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“CRUDELI ILLUSIONI” E POPULISMO VITTIMARIO – DI ENRICO AMATI

“CRUDELI ILLUSIONI” E POPULISMO VITTIMARIO – DI ENRICO AMATI

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“CRUDELI ILLUSIONI” E POPULISMO VITTIMARIO

di Enrico Amati* 

Le politiche penali populiste sacralizzano la vittima, traducendosi in una produzione penale compulsiva e in pericolose tendenze alla privatizzazione e alla moralizzazione della giustizia penale. La fascinazione per modelli deteriori che fanno leva sulla retorica della “lotta all’impunità” deve però trovare un robusto argine nei principi del diritto penale liberale, che si oppongono ad una visione vendicativa della giustizia penale e alle “crudeli illusioni” del populismo vittimario.

Populist penal policies sacralize the victim, resulting in compulsive penal production and dangerous trends towards the privatization and moralization of criminal justice. However, the fascination with models that leverage the rhetoric of the “fight against impunity” must find a robust barrier in the principles of liberal criminal law, which oppose a vengeful view of criminal justice and the “cruel illusions” of victi-centric populism.

  1. Il paradigma vittimario e i suoi effetti

1.1. Il protagonismo dalle vittime nel discorso pubblico «testimonia l’attuale egemonia del linguaggio e della logica del penale» e allo stesso tempo indica una preoccupante tendenza alla privatizzazione e alla moralizzazione della giustizia penale[1]. Una privatizzazione che, secondo alcuni, si può riscontrare anche nella giustizia riparativa, «che introduce aspetti moralistici e moralizzanti nella giustizia penale», solo apparentemente in contrasto con esasperate posture socialdifensive[2].

È svanita la “persona offesa”, «incolore» e «senza una storia da narrare», e si sono aperte le porte «alla “vittima”, concreta narratrice privilegiata della vicenda sfociata nel reato»[3].

Non è un caso che le politiche penali populiste tendano a sacralizzare la vittima[4].

In quest’ottica lo Stato non si sostituisce più alle vittime ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi “complicità” sospetta con il reo.

Eppure il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico avviene proprio attraverso la “neutralizzazione” della vittima. Di più: «senza la neutralizzazione della vittima non vi sarebbe nemmeno lo Stato moderno. La neutralizzazione della vittima del reato comporta infatti niente meno che il monopolio della violenza da parte dello Stato nell’amministrazione della giustizia penale» [5].

1.2. Quali sono le radici del c.d. “paradigma vittimario”? [6]

In estrema sintesi, Antoine Garapon e Denis Salas riconducono l’origine di tale paradigma all’affermazione di una giustizia penale, internazionale e globale, accusata di sostituirsi alla politica innalzando il diritto penale a panacea di tutti i mali[7]. La contrapposizione tra vittime (per definizione innocenti) e colpevoli produce una visione manichea: da una parte il bene, dall’altra il male. E’ pertanto agevole, seguendo questa impostazione, intuire i nessi con il diritto penale del nemico e con il populismo politico e penale.

Tamar Pitch denuncia lo slittamento dal paradigma dell’oppressione a un paradigma della vittimizzazione: «l’assunzione dello statuto di vittima diventa l’unico modo per far sentire la propria voce». Ma il termine “vittima” viene anche usato dai governi «per indicare le vittime potenziali, ossia tutti noi (perbene) a rischio di offese da parte dei “permale”»[8]. Almeno dalla metà degli anni ’60 del secolo scorso si afferma, a cominciare dagli USA, la modalità di governo attraverso la paura della criminalità[9]: la società dell’insicurezza, la comunità dell’ansia, è alla perenne ricerca di capri espiatori con la conseguente chiusura della società in «comunità complici» alla ricerca della “immunità” da reati e illeciti.

Come è stato efficacemente osservato, «la vittima è l’eroe moderno del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce»[10].

1.3. In questo orizzonte culturale e sociale, sul piano normativo, la definizione di “vittima” è molto ampia, «per cerchi concentrici»[11]. Si pensi alla direttiva 2012/29/UE, che definisce «vittima» non solo «la persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato», ma anche un suo «familiare», includendo in tale categoria «coniuge, persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare e in modo stabile e continuo, i parenti in linea diretta, i fratelli e le sorelle, e le persone a carico della vittima».

Non dissimile è la definizione normativa introdotta dall’art. 42, co. 1, lett. b), del d.lgs. n. 150 del 2022. Queta nuova nozione – seppur chiamata a valere, per espresso limite di delega, esclusivamente all’interno del sottosistema riparativo – è però «destinata a ripercuotersi (per le varie sedi di confluenza) sul ruolo globale assegnabile “all’offeso” nel rito penale. La definizione di “vittima” accolta dalla riforma è, infatti, epifania del peculiare e differente orizzonte ideologico in cui è maturata la nuova preoccupazione per la vittima di reato»[12]. L’idea di fondo è che la conciliazione dovrebbe sostituirsi alla vendetta/rivalsa. Sul punto, tuttavia, non mancano riserve critiche cui si accennerà nel prosieguo.

1.4. Sul versante penale l’effetto del paradigma vittimario è che la «voce intimidatoria delle vittime, adeguatamente amplificata dai media, trascende l’ambito risarcitorio e vorrebbe poter determinare la sanzione, chiedendo pene più severe. E trascende perfino l’ambito del processo, con la richiesta anche di sanzioni sociali extrapenali» [13].  Con la conseguenza che la produzione legislativa privilegerà sistematicamente la vendetta e il risentimento ritualizzato rispetto alla prevenzione della criminalità e alla riduzione della paura [14].

Inoltre, le pretese delle vittime diventano fonti di definizione dei precetti, il cui contenuto di fare o di non fare è elaborato in funzione della tutela delle stesse[15]. Si è parlato in proposito di tipicità postuma e di torsione verso l’illecito aquiliano: da un lato, il confine tra il lecito e l’illecito non si ricava più dalla fattispecie incriminatrice, bensì da valutazioni che vivono nel processo penale con il conseguente sovvertimento del rapporto tra diritto penale e processo[16]; dall’altro, in alcuni settori del diritto penale «si apprezza chiaramente la perdita totale dei confini della condotta intesa come modalità di lesione»[17].

L’eventuale “consacrazione mediatica” della vittima, inoltre, esaspera ulteriormente – «in una sinergia dirompente» – questa tendenza espansiva verso una tipicità postuma[18], contribuendo altresì a rendere ogni manovra a difesa dell’indagato/imputato come un tentativo di sottrarre il presunto reo alla spada della giustizia[19]. Per contro, soprattutto nel processo mediatico, il pubblico ministero assume la veste di autentico «tribuno della vittima, o comunque paladino delle aspettative pubbliche»[20].

1.5. Accanto ai tipi d’autore si moltiplicano i tipi di vittime.

La vulnerabilità opera una sorta di gerarchia tra le vittime stesse. Con la conseguenza che le vittime vulnerabili e gli autori dell’offesa ad esse arrecata sono soggetti a regole diverse rispetto alle vittime “normali”, accentuando la proliferazione di sottosistemi soggetti a regimi differenziati sia sotto il profilo sostanziale che processuale.

La progettazione di “supervittime”, peraltro, non pare funzionale alla loro personale sofferenza, ma strumentale alla repressione di crimini di cui è possibile mostrare ai cittadini l’odiosità e rispetto ai quali si può facilmente motivare la necessità di un inasprimento sanzionatorio[21].

Ulteriore risvolto di tale iperprotezione, che sconfina in paternalismo penale, è la proliferazione di enti esponenziali che si autoproclamano rappresentanti delle categorie di vittime predefinite come “vulnerabili” e che giocano un ruolo di primo piano nella rappresentazione massmediatica della giustizia.

Protagoniste assolute della mediatizzazione della giustizia sono, inoltre, le vittime “diffuse” di reati ambientali, finanziari, delle grandi imprese, che reclamano punizioni “esemplari”.

E se da un lato la “tipicità umbratile”[22] di talune fattispecie si presta ad una certa “liberalizzazione” dei metodi interpretativi, dall’altro lato eventuali assoluzioni ingenerano risentimento nei confronti del giudice “cattivo punitore”[23], che deve stare – senza se e senza ma – “dalla parte delle vittime”.

La sentenza della Cassazione sul caso Ethernit (Cass. pen. n. 7941/2013) – che ha correttamente distinto tra permanenza del reato e permanenza degli effetti del reato – è stata presentata dai media come il frutto di una disciplina “irrazionale” della prescrizione e di una interpretazione “formalista” del giudice di legittimità.

Per contro, nei reati economici si registra sovente la propensione a valorizzare a livello interpretativo l’effetto utile e lo scopo dell’incriminazione rispetto a letture tassativizzanti e tipizzanti (si pensi, ad esempio, alla tutela degli investitori in materia di diritto penale dei mercati finanziari)[24]. Soprattutto in questo settore una certa giurisprudenza europea “di lotta” presta il fianco a siffatte letture estensive.

Con riguardo alle vittime diffuse c’è davvero il rischio dell’assalto delle stesse al giudice che, in sentenza, non avrà dato loro ciò che in partenza sarà stata «crudele illusione» far credere potesse arrivare da un processo penale[25].

Se l’idea del diritto è connessa strutturalmente alla posizione di un terzo[26], che si colloca necessariamente a una certa distanza dalla “cosa del giudizio”[27], nella c.d. “verità-che-io-so” (ovverosia, la verità in “presa diretta”, che le vittime pretendono di possedere in prima persona senza bisogno di mediazioni interpretative)[28] la vox populi chiede una spiccata giustizia popolare, la più pericolosa di tutte, poiché evoca l’idea di un “penale” (vittimocentrico) senza “diritto” (ovverosia, senza le garanzie legittimanti e limitanti il potere punitivo)[29]

  1. La “crudele illusione” delle politiche penali repressive

2.1. Un diritto penale vittimocentrico si soggettivizza, si fram­menta per compiacere questo o quel gruppo.

Si creano, così, sottosistemi differenziati con regole che derogano a quelle generali, dove si predilige la punizione alla prevenzione e a politiche integrate. Si privilegia la pena “visibile”: e cosa c’è più visibile della “confisca del corpo”, ovverosia della pena carceraria? Trainato dall’asserita ineffettività del “diritto penale classico”, tende inoltre ad affermarsi l’armamentario della prevenzione come paradigma non più “eccezionale”, bensì come regola ormai consolidata, fino a diventare elemento centrale della odierna meccanica punitiva[30]

Al diritto penale della tipicità legale si affianca così il paradigma del diritto penale preventivo, che prospetta come modello possibile – dal formidabile impatto sul fronte del consenso – quello di una “giurisdizione senza fatto”. La categoria dell’”indiziato” si espande fino a ricomprendere manifestazioni criminose che non presentano particolari problemi di accertamento, ma si caratterizzano per la loro peculiare rilevanza politico-criminale quali fronti di lotta “senza quartiere” da giustificare politicamente un sistema che rinuncia al caposaldo dell’accertamento di fatti obiettivamente conformi alla fattispecie[31].

Ad istanze preventive rispondono, peraltro, le disposizioni del recente “decreto Caivano” il quale estende ai minorenni le misure preventive ordinarie, che da tempo la dottrina pressoché unanime e una giurisprudenza consolidata ritengono incompatibili con la necessaria salvaguardia delle esigenze educative degli stessi, anche di quelli ritenuti “pericolosi”[32].

2.2. Il vissuto drammatico delle vittime e le rivendicazioni securitarie delle relative organizzazioni consentono, peraltro, di sca­ricare agevolmente su di loro la responsabilità di una politica sempre più repressiva [33].

Emblematica, sotto questo aspetto, è la genesi dell’omicidio stradale e, più di recente, dell’omicidio nautico, ove nel dibattito parlamentare chi è intervenuto si è sentito spesso in dovere di ripercorrere uno o più incidenti mortali con, immancabile, denuncia dell’inadeguata risposa sanzionatoria.

Similmente, il famigerato emendamento del 2019 sul “blocco” della prescrizione venne annunciato dall’allora Ministro della Giustizia al termine della sua visita al cimitero di San Giuliano di Puglia, dove sono sepolte le vittime del crollo della scuola causato dal terremoto del 31 ottobre 2002. Pochi mesi prima il Ministro aveva scelto un’altra commemorazione, l’anniversario della (impropriamente etichettata dei media) “strage” di Viareggio, per proporre la sua riforma della prescrizione, aggiungendo pure che l’avrebbe chiamata “legge Viareggio” [34].

È evidente il parallelismo con altri ordinamenti che hanno adottato politiche di law and order. Negli Stati Uniti un certo numero di leggi penali porta la firma della vittima: così le Megan’s laws sugli archivi dei delinquenti sessuali portano il nome della piccola Megan Kanka assassinata nel New Jersey [35].

Sempre negli Stati Uniti, le c.d. three strikes laws sono state introdotte in California nel 1994 – tramite referendum popolare – sulla scia dell’emozione suscitata dall’assassinio di una ragazzina [36].

Similmente, in Argentina una serie di riforme in senso fortemente repressivo, le c.d. “Leyes Blumberg”, sono state adottate a seguito di una petizione (sottoscritta da migliaia di cittadini) promossa da Juan Carlos Blumberg, il padre di un ragazzo sequestrato e ucciso [37].

Le logiche securitarie, tuttavia, si pongono in potenziale conflitto con la visione reo-centrica (o individual-garantista) che innerva la cultura penalistica liberale. Nell’ottica securitaria il sistema punitivo, per implementare e rendere effettivo il diritto alla sicurezza-protezione che riconosce in capo alla “comunità delle potenziali vittime”, si prodiga in una serie di attività di doverosa neutralizzazione dei rischi da reato, di doverosa «tranquillizzazione della paura» [38] e di doverosa rassicurazione dal timore di crimini [39].

Anche il c.d. Codice Rosso rappresenta un «esem­pio palmare di sintonia totale tra populismo penale e “femminismo punitivo”» [40]. La direzione, invero, è quella «di un impegno diretto dello Stato e delle istituzioni pubbliche a perseguire i perpetratori, anche senza il consenso e contro la volontà delle donne che hanno subito violenza, spingendole ad attivare iniziative repressive (presentando denunce o querele), stroncando titubanze, ripensamenti e minimizzazioni, soprattutto nelle prime fasi processuali che vengono accelerate e rese irreversibili. La filosofia è quella dell’“io ti salverò, anche contro la tua volontà”» [41].

Alla stessa logica vittimaria rispondono, peraltro, gli interventi di riforma della legittima difesa, ove riecheggia la retorica della Castle Doctrine nordamericana: il cittadino è Re in casa propria, libero di fare fuoco su chiunque senza invito vi faccia ingresso, se ciò appare come una difesa ragionevole [42].

Nel discostarsi da una (necessaria) lettura ‘integrata’ con altri saperi che trattano la ‘questione criminale’[43], il diritto penale si sposta dall’autore del reato alla vittima. La criminalità cessa di essere ricondotta a cause sociali e financo psicologiche: l’obiettivo è difendere i buoni dai cattivi, le persone perbene dalle persone “permale”.

La “geopolitica delle emozioni[44], fatta di paura e frustrazione, richiede risposte rapide e decise, magari giustificate dalla mera ricerca di stabilità e di tranquillità. E nella retorica che fa leva sul “demone della paura”, i “criminali” non sono più visti come esclusi momentaneamente dalla vita sociale normale e destinati a essere rieducati, riabilitati e restituiti alla comunità, ma come «individui emarginati in via permanente, inadatti a essere “riciclati socialmente” e destinati a rimanere a lungo lontano dai guai, separati dalla comunità dei cittadini rispettosi della legge»[45].

  1. Il conflitto tra garanzie e ideologia vittimaria

Denis Salas ha efficacemente descritto il conflitto tra le garanzie costituzionali e l’ideologia vittimaria attraverso un dialogo immaginario tra “diritti” e “vittima”.

«La presunzione d’innocenza? “Come accettarla – dice la Vittima – io che ho perso il mio bambino per colpa di quest’uomo che è accusato? Voi lo definite presunto innocente, ma mi è impossibile accettare la parola: innocenza. Per me i fatti sono incontrovertibili. Il crimine è inscritto nella carne del mio bambino. Il colpevole non è un imputato presunto più di quanto io non sia una vittima presunta”.

La prescrizione? “Mi è insopportabile poiché il trauma che mi colpisce è irreparabile. La violenza del trauma che ho ricevuto risuona sempre in me. L’oblio sarebbe una capitolazione, il perdono uno scandalo […]”.

La pena, in democrazia, deve essere commisurata e proporzionale all’atto e alla personalità? “Certamente, ma la mia sofferenza è senza misura. Il mio bambino è condannato a una “pena” che non ha alcuna comune misura con quella che colpirà il suo autore, il quale vivrà per qualche tempo in prigione, leggerà dei libri, potrà lavorare e uscirà un giorno, mentre il mio bambino è per sempre nella tomba”» [46].

L’approccio securitarista (o apparentemente tale), dunque, “filtra” ed altera il diritto penale classico, aprendo alla rilettura in chiave vittimocentrica di ciò che resta e dovrebbe restare del diritto penale inteso come “Magna Charta del reo” [47].

Come è stato evidenziato, tutte le volte che l’opinione pubblica si identifica con la vittima, «il pedale del consenso sociale premerà essenzialmente sugli stantuffi dell’effettività» [48].

  1. Le vittime in costituzione?

4.1. Periodicamente si ripropongono proposte di revisione dell’art. 111 Cost. finalizzate ad inserire nella norma un riferimento alle vittime.

Una di esse, risalente alla XV legislatura, mirava a introdurre nella evocata norma costituzionale un nuovo comma così formulato: «[l]a legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato»[49]. Più di recente, una analoga iniziativa è partita nel corso dell’attuale legislatura per «riconoscere il livello istituzionale più elevato possibile alla tutela delle vittime e dei più deboli», proponendo di introdurre, nel testo dell’art. 111 Cost., la previsione che alla vittima «vanno applicate tutte le norme dettate a garanzia delle persona accusata di un reato»[50]. Il d.d.l. Iannone e altri, inoltre, propone di inserire un secondo comma nella norma costituzionale nel quale si affermi che «[l]a vittima del reato e la persona danneggiata dal reato sono tutelate nei modi e nelle forme previsti dalla legge»[51].

Nulla di eclatante, verrebbe da dire. Nessuno dubita che le posizioni di debolezza siano già tutelate in termini generali dalla Costituzione agli artt. 2 e 3. Potrebbe trattarsi, pertanto, di un (eventuale) innesto meramente simbolico e sostanzialmente inutile.

Però sorprende la soluzione offerta: la modifica andrebbe ad incidere sulla norma costituzionale sul giusto processo, che vede la contrapposizione tra l’imputato e la parte pubblica, laddove la vittima assume un ruolo perlopiù strumentale agli obiettivi dell’accusa e comunque marginale.

Del resto, come insegna Luigi Ferrajoli, se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono, appunto, le leggi del più debole[52].

4.2. Il sospetto, allora, è che nella prospettiva dei promotori della riforma costituzionale il modello processuale binario debba trasformarsi in un modello triadico, nel quale vengono attribuite alla vittima garanzie e facoltà processuali analoghe a quelle dell’imputato. E’ ciò che in parte si è realizzato con la riforma “Cartabia”, sia pure nel contesto di un procedimento non giurisdizionale qual è il percorso riparativo.

Inutile dire che un siffatto modello rischia di «rendere concreto il fantasma di una privatizzazione della giustizia penale, prerogativa per eccellenza del potere pubblico. Nello Stato di diritto l’istanza di vendetta della vittima viene civilizzata attraverso la pubblica accusa, traducendola in esigenza di giustizia, laddove, in nome del dovere di guardare al rito penale “con gli occhi della vittima” si veicola l’idea che l’esito del processo debba soddisfare le attese della parte lesa, costi quel che costi: da processo a garanzia dell’accusato a processo per la vittima»[53].

Insomma, come è stato osservato, il messaggio pare essere: «è finita la pacchia». E’ «giunta l’ora di smettere di coccolare gli imputati-delinquenti e di trattarli con i guanti di velluto nella quotidianità dell’esperienza giudiziaria»[54]

È poi singolare che nella relazione del d.d.l costituzionale Iannone e altri si richiami Raffaele Garofalo, esponente della Scuola positiva schierato con Enrico Ferri a favore delle persone offese e contrario alla presunzione di non colpevolezza[55]. «A coloro che ripetono la solita vuota ed assurda frase della presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva», scriveva Garofalo nel 1892, «rispondo che molte volte il giudizio è anticipato e la condanna pronunziata dal tribunale della pubblica opinione»[56]. Tribunale della pubblica opinione, depositario del “senso comune”, posto evidentemente sullo stesso piano dell’organo giudiziario.

E non dimentichiamo che la valorizzazione del “senso comune” delinea le coordinate ideologiche del diritto penale autoritario. Lo stesso Vincenzo Manzini si chiedeva: «Se si deve presumere l’innocenza dell’imputato, chiede il buon senso, perché dunque si procede contro di lui?»[57].

In nome della difesa sociale la Scuola positiva recuperò dall’arsenale dell’antico regime vecchi arnesi processuali quali l’imputazione “allo stato” (secondo cui la requisitoria del pubblico ministero misurava il «vero grado della delinquenza», in termini più attendibili di quanto non facessero istruttorie «avariate» dai tatticismi e da «tante assoluzioni compassionevoli»)[58] e, appunto, la presunzione di colpevolezza, che assecondavano le pulsioni reazionarie circolanti nel tessuto civile italiano sin dagli inizi degli ultimi lustri dell’Ottocento e che in parte verranno recepite – ma in taluni casi fortunatamente smussate e rigettate – dai tecnici “di regime”.

Sembra allora riproporsi la “vecchia modernità” del diritto penale di matrice autoritaria, che diffida del garantismo liberale attento a prevenire e sanzionare gli abusi nei confronti dell’imputato nella pratica giudiziaria.

4.3. Si tratta di preoccupazioni eccessive?

Può darsi. Ma come giuristi abbiamo il dovere di captare le avvisaglie delle possibili distorsioni del sistema penale e delle pericolose tendenze al ridimensionamento del garantismo penale.

Occorre, in particolare, arginare la tendenza a subire la fascinazione per quei modelli deteriori che fanno leva sul right to punishment e sulla retorica anti-impunità[59].

Già in passato abbiamo importato (più o meno consapevolmente) lo “stile” del governare attraverso la paura, dove il penale non è più considerato una politica, bensì rischia di trasformarsi – come già avvertiva Giuseppe Bettiol negli anni ’40 del secolo scorso –  in  mera prassi politica «al cui servizio tutto deve sottostare», divenendo così una «una pura e semplice forma di terrore»[60].

Nell’ottica del right to punishment la punizione del reo non deve contenere solo la condanna del suo comportamento da parte della società, ma anche una manifestazione di solidarietà verso la vittima, che si estrinseca mediante l’inflizione effettiva di una sofferenza all’autore. Vene pertanto sottoposto a critica il consueto modo di vedere dei penalisti, i quali sono abituati a considerare la penale come elemento di una relazione istituzionale tra lo Stato e l’autore del reato, mentre invece si dovrebbe articolare una triangolazione, che collega lo Stato, l’autore e la vittima[61].

Occorre allora ribadire con forza che il principio di non colpevolezza, che è alla base dell’intero architrave delle garanzie processuali non bilanciabili che consentono a un ordinamento di potersi definire come rispettoso dei diritti umani, non tollera scivolamento alcune verso intollerabili distorsioni del concetto di “punire” inteso (anche) come una sorta di obbligazione comunicativa verso la vittima.

Far credere che il diritto al giusto processo possa essere posto in bilanciamento con le pretese delle vittime deve, pertanto, rimanere una mera “crudele illusione”.

  1. Giustizia riparativa e paradigma vittimario

La logica riparativa, a differenza di quella reo-centrica tradizionale, è bipolare, «nella misura in cui ritaglia uno spazio addirittura prioritario a favore della vittima»[62].  Le prerogative riconosciute a quest’ultima, invero, possono entrare in tensione con le garanzie pensate per la persona indicata come autore del reato, con la conseguenza che il modello riparativo rischia di trasformarsi in «paternalismo manipolatore, seppure dialogico e soave, talvolta anche umiliante. Tutto ciò nel rispetto formale del (possibile) reo, indotto a partecipare ai programmi di giustizia riparativa dalla forza persuasiva della punizione incombente»[63].

Poco studiate sono, peraltro, le possibili intersezioni tra restorative justice e populismo. Molto dipende dal modello di disciplina adottato per regolamentare il percorso riparativo, dallo stato di salute del sistema punitivo col quale esso è destinato a interagire, dal livello di competenza professionale dei mediatori, nonché dalle aspettative degli autori dell’offesa e delle vittime. Tuttavia, non è da escludere il rischio che nel percorso riparativo possa risultare prioritario il risarcimento della “comunità-popolo”, secondo una paradossale logica escludente e opposizionale che potrebbe degenerare in una irrazionale denigrazione dell’autore dell’offesa come «forma di risarcimento del noi»[64].

Genera pertanto perplessità l’innesto del percorso riparativo nel processo penale: tale percorso dovrebbe infatti rimanere lontano dal processo, se non altro per scongiurare il rischio indotto dalla forza persuasiva della punizione incombente; persuasione che può risultare tanto più forte quanto più debole è il presunto colpevole.

Del resto, il programma di cui il giudice o il pubblico ministero possono disporre d’ufficio l’avvio (ex art. 129-bis c.p.p., di recente modificato dal d.lgs. n. 31 del 2024) «presenta una indiscutibile finalità di carattere etico: responsabilizzare l’imputato e riconoscere la vittima (art. 43 d.lgs. n. 150 del 2022)»[65].

Un istituto così distante dalla cultura penalistica classica può, invero, ingenerare pericolosi fraintendimenti. Il criterio secondo cui il programma riparativo deve essere «utile» «alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto» (cui fa riferimento l’art. 129-bis c.p.p.) pare, invero, intrinsecamente incompatibile con il principio di non colpevolezza allorché dovesse essere inteso come regola di giudizio anche nel merito dei fatti[66]. Inoltre, risulterebbe minata l’imparzialità del giudicante: formulando l’invio dell’imputato al centro per la giustizia riparativa prima della condanna, il giudice anticiperebbe il convincimento sulla sua colpevolezza, senza che esista un rimedio per ripristinare la situazione di imparzialità, non essendo applicabile l’istituto della ricusazione in mancanza del carattere indebito della manifestazione circa la considerazione di colpevolezza dell’imputato[67].

Ed ancora, si sostiene altresì che la disposizione in esame, consentendo al pubblico ministero di obbligare un’altra parte (l’imputato) a tenere un determinato comportamento (che dovrebbe invece rientrare nelle prerogative difensive, ossia nell’esercizio di un diritto costituzionale definito inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dall’art. 24, 2° co., Cost.), si pone in contrasto con il principio di parità fra le parti alla base del modello costituzionale del giusto processo, delineato dall’art. 111, 2° co., Cost.[68]

Come è stato di recente osservato da un autorevole studioso come Giovanni Fiandaca, la restorative justice ha inizialmente avuto un’ispirazione prevalentemente comunitarista di matrice religiosa, che ha «mirato all’obiettivo di sottrarre i conflitti criminosi alla gestione formale e burocratica dei tribunali e dei suoi professionisti per restituirla alla comunità e alle persone concretamente coinvolte dalle azioni criminali». Allo stesso tempo, però, il modello riparativo può prestarsi al raggiungimento di scopi tecnocratico-efficientisti». Ecco allora materializzarsi un sospetto: che il modello riparativo adottato nel nostro ordinamento, che rispecchia una cultura europea vittimocentrica, si presti alla strumentalizzazione in chiave (appunto) efficientista, finalizzata dell’accertamento penale attraverso «una definizione più rapida e informale di vicende delittuose di minore gravità»[69].

Dietro la promessa che la pena non debba essere soprattutto afflizione si cela, pertanto, una mera (per lo più illusoria) promessa di deflazione?

Non potranno che essere i fatti a svelarci in futuro se il modello italiano di interazione tra giustizia punitiva e giustizia riparativa «riflette un compromesso virtuoso ed efficace o un’ennesima illusione penologica»[70].

  1. Considerazioni conclusive

Le carceri italiane sono diventate luoghi di morte, più che di risocializzazione.

La pena carceraria ha da tempo superato la soglia dello scandalo. «Che significa scandalo? Scandalo è tutto ciò che suscita reazione di sdegnata meraviglia per l’assurdità del suo stesso accadere e per l’apparente impossibilità che ciò che è accaduto accada davvero […] Sostanzialmente si fa perno sulla constatazione che il carcere realizza una situazione di fatto che è in contrasto con tutti i parametri normativi dettati per disciplinarla. Il carcere è, quindi, un luogo di sistematica violazione della legge: il che, considerato che si tratta del baricentro del sistema penale, è una nota inquietante. Ciò significa che il diritto penale poggia su un dato che di per sé rappresenta una violazione sistematica della legalità. Il capovolgimento lascia un po’ interdetti»[71].

Eppure i detenuti sono le “vittime” dimenticate dall’ordinamento. Vittime della stessa fabbrica delle “vittime perbene” [72] che, come l’erpice de La colonia penale di Franz Kafka, è oramai un’inarrestabile macchina generatrice di sofferenza. Da tempo il principio di extrema ratio, della pena in generale e del carcere in particolare, è messo all’angolo: «una idea sempre più riottosa a penetrare nel sedime delle convinzioni diffuse, visto che ormai si scontra con una narrazione che elegge la pena a risposta elettiva ad ogni problema o ogni irritazione sociale, trovando costante sostegno e ricezione acritica nell’agenda della politica, che ne cavalca gli accenti più irrazionali, degenerando sempre più in una opinione scomposta e virulenta che vede il carcere non come luogo di recupero e come strumento di risocializzazione, bensì come luogo di marcescenza in cui rinchiudere il reo per poi “gettare la chiave”»[73].

È noto: tra penalisti e consenso sociale non c’è mai stato un buon feeling.

Possiamo essere bollati come “veteroliberali”, allorché ci opponiamo a un diritto euro-vittimocentrico, continuando a difendere una visione del garantismo non come bilanciamento degli opposti e come concetto declinabile al plurale, bensì come autentico sbarramento al diritto penale dell’oppressione che «vede nella pena un instrumentum regni, in passato di matrice autoritaria, oggi di ispirazione populista»[74].

Ma abbiamo il dovere di denunciare infingimenti e mistificazioni, tenendo vivo quel pensiero liberale lontano da illusori finalismi palingenetici.

Le promesse del populismo vittimario sono, e devono rimanere, mere “crudeli illusioni”.

 

*Professore associato di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Udine

[1] T. Pitch, Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitivista, Torino, 2022.

[2] T. Pitch, Il protagonismo della vittima, in disCrimen, 20.2.2019.

[3] G. Minicucci, Il diritto penale della vittima. Ricadute sistematiche e interpretative, in disCrimen del 26.10.2020.

[4] Si veda E. Amodio, A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde, Roma, 2019; sia consentito rinviare anche a E. Amati, L’enigma penale. L’affermazione politica dei populismi nelle democrazie liberali, Torino, 2020.

[5] W. Hassemer, Perché punire è necessario, trad. it., Il Mulino, Bologna, 2012, p. 233 s.

[6] Cfr. G. De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Milano, 2011.

[7] A. Garapon-D. Salas, La Repubblica penale, trad. it., Macerata, 2008.

[8] T. Pitch, Il protagonismo, cit.

[9] J. Simon, Il governo della paura. Guerra alla criminalità e democrazia in America, trad. it., Milano, 2008.

[10] D. Giglioli, Critica della vittima, Milano, 2024, p. 9.

[11] A. Pugiotto, L’odierno protagonismo della vittima. In dialogo con Tamar Pitch, in disCrimen, 20.2.2019.

[12] M. Buchard-F. Fiorentin, La giustizia riparativa, Milano, 2024, p. 160 s.

[13] F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Bologna, 2019, p. 32.

[14] J. Simon, Il governo della paura, cit., p. 139 s. ampiamente, sul tema, E. Cantarella, Il ritorno della vendetta. Pena di morte: giustizia o assassinio?, Milano, 2007.

[15] F. Sgubbi, Il diritto, cit., p. 31.

[16] F. Sgubbi, Il diritto, cit., p. 31, secondo cui «[n]on è più il fatto tipico che fonda il processo, ma il processo che si mette “a caccia” del fatto tipico»;

[17] G. Minicucci, Il diritto penale, cit., p. 13.

[18] V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusti processo, Bologna, 2022, p. 49

[19] V. Manes, Giustizia mediatica, cit., p. 27.

[20] V. Manes, Giustizia mediatica, cit., p. 32.

[21] L. Cornacchia, Vittime e giustizia criminale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p.1779.

[22] C. Bernasconi, Il modello della tipicità umbratile nella recente legislazione penale, in Criminalia, 2015, p. 417 s.

[23] N. Mazzacuva, Se la pena fa ancora spettacolo: talune riflessioni “fuori dal coro”, in A. Valenti (a cura di), L’inarrestabile spettacolo della giustizia penale, Bologna, 2013, p. 73 s.

[24] Cfr. V. Manes, Sui vincoli costituzionali dell’interpretazione in materia penale (a margine della recente giurisprudenza della Consulta), in E. Amati, L. Foffani, T. Guerini, Scritti in onore di Nicola Mazzacuva, Roma, 2023, p. 179 s.

[25] L. Ferrarella, Giustizia che sappia riparare per i caduti della pandemia, in Sistema penale, 8 marzo 2023.

[26] A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, trad. it., Milano, 2007, p. 83 s.

[27] Sul rapporto tra giudizio e vendetta si veda A. Ceretti-L. Natalini, Strani frutti. Uno sguardo criminologico e visuale alla comprensione dei linciaggi come tortura pubblica, in P. Di Lucia-L. Mancini (a cura di), La giustizia vendicatoria, Pisa, 2015, p. 179 s. e 187 s.

[28] M. Adinolfi, Hanno tutti ragione? Post-verità, Fake news, Big Data e democrazia, Roma, 2019, p. 87  s.

[29] F. Giunta (a cura di), Sussidiario di diritto penale. Parte speciale, Cap. I, par. 5, in disCrimen.

[30] V. Manes, Diritto penale no limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in Quest. Giust., 2019, p. 86 s.

[31] F. Palazzo-F. Viganò, Diritto penale. Una conversazione, Bologna, 2018, p. 46.

[32] G. Martiello, Gli interventi del c.d. “Decreto-Caivano” sul diritto penale minorile, tra salvaguardia della società dal minore delinquente e tutela del fanciullo dalla società indifferente, in Leg. pen., 12.2.2024.

[33] A. Pugiotto, Cortocircuiti da evitare. Dimensione costituzionale della pena e dolore privato delle vittime, in F. Corleone-A. Pugiotto, Il delitto della pena. Pena di morte ed ergastolo, vittime del reato e del carcere, Roma, 2012, pp. 157 s. e 175. Si vedano anche G. Brunelli, A proposito della Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa (di Giovanni De Luna, 2011), ivi, p. 151 s.; G. De Luna, La parola all’Autore, ivi, p. 187 s. Parla di vittima come strumento di politiche egemoniche, L. Cornacchia, Vittime, cit., p. 1770 s.

[34] E. Antonucci, Perché la riforma Bonafede sulla prescrizione è inutile, dannosa e anticostituzionale, in Il Foglio, 1 novembre 2018.

[35] D. Salas, Il populismo penale, una malattia delle democrazie, in https://
insorgenze.net/2008/07/13/il-populismo-penale-una-malattia-democratica/
, 13 luglio 2018.

[36] E. Grande, Il terzo strike, Palermo, 2007, p. 64.

[37] Cfr. C. Cesaroni-D. Feldman-G. Irrazábar, Reflexiones en torno a los diez años de las “leyes Blumberg”, reperibile in https://www.aacademica.org/gabriela.irrazabal/18.

[38] M. Donini, Sicurezza e diritto penale, in Cass. pen., 2008, p. 3558.

[39] Cfr. V. Valentini, Le garanzie liberali e il protagonismo delle vittime. Uno schizzo sistemico dell’attuale giustizia penale europea, in Ius17@unibo.it, 2011, 1, p. 97 s.

[40] L. Re-E. Rigo-M. Virgilio, Le violenze maschili contro le donne: complessità del fenomeno ed effettività delle politiche di contrasto, in Studi sulla questione criminale, 2019, 1-2, pp. 9 s. e 26; M. Virgilio, I mantra delle politiche penali di contrasto alle violenze maschili contro le donne, in Studi sulla Questione Criminale online al link: https://studiquestionecriminale.wordpress.com/?p=5684.

[41] L. Re-E. Rigo-M. Virgilio, Le violenze maschili, cit., p. 26.

[42] E. Grande, La legittima difesa armata negli Usa: un buon modello per l’Ita­lia?, in http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-paura-fa-90-la-legittima-difesa-armata-negli-usa-un-buon-modello-per-l-italia/, 29 giugno 2018; ampiamente, sul tema G. Insolera (a cura di), Quando la difesa è legittima? Il diritto della paura e la paura del diritto, Milano, 2020.

[43] N. Mazzacuva, L’epoca della straripante ‘overcriminalization’: un possibile (immediato) rimedio, in Penale. Diritto e procedura, n. 4/2023, p. 521 s.

[44] D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo, trad. it., Garzanti, Milano, 2009.

[45] Z. Bauman, trad. it., Il demone della paura, Bari-Roma, edizione digitale 2014, cap. 3 (corsivo aggiunto).

[46] D. Salas, Il populismo penale, cit. (corsivo aggiunto).

[47] V. Valentini, Le garanzie liberali, cit., p. 104.

[48] C. E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 873.

[49] V. ad es. nella XV Legislatura, i D.D.L. costituzionale A.C. n. 1242, Boato e A.S. n. 742, Casson e altri.

[50] D.D.L. cost. n. 731 presentato al Senato il 24 maggio 2023, il cui articolo unico recita: «1. All’articolo 111 della Costituzione, dopo il quinto comma è inserito il seguente: “La legge garantisce i diritti e le facoltà delle vittime del reato”».

[51] D.D.L. cost. n. 427 presentato al Senato il 21 dicembre 2022.

[52] L. Ferrajoli, Cos’è il garantismo, in Criminalia, 2014, p. 131.

[53] Cfr. M. Buchard-F. Fiorentin, La giustizia riparativa, cit., p. 417, con riferimento a A. Pugiotto, “Preferirei di no”. Il piano pericolosamente inclinato della giustizia riparativa, in F. Corleone-A. Pugiotto (a cura di), Volti e maschere della pena. Opg e carcere duro, muri della pena e giustizia riparativa, Roma, 2013, p. 261.

[54] E. Amodio, Così il paradigma vittimario diventa pretesto che erode le garanzie, in Il Dubbio, 11 gennaio 2024.

[55] Cfr. M. Buchard, Tutelare le vittime di reati, ma come? In https://volerelaluna.it/societa/2024/02/12/tutelare-le-vittime-di-reati-ma-come/

[56] R. Orlani, La duplice radice della presunzione d’innocenza, in AA.VV., Studi in onore di E. Kostoris, Torino, 2022, p. 10.

[57] V. Manzini, Trattato di diritto processuale italiano secondo il nuovo codice, Torino, vol. I, 1931, p. 180, citato da R. Orlandi, La duplice, cit., p. 11.

[58] M.N. Miletti, La paura del processo. Spunti nella penalistica italiana (secoli XVIII-XX), in Quaderno di storia del penale e della giustizia, 2019, I, pp. 199 s. e 213, il quale evidenzia altresì che secondo Raffaele Garofalo quando il processo fosse divenuto «una cosa seria», avrebbe cooperato «all’intimidazione» e alla prevenzione «ben più che le nude minacce legislative di pene» solo teoricamente elevate.

[59] G. Fornasari, ‘Right to punishment’ e principi penalistici. Un critica della retorica anti impunità, Napoli, 2023.

[60] G. Bettiol, Il problema penale, Trieste, 1945.

[61] G. Fornasari, ‘Right to punishment’, cit.

[62] F. Giunta, Sussidiario, cit., Cap. XII, par. 8.

[63] F. Giunta, Sussidiario, cit., Cap. XII, par. 8

[64] S. Anastasia-M. Anselmi-D. Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana, 2015, p. 19.

[65] O. Mazza, Delitto e morale nella nuova sintassi penale della giustizia riparativa, in www.dirittodifesa.eu.

[66] Si veda l’ordinanza del Tribunale di Genova del 21 novembre 2023 (in Giur. pen. web, 2024, 1, con nota di V. Alberta, Giustizia riparativa: niente da salvare?) che attribuisce addirittura un onere al richiedente di «indicare in modo espresso e specifico (non già con le modalità del tutto astrette e “programmatiche” contenute nell’istanza): quali sono le possibilità di successo di un programma di mediazione; quali le affermazioni di rilievo (eventualmente con indicazione da parte del Difensore); quali le circostanze rilevanti rispetto al fatto per cui si procede; quali le eventuali offerte e/o gli eventuali propositi nei confronti della persona offesa/vittima/parte civile/danneggiato, partendo proprio dal fatto in sé così come descritto nel capo d’imputazione e verificatosi; quali gli effetti che lo stesso ha prodotto anche nei confronti di tutte le perone coinvolte e della stessa società….».

[67] O. Mazza, Art. 129-bis c.p.p., in A Giarda, G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Tomo I, Milano, 2023, p. 1971 s.

[68] O. Mazza, Art. 129-bis c.p.p., p. 1972.

[69] O. Mazza, Delitto e morale, cit.

[70] G. Fiandaca, Punizione, cit., p.

[71] T. Padovani, La pena carceraria, Pisa, 2015, p. 15.

[72] Si veda V. Stella, «Giustizia non è solo condanna: la vittima non è al centro di tutto», intervista a Vittorio Manes, secondo il quale «dietro la fabbrica dei reati c’è la fabbrica delle vittime».

[73] V. Manes, Destinati a navigare controcorrente, in Diritto di Difesa, 2 aprile 2024.

[74] F. Giunta, Sussidiario, cit., Cap. I, par. 8.2.