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‘RIGHT TO PUNISHMENT’ E PRINCIPI PENALISTICI. UNA PRESENTAZIONE – DI GABRIELE FORNASARI

‘RIGHT TO PUNISHMENT’ E PRINCIPI PENALISTICI. UNA PRESENTAZIONE – DI GABRIELE FORNASARI

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 ‘RIGHT TO PUNISHMENT’ E PRINCIPI PENALISTICI. UNA PRESENTAZIONE

di Gabriele Fornasari*

L’articolo punta a descrivere brevemente e poi a sottoporre a critica una concezione del diritto penale che, dopo avere preso le mosse dal terreno del diritto penale internazionale, sta avendo una più ampia diffusione e si sostanzia nella convinzione, propria della retorica anti-impunità, che nel processo penale il diritto della vittima alla punizione dell’accusato debba prevalere su quelli di quest’ultimo, con un inaccettabile pregiudizio di numerosi principi basilari del diritto e della procedura penale.

The article aims to describe briefly and then submit to criticism a conception in criminal law that, after taking hold from the international criminal law field, is getting a wider spreading and consists of the belief, typical of anti-impunity rhetoric, that in criminal proceedings the victim’s right to punishment of the accused should overcome those of the latter, with an unacceptable prejudice to many fundamental principles of criminal law and procedure.

Sommario: 1. Una premessa non del tutto ovvia; 2. Gli argomenti della retorica anti-impunità; 3. Il rifiuto opposto agli istituti di clemenza; 4. La centralità della vittima e delle sue aspettative; 5. Ancora la pena come vendetta?; 6. L’incontro con il populismo penale e la giustizia mediatica; 7. Come reagire?

  1. Una premessa non del tutto ovvia.

Da quando l’uomo ha fondato comunità sociali esiste, anche se in forme molto diverse, il diritto penale.

Da quando esiste, il diritto penale ha avuto il fine di garantire la sicurezza dei consociati individuando a livello normativo i comportamenti più gravemente lesivi dei fondamentali interessi della comunità, stabilendo la sanzione da irrogare nei confronti di chi viola i comandi o i divieti in cui si concretizzano le norme incriminatrici ed organizzando una più o meno complessa struttura funzionale all’applicazione delle sanzioni minacciate.

La pena, cioè la sanzione da cui il nostro ramo del diritto prende il nome, si connota da sempre per rappresentare la reazione più dura di cui dispone l’ordinamento giuridico per colpire gli infrattori delle norme.

Essa, nella sua dimensione storica ma anche nell’attualità, ha insita in sé la caratteristica di provocare sofferenza, in base alla convinzione che in tal modo possa adempiere in maniera più efficace al suo scopo di deterrenza.

La cattiva coscienza del penalista è sempre tenuta sveglia dalla consapevolezza di questa necessaria sofferenza, poiché la pena comprime o cancella diritti fondamentali dell’individuo come la libertà o financo la vita, in molti ordinamenti incivili, sicché è consustanziale, in ogni seria riflessione sul diritto penale, la ricerca delle ragioni della sua legittimazione.

E almeno a far data dalla rivoluzione concettuale avviata nel tardo XVIII secolo con la svolta dell’Illuminismo ogni ragionamento sulla legittimazione del diritto penale – un novum assoluto contrapposto ai fondamenti del tutto arbitrari del diritto penale pre-moderno – si articola presupponendone innanzi tutto una delimitazione.

Hanno funzione delimitativa, infatti, tutti i principi liberali, da quelli di natura sostanziale – legalità, proporzione, colpevolezza, divieto di trattamenti disumani – a quelli di natura processuale – diritto alla difesa, terzietà del giudice, presunzione di innocenza, tutta la galassia del giusto processo – in vista di quell’assunto generale per cui il diritto penale deve avere la natura di extrema ratio, cioè intervenire solo quando si reputano inefficaci tutti gli altri strumenti giuridici e sociali di reazione nei confronti comportamenti illeciti e/o di composizione dei conflitti.

Mi sono dovuto soffermare, nell’incipit di questo mio contributo, su questa sequela di ovvietà perché purtroppo da qualche tempo la natura apparentemente ovvia di queste considerazioni non è più affatto certa.

Le radici di questo almeno parziale cambiamento di rotta non sono certo recentissime ed affondano anzi in un fenomeno di espansione del diritto penale che ha origine già nell’ultima parte del XX secolo[1], per ragioni in parte non meritevoli di disapprovazione, come l’esigenza di una più adeguata tutela di beni di sicura rilevanza, come l’ambiente, la sicurezza sul lavoro o la prevenzione di disastri naturali o tecnologici.

Ma se questo sviluppo degli ultimi decenni è abbastanza fisiologico, vi sono invece, da un lato, ambiti di espansione del diritto penale che non trovano la medesima giustificazione – come nel caso di norme che hanno voluto rappresentare in primo luogo manifesti morali o anticipazioni di tutela fondate su fattispecie di pericolo che potremmo definire assolutamente eventuale -, di cui però non mi occuperò in questa sede, e dall’altro la tendenza verso l’attribuzione al diritto penale – ma sarebbe meglio dire: alla punizione – di un ruolo quasi catartico, nel senso che si vuole, talvolta su impulso anche di organismi sovranazionali come le Corti dei diritti, fondare sempre nuovi obblighi di incriminazione e soprattutto – questo è il centro delle mie riflessioni – fondare in capo alla vittima un diritto alla punizione degli autori di reati che ha, volendo riassumere in poche battute, tre essenziali corollari: il giudice deve tenere conto, in sede di decisione, degli interessi e delle aspettative della vittima e mostrare durante il processo empatia nei suoi confronti; devono essere bandite tutte le forme di clemenza – concetto sulla cui estensione sarà necessario tornare – in quanto strumenti di vittimizzazione secondaria con cui l’ordinamento mostra in sostanza di non prendere sul serio le sue stesse norme; bisogna relativizzare i diritti dell’accusato bilanciandoli con quelli della vittima (ad ottenere la condanna).

Non è fuori luogo segnalare che questa impostazione non trova sostegno in una bizzarra minoranza di studiosi fuori dal mondo, ma al contrario nasce nei think tank di importanti e influenti atenei degli Stati Uniti, viene guardata con simpatia anche in ambienti europei e in più si vuole presentare come una teorica posta a tutela dei diritti umani.

 

  1. Gli argomenti della retorica anti-impunità.

L’origine della retorica anti-impunità al cui interno vede la luce la teorizzazione del diritto alla punizione (right to punishment) è ravvisabile nell’ambito della riflessione sul diritto penale internazionale[2].

Qui, trattandosi di giudicare su crimini massivi di assoluta gravità, è necessario, si dice, lanciare un messaggio chiaro ed inequivocabile, ovvero che chi è autore di tali crimini non deve poter contare su alcuna clemenza, risultando la risposta penale l’unico strumento adeguato per ottenere l’obiettivo del superamento del passato, nei contesti di transizione – cioè del passaggio da regimi dittatoriali a regimi democratici -, e di attuazione di un’autentica giustizia in tutti gli altri casi.

L’autentica giustizia di cui si parla è immediatamente declinabile, secondo quanto espressamente affermato dagli stessi sostenitori di questo punto di vista, come soddisfazione del desiderio di vendetta della vittima, all’interno di un quadro di riferimento in cui il rapporto processuale non è più una vicenda a due soggetti – l’ordinamento e l’imputato – ma una dinamica triadica, che coinvolge anche la vittima, con la fondamentale conseguenza, riconducibile ad una concezione estrema del retribuzionismo espressivo[3], che con la sentenza (s’intende, di condanna) il giudice, rappresentando l’ordinamento, non solo comunica al reo la sua disapprovazione e la sua censura per quanto commesso, ma dimostra alla vittima di fare sul serio con i suoi stessi precetti, mostrandole la necessaria empatia[4].

Questa costruzione teorica, pensata in primo luogo per i gravi crimini internazionali, è stata ben presto riconosciuta come estensibile anche ai processi relativi alla criminalità ordinaria, ma vorrei fermarmi un attimo a considerare, già a monte, la plausibilità della premessa in riferimento al suo terreno di elezione, ovvero al diritto penale internazionale, inteso in senso lato e dunque comprensivo anche della giustizia di transizione.

In realtà, quanto affermato a titolo di postulato è del tutto discutibile già nell’ambito di quel contesto.

Lo dimostrano non tanto possibili disquisizioni concettuali, quanto piuttosto la stessa esperienza storica.

Infatti, numerosi processi di transizione, anche successivi a vicende molto drammatiche, hanno avuto luogo prescindendo in parte o del tutto dalla leva del diritto penale, puntando invece su strumenti – comprensivi di amnistie, perdoni individuali o formazione di commissioni volte alla ricerca della verità – volti essenzialmente a conseguire obiettivi di riconciliazione e pacificazione sociale.

L’esempio più noto mediaticamente è quello della transizione sudafricana post-apartheid[5], ma modelli analoghi si sono sviluppati in notevole quantità in molte parti del mondo soprattutto nell’ultima parte del XX secolo.

Anche nel diritto penale internazionale inteso in senso stretto, però, la sensibilità non è più così univocamente rivolta all’unico obiettivo di condanne esemplari costi quello che costi (molto simile a quella giustizia dei vincitori sui vinti che si diceva di voler abbandonare), talvolta affermato in qualche obiter dictum, per esempio, dalla Corte ad hoc per i fatti dell’ex-Yugoslavia, con la conseguenza di alcune evidenti forzature interpretative di alcuni istituti penalistici, come lo stato di necessità, e l’allentamento dei vincoli garantistici del processo[6].

Certo, come era stato notato da qualcuno polemicamente poco dopo l’entrata in vigore dello Statuto di Roma e l’attivazione della Corte penale internazionale, poteva sembrare che la Corte fosse stata istituita non tanto per giudicare quanto per condannare, valutandosi come un fallimento ogni sua eventuale sentenza di assoluzione[7], ma la verità è che la sua giurisprudenza più recente mostra invece i segni, come si può vedere dall’esame della vicenda Bemba Gombo, di un attento e meritorio recupero di un rispetto più rigoroso delle forme processuali, abbandonando l’idea che un loro sacrificio sia legittimo in funzione del soddisfacimento delle attese delle vittime.

Fatta questa premessa, occorre ora occuparsi più in dettaglio di alcuni aspetti di questa teorizzazione, per denunciarne poi con cognizione di causa i profili fortemente censurabili.

 

  1. Il rifiuto opposto agli istituti di clemenza.

La guerra dichiarata agli istituti di clemenza, nell’ambito della retorica anti-impunità, merita di essere specificata nei suoi dettagli poiché qualche sua peculiare declinazione può apparire sorprendente.

Prendendo spunto in particolare da alcuni precedenti della Corte interamericana dei diritti umani, soprattutto dalla fondamentale sentenza Barrios Altos contro Perù[8], nel novero degli istituti di clemenza trovano collocazione, infatti, non soltanto elementi normalmente identificabili come tali, come amnistie, indulti, perdoni individuali, ma anche, molto meno prevedibilmente, i programmi di liberazione anticipata sotto supervisione, le commutazioni di pena, i programmi di rieducazione del condannato, le condanne sospese, quasi sempre, inoltre, con aperture di stampo analogico che potrebbero prefigurare estensioni alle ordinarie cause di non punibilità o addirittura alle scusanti fondate sull’inesigibilità[9].

Per dare una dimostrazione dell’intensità dell’idiosincrasia nei confronti di ogni forma di clemenza, basti ricordare come viene giudicata la vicenda di Abdelbaset al-Megrahi, un cittadino libico che era stato condannato a una lunga pena detentiva da un Tribunale scozzese dopo avere partecipato all’attentato di Lockerbie, che provocò l’esplosione di un volo Pan Am sui cieli della Scozia nel 1998, con oltre duecento morti tra passeggeri ed equipaggio.

Prima di avere terminato di scontare la pena inflitta, egli fu liberato e fatto rientrare nel suo paese, in quanto gli era stato diagnosticato un cancro alla prostata che lasciava, secondo i medici scozzesi, una speranza di sopravvivenza di pochissimi mesi.

Tornato in Libia, al-Megrahi morì effettivamente per il cancro che gli era stato diagnosticato, ma dopo essere riuscito a sopravvivere per un tempo più lungo di quello pronosticato, ovvero per quasi tre anni.

Secondo la retorica anti-impunità, questa vicenda mostrerebbe il cosiddetto lato oscuro della clemenza, e la decisione presa dalle autorità scozzesi per ragioni umanitarie viene duramente criticata, come lo sarebbe stata ogni analoga decisione basata su una diagnosi medica, ma anche sulla condotta virtuosa del detenuto o sulla convinzione che comunque il diritto sarebbe stato troppo crudele nei confronti di quel determinato autore con l’insistere nell’applicazione rigorosa della sanzione inflitta, per la ragione che così facendo si attua una seconda vittimizzazione, nel momento in cui si comunica che la clemenza è ancora sul tavolo[10].

  1. La centralità della vittima e delle sue aspettative.

In tutto il discorso che mira ad affermare la retorica anti-impunità, campeggia la dimensione centrale della vittima.

Al riguardo però bisogna intendersi, cominciando già banalmente sul piano terminologico.

Il cosiddetto ‘right to punishment’, l’assioma stesso che sta alla base di tutta l’impostazione, è concepito proprio in capo alla vittima, ma con connotazioni che sono idonee a suscitare molte riserve.

Che il soggetto che entra nel processo proclamandosi vittima del reato oggetto di accertamento debba disporre di poteri tali da consentirgli di controllare il corretto andamento del procedimento può essere accettato – e allora tra parentesi appare singolare che proprio i cultori del diritto penale internazionale che tanto enfatizzano il ruolo della vittima nel processo davanti alla Corte penale internazionale non si impegnino poi a fondo in una critica al fatto che l’asserita parte lesa, pur costituitasi, ha di fatto poteri limitatissimi, tra i quali per esempio non figura quello di impugnare le archiviazioni[11] -, ma è tutt’altra cosa teorizzare che il giudice deve manifestare empatia verso la vittima e deve decidere in modo tale da assecondare le sue aspettative, e infine che i diritti dell’accusato devono essere posti in bilanciamento con quelli della vittima, che nel bilanciamento stesso tendenzialmente devono prevalere, dato il valore morale di chi ne è portatore.

Premesso – ecco qui il rilievo terminologico annunciato poc’anzi – che già in senso tecnico parlare di vittima, prima che sia avvenuto l’accertamento della commissione del fatto da parte dell’accusato, è in linea di principio scorretto, dato che portando alle estreme conseguenze il ragionamento si deve dedurre che, se un soggetto entra già nel processo come vittima, allora un altro soggetto vi entra già come autore, prima ancora che siano raccolte le prove della sua responsabilità[12], è evidente che, a chi ha svolto anche solo studi elementari riguardo al diritto e al processo penale, non può sfuggire la circostanza che questo impianto argomentativo produce in un colpo solo l’abbattimento – e non semplicemente l’affievolimento, come si vorrebbe benevolmente far credere – di una serie di pilastri della nostra civiltà giuridica, da noi per di più consacrati in Costituzione, come i principi della parità di armi tra accusa e difesa e della terzietà del giudice, nonché la presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva.

Qualcosa si deve dire, poi, anche sulla questione delle aspettative della vittima, che devono essere oggetto di soddisfazione da parte del giudice.

A parte la forte perplessità data dal fatto di veder assurgere una delle parti del processo a una sorta di co-decisore, circostanza che pare perfino eufemistico definire impropria, forse sarebbe bene intendersi anche sulla natura delle aspettative a cui si fa riferimento.

L’immagine che si vuole far passare, con tutta evidenza, è quella di una vittima assetata di vendetta, alla quale interessa solamente vedere scontare all’imputato la pena, naturalmente detentiva, più dura possibile fino all’ultimo giorno senza nemmeno un minuto di sconto rispetto a quanto stabilito in sentenza, e alla quale, in più, non interessa affatto che il processo sia condotto secondo le regole.

Questa rappresentazione è molto efficace sul piano mediatico, incoraggiata attraverso ricostruzioni della realtà spesso distorte e ben funzionale alla conduzione di campagne elettorali, ma esperienze tutt’altro che infrequenti ci mostrano l’esistenza anche di un mondo diverso, magari meno vociante, in cui vi sono persone che concepiscono un’idea di giustizia fondata sul riconoscimento dell’altro, sul fine della composizione del conflitto e, se pena deve essere, che sia proporzionata e attributiva di una sofferenza che possa tuttavia portare un contributo ad una futura risocializzazione del condannato, al quale spesso sono mancate reali chances di inserimento sociale prima di delinquere.

  1. Ancora la pena come vendetta?

In collegamento con questa percezione della vittima come titolare di un diritto alla punizione che l’ordinamento deve garantire vi è l’espressa rivendicazione, senza giri di parole, della pena come strumento di vendetta[13].

Alle spalle del conflitto sull’essenza della pena c’è, come è ben noto, una lunga storia, e la già menzionata cattiva coscienza dei penalisti, almeno dell’Illuminismo in qua, ha sempre cercato di soffocare l’idea di una coincidenza tra pena e vendetta, instradando il processo in forme tali da porre un soggetto intermedio con forti poteri tra accusato e accusatore e rivestendo anche quest’ultimo di una toga, togliendo rilievo alla parte privata proprio per allontanare dal giudizio una possibile influenza dell’istinto vendicativo.

Insomma, l’incanalamento, più o meno ben riuscito, della vendetta privata in una procedura più asettica gestita dia pubblici poteri – nel quadro di riferimento normativo e concettuale del diritto pubblico – è stato uno dei topoi della modernità: nell’amministrare la giustizia, lo Stato svolge una delle funzioni in cui consiste il suo compito di prendersi cura degli interessi della collettività e non deve invece soddisfare in primo luogo le esigenze della vittima[14]; è chiaro che può benissimo esservi piena coincidenza tra le due cose, ma in caso contrario gli interessi pubblici prevalgono sulle esigenze della vittima.

E allora questa regressione alla pena come vendetta dove trova spiegazione?

La domanda è ancora più urgente in considerazione del fatto che quella concezione poteva avere un senso all’interno di una concezione sacrale, non ancora laicizzata, del diritto penale, in cui il primato del fondamento morale poteva fare illudere nell’esistenza di una giustizia infallibile perché basata sul giudizio di Dio[15].

Ma la fallibilità della giustizia umana, già dichiarata addirittura da Platone, non è compatibile con l’idea di quella pura retribuzione che trascolora in vendetta.

L’argomentazione nuova che si vorrebbe addurre in realtà è antica e la sua riverniciatura in chiave moderna è addirittura inquietante.

Sarebbe cioè la necessità di prendere davvero sul serio la tutela dei diritti umani a giustificare il ricorso sistematico e inderogabile alla pena: se si facesse diversamente si mostrerebbe incoerenza e si precluderebbe la chiusura del cerchio – una sorta di hegeliana negazione della negazione – che nel soddisfare l’esigenza di vendetta della vittima, un’esigenza che viene da una rabbia che deve essere valutata come un elemento positivo che non anela ad alcuna composizione, soddisfa automaticamente un’esigenza ordinamentale che ad essa si conforma.

Le annotazioni che si possono fare a margine di questa concezione sarebbero diverse, ma se ne possono selezionare due, che appaiono di maggiore impatto.

Da un lato, sembra incredibile – e si direbbe dimostrazione di una scarsa familiarità con la realtà delle cose – l’assoluta e cieca fiducia nel carcere come strumento di realizzazione della giustizia; la capacità prestazionale della pena detentiva è messa ampiamente in discussione da chiunque abbia un minimo di conoscenza del fatto che essa, se si scende dal livello filosofico a quello empirico, di sicuro provoca solo dolore, mentre da tempo ha dimostrato di fallire tutti i possibili obiettivi che nel tempo le si sono voluti assegnare, a cominciare da quello di prevenire future violazioni di diritti[16].

Ancor più inquietante è che nelle pieghe della concezione del ‘right to punishment’, così come affermatasi nel pensiero penalistico statunitense, vi sia una “non antipatia” per la pena di morte, quanto meno tollerata, se non proprio apprezzata, come strumento dimostrativo, in casi gravi, della serietà dell’ordinamento nella repressione della violazione di diritti fondamentali.

Per la mia personale sensibilità, vedere associate la giustificazione della pena di morte e la tutela dei diritti umani è qualcosa di assolutamente scioccante.

  1. L’incontro con il populismo penale e la giustizia mediatica.

Una concezione come quella di cui ho delineato i tratti rappresenta un vero pericolo, e non solo una fumosa e inquietante elucubrazione teorica, nel momento in cui si innesta nella dinamica, attualmente dilagante anche da noi, del populismo penale e della giustizia mediatica.

I fenomeni sono molto noti e dibattuti[17], e pertanto non è qui necessario che mi diffonda in un’analisi particolareggiata, ma appare subito evidente come una teoria che invoca la massima espansione della pena del carcere, la centralità della vittima e delle sue esigenze di vendetta, un processo per quanto possibile liberato dai vincoli formali di garanzia, un giudice empatico e indifferente all’istanza di terzietà e l’esclusione di tutte le forme di clemenza sovrana o di composizione del conflitto mediante conciliazione o riparazione si combina magnificamente con quell’aspetto del populismo che affida al diritto penale il ruolo di unica etica pubblica e di panacea contro tutti i fenomeni antisociali e con una visione del processo che tollera a fatica che le prove si raccolgano attraverso una complessa procedura e non sulla base delle convinzioni sociali – formate magari a seguito di servizi televisivi o opinioni emerse nelle chat delle reti sociali -, che l’imputato non sia già considerabile colpevole dopo l’avviso di garanzia, che si possano immaginare alternative sanzionatorie valide alla detenzione in carcere e che qualcuno pensi davvero che nei confronti del condannato si possano programmare percorsi rieducativi.

Insomma, una cosa è constatare che vi è chi soffia sul fuoco dei più bassi istinti per potersi assicurare fette di potere promettendo politiche securitarie destinate a restare sul terreno del simbolismo, mentre più preoccupante è dotare tutto ciò di un fondamento teorico volto a fondare un autentico organico programma di intervento penale che, nell’asserito segno della post-modernità, connota invece un drammatico regresso alla pre-modernità.

  1. Come reagire?

In sede non più di analisi, ma di discorso critico la questione si fa inevitabilmente politica.

Fra gli specialisti del diritto penale una concezione come quella qui riassunta, almeno nel nostro paese e negli altri ordinamenti civili europei, trova accoglimento in una fascia per il momento decisamente minoritaria, quindi a prima vista non parrebbe necessario darsi gran pena per impegnarsi a contrastarla.

Ma se si esce dalla comfort zone degli studiosi formatisi, in un modo o nell’altro, alla scuola della scienza penalistica e processualpenalistica di stampo costituzionale, le cose cambiano e di molto.

Questa impostazione ha dalla sua parte il fascino insidioso di essere intuitiva, scevra dagli appesantimenti concettuali propri degli interventi delle élites intellettuali, è suscettibile di trovare simpatie per la sua immediatezza e la sua facile strumentalizzazione in ambiti politici riferibili sia alla destra che alla sinistra, e infine ha già trovato, sebbene sporadicamente, qualche appoggio in interventi delle Corti dei diritti, laddove fanno menzione di obblighi di penalizzazione, relativizzano il principio di legalità ed enfatizzano il diritto alla verità.

La risposta da dare a questa tendenza deve essere molto ferma.

Bisogna che nel dibattito pubblico, nelle Università, nei mezzi di comunicazione ci si impegni per rammentare con forza che i principi penalistici cristallizzati nella Costituzione, che sono frontalmente incompatibili con il ‘right to punishment’ affermato dalla retorica anti-impunità, non rappresentano mere norme programmatiche relativizzabili e bilanciabili con qualsivoglia istanza politica emergenziale, ma precetti sovraordinati non solo per ragioni di rango formale, ma soprattutto in quanto pilastri identitari e insostituibili di uno Stato di diritto, e dunque baluardi contro i possibili esperimenti di quella democrazia illiberale che oggi non ci si vergogna più di teorizzare, ignari – o forse no – dell’ossimoro irriducibile che l’espressione contiene[18], e del cui progetto di edificazione l’impostazione del ‘right to punishment’ minaccia di essere un tassello tutt’altro che secondario.

*Professore ordinario di Diritto penale presso l’Università di Trento

[1] Si può vedere, sul punto, l’ottima analisi di J.M. Silva Sánchez, La expansión del derecho penal. Aspectos de política criminal en las sociedades postindustriales, Segunda edición, revisada y ampliada; Civitas, Madrid, 2001.

[2] Rimando, per i tratti essenziali di questa impostazione, al contributo di J. D. Ohlin, The Right to Punishment for International Crimes, in F. Jessberger e J. Geneuss (Eds.), Why Punish Perpetrators of Mass Atrocities? Purposes of Punishment in International Criminal Law, Cambridge University Press, New York, 2020, p. 257 ss.

[3] La teoria del retribuzionismo espressivo, che gode di una certa diffusione negli Stati Uniti, è ben compendiata nel contributo di R.A. Duff, Punishment, Communication and Community, Oxford University Press, New York, 2001.

[4] J.D. Ohlin, op. cit., p. 269.

[5] Su cui, ampiamente, A. Du Bois Pedain, Transitional Amnesty in South Africa, Cambridge University Press, Cambridge, 2007 e, volendo, G. Fornasari, Giustizia di transizione e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2013, p. 61 ss.

[6] Così, nel caso Tadic la Corte ad hoc per i fatti dell’ex-Yugoslavia ebbe ad affermare, facendo propria un’idea un po’ singolare del liberalismo, che in casi di crimini di così immane gravità si deve ipotizzare “un’interpretazione più liberale” dei principi fondamentali del diritto punitivo rispetto a quella in uso nei diritti nazionali, in modo da ridurre al minimo il diritto alla “parità di armi” nel processo; ne tratta L. Mazzaferri, El fair trail y los tribunales penales interna­cionales, in Nueva Doctrina Penal, 2004A, p. 94.

[7] Sostanzialmente in tal senso, per esempio, L. Cornacchia, Funzione della pena nello Statuto della Corte penale internazionale, Giappichelli, Torino, 2009, p. 89 ss.

[8] Corte Interamericana de Derechos Humanos, Caso Barrios Altos vs. Peru, Sentencia de 14 de Marzo 2001, § 41. (https://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/Seriec_75_esp.pdf)

[9] Rinvio sul punto alla più estesa analisi svolta in G. Fornasari, Diritti della vittima e certezza della pena. Riflessioni su un discutibile paradigma, in Ind. pen., 2021, p. 17 s.

[10] J.D. Ohlin, op. cit., p. 272 s.

[11] Lo osserva correttamente, dal suo osservatorio privilegiato di giudice della Corte penale internazionale, R.S. Aitala, Diritto internazionale penale, Le Monnier Università, Firenze, 2001, p. 328 s.

[12] Così anche P. Caroli, Transitio­nal Amnesties: Can They Be Prohibited?, in Diritto Penale Contemporaneo-Rivista Trimestrale, 4/2018, p. 209 s.

[13] J.D. Ohlin, op. cit., p. 282: “victims are legal stakeholders in the outcome of the criminal process, i.e., the punishments that are handed down to vindicate their human rights [corsivo mio]. Finally, acts of mercy or compassion, such as sentence reductions in the form of pardons, commutations and compassionate release for health reasons, potentially infringe the right to punishment”.

[14] L’indicazione del diritto penale come ramo del diritto pubblico è in effetti presente in pressoché tutti i nostri manuali – solo un paio di esempi: G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, Parte generale, 8^ ed., Zanichelli, Bologna, 2019, p. 3; C. Fiore e S. Fiore, Diritto penale, 6^ ed., Utet, Torino, 2020, p. 3; F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, 11^ ed., Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2020, p. XXIII – e deve essere assolutamente presa sul serio, non come uno slogan di facciata.

[15] Si veda P. Ricoeur, Finitudine e colpa (1960), Morcelliana, Brescia, 2009, p. 362 ss.

[16] Così E. Dolcini, La pena in Italia, oggi, tra diritto scritto e prassi applicativa, in E. Dolcini e C.E. Paliero (a cura di), Studi in onore di Giorgio Marinucci, II: Teoria della pena, teoria del reato, Giuffrè, Milano, 2006, p. 1107, con un giudizio ribadito testualmente, in tempi più recenti, dallo stesso Autore, in E. Dolcini, Carcere, problemi vecchi e nuovi, in Diritto penale contemporaneo, 5 novembre 2018, p. 1.

[17] Mi limito a due riferimenti essenziali: per il populismo penale, a M. Donini, Populismo penale e ruolo del giurista, in R. Acquaroli, E. Fronza e A. Gamberini (a cura di), La giustizia penale tra ragione e prevaricazione. Dialogando con Gaetano Insolera, Aracne, Roma, 2021, p. 95 ss.; per la giustizia mediatica a V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Il Mulino, Bologna, 2022.

[18] E in effetti, nella più accorta recente politologia, preso atto della circostanza che la c.d. “democrazia illiberale”, nella teoria e nella pratica di alcuni Paesi, è ormai svuotata di tutti i parametri essenziali della democrazia – cioè essenzialmente la separazione dei poteri e ogni forma di checks and balances, con tutto ciò che questo comporta – con la sola eccezione del diritto la voto, in omaggio all’idea di un rapporto diretto e disintermediato fra il popolo e il leader (poco importa poi che una buona parte del popolo, nei paesi che lo attuano, non possa esprimersi e riunirsi liberamente, professare la propria religione, fare ricorso a una magistratura indipendente, ecc.), sta emergendo il rifiuto di chiamarla democrazia (ancorché illiberale), preferendo la denominazione di autoritarismo competitivo (“competitive autoritharianism”), con ciò volendo indicare ciò che non è più una forma “diminuita” di democrazia, ma invece piuttosto una forma “diminuita” di autoritarismo: si veda S. Levitsky e L.A. Way, Elections without Democracy. The Rise of Competitive Authoritarianism, in Journal of Democracy, Vol. 13, April 2002, Issue 2, p. 52 s., approfondendo una suggestione già presente in J.J. Linz, Totalitarian and Authoritarian Regimes, Lynne Rienner, Boulder, 2000, p. 34.