gergo, secco e condizionato – viene data alla difesa la possibilità di introdurre nel processo temi di prova che in precedenza potevano essere coltivati unicamente in dibattimento.
Il modello c.d. Orlando[10], al pari del suo predecessore, contiene importanti novità che in parte sono il frutto di orientamenti giurisprudenziali precedenti.
Anzitutto la novella ha ritoccato l’art. 438 comma 4 c.p.p., mostrando di aver recepito le preoccupazioni che erano scaturite dalla produzione “a sorpresa” delle indagini difensive. Invero, nell’ipotesi in cui la richiesta di giudizio abbreviato venga formulata “immediatamente dopo” la produzione delle indagini difensive, il giudice – su richiesta eventuale del pubblico ministero – concede un termine ulteriore (di 60 giorni) per lo svolgimento di indagini suppletive[11]. Inoltre, ai sensi del comma 5-bis del medesimo articolo, anch’esso oggetto di modifica, viene data all’imputato la possibilità di formulare, in subordine alla richiesta di abbreviato condizionato, la richiesta di abbreviato “secco” o di patteggiamento ex art. 444 c.p.p., in caso di rigetto della richiesta principale.
Giova precisare che se la prima modifica va apprezzata per aver ridotto lo squilibrio che si era venuto a creare tra le parti nel caso di indagini c.d. “a sorpresa”, con l’altra si è ratificato una sorta di jus variandi in capo all’imputato, benché la giurisprudenza abbia nutrito a riguardo non poche perplessità in ragione del principio della non conversione dei riti.
Ma la novità più rilevante della Riforma Orlando in tema di abbreviato è certamente quella relativa al tema delle inutilizzabilità.
Decisivo sul punto è stato l’arresto delle Sezioni Unite penali del 2000 con cui il Supremo Collegio – partendo dal presupposto che anche nel giudizio abbreviato il giudice debba fungere da “garante della legalità del procedimento probatorio” ed esclusa la rilevabilità in sede di abbreviato delle sole inutilizzabilità “fisiologiche” e “relative” – ha attribuito piena rilevanza alla inutilizzabilità c.d. “patologica”, «inerente, cioè, agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito»[12].
Orbene, facendo proprio l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, il legislatore delegato ha modificato l’art. 438 comma 6-bis c.p.p. nel senso che la richiesta di giudizio abbreviato determina la non rilevabilità delle inutilizzabilità, «salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio».[13]
Su questa scia risultano, pertanto, inutilizzabili non soltanto le prove oggettivamente vietate ex art. 191 c.p.p. ma anche quelle «comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione, a prescindere dell’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale»[14].
Volendo tentare una sintesi tra i due modelli passati brevemente in rassegna in questo paragrafo, dobbiamo riconoscere ad entrambi il merito di aver introdotto importanti novità in materia.
Invero, l’aver allargato il ventaglio delle scelte processuali con la previsione della richiesta di integrazione probatoria (nella Carotti) o l’aver messo l’imputato al riparo dalle inutilizzabilità “patologiche” (nella Orlando) rappresentano scelte significative sia sul piano sistematico che sotto il profilo delle garanzie difensive.
Superando i rilievi critici espressi dalla Consulta e i problemi derivanti dall’applicazione nella prassi, il rito ha recuperato man mano credibilità tra gli attori impegnati sulla scena processuale ma non fino al punto tale da gridare al successo di un istituto che, nei numeri, ha sempre fatto fatica a decollare (infra, par.6)
All’interprete più accorto non sarà sfuggito, infatti, che in entrambe le occasioni di riforma il legislatore è intervenuto sul rito facendo leva su incentivi squisitamente processuali.
Detti meccanismi, non avendo risvolti sul piano sostanziale (non sono assimilabili alle circostanze del reato[15]; non influiscono sul decorso della prescrizione[16]; non sono connessi alle caratteristiche del reato né alla personalità del reo[17]) si rivelano insoddisfacenti per l’imputato e sono destinati fatalmente a perdere la propria vis attractiva.
Tutto ciò si traduce, alla lunga, in una minore appetibilità del rito.
Ed un rito alternativo scarsamente appetibile è un rito che va incontro ad un fallimento inesorabile.
- L’abbreviato oggi: la Riforma “Cartabia”.
Da un intervento riformatore di così ampio respiro come quello contenuto nel d.lgs. 150/2022 (che consta di ben 99 articoli)[18] ci si sarebbe aspettati modifiche assai più incisive in tema di giudizio abbreviato.
Così, purtroppo, non è stato.
Invero, sebbene nella relazione finale della Commissione Lattanzi del 24 maggio 2021 si legga che “nel quadro di una riforma ispirata proprio al recupero di effettività dell’amministrazione della giustizia penale, l’ampliamento dello spazio applicativo soprattutto dei riti premiali rappresenta un percorso obbligato”[19], le modifiche introdotte in attuazione della delega non sono andate esattamente in questa direzione.
Tant’è che conviene sin d’ora dire che – contrariamente a quanto accaduto con le Riforme Carotti e Orlando, nell’ambito delle quali si è dato vita a modelli di abbreviato ben definiti, al netto delle criticità pur presenti – un modello c.d. Cartabia a ben vedere non esiste o, se mai è esistito nelle intenzioni degli studiosi, è rimasto intrappolato sui tavoli della commissione.
Tralasciando le modifiche che hanno inciso su aspetti del tutto marginali del rito[20], per la cui analisi sia consentito rinviare alla puntuale Relazione dell’Ufficio del Massimario della Cassazione[21], l’unica novità che si può salutare con favore è quella di cui all’art. 442 comma 2-bis c.p.p., che riconosce all’imputato un ulteriore beneficio premiale (sconto di un sesto della pena) in caso di mancata impugnazione contro la sentenza di condanna[22].
La disposizione è chiaramente volta a disincentivare le impugnazioni avverso la sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato al fine di deflazionare ulteriormente il carico giudiziario delle corti di appello, “ventre molle” della macchina giudiziaria penale.
Esclusa la “diminuente esecutiva” (così come è stata battezzata per via della competenza spettante al giudice dell’esecuzione) la fisionomia del rito è rimasta sostanzialmente invariata[23].
Eppure, una proposta degna di nota – definita da qualcuno “rivoluzionaria”[24]– era transitata sul tavolo del legislatore delegante. Si allude all’ipotesi di sdoppiamento dell’abbreviato secco da quello condizionato, con l’affidamento di quest’ultimo al giudice dibattimentale. Più nello specifico, muovendo dall’assunto, non del tutto infondato, secondo cui le due tipologie di abbreviato si sono diffuse nella prassi, dalla Riforma Carotti in avanti, come “due congegni differenziati” (l’abbreviato “secco” come giudizio allo stato degli atti c.d. a prova contratta; l’altro come giudizio incentrato su un’attività di istruzione probatoria, sia pure limitata), la proposta intendeva portare l’abbreviato condizionato dinanzi al giudice del dibattimento, “quale giudice portato naturalmente all’ammissione e all’assunzione della prova”[25], sia pure con un criterio di ammissione delle prove più stringente rispetto a quello generale di cui all’art. 190 c.p.p.
In disparte i problemi di ordine pratico che sarebbero potuti derivare dalla “ristrutturazione radicale dei due riti abbreviati contemplati dal codice di rito”[26], non va sottaciuta la carica innovativa di una proposta che, in netta discontinuità con il passato, avrebbe potuto dare nuova linfa all’abbreviato.
Il finale è noto a tutti: la proposta è naufragata in sede di compilazione della delega per timori legati a non meglio chiariti rischi di funzionalità dell’istituto.
Non resta, allora, che salutare con rammarico un’altra occasione perduta.
- Prospettive per il futuro.
Giunti a questo punto, possiamo interrogarci sugli scenari futuri.
Invero, se un futuro ci sarà per l’abbreviato, passerà attraverso la previsione di nuovi incentivi. Esaurito lo spazio per quelli di natura processuale, già sperimentati ampiamente (e non sempre con successo) in passato, non resta che agire sulla premialità o, in alternativa, intervenire sui minimi edittali delle pene, aumentandoli in maniera generalizzata.
La strada della premialità non è nuova, essendo stata già percorsa a suo tempo dalla Commissione Canzio[27]. Essa si basa sulla modulazione della diminuente in ragione della gravità del reato: non più, quindi, uno sconto di pena indifferenziato per tutti i reati ma un premio commisurato alla tipologia di reato commesso. Più nello specifico, l’art. 442 c.p.p. – partorito durante i lavori dalla Commissione – prevedeva, in caso di condanna, la diminuzione di metà della pena se si procede per una contravvenzione o per un delitto per il quale è prevista la reclusione non superiore nel massimo a cinque anni; di un terzo se si procede per un delitto per cui è prevista la reclusione non superiore nel massimo a quindici anni; di un quarto se si procede per un delitto per cui è prevista la reclusione superiore nel massimo a quindici anni.
Tradotto: tre soglie di pena edittale cui “corrispondono, rispettivamente, tre livelli di diminuzione di quella applicata in concreto dal giudice per effetto dell’adesione al rito alternativo”[28].
Una proposta di tal fatta si sarebbe tradotta con ogni probabilità in una maggiore appetibilità dell’abbreviato per i reati puniti meno gravemente e, viceversa, in una minore attrattiva per quelli puniti più gravemente.
Nondimeno, né la Riforma Orlando (che com’è noto ha introdotto una diminuente più corposa soltanto per le contravvenzioni, lasciando inalterato lo status quo con riferimento ai delitti) né la più recente Riforma Cartabia hanno accolto tale prospettiva di riforma.
Venendo all’altra (inedita) strada percorribile, qui l’operazione è più complessa perché bisognerebbe virare verso il diritto sostanziale ed ivi operare un aumento dei minimi edittali di tutte le pene. Agire dunque sulla leva sanzionatoria, ma in negativo.
Per capire meglio il concetto sarà sufficiente fare un salto oltreoceano: il sistema penale americano contempla molte ipotesi di reato punite con pene vertiginosamente alte in caso di condanna emessa all’esito del dibattimento e pene quasi irrisorie – per le medesime fattispecie incriminatrici – in caso di c.d. “plea bargaining”[29].
Un paradosso, si direbbe dalle nostre parti. Un vero successo, invece, negli Stati Uniti in termini di funzionamento della macchina giudiziaria, che in questo modo conserva preziose energie e risorse utili da spendere in pochissimi dibattimenti, quelli, per intenderci, seguiti in maniera a dir poco ossessiva dall’opinione pubblica e dalla stampa americana[30] ma che fanno apparire la giustizia oltreoceano realmente controllabile e democratica.
Tornando alle vicissitudini nostrane, non può ignorarsi che un aumento generalizzato dei minimi delle pene costituirebbe un problema a un tempo culturale e giuridico. Giuridico, per il numero esorbitante di fattispecie di reato a cui mettere mano, soprattutto in ambito extra-codicistico. Ma anche culturale, con la stragrande maggioranza della popolazione che storcerebbe il naso all’idea che reati poco offensivi vengano puniti in maniera “esemplare”.
Tuttavia, chi dà per scontato lo sconcerto da parte dell’opinione pubblica probabilmente ignora il fatto che nel nostro ordinamento penale questo fenomeno è già iniziato: difatti, con le modifiche apportate all’art. 624-bis c.p. (furto in abitazione) il legislatore – prima nel 2017 e poi nel 2019[31] – ha operato aumenti senza precedenti, con una forbice edittale che attualmente va da 4 a 7 anni di reclusione nell’ipotesi di cui al primo comma e da 5 a 10 anni nell’ipotesi aggravata di cui al terzo comma.[32]
Su se ciò rappresenti un primo segnale di cambiamento radicale della politica criminale nel nostro Paese è lecito dubitare. È più facile, infatti, credere che si tratti di un episodio dettato dal contingente e destinato a non avere seguito.
Ma se così non fosse e avessimo ragione di credere che un siffatto cambiamento avverrà o, peggio ancora, è già in atto, occorre prestare la massima attenzione alla legiferazione per tipologie di autori perché nasconde dei rischi che, francamente, non possiamo correre[33].
- Osservazioni conclusive.
Senza alcuna pretesa di esaustività, riteniamo utile concludere il presente contributo con qualche dato statistico[34].
È noto che nel corso di questo secolo il numero dei procedimenti speciali sia progressivamente diminuito.
Concentrando l’attenzione sui dati relativi all’anno giudiziario 2021/2022, si registra un ricorso limitato ai procedimenti speciali sia dinanzi al GIP/GUP (dove soltanto l’8% delle definizioni avviene mediante riti alternativi) sia dinanzi al giudice dibattimentale (con una percentuale inferiore al 30%).[35]
Emblematico è il rapporto tra abbreviati e dibattimento, di poco superiore all’8% (dato invariato rispetto all’anno giudiziario 2020/2021 e sintomo di un trend stabile).
Sono numeri, quelli appena citati, che non necessitano di particolari chiarimenti perché rendono in maniera plastica la crisi non solo dell’abbreviato ma di tutti i riti alternativi.
Giova altresì precisare che fino all’entrata in vigore della L. 33/2019 (che, com’è noto, ha precluso l’abbreviato per tutti i reati puniti con la pena dell’ergastolo) l’abbreviato assorbiva la stragrande maggioranza dei reati di competenza delle Corti di Assise, con una percentuale prossima al 70%. Ma gli effetti della predetta legge non hanno tardato a manifestarsi e anche questo dato è crollato miseramente.
Le ragioni della crisi si sono già individuate ma si possono così sintetizzare: da un lato, la lunghezza dei processi induce l’imputato a restare ancorato al processo ordinario nel tentativo di lucrare la prescrizione; dall’altro, le riforme degli ultimi vent’anni non sono riuscite ad ampliare l’ambito di operatività del rito abbreviato con la previsione di incentivi realmente appetibili.
In conclusione, l’abbreviato è certamente vissuto di luci ed ombre ma a coloro i quali hanno sventolato l’idea di una abolizione definitiva del rito rispondiamo che – nell’attesa che soffino nuovi venti di Riforme – restiamo ancora fermamente convinti del suo valore all’interno del nostro ordinamento processuale.
* Avvocato del Foro di Roma
[1] Cfr. Relazione al Progetto Preliminare del Codice di Procedura Penale, in G.U. del 24 ottobre 1988, p. 245.
[2] La capostipite in materia è Corte Cost., 15 febbraio 1991, n. 81, con cui la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, ex art. 3 Cost., gli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano un vaglio giurisdizionale sulla scelta del p.m. di non prestare il consenso all’abbreviato.
[3] Cosa che all’epoca voleva dire rinuncia alla prova, non facendo ancora parte del codice di rito la disciplina relativa alle indagini difensive, introdotta solo successivamente ad opera della L. 397/2000.
[4] Cfr. Relazione al Progetto Preliminare del Codice di Procedura Penale, cit, 247.
[5] Corte cost., 9 marzo 1992, n. 92; Corte cost., 16 febbraio 1993, n. 56; Corte cost., 1° aprile 1993, n. 129.
[6] Diritto a cui corrisponde, specularmente, il dovere del p.m. di svolgere indagini “complete”. Sul principio della completezza delle indagini preliminari si veda, ex plurimis, sentenza Corte Cost., 9 maggio 2001, n. 115.
[7] “La domanda secca (così si dice gergalmente) di abbreviato, non ammette alternative al suo accoglimento; il ruolo solipsistico dell’imputato mena le danze del processo”. In questi termini, A. MACCHIA, La Riforma del giudizio abbreviato e degli altri riti speciali, in Dir. Pen. Cont., 24 novembre 2017. Per un commento più approfondito si rinvia a CAVALLERI, Giudizio abbreviato “condizionato” e sindacabilità dell’ordinanza di rigetto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 959; DI DEDDA, Sindacabile dal giudice del dibattimento il rigetto del giudizio abbreviato condizionato, in Dir. pen. e proc., 2003, p. 832.
[8] D. NEGRI, Il «nuovo» giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 1999, p. 470.
[9] Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115., precisando che ai fini della decisione sull’ammissibilità del giudizio abbreviato condizionato il giudice deve operare sempre un raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale, ha di fatto depotenziato il requisito della “compatibilità con la ragioni di economia processuale”, stante l’evidente risparmio di tempo e di energie insito nell’abbreviato. Sull’altro requisito inserito nel quinto comma dell’art. 438 c.p.p. (l’integrazione probatoria deve risultare “necessaria ai fini della decisione”) si veda invece Cass., Sez. Un. 27 ottobre – 18 novembre 2004, n. 44711, Wajib dove si afferma il principio per cui il supplemento istruttorio deve considerarsi “integrativo e non sostitutivo” del compendio probatorio già in atti.
[10] L. 23 giugno 2017, n. 103, in G.U. del 4 luglio 2017.
[11] La giurisprudenza – inizialmente contraria a che l’imputato possa revocare la richiesta di abbreviato a seguito delle indagini suppletive svolte dal p.m. – si è orientata nel senso di ritenere revocabile la richiesta di abbreviato fino al provvedimento del giudice che dispone il rito, se presentata in udienza preliminare e fino al momento della fissazione dell’udienza per l’ammissione del rito speciale, se presentata a seguito di decreto di giudizio immediato. Per una disamina più approfondita sul punto, si veda Cass., Sez. VI, 7 giugno 2017, n. 33908, Medina e altri, Rv. 27056301.
[12] Cass., Sez. Un., 21 giugno 2000, n. 16, Tammaro.
[13] Di tenore opposto agli approdi giurisprudenziali si rivela, invece, la nuova espressa preclusione, contenuta nel medesimo comma 6-bis, a dedurre «ogni questione sulla competenza per territorio del giudice», sempre nel caso che la richiesta di giudizio abbreviato sia stata formulata in udienza preliminare. La tematica, come è noto, aveva formato oggetto di un contrasto giurisprudenziale all’esito del quale le Sezioni unite hanno aderito all’orientamento minoritario, favorevole alla proponibilità dell’eccezione di incompetenza per territorio in sede di giudizio abbreviato, ove precedentemente respinta dal G.U.P. La riforma Orlando, in maniera assai discutibile secondo molti commentatori, ha invece normativizzato l’orientamento opposto, contrario alla rilevabilità delle predette questioni.
[14] Cass., Sez. Un., 21 giugno 2000, cit.
[15] Conseguentemente sono sottratti al giudizio di comparazione ex art. 69 c.p.
[16] Sul punto si rimanda a Cass., Sez. Un., 31 maggio 1991, n. 7707.
[17] Circostanza che aveva attirato sospetti di incostituzionalità. Tuttavia, la Consulta ne ha rimarcato la piena sintonia con il dettato costituzionale, tenuto conto del proposito del legislatore di prevedere in seno all’ordinamento strumenti di rapida e snella definizione del giudizio (cfr. Corte Cost., 14 giugno 1990, n. 284.
[18] L’art. 99-bis – con cui si è prorogata l’entrata in vigore della Riforma dal 1° novembre al 30 dicembre 2022 – è stato introdotto successivamente ad opera del d.l. n. 162/2022.
[19] Relazione finale della commissione di studio ministeriale, 24 maggio 2021 (Pres. Lattanzi).
[20] Si allude alla modifica dell’art. 438 comma 5 c.p.p., con cui è stato previsto che quando vi sia una richiesta di giudizio abbreviato subordinata all’integrazione probatoria, il giudice dispone il rito alternativo se, “tenuto conto degli atti già acquisiti e utilizzabili», l’integrazione risulti necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato «realizzi comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale”; e del successivo comma 6-ter che dispone, dopo il primo periodo, che “in ogni altro caso in cui la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile o rigettata, l’imputato può riproporre la richiesta prima dell’apertura del dibattimento e il giudice, se ritiene illegittima la dichiarazione di inammissibilità o ingiustificato il rigetto, ammette il giudizio abbreviato”. Modifiche che, a ben vedere, si limitano a recepire precedenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.
[21] Relazione Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, n. 2/2023.
[22] Giova precisare che il riferimento contenuto nella legge delega alla mancata impugnazione “da parte dell’imputato” viene ovviamente inteso come mancata impugnazione tanto dell’imputato, quanto del suo difensore. Tale lettura del criterio di delega è imposta da ragioni di ordine letterale, sistematico e logico, considerato che: l’art. 571 c.p.p., nel disciplinare unitariamente la “impugnazione dell’imputato”, fa riferimento tanto all’impugnazione personale dell’imputato (comma 1), quanto all’impugnazione proposta dal suo difensore (comma 3); il beneficio è riconosciuto in ogni caso di mancata impugnazione dell’imputato, quale che sia lo strumento prescelto (appello o ricorso per cassazione). E ancora: “la ratio deflattiva dell’intervento – che collega alla acquiescenza, e al connesso
risparmio di tempo e risorse processuali, l’ulteriore trattamento premiale in relazione alla pena inflitta – sarebbe totalmente frustrata ove si accedesse a una interpretazione diversa del criterio di delega, che consentisse all’imputato di fruire di uno sconto di pena quando l’appello non fosse proposto personalmente da lui, ma dal difensore nel suo interesse (Relazione illustrativa dello schema di d.lgs. recante attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, p. 133).
[23] Si segnala come la Riforma non tocchi la preclusione all’accesso ai riti abbreviati in relazione ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo, introdotta dalla Legge 33/2019 e la cui compatibilità col dettato costituzionale è stata certificata con una pronuncia della Corte (cfr. sentenza Corte Cost., sentenza n. 260 del 2020)
[24] M. GIALUZ, Per un processo penale più efficiente e giusto. Guida alla lettura della Riforma Cartabia, in Sistema Penale, 2 novembre 2022, p. 52.
25] Relazione finale della Commissione ministeriale (Pres. Lattanzi), cit., p. 27.
[26] A. BASSI, I riti speciali nella riforma Cartabia: un’occasione mancata?, Il Penalista, 6 settembre 2021.
[27] Commissione di studio nominata con D.M. del 10 giugno 2013 “per elaborare proposte di interventi in tema di processo penale”.
[28] Cfr. Relazione finale Commissione di studio ministeriale, 28 novembre 2013 (Pres. Canzio).
[29] Il Codice penale californiano, ad esempio, punisce il furto con scasso con una pena che prevede fino a 7 anni di reclusione da scontare in una prigione statale (cfr. Penal Code, Part I, Title XIII “Of Crimes against Property”, Burglary, §464)
[30] Mai era successo, come nel giorno della lettura del verdetto del celebre caso The People of the State of California v. O.J. Simpson, “che così tante persone restassero in attesa della decisione presa da dodici loro pari il giorno precedente (…) Non c’era americano che non avesse un’opinione su come il caso si sarebbe concluso o su come avrebbe dovuto essere deciso”. In questi termini, A. DERSHOWITZ, Dubbi ragionevoli. Il sistema della giustizia penale e il caso O.J. Simpson, Giuffrè Editore, 2017, p. 3.
[31] L. 29 aprile 2019, n. 36 (Modifiche in materia di legittima difesa), in G.U. del 3 maggio 2019.
[32] Si riporta di seguito il testo integrale dell’art. 624-bis c.p.: 1. Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa, è punito con la reclusione da quattro a sette anni e con la multa da euro 927 a euro 1.500. 2.Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, strappandola di mano o di dosso alla persona. 3.La pena è della reclusione da cinque a dieci anni e della multa da euro 1.000 a euro 2.500 se il reato è aggravato da una o più delle circostanze previste nel primo comma dell’articolo 625 ovvero se ricorre una o più delle circostanze indicate all’articolo 61. 4.Le circostanze attenuanti diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 625 bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 625, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti.
[33] Come si sarà intuito, si allude ai rischi del c.d. diritto penale d’autore. Per una sintesi estrema ma puntuale del fenomeno vds. L. VIOLANTE, L’infausto riemergere del tipo di autore, su Questione Giustizia, 1/2019, di cui si riporta un breve passo: “Società, mezzi di comunicazione e potere politico chiedono sempre più spesso all’autorità giudiziaria non l’accertamento della responsabilità penale di singoli attraverso l’applicazione della legge, ma il conseguimento di una finalità generale attraverso il perseguimento di persone che rientrano nelle figure del tipo di autore. Il pubblico ministero o il giudice, come è proprio delle fasi populistiche, diventano magistrati di scopo: devono punire, duramente, il guidatore sbadato, per ammonire tutti i guidatori, devono sanzionare il politico o il pubblico funzionario accusati di malversazione perché rientrano nel tipo d’autore che il populismo ha configurato, devono sempre e comunque assolvere il cittadino che ha ucciso il ladro”.
[34] Per un report completo si consiglia di consultare i dati forniti dalla Direzione generale di statistica e analisi organizzativa (DG-STAT) del Ministero della Giustizia.
[35] Su un totale di 188.372 giudizi ordinari si sono registrati 74.392 riti speciali, pari al 28,6%. Fonte: DG-STAT, cit.