Enter your keyword

“RADICALIZZARE LA DEMOCRAZIA, PROPOSTE PER UNA RIFONDAZIONE” DI DOMINIQUE ROUSSEAU – RECENSIONE DI GIORGIO VARANO

“RADICALIZZARE LA DEMOCRAZIA, PROPOSTE PER UNA RIFONDAZIONE” DI DOMINIQUE ROUSSEAU – RECENSIONE DI GIORGIO VARANO

VARANO – RECENSIONE DI RADICALIZZARE LA DEMOCRAZIA – PROPOSTE PER UNA RIFONDAZIONE DI DOMINIQUE ROUSSEAU.PDF

di Giorgio Varano

Una approfondita recensione dell’interessante “Radicalizzare la democrazia, proposte per una rifondazione”, del professore e costituzionalista francese Dominique Rousseau, già componente del Consiglio superiore della magistratura francese.

  1. Premessa. 2. Introduzione. 3. La natura tragica del principio della rappresentanza. 4. Il principio giuridico: il popolo costituzionale. 5. I diritti umani, codice e politico della democrazia continua. 6. L’individuo democratico, figura della democrazia continua. 7. Lo Stato della democrazia rappresentativa: separazione dei poteri e suffragio universale. 8. La società della democrazia continua: critica del principio della sovranità e spazio pubblico. 9. Lo spazio-mondo, orizzonte della democrazia continua. 10. Contro il referendum (propositivo) atto di acclamazione. 11. La creazione di un’assemblea sociale deliberativa. 12. L’istituzionalizzazione delle convenzioni di cittadini. 13. La giustizia istituzione della misura democratica. 14. Per una rifondazione radicale della giustizia. 15. Eliminare il Ministero della Giustizia. 16. Le istituzioni del governo democratico. 17. Le istituzioni di un sistema primo-ministeriale. 18. Le istituzioni di un esercizio virtuoso del potere. 19. Riflessioni conclusive.

 

  1. Premessa. 

“Radicalizzare la democrazia, proposte per una rifondazione[1]”, è un testo del Prof. Dominique Rousseau, ordinario di diritto pubblico e costituzionale all’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, edito in Francia nel 2015 e pubblicato tradotto in Italia nel 2016. Il libro rappresenta anche una raccolta delle lucide analisi e delle interessanti proposte avanzate nel corso degli anni dal costituzionalista francese.

Le proposte, molto articolate, sono tutte tese alla creazione di una nuova forma di democrazia, definita “continua”, proprio per non confonderla con qualsiasi idea di democrazia diretta, ritenuta dal professore meramente ideale e costantemente tradita dagli assetti costituzionali (di fatto) e politici della Francia.

Le proposte, pur essendo riferite alla Francia, non mancano di riflessioni “comparate” con altri Stati europei. Alcune, con tutta evidenza, sono state “prese in prestito” anche in Italia, se pur in maniera totalmente distorta.

  1. Introduzione.

Nella sua introduzione Rousseau evidenzia come la parola democrazia risuoni ovunque, ma non sia realmente ascoltata da nessuna parte.

Le diseguaglianze sociali e culturali, le libertà che vengono compresse di fronte all’imperativo della sicurezza, possono essere compromesse di fronte all’individualismo della società, così come il suffragio universale può essere svuotato di ogni significato innanzi al potere sempre più vorace dei mercati. Nonostante queste fragilità, l’idea “democrazia” ha una sua forza straordinaria, e nel suo nome i cittadini insorgono e protestano. Per questo l’autore la definisce “un’idea-forza”.

A questa idea però non sempre si accompagna “la pratica dei diritti fondamentali”. Quello che manca “è l’esperienza della libertà di movimento, della libertà di parola, di scrittura e di stampa, della libertà di associazione e di manifestazione, del diritto allo sciopero, del diritto al rispetto della privacy, ovvero la pratica dei diritti che fa dell’individuo un soggetto politico o, per dirlo altrimenti, che fa dell’individuo un cittadino”.

La democrazia è “un’esperienza vivente del popolo” secondo le parole di John Dewey[2], è “l’esercizio da parte dei cittadini dei propri diritti”. Questa pratica dei diritti viene però limitata, se non compromessa, “da due onde forti, quella della rappresentanza e quella del mercato”.

La democrazia, secondo l’autore, è stata infatti assorbita dal principio della rappresentanza, “non è pensata se non attraverso di esso e ne è diventata prigioniera”; grazie a Jean-Jacques Rousseau[3] si è avuta una giustificazione filosofica dell’identificazione della democrazia con la rappresentanza.

Altro limite, secondo l’autore, sono i mercati. I governi, infatti, “sono meno responsabili di fronte al loro parlamento e al loro popolo che di fronte ai mercati, e i sistemi politici sono diventati delle pluto-democrazie gestite da una “nuova nobiltà di Stato”. Queste due onde che si infrangono contro l’idea democratica devono essere prese sul serio. Esse segnano o ricordano che la rappresentanza e il capitalismo non sono la democrazia, e non producono meccanicamente la democrazia”.

La democrazia, per potersi finalmente realizzare in chiave moderna, deve abbandonare il principio della rappresentanza, come inteso finora, e rompere con il mercato. Questo “non significa che la rappresentanza ed il mercato debbano essere gettati alle ortiche della storia, ma che occorre immaginare un modo di collegarle con l’idea democratica di oggi”.

La democrazia precedente era rappresentativa (o elettorale), quella attuale ondeggia tra democrazia di opinione e democrazia del pubblico (o democrazia partecipativa).  La proposta dell’autore è che questa nuova democrazia – dallo stesso proposta – prenda il nome di “democrazia continua”, continua “perché secondo l’opera di Cloud Lefort[4] la democrazia è un regime incompleto e la sua incompletezza la rappresenta, nella misura in cui fa capire la sua capacità ad accogliere il conflitto lasciando spazio all’indeterminatezza del sociale”.

  1. La natura tragica del principio della rappresentanza.

Rousseau parte dalla considerazione dell’attuale momento di “comunitarismo”, in cui ogni gruppo difende la propria specificità perché “manca un luogo in cui si può pensare l’uguaglianza politica”.

La rappresentanza ha assunto ormai una natura tragica, perché da “forma organizzatrice e totalizzante della società, da strumento di oggettivazione politica, diventa lo strumento della alienazione politica”.

L’autore evidenzia la differenza tra due tipi di rappresentanza: la rappresentanza-scarto e la rappresentanza-fusione. La rappresentanza nella sua idea di democrazia continua è la rappresentanza-scarto, in quella del sistema rappresentativo è la rappresentanza-fusione.  Mentre il compito del rappresentante rimane invariato in tutti i vari tipi di rappresentanza, la differenza fondamentale (perché si realizzi la “democrazia continua”) tra i due tipi è per il rappresentato. Nella rappresentanza-fusione il compito del rappresentato è quello di tacere (e di essere coinvolto ogni 5 anni, quando si vota), mentre nella rappresentanza-scarto è quello di continuare a volere, parlare ed agire.

  1. Il principio giuridico: il popolo costituzionale.

L’autore invita a rileggere Cicerone, che nel De Re Pubblica distingue e oppone la folla (multitudo) -una riunione di individui- e il popolo (populus) che “si costituisce unicamente se la sua coesione è conservata da un accordo giuridico”.  Se il popolo non si costruisce con un accordo sul diritto si chiude in gruppi che si riconoscono in altri legami o accordi, sul sangue, sulla razza o sulla persona del capo che incarna il popolo. L’autore, parafrasando Simone de Beauvoir[5], afferma che “cittadino non si nasce, ma lo si diventa attraverso l’azione costituzionale”.  Conclude questo paragrafo affermando che la costituzione non è un testo morto, fissato nel momento in cui è stato redatto, ma “è un atto vivente, uno spazio aperto alla creazione continua dei diritti”.

  1. I diritti umani, codice e politico della democrazia continua.

La continua creazione dei diritti rappresenta il cuore vivo di una democrazia, anche se questa tesi è spesso criticata. In Italia, per esempio, ha avuto e ha dei riflessi importanti sulla giurisdizione penale, come affermato dal filosofo Biagio De Giovanni[6].

Marcel Gauchet ritiene che la crisi contemporanea della democrazia abbia una delle sue cause nella creazione continua di diritti, che comporta anche una continua paralisi nelle decisioni: “Non sono più i deliri del potere che dobbiamo temere, sono le devastazioni del non potere” [7].

Il passaggio dalla rivendicazione di un diritto, a riconoscimento costituzionale dello stesso è, secondo l’autore, il risultato di un procedimento che si svolge in tre fasi.

La prima avviene quando la rivendicazione di un diritto fa esplodere una contraddizione sociale, “che potrebbe rimettere in discussione l’essenza stessa della società se non venisse presa, trattata e trasformata in diritto attraverso la tecnica giuridica”. Quindi la contraddizione viene trasformata, perdendo la sua forza distruttrice per inserirsi nel sistema di regolazione giuridica della società. La seconda fase avviene quando la rivendicazione appare coerente con i diritti esistenti, tanto che il riconoscimento viene percepito come una naturale evoluzione di diritti già formalmente riconosciuti. L’ultima fase è quella in cui la rivendicazione si struttura nelle forme di espressione tipiche del diritto.

  1. L’individuo democratico, figura della democrazia continua.

Secondo Rousseau il tema non è l’individualismo, anche perché i diritti umani sono conseguenza di un “individualismo relazionale”, cioè di uno spazio pubblico che unisce gli individui gli uni agli altri. La questione non è quella dell’individuo e quella di conseguenza di una società composta di “individui fluidi”, come spiegata da Zygmunt Bauman[8]. Occorre vedere i diritti umani non solo come libertà individuali, ma come delle “libertà relazionali” secondo un’espressione di Claude Lefort[9].

Dunque, secondo Rousseau, i diritti umani non sono uno spazio privato ma uno spazio pubblico nel quale le idee circolano e si confrontano, in un tutto coerente e universalizzabile. La diversità dei diritti umani, inoltre, esprime anche la diversità delle situazioni sociali nelle quali gli uomini vivono nelle fasi della loro vita, intese sia come sfere sia come temporalità: studenti, lavoratori, consumatori, genitori, malati, elettori (una domenica ogni cinque anni).

Il problema nasce dal fatto che il sistema rappresentativo vuole conoscere solo l’individuo-elettore, mentre, secondo Rousseau, la democrazia continua deve avere come punto di riferimento “l’individuo plurale, multidimensionale, che occupa numerose sfere di attività e si muove in numerose temporalità diverse”. La costituzione impedisce agli individui di disperdersi, perché li lega dando loro un centro dal quale tutte le attività possono articolarsi. La costruzione costituzionale di un popolo implica una differenza tra il popolo in quanto corpo politico e il popolo in quanto insieme di individui, differenza o scarto in cui vi deve essere una relazione democratica, tramite la politica, che può avvenire solo attraverso il sistema di deliberazione necessario per l’elaborazione della volontà generale.

Il sistema rappresentativo, per Rousseau, si relaziona soltanto con il popolo in quanto corpo politico ma dimentica il popolo in quanto insieme di individui. La democrazia diretta si riferisce soltanto al popolo in quanto insieme di individui. “La democrazia continua articola l’uno e l’altro grazie alla costituzione che parla dell’uno e all’altro, che dà al corpo politico il diritto di statuire e ai membri di individuare il diritto di reclamare, che crea il nesso tra i due aspetti del popolo della democrazia continua”.

  1. Lo Stato della democrazia rappresentativa: separazione dei poteri e suffragio universale.

Leggendo Montesquieu possiamo individuare due grandi tipologie di sistemi politici: separazione flessibile dei poteri e separazione rigida.

Con la separazione flessibile abbiamo uno stato parlamentare in cui il potere legislativo ed esecutivo sono attribuiti a due istituzioni diverse, ma in cui sono previsti un legame e dei meccanismi che li mettono in una relazione funzionale.  Con la separazione rigida invece si ha uno Stato presidenziale in cui il potere legislativo ed esecutivo sono anch’essi attribuiti a due istituzioni diverse, che non hanno però alcuna relazione: il presidente trae la propria legittimità dal popolo che lo ha letto direttamente e non dal parlamento, mentre l’iniziativa delle leggi appartiene soltanto al parlamento.

L’origine elettorale di un’istituzione pur rimanendo un indice forte della sua qualità democratica, può rappresentare una illusione. L’illusione elettorale è infatti stata denunciata fin dall’ottenimento del suffragio universale, perché rende il cittadino “sovrano per un giorno ogni cinque anni”.

  1. La società della democrazia continua: critica del principio della sovranità e spazio pubblico.

Ubi societas, ubi ius.

Gli Stati hanno perso la propria sovranità, infatti la forma stato oggi è superata. Esiste da tempo un “popolo-mondo” che ha coscienza dei pericoli e degli interessi comuni a tutta l’umanità, anche grazie allo spazio condiviso dei social media. Gli Stati hanno anche perso il proprio territorio, come inteso per secoli, con confini disegnati sul terreno. Lo spazio politico ora è quello del mondo, e secondo l’autore quello della democrazia continua deve esserlo “attraverso la figura del cittadino del mondo”.

Lo Stato ha ormai perso la sua sovranità, che Jean Bodin[10] definiva come “il potere di fabbricare la legge, di battere moneta, di dispensare giustizia e di decidere di guerra e pace”. Gli Stati odierni non hanno più tali caratteristiche. Le leggi e le costituzioni sono redatte tenendo conto dei trattati comunitari o internazionali e delle convenzioni. Gli Stati della zona dell’euro non battono più moneta, non sono più autonomi nella loro politica monetaria e devono sottoporre le loro leggi finanziarie all’approvazione preventiva dell’Unione Europea. La giustizia è divenuta sovra-statale, perché le leggi e le decisioni nazionali possono essere oggetto di ricorso davanti agli organismi comunitari.

La democrazia continua, proposta dall’autore, non ha come spazio di riferimento la società e non può fondarsi sul principio di sovranità, che ha rappresentato e rappresenta lo strumento legittimo del potere dello Stato sul popolo.

Benjamin Constant aveva già avvertito del pericolo che la sovranità rappresenta per la democrazia: se il principio della sovranità del popolo non può essere contestato, “è necessario e urgente comprenderne bene la natura, determinare l’ampiezza perché se si attribuisce alla sovranità una dimensione che non deve avere, la libertà può essere abbandonata malgrado tale principio, o anche a causa di esso”[11].

La società è divisa in spazio civile e spazio politico. Il primo rappresenta quello degli interessi degli individui con le loro determinazioni sociali ed i loro conflitti; il secondo quello della rappresentanza dello Stato.

Queste due società si sono progressivamente separate, lo spazio politico è uscito dallo spazio civile per gestirlo, segnando una distanza percepita come sempre più grande. Secondo l’autore è possibile proporre un altro “spazio”, dove tra lo spazio civile e lo spazio politico se ne inserisce un altro: lo spazio pubblico. Un luogo che riceve dalle associazioni, dai movimenti sociali, dai media le idee prodotte nello spazio civile, nel quale, attraverso il confronto e la deliberazione pubblica, si costruisce un’opinione pubblica su proposte normative che sono poi formalmente portate nello spazio politico.

Nella forma rappresentativa della democrazia l’unico luogo legittimo di produzione delle regole è la sfera politica istituzionale, in cui l’uso della ragione e lo scambio di argomenti razionali dovrebbero permettere la produzione di leggi razionali. Lo spazio pubblico è sempre stato immaginato come un luogo privo di volontà, incapace di produrre regole, lo spazio dei piccoli interessi privati, lo spazio in cui si devono prendere i voti. Se “La democrazia non esiste se non attraverso le lotte di cui è oggetto”[12], secondo Rousseau “la democrazia continua non può esistere se non attraverso uno spazio pubblico, vivo, critico, demoltiplicato, che mobilita senza sosta le sue risorse sociali, associative, intellettuali per imporre allo spazio politico delle decisioni l’accettazione di varie esigenze politiche”.

  1. Lo spazio-mondo, orizzonte della democrazia continua.

Rousseau ritiene che fondare la democrazia sullo spazio pubblico non voglia dire soltanto sottrarla allo Stato, ma anche darle il mondo come orizzonte. Le esigenze degli uomini non hanno frontiere, sono indipendenti ormai dai legami statali, e spesso, come gli Stati, sono vittime dei mercati. Ma “tra lo Stato e il mercato vi è il diritto, quello che rende l’uomo cittadino del mondo e quello che l’uomo cittadino del mondo crea”.

Le istituzioni della generalità democratica.

  1. Contro il referendum (propositivo) atto di acclamazione.

L’autore esprime tutta la propria contrarietà all’ipotesi del popolo come legislatore diretto, perché si avrebbe un sistema politico di fusione dei corpi incompatibile con il principio dello scarto costitutivo della democrazia continua.

La volontà direttamente espressa dal popolo non può essere sottoposta a controlli di responsabilità, perché non può esservi un’istituzione o un corpo davanti al quale rendere conto, anche perché se un tale controllo esistesse, il popolo non sarebbe più sovrano e la democrazia non sarebbe più diretta.

Al contempo, nell’ambito della democrazia diretta l’impossibilità di un controllo e di una responsabilità condurrebbe il sistema politico verso una tirannia dei grandi numeri che, come già affermava Cicerone, “è anche più mostruosa della tirannia di un unico individuo, perché prende le sembianze e il nome di popolo”[13].

  1. La creazione di un’assemblea sociale deliberativa.

L’autore propone la creazione di un’assemblea sociale che, con potere deliberativo, dovrebbe avere il compito di esprimere l’interesse generale.

Un’assemblea che permetta di partecipare all’elaborazione della legge, con una partecipazione alla stessa dei “corpi intermedi” e della società civile. Le “forze vive” della società non hanno una espressione istituzionale nella politica e spesso non sono rappresentate in parlamento. Affinché le forze vive diventino visibili, così come le istanze che esprimono, occorre un’assemblea che le rappresenti sulla scena pubblica.

Gli uomini politici, secondo Rousseau, affrontano le questioni valutando i vantaggi elettorali di un disegno di legge, le forze vive avrebbero invece in considerazione la realtà concreta della legge.

Tre principi dovrebbero ispirare la sua creazione.  Un potere (deliberativo) simile a quello delle altre assemblee deliberative. L’adozione di una procedura di deliberazione trasversale attraverso la costituzione di commissioni a tema a cui dovrebbero partecipare i rappresentanti di tutti i gruppi sociali. Infine, la scelta di un sistema per eleggere i membri di questa assemblea che tenga conto delle forze produttive nella vita economica e sociale dei grandi settori di attività e delle forme in cui queste forze sono organizzate.

  1. L’istituzionalizzazione delle convenzioni di cittadini.

L’autore parte dalla constatazione che la società civile è composta anche da cittadini che non sono legati a gruppi associati, siano essi partiti, sindacati o associazioni. Perché questi cittadini possano vivere e far viver la democrazia (continua), dovrebbe essere consentito loro di riunirsi in “convenzioni” create attraverso un meccanismo di estrazione a sorte. Una volta costituite (in piccoli gruppi di una quindicina di cittadini), tali convenzioni dovrebbero deliberare e produrre proposte normative di interesse generale.

Estratti a storte, questi cittadini potrebbero ricevere “una formazione contraddittoria, neutra e imparziale su un argomento prescelto”, in seguito audire i soggetti coinvolti nella questione, per infine deliberare le proposte, trasmesse poi alle assemblee parlamentari affinché ne discutano e prendano decisioni.

L’autore, nel riportare degli studi sull’argomento, prende ad esempio il film La parola ai giurati[14], in cui si assiste alla “progressiva trasformazione, attraverso la discussione, di gente ordinaria in cittadini coscienti di dover uscire dalle proprie preoccupazioni personali per cercare di prendere la decisione giusta”.

Le istituzioni della riflessività democratica.

  1. La giustizia istituzione della misura democratica.

Sulla giustizia l’autore propone prima un’analisi della situazione francese (in verità abbastanza simile a quella italiana).

Lo spazio sempre maggiore del giudice nella vita politica è un fatto ormai assodato, presentato come “il passaggio da un governo del popolo da parte degli uomini politici eletti, ad un governo della società da parte dei giudici e quindi come la manifestazione di un declino o di un arretramento della democrazia”.

L’autore cita a proposito Alain Minc, e la sua denuncia dell’esistenza di una “nuova trinità” composta da media, giudici e opinione pubblica, che mette in pericolo la democrazia[15]. Prosegue poi con un breve excursus storico sul ruolo dei giudici prima e dopo la Rivoluzione francese[16], e affronta il problema del “ritorno dei giudici”, ritenendo lo stesso non tanto la manifestazione di una volontà di potere o di rivincita degli stessi, quanto la conseguenza di una deficienza istituzionale, se non addirittura di un’abilitazione (diretta o indiretta) da parte della politica. Tutto ciò avviene perché le istituzioni tradizionali di controllo (il Parlamento, ad esempio) smettono di esercitare la loro missione istituzionale e politica, e conducono i cittadini a trasformarsi in parti di un processo in modo da poter vedere stabilita la responsabilità di qualcuno, di un ministro nella conduzione di una politica pubblica o dell’amministrazione di una azienda nell’utilizzo dell’oggetto sociale. Questo accade anche (e soprattutto) quando il parlamento legifera a minima o in termini imprecisi (per scarsa tecnica legislativa, ad esempio) e lascia quindi al giudice un ampio margine di manovra nel decidere nella sua attività in questo caso necessaria, e a volte molto ampia, di interpretazione della legge.

“Il ruolo dei giudici non è quindi una catastrofe democratica; segna al contrario un momento importante del processo continuo di civilizzazione delle società, per riprendere l’espressione di Norbert Elias”[17]. L’esercizio del potere di fare la legge non è più monopolizzato dalla coppia esecutivo-legislativo, ma si apre anche ai giudici costituzionali. “Questi ultimi hanno un peso sull’agenda legislativa; quando una Corte costituzionale censura una disposizione legislativa, ma decide che tale censura non avrà effetto se non tra un anno ed incarica il parlamento di rivederla entro tale termine, essa impone al parlamento di scrivere all’ordine del giorno un nuovo disegno di legge. I giudici costituzionali inoltre affermano il loro peso tramite le riserve di interpretazione: quando una corte non censura una legge, spesso ne spiega le condizioni di un’applicazione conforme alla costituzione”.

L’autore esamina anche l’importanza del ruolo dei giudici costituzionali (in verità anche dei giudici ordinari) nel dare “un tempo più lungo alla misura delle regole prodotte”. La società è veloce ed il legislatore reagisce sull’onda dell’emozione e produce le leggi in modo quasi istantaneo, live.

I giudici costituzionali, invece, “reintroducono il tempo lungo, quello della storia della società, quello del racconto, quello della struttura fondatrice che ricorda i principi annunciati dalle dichiarazioni dei diritti, la presunzione di innocenza, il principio di non retroattività delle leggi penali, i diritti della difesa, la libertà di espressione, il diritto alla salute. Obbligano ad una riflessione sul senso, sul valore e sulla portata che l’adozione di questa o quella regola o di questa o quell’interpretazione può rappresentare per il bene comune; creano una distanza rispetto all’immediatezza, alla rapidità, alle emozioni; equilibrano il tempo della velocità, il tempo dell’emozione attraverso il tempo della riflessione sui principi che hanno costituito (nel senso forte del termine “costituire”) la società nella sua vita comune”. Con la sua interpretazione permanente dei principi fondatori il giudice costituzionale mantiene in vita tali principi. La Costituzione come testo vivente, e non come feticcio, in quanto “progetto inconcluso” “perdura sempre”.

  1. Per una rifondazione radicale della giustizia.

“Se il parlamento non sa fare norme, ma soltanto le parole che compongono le leggi, e se queste parole diventano norme solo con l’azione della giustizia, la questione dell’organizzazione della giustizia diventa fondamentale e centrale per la qualità democratica del sistema”.

Partendo da questa considerazione, l’autore esamina le varie soluzioni per una nuova organizzazione della giustizia: l’elezione dei giudici e l’eliminazione della scuola nazionale della magistratura.

L’elezione dei giudici. “Così come il popolo sceglie i suoi rappresentanti, deve poter scegliere i suoi giudici, si dice, e a sostegno di questa proposta sono ricordati l’esempio americano ma anche quello francese quando i rivoluzionari del 1789 decisero di procedere all’elezione popolare di giudici con il principio di rinnovamento del sistema giudiziario”. Ma, secondo l’autore, “nella storia costituzionale (francese), l’elezione dei giudici è stata sempre pensata come lo strumento per eliminare una parte di magistratura fastidiosa, mai come una forma per costruire un sistema giudiziario di lunga durata”. E la logica dell’elezione non darebbe garanzie a priori che si possa stabilire una giustizia neutra e imparziale.

Eliminare la scuola nazionale della magistratura. La scuola sarebbe responsabile di tagliare i futuri magistrati dalle realtà economiche e sociali del paese, creando un corpo chiuso e ripiegato su sé stesso. Al contrario, l’esperienza acquisita in altre attività professionale – economica, amministrativa, commerciale, legale – dovrebbe essere sufficiente per diventare magistrato. Ma, secondo l’autore, la mancanza di professionalizzazione sarebbe pericolosa anche per la qualità della giustizia. Occorre quindi immaginare un’altra strada, “rifondare la giustizia nello spirito della democrazia continua implica di uscire dalla giustizia dello Stato”.

  1. Eliminare il Ministero della Giustizia.

“Fare uscire, come prima cosa, la giustizia dallo Stato significa concretamente farla uscire dal governo. L’esecutivo e legislativo sono poteri dello Stato, la giustizia è un potere della società”. Partendo da questa analisi-proposta iniziale, l’autore vede nella Giustizia il “ginocchio della democrazia”.

Perché la Giustizia sia tale, deve mantenersi alla giusta distanza dai conflitti: “da qui l’importanza del tempo dello spazio propri all’azione del giudicare”. Deve ascoltare la società: “da qui deriva l’importanza della forma contraddittoria per dare una forma giuridica alle regole sociali”. Deve essere a riparo dalle passioni: “da qui l’importanza dell’imparzialità e della etica professionale”.

Queste condizioni richiedono, secondo l’autore, che la Giustizia non faccia parte del governo.

Questo per evidenti ragioni. A causa della competizione elettorale che presiede alla sua formazione (in verità anche dopo, vista la cd. “campagna elettorale permanente” presente ormai da anni), è logico che un governo – per natura di parte – sia in ascolto dei “suoi” elettori, e che prenda scelte di parte che creano conflitti in questa o quella parte della società, conflitti che proprio la giustizia stessa può essere portata poi a giudicare.

Le caratteristiche di queste due istituzioni, Giustizia e Governo, sono incompatibili e devono essere necessariamente separate. Pertanto, l’autore propone di eliminare il Ministero della Giustizia, trasformandolo nel Ministero della Legge, “incaricato di controllare la qualità redazionale e giuridica dei disegni di legge, che saranno poi sottoposti alla discussione parlamentare, e soprattutto la loro conformità alla costituzione, alla legislazione europea e i trattati internazionali”.

Una volta fuori dal governo l’amministrazione della Giustizia dovrà essere affidata ad un’autorità costituzionale indipendente, il Consiglio Superiore della Giustizia, e non della magistratura. Questo cambio di nome implica e evidenzia, secondo l’autore, che questa autorità “non deve essere proprietà dei magistrati” perché deve garantire la propria indipendenza non solo rispetto al potere esecutivo e legislativo, ma anche rispetto al potere giudiziario.

Questo nuovo organo dovrebbe avere, secondo l’autore, quattro missioni principali. “La nomina di tutti magistrati. L’elaborazione del budget della giustizia, la discussione con il parlamento a questo proposito, la ripartizione del budget ed il controllo della gestione e dell’utilizzo dello stesso da parte delle giurisdizioni. La definizione delle politiche della formazione dei magistrati. Infine, l’esercizio del potere disciplinare. Ogni anno il consiglio superiore della giustizia dovrà presentare un rapporto di attività al parlamento e alla società sotto forma di forum pubblici e interattivi”.

  1. Le istituzioni del governo democratico.

L’organizzazione costituzionale dello spazio politico “è un muro su cui vanno a rompersi le aspirazioni democratiche, uno scudo che protegge i governanti contro i governati, una fortezza dentro cui i politici gestiscono tra di loro le questioni interne relative al posizionamento politico”.

Partendo da questa considerazione, l’autore, dopo alcune analisi della situazione francese, propone alcune soluzioni.

L’autismo costituzionale della quinta Repubblica.

I rappresentanti eletti detengono il monopolio della direzione degli affari politici. “Ma arriva sempre il giorno in cui la parola e la volontà dei rappresentanti si allontana talmente tanto da quella dei rappresentati che la società non si riconosce più nelle sue istituzioni”.

  1. Le istituzioni di un sistema primo-ministeriale.

“La società non si riconosce più nelle istituzioni, il potere si esercita senza un controllo e la Costituzione, che dovrebbe essere garante della libertà del popolo secondo la formula di Benjamin Constant, è diventata garante della libertà politica di azione per i governanti”.

Secondo l’autore perché l’assemblea parlamentare ridiventi “la sede del dibattito politico, il luogo della costruzione della formalizzazione della volontà generale, deve ridiventare la camera in cui il pluralismo politico dello spazio civile e dello spazio pubblico si confrontano”.  E, a suo avviso, l’unico strumento possibile perché questo accada è l’elezione dei deputati con il sistema proporzionale, affinché ogni corrente di opinione possa essere rappresentata nell’assemblea in maniera proporzionata alla sua presenza e influenza nella società. Al contrario, gli altri sistemi elettorali (e soprattutto il sistema maggioritario) provocano delle alleanze artificiali pre o post-elezioni dalle intese politiche impossibili.

Il sistema proporzionale produce alleanze politiche volute, anche se di non facile convergenza, perché non imposte dalla tecnica elettorale. Quindi si costruiscono sulla politica, sulla discussione e sull’accordo, mentre la figura del “deputato obbediente” è conseguenza inevitabile del sistema maggioritario.

All’assemblea parlamentare spetterà poi il potere di dare l’incarico al Primo Ministro. Questo potere sarà conseguenza di un contratto tra il governo e la maggioranza dei deputati che hanno approvato il programma. Contratto con cui “il governo e la maggioranza parlamentare si impegnano l’uno verso l’altra affinché la loro azione politica sia identica e le loro esperienze rispettive inestricabilmente connesse”.

Questo meccanismo del “contratto di legislatura”, ispirato dalle riflessioni di Pier Mendes France[18], permette, secondo l’autore, di soddisfare quattro esigenze politiche diverse: “la chiarezza poiché l’opinione pubblica è testimone del programma su cui il contratto è concluso; la stabilità, poiché la durata di vita del governo e della assemblea sono legate e garantite dal contratto; la responsabilità, poiché la fine simultanea delle due parti obbliga ciascuno a misurare la conseguenza di una rottura del contratto; il suffragio universale, poiché il popolo è chiamato a decidere in caso di conflitto tra la maggioranza parlamentare e il governo”.

  1. Le istituzioni di un esercizio virtuoso del potere.

“La tendenza naturale delle istituzioni è quella di utilizzare fino in fondo se non oltre il loro potere, per adattare la famosa frase di Tucidide”.

Questo accade anche perché le Costituzioni hanno come obiettivo solo la stabilità, ed escludono dalla loro riflessione il pensiero della pratica. “Il tempo passa e dilata i rapporti tra la società e le istituzioni, al punto che esse diventano uno spazio di volontà politica autonoma. Una costituzione deve prendere in considerazione questa logica politica e contrastare con il diritto questa conseguenza del tempo che passa, non per bloccare, fermare o congelare il tempo ma, vista la sua natura di continuare sempre ad andare avanti, per far produrre su di esso gli effetti continui del diritto”.

L’autore, dopo questa constatazione, conclude con alcune proposte.

Il divieto assoluto del cumulo dei mandati politici, obbligando “un ministro ad essere solo un ministro, un deputato solo un deputato etc., per impedire una progressiva confusione di più istituzioni tra le mani di una stessa persona, o l’abbandono di una delle istituzioni”.  Nel divieto assoluto del cumulo dei mandati politici, l’autore fa rientrare anche il limite al rinnovo infinito dei mandati politici, “che porta gli eletti a non pensare più le istituzioni al servizio della società, ma di crederle al loro servizio”, proponendo il limite dei tre mandati.

Infine, secondo l’autore, “agire sul tempo tramite il diritto implica anche la regolamentazione nella Costituzione dei conflitti di interesse”. Questa regolamentazione può avvenire attraverso l’introduzione di quattro regole.

La regola della generalità. “L’esigenza di imparzialità deve imporsi non solo ai politici nazionali ma anche politici locali e ai membri delle autorità amministrative indipendenti, ai collaboratori ministeriali e più in generale a tutti gli agenti pubblici”.

La regola della esternalizzazione. “La prevenzione dei conflitti di interesse non può essere lasciata alle competenze delle istituzioni all’interno delle quali questi conflitti possono essere collegati l’uno all’altro, ma deve essere garantita da un’autorità esterna dotata di uno statuto costituzionale che ne garantisca l’indipendenza”.

La regola della pubblicazione. “Dal momento che la società ha il diritto di chiedere conto all’amministrazione, e che il sistema di prevenzione e di repressione dei conflitti di interesse ne è la traduzione istituzionale, la società ha diritto di conoscere le conclusioni dei controlli effettuati dall’autorità costituzionale sulle dichiarazioni di interesse e di attività che gli agenti devono avere l’obbligo di consegnarle”.

La regola della sanzione. “Le mancanze in materia di imparzialità devono essere sanzionate da un regime dotato di misure – incompatibilità, ineleggibilità, revoca, dimissioni in ufficio – che non escludano misure penali”.

Agire sul tempo tramite il diritto implica, secondo l’autore, anche il riconoscimento costituzionale del “whistleblower etico”. “Con il tempo le istituzioni si ripiegano su loro stesse, producono le loro regole, sviluppano uno spirito di corpo e si proteggono contro ogni intervento esterno. La logica del tempo conduce all’istituzioni a creare la propria orbita e a rimanerci; la logica dei “whistleblower etici” è di riportarle sulla terra”.

L’autore conclude le sue riflessioni con una chiosa sulla democrazia continua, che “non propone di mettere in atto una società senza Stato. Critica quello chiuso e ripiegato su sé stesso della democrazia rappresentativa e gli oppone uno Stato in cui l’istituzionalizzazione di un controllo continuo dei cittadini sugli agenti pubblici renda possibile un esercizio del potere attento e rispettoso della società”, “in cui i responsabili politici siano ampiamente incoraggiati ad essere virtuosi[19]

  1. Riflessioni conclusive.

Le riflessioni e le proposte di Dominque Rousseau, seppure relative alla Francia, sono con tutta evidenza di grande attinenza e interesse anche per l’Italia.

Alcune sue proposte sono state infatti “riprese” da un movimento politico italiano – che nel 2018 ha avuto un notevole successo elettorale – anche se in modo totalmente distorto rispetto alle finalità indicate da Rousseau.

Non sono state riprese invece altre idee molto interessanti, quale, per esempio, la proposta di trasformare il Ministero della Giustizia in “Ministero della Legge”, sottraendo al potere esecutivo il tema della giustizia, sempre di più tema elettorale immerso in un clima di campagna elettorale permanente, figlio anche della debolezza strutturale della nostra politica.

Le proposte di Rousseau fanno sorgere anche delle perplessità sulla loro possibile realizzazione nel nostro Stato, forse per quella vena di realismo (più che di pessimismo) che abbiamo conoscendo le caratteristiche della società italiana.

L’idea, ad esempio, che con la partecipazione alle convenzioni i cittadini “ordinari” (cioè quelli che non partecipano alla vita sociale, magari perché non sono parte dei cd. corpi intermedi) possano diventare cittadini coscienti “di dover uscire dalle proprie preoccupazioni personali per cercare di prendere la decisione giusta”, è un po’ difficile da immaginare in una società come la nostra, in cui l’idea di “prendere la decisione giusta è spesso sentita come la necessità di una condanna rapida ed esemplare, più che come l’assumersi la responsabilità di una decisione.

È però evidente che la necessità di una maggiore (reale) partecipazione dei cittadini alla vita politica sia una esigenza non più rinviabile.

[1] Radicalizzare la democrazia, proposte per una rifondazione, di Dominique Rousseau, traduzione a cura di Eleonora Bottini, prefazione di Alberto Lucarelli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2016. Edizione originale “Radicaliser la démocratie. Propositions pour une refondation”, Paris, Edition du Seuil, 2015.

[2] John Dewey, in James T. Farrel, Dewy au Mexique, in Les Cahiers Trotski, n. 19, 1950, p. 6.

[3] Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale o principi del diritto politico, Armando Editore, 1963.

[4] Claude Lefort, L’Invention démocratique, Paris, Fayrad, 1981.

[5] Simone de Beauvoir, ne Il secondo sesso, Gallimard editore, Parigi 1949: “Non si nasce donna, lo si diventa”.

[6] Biagio De Giovanni, intervento all’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dell’Unione Camere Penali Italiane, Matera 11 febbraio 2017. “La giurisdizione comune è influenzata da tutto questo stato di cose? Certo che è influenzata. Vorrei mette in campo, tra i tanti possibili, due temi. Cosa dite voi, che siete molto più interni a queste tematiche, di quanto non lo sia io, di questa esplosione dei diritti? Ogni domanda, oggi, diventa un diritto, sempre più separati dal senso di una comunità politica, dal destino di una comunità politica. È giusta questa via? È lo stesso problema che indicavo prima, del rapporto tra cosmopolitismo e ordinamento concreto: che comporta questa esplosione dei diritti? Uso questa formula, che ormai è una formula classica: ormai il giudice deve operare un bilanciamento dei principi. Prima le parole dominanti erano proporzionalità e ragionevolezza, parole che tuttora esistono, e che hanno diversa valenza nelle diverse giurisdizioni, perché nella giurisdizione penale il limite della ragionevolezza sta nella riserva di legge, l’art. 25. Ma il tema del bilanciamento dei diritti come lo poniamo? Non è esso la riprova di quanto sia complicato lo spazio multilivello nel quale ci muoviamo, nel quale si muove l’operazione della giurisdizione? Che significa bilanciamento dei diritti? Secondo me significa una cosa estremamente precisa, cioè che la giurisdizione crea la norma concreta, non dobbiamo nasconderci dietro ad un dito. Occorre capire cosa significa che la giurisdizione, nel momento in cui bilancia i principi, crea la norma concreta? Diventa un problema nel quale non solo si spostano le competenze, si spostano i livelli e i limiti delle giurisdizioni, ma si spostano i rapporti tra i poteri, ecco perché emerge anche il tema dell’organizzazione. Naturalmente, nella giurisdizione penale tutto questo ha dei limiti più evidenti, ma è evidente che la libertà personale e i diritti fondamentali, che vengono messi in discussione nella giurisdizione penale, implicano una restrizione proporzionata all’obiettivo. Implica che i fatti penalmente rilevanti hanno un rango costituzionale come quello della libertà personale, e quindi devono essere circoscritti, e le fattispecie devono essere definite e determinate. È evidente che c’è un problema specifico e di riserva di legge nella giurisdizione penale. Ma rimane il tema di una maggiore ampiezza nella decisione, di uno sfrangiamento spesso delle stesse fattispecie penali, quindi possiamo ancora dire che c’è una rigorosa astrazione nel rapporto tra fattispecie e fatto, tra fattispecie e decisione, tra fattispecie anche del reato stesso? No, non lo possiamo dire”.

[7] Marcel Gauchet, L’Evénement de la démocatie, t. 1, La Revolution moderne, Gallimard editore, Parigi 2007.

[8] Zygmunt Bauman, Le vie en miettes: Expérience postmoderne et moralité, Le Rouergue/Chambon, Parigi 2003; Le Rythmes du politique. Démocratie etcapitalisme mondialisé, Les Parisi ordinaries, Parigi 2007.

[9] Claude Lefort, Droits de l’homme et politique, in Libre n.7, Parigi, Payot 1980.

[10] Jean Bodin, Les six livres de la répub­lique, 1576.

[11] Benjamin Constant, Principes de politique, Parigi, Hachette, 2006.

[12] Bernard Lacroix, Quel sens accorder au movement de décembre 1995? In Led Idées en movement, 1996.

[13] Cicerone, De Re Pubblica.

[14] La parola ai giurati (titolo originale 12 Angry Men) è un film del 1957 diretto da Sidney Lumet. Il film racconta la storia di un processo in cui un componente della giuria tenta di persuadere gli altri undici membri, tutti colpevolisti, dell’innocenza dell’imputato.

[15] Alain Minc, L’Ivresee dèmocratique, Paris, Gallimard, 1994.

[16] “In Francia l’espressione “Repubblica dei giudici” risuona come una replica della “monarchia del parlamento”, il sistema politico dell’ancien regime in cui, in seguito alla mancata convocazione gli Stati generali a partire dal 1614, il potere giudiziario acquisito, tramite il diritto di registrare le ordinanze reali, un diritto di protesta utilizzato, dopo la morte di Luigi XIV, per opporsi a tutte le riforme ad iniziativa del re. Ed è per questo che il 1789 deve essere letto non tanto come una rivoluzione contro la monarchia assoluta, ma come una rivoluzione contro la monarchia dei magistrati, ai quali la legge del 1790 taglia la testa -prima di quella del Re- vietando loro di intromettersi negli affari legislativi ed esecutivi. Anche per questo motivo, l’espressione “Repubblica dei giudici” può essere compresa come una rivoluzione, nel senso geofisico del termine, un ritorno alla configurazione politica precedente al 1789”.

[17] Norbert Elias, La Civilisation des mouers, Paris, Clman-Levy, 1973.

[18] Pier Mendes France, La République moderne.

[19] Pierre Bourdieu, “La vertu civile”, Le Monde.