Enter your keyword

WAITING FOR GODOT – DI PIETRO INSOLERA E STELLA ROMANO

WAITING FOR GODOT – DI PIETRO INSOLERA E STELLA ROMANO

INSOLERA-ROMANO – WAITING FOR GODOT.PDF

                                                       Al nostro amico Federico 

Ci hai saputo dir molte cose

sul tuo destino mare

eccoci con un po’ più di speranza

eccoci con un po’ più di saggezza

e ce ne andiamo come siamo venuti

arrivederci fratello mare.

Nazim Hikmet

 

I possibili esiti della questione di costituzionalità sulla sproporzione della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa: tra progetti di riforma (destinati a rimanere tali) e manipolazioni ‘a rime possibili’.

di Pietro Insolera[1] e Stella Romano[2]

Sommario. 1. Premessa. 2. La “concezione” della libertà di stampa consolidata nella giurisprudenza convenzionale e recepita dalla Corte costituzionale nel suo ragionamento. 3. L’intervento della Corte costituzionale con ordinanza n. 132/2020: cenni di sintesi. 4. Le reazioni nella più recente giurisprudenza di legittimità e l’effetto boomerang dell’ordinanza sotto il filtro della ragionevolezza. 5. Le prospettive: nell’inerzia del legislatore, quali soluzioni possibili per sanare i vizi rilevati nell’ordinanza a “incostituzionalità prospettata”? 6. Conclusioni.

Parole chiave: pena detentiva – principio di proporzionalità – diffamazione – libertà di stampa – controlli di costituzionalità in materia penale

Il contributo muove dalla cd. ordinanza ‘ad incostituzionalità prospettata’ n. 132/2020 della Corte costituzionale, che ha sollecitato il legislatore a modificare il trattamento sanzionatorio dei reati di diffamazione a mezzo stampa, eliminando la pena detentiva, per uniformarsi ai principi consolidati nella giurisprudenza convenzionale, giusto i quali tale tipologia sanzionatoria costituisce sempre un’interferenza sproporzionata nell’esercizio della libertà di stampa. Dato conto delle modalità attraverso cui l’argomentazione del Giudice delle leggi ha recepito le statuizioni della Corte di Strasburgo, ricostruendo natura, portata e limiti del ‘diritto ad informare’ – in rapporto ai contro-interessi costituzionalmente rilevanti – si passa ad analizzare alcune recenti decisioni della Corte di Cassazione, che, diversamente dagli indirizzi precedenti, paiono essersi allineate alla prospettiva che reputa legittima e giustificata la previsione della pena carceraria unicamente in casi eccezionali, di discorsi d’odio o incitamento alla violenza. Si esamina brevemente il contenuto dei principali progetti di riforma in materia, verosimilmente destinati a rimanere inattuati, per poi concentrarsi su come potrà essere definita la questione di costituzionalità, nella perdurante inerzia del Parlamento. Infine, si svolgono alcune notazioni conclusive sul possibile esito e sugli scenari futuri.

 

  1. Premessa.

Il tempo è (quasi) scaduto. È trascorso un anno dalla ordinanza n. 132/2020[1], con la quale il Giudice delle leggi, recependo il consolidato orientamento della giurisprudenza convenzionale, aveva sospeso l’incidente di costituzionalità, rinviandone la trattazione al 22 giugno 2021, per consentire al legislatore di intervenire medio tempore sulle disposizioni oggetto di censura (art. 595, c. 3, c.p.; art. 13, l. n. 47/1948) ove esse comminano la pena detentiva (rispettivamente, alternativa o congiunta a quella pecuniaria) per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa[2]. Fattispecie nelle quali – secondo un granitico orientamento della Corte di Strasburgo – la pena carceraria, per la sua sola previsione on the books, a prescindere dall’esecuzione in concreto, è sempre da considerarsi sproporzionata e dunque illegittima in base all’art. 10 della Convenzione EDU, salvo “casi eccezionali”, in cui si determini una grave lesione di altri diritti fondamentali, come ad esempio in caso di discorsi d’odio o di istigazioni alla violenza[3].

Molte, nel frattempo, sono state le riflessioni in dottrina sulla peculiare natura di tale ordinanza, che attinge ad un tema plasticamente sensibile dove l’alto tasso di politicità insito nel sistema sanzionatorio penale si infrange sull’onda del nucleo duro della tutela della libertà di stampa nella sua concezione “funzionalista” europea.

Riflessioni che involvono il ruolo del Giudice delle Leggi che, posto dinnanzi all’inerzia del legislatore, si ritrova a dover modulare un necessario bilanciamento tra interessi e valori costituzionali contrapposti, scontando tuttavia al contempo la limitatezza degli orizzonti del devolutum e dei rimedi a sua disposizione, che segnano il confine dei poteri decisori della Corte costituzionale.

Nell’ambito di tali riflessioni, si sono approfonditi tanto il profilo del metodo, dunque la peculiare tecnica decisoria adottata (cd. ordinanza ad incostituzionalità prospettata[4], sul modello del celebre Caso Cappato, nell’ordinanza n. 207/2018, seguita dalla sentenza n. 242/2019)[5], quanto il merito della questione, con riferimento ai rilievi formulati dalla Corte, effettivamente tali da accertare un contrasto delle norme con il parametro costituzionale evocato, fornendo altresì indicazioni – per vero non molto specifiche e precise – rispetto alle linee di intervento da attuare sollecitamente in sede legislativa.[6]

Sarebbe impossibile, e forse anche inutile, ripercorrere in questa sede tutte le “tappe” della articolata vicenda, anche perché, come è noto, ormai da tempo, nell’elaborazione della Corte EDU, sono emersi i profili di frizione tra pena privativa della libertà personale e libertà d’espressione nel contesto dei “reati di penna”, e l’Italia è stata condannata in diverse occasioni, che hanno avuto ampia risonanza mediatica[7].

Pertanto, si preferisce una prospettiva più attenta alla stretta attualità e orientata agli sviluppi nel futuro davvero prossimo.

Ci si limiterà quindi a richiamare per cenni l’iter argomentativo del giudice costituzionale in relazione a due aspetti specifici.

Anzitutto, la concezione del “diritto di informare”, mutuata dalla giurisprudenza convenzionale inerente all’art. 10 CEDU e “innestata” anche in seno al parametro interno dell’art. 21 Cost[8]. In secondo luogo, le indicazioni de iure condendo, funzionali ad un “nuovo bilanciamento” d’insieme tra libertà di stampa e tutela della reputazione individuale – diverso da quello, ormai obsoleto, cristallizzato nel codice Rocco e nella legge sulla stampa – tale da imporre una riforma del trattamento sanzionatorio della diffamazione a mezzo stampa, con una totale rinuncia alla pena detentiva, necessaria al fine di assicurare la compatibilità con il disposto convenzionale.

Dopo avere ripreso tali punti chiave del ragionamento della Corte, occorrerà focalizzarsi su due recentissime decisioni del giudice di legittimità, nelle quali si nota un “cambio di passo”, volto a confinare effettivamente le ipotesi in cui la reclusione si giustifica ai “casi eccezionali” di diffamazione tale da convogliare messaggi d’odio o un incitamento alla violenza. Si tratta di un indirizzo interpretativo più aderente e fedele alla giurisprudenza convenzionale, profondamente diverso da quello propugnato in passato nella quasi totalità delle sentenze della Cassazione, dal caso Sallusti in avanti – in un assai difficoltoso “dialogo” con Strasburgo[9] – nelle quali si reputava di norma sufficiente a legittimare il ricorso alla reclusione la consapevolezza da parte del giornalista della falsità della notizia riportata e/o la gravità del vulnus alla reputazione cagionato con la pubblicazione[10].

Vero è, tuttavia, che con la (opportuna) rimessione della questione alla Corte e la scelta da parte di quest’ultima di attivare il “canale del dialogo” – ancora una volta, pare, infruttuosamente – la soluzione dell’annoso “problema” del “carcere per i giornalisti” è stato trasferito dalla sede interpretativo-giudiziale a quella della politica del diritto penale, e specificamente sanzionatoria (certo più consona, alla luce del principio di separazione dei poteri e della sua declinazione particolarmente stringente che governa l’ambito penale, la riserva di legge).

Sarà perciò opportuno focalizzarsi, da ultimo, sulla debolezza e/o incapacità ancora una volta dimostrata dall’istituzione politico-rappresentativa, la quale, sebbene siano pendenti da tempo all’esame delle Camere diversi disegni di legge di riforma organica della materia, non sembra, ad oggi, essere in grado di rispettare il “termine” posto dal giudice costituzionale.

Preso atto allora dell’inerzia parlamentare, si ipotizzerà, alla luce dei petita diversamente formulati delle due questioni di costituzionalità, quale potrà essere l’esito decisorio, chiedendosi se si opterà, in una pressoché certa sentenza di accoglimento, per una semplice ablazione della pena detentiva o per un intervento manipolativo. In tale ultima ipotesi, che riteniamo più probabile – lo anticipiamo, per poi chiarirlo meglio nel proseguo – si determinerà tuttavia il perdurare di uno stato di “incertezza” in sede applicativa, che soltanto un intervento novellistico avrebbe contribuito a risolvere. In altre parole, non ci sembra che un (pur auspicabile) accoglimento della questione possa essere in grado di riformulare la disciplina sanzionatoria individuando in maniera univoca, sulla scorta delle indicazioni convenzionali filtrate dalla Consulta, le situazioni in cui il giudice può irrogare la pena detentiva, essendo in ultima analisi rimessa alla discrezionalità giudiziale tale opzione, in caso, ad esempio, di un’estensione, con sentenza sostitutiva, della comminatoria alternativa dell’art. 595 c.p. anche all’art. 13 della legge sulla stampa, che prevede invece l’applicazione congiunta delle due tipologie sanzionatorie.

Dunque, il problema dell’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata impraticabile, perché contra legem, che aveva (condivisibilmente) animato gli atti di promovimento, potrebbe riproporsi in termini non identici, ma simili, anche in seguito all’intervento manipolativo della Corte.

  1. La “concezione” della libertà di stampa consolidata nella giurisprudenza convenzionale e recepita dalla Corte costituzionale nel suo ragionamento.

La Corte costituzionale si concentra in primis sulla giurisprudenza convenzionale relativa alla libertà d’espressione (art. 10 CEDU), che si ritiene di norma violata qualora vengano comminate e irrogate pene detentive a giornalisti condannati per diffamazione (§ 6.1 C.d.).

La concezione metodologica e funzionalista della libertà di espressione, infatti, ha sempre condotto la Corte europea ad una forte valorizzazione della libertà di stampa, cui è riconosciuto un ruolo eminente in uno Stato democratico[11], con riflessi inevitabili sul fronte della valutazione della dosimetria sanzionatoria in relazione alle fattispecie penali in materia di stampa.

La penna è il palladio della libertà”, scriveva Kant, e tale considerazione della libertà di stampa come precondizione essenziale dello sviluppo e consolidamento di ogni democrazia viene assunta dalla giurisprudenza europea, che qualifica, in modo denso di significato tale libertà come chien de garde dello Stato democratico[12]. All’interno delle società democratiche, deve, infatti, riconoscersi alla stampa e ai mass media il ruolo di fori privilegiati per la divulgazione extra moenia dei temi agitati all’interno delle Assemblee rappresentative e per il dibattito in genere su materie di pubblico interesse. In più occasioni, la Corte Edu ha sottolineato come “la stampa giochi un ruolo eminente in una società democratica : se essa non deve oltrepassare certi limiti, riguardanti in particolare la protezione della altrui reputazione, la divulgazione di informazioni confidenziali, la salvaguardia della sicurezza nazionale, la prevenzione dei reati e la tutela dell’ autorità del potere giudiziario, è suo compito, tuttavia, comunicare nel rispetto dei suoi doveri e delle sue responsabilità, informazioni e idee su ogni questione di interesse generale, ed in particolare, su questioni politiche, ivi comprese quelle che dividono l’ opinione pubblica[13].

La particolare enfasi valoriale accordata alla stampa ha sempre fatto propendere la Corte di Strasburgo verso una riduzione del margine nazionale di apprezzamento, a fronte di un più incisivo controllo europeo. La tutela forte di cui gode la stampa, in forza di quella stringente connessione esistente tra l’esercizio di tale libertà e l’interesse pubblico a ricevere le informazioni, interesse definito quale pilastro delle democrazie[14] non comporta tuttavia un’assenza totale di limiti.  La Corte infatti ha, spesse volte, ribadito come quei doveri e responsabilità, inerenti all’esercizio della libertà di espressione impongono che la garanzia offerta dall’art. 10 ai giornalisti sia subordinata all’agire in buona fede degli stessi che hanno il dovere di “fornire informazioni esatte e degne di credito nel rispetto della deontologia professionale[15].  Ciò indica un dato rilevante nella struttura dell’art. 10, per cui la previsione di doveri e responsabilità, a cui deve essere vincolato il concreto esercizio della libertà di espressione, non può risolversi in una mera enunciazione formale. Essa impone, al contrario, nella costante giurisprudenza europea, una particolare attenzione alle modalità di condotta, in cui si estrinseca l’uso della libertà, prevedendo obblighi specifici di moderazione, astensione ed autocontrollo che limitano di fatto la possibilità dell’ingerenza pubblica. Pur non avendo delineato mai specificamente la nozione di buona fede, la Corte ha fornito alcuni criteri indicativi volti ad accertare la diligenza con cui il giornalista abbia esaminato o controllato i fatti pubblicati o reperito le fonti di informazione. Più che analizzare il contenuto della pubblicazione e le sue circostanze (l’interesse pubblico, il fondamento oggettivo dei fatti narrati etc.) la giurisprudenza europea concentra il suo esame sulla condotta soggettiva del professionista: la verifica sulla attendibilità delle fonti, la ricerca di ulteriori elementi di riscontro e la possibilità offerta alla controparte di fornire la propria ricostruzione dei fatti[16].

Nei casi di diffamazione, particolarmente rilevante è la distinzione che opera la giurisprudenza europea tra due categorie potenzialmente lesive dell’onore altrui: giudizi di fatto e quelli di valore, affermando che se la materialità dei primi si può sempre provare, le seconde non si prestano sempre ad una dimostrazione della loro certezza. Per i giudizi di valore, tale esigenza è irrealizzabile e può comportare una limitazione della libertà di opinione[17] . Da ciò deriva che l’art. 10 protegge, oltre la diffusione di informazioni o dati verificabili, con un riscontro empirico, anche le opinioni, critiche o considerazioni speculative, la cui veridicità non può essere dimostrata. Non è possibile, in effetti, giungere ad affermare che un giornalista possa formulare giudizi di valore critici solo a condizione di poterne dimostrare la verità[18].

Dal quadro di sintesi della giurisprudenza europea, ne emerge, dunque, una tutela potenziata della libertà di stampa che pone l’accento sul diritto di informare che mal si concilia con la previsione di sanzioni penali, che potrebbero comportare in capo agli organi di stampa un effetto inibente rispetto alla pubblicazione di notizie di interesse per il dibattito pubblico. Orbene, con riguardo allo specifico tema della proporzionalità della pena, sin dal suo leading case[19], che riguardava un ricorso di due giornalisti rumeni condannati alla pena di sette mesi di reclusione non sospesa, ancorché in concreto non eseguita per effetto di un provvedimento di grazia presidenziale, la Corte EDU ha affermato che, nonostante l’affermazione di penale responsabilità fosse legittima, vista la falsità delle notizie riportate, la sanzione inflitta costituiva un’interferenza sproporzionata con il loro diritto alla libertà di espressione, e pertanto “non necessaria in una società democratica”.

Il giudice di Strasburgo, dopo avere rimarcato il ruolo essenziale della stampa quale “cane da guardia della democrazia”, precisava infatti che gli Stati contraenti sono obbligati a tutelare la reputazione personale, ma “non devono però farlo in una maniera che indebitamente dissuada i media dallo svolgimento del loro ruolo di segnalare all’opinione pubblica casi apparenti o supposti di abuso di pubblici poteri” (cd. chilling effect).  Come concludeva allora la Corte “l’imposizione di una pena detentiva … è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti … soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (hate speech) o di istigazione alla violenza” (par. 115).

Tale orientamento si è poi consolidato, ed è stato ribadito in due sentenze emesse nei confronti dell’Italia (sentenze 24 settembre, Belpietro c. Italia; 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia), nelle quali “la Corte EDU da un lato ha ritenuto legittima l’affermazione di responsabilità penale in capo ai ricorrenti …, stante la non veridicità e la gravità degli addebiti rivolti alle persone offese … ma, dall’altro lato, ha ritenuto sproporzionata l’inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, ancorché condizionalmente sospesa ovvero cancellata da un provvedimento di grazia del Presidente della Repubblica” (§ 6.2 C.d.).

  1. L’intervento della Corte costituzionale con ordinanza n. 132/2020: cenni di sintesi.

Orbene, i giudici costituzionali, alla stregua di tali coordinate offerte dalla giurisprudenza europea, rimarcano la pressante esigenza di rimeditare il bilanciamento tra libertà d’espressione e protezione della reputazione, posto alla base della normativa oggetto di censura (§ 7 C.d.).

La libertà di manifestazione del pensiero – come si rammenta con ampi richiami giurisprudenziali (tra i quali la prima sentenza della storia della Corte, n. 1/1956, che censurò una disposizione di legge proprio per contrasto con l’art. 21 Cost.) – costituisce una “pietra angolare dell’ordine democratico”, la cui specifica proiezione della libertà di stampa riveste un “ruolo essenziale nel funzionamento del sistema democratico … nel quale al diritto del giornalista di informare corrisponde un correlativo “diritto all’informazione” dei cittadini … «qualificato in riferimento ai princìpi fondanti della forma di Stato delineata dalla Costituzione, i quali esigono che la nostra democrazia sia basata su una libera opinione pubblica e sia in grado di svilupparsi attraverso la pari concorrenza di tutti alla formazione della volontà generale», e «caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie […] in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti”. Se ciò impone di salvaguardare l’attività giornalistica “contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta” tale da indebolirne la vitale funzione nel sistema democratico – prosegue la Corte (§ 7.2 C.d.) – è altrettanto vero che il diritto di libertà di informazione deve “essere bilanciato con altri interessi e diritti, parimenti di rango costituzionale, che ne segnano i possibili limiti”. Il riferimento è alla “reputazione della persona”, diritto fondamentale che trova riconoscimento in previsioni costituzionali interne (art. 2 Cost.) e disposizioni convenzionali (art. 8 CEDU), intimamente connesso con la stessa dignità della persona, che può essere vulnerato da notizie false o di rilievo esclusivamente privato.

La Corte riconosce che “il punto di equilibrio” tra tali istanze contrapposte “non può … essere pensato come fisso e immutabile, essendo soggetto a necessari assestamenti, tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione”. Può così apprezzarsi l’inadeguatezza del bilanciamento cristallizzato nelle disposizioni censurate, così come interpretate secondo il “diritto vivente” (in particolare, relativamente ai noti limiti all’esercizio del diritto di critica: pertinenza, verità, continenza).

Inadeguatezza derivante anche dai rilevati profili di anacronismo della disciplina, che si fonda su un “bilanciamento … ormai inadeguato, anche alla luce della copiosa giurisprudenza della Corte EDU … che al di fuori di ipotesi eccezionali considera sproporzionata l’applicazione di pene detentive, ancorché sospese o in concreto non eseguite, nei confronti di giornalisti che abbiano pur illegittimamente offeso la reputazione altrui … in funzione dell’esigenza di non dissuadere … la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri. Ciò esige una rimodulazione del bilanciamento sotteso alla disciplina … censurata, in modo da coniugare le esigenze di garanzia della libertà giornalistica … con le altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti; vittime che sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato” per la “rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima … e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato”[20].

Ebbene, la Corte invita espressamente il legislatore ad operare un intervento riformatore; sull’organo democraticamente legittimato, infatti, “incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività. Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso … a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati …, ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio” (§ 8 C.d.).

La Corte si pone così nella condizione, ad un tempo, di verificare la compatibilità delle scelte legislative incidenti sui diritti fondamentali costituzionalmente e convenzionalmente presidiati, senza fuoriuscire dal “confine dei suoi poteri” e scongiurando il “rischio che, per effetto della stessa pronuncia di illegittimità costituzionale, si creino lacune di tutela effettiva per i controinteressi in gioco, seppur essi stessi di centrale rilievo nell’ottica costituzionale”. La Corte – come anticipato – sospende dunque il giudizio ed i giudizi a quibus, rimettendo ai giudici ordinari, eventualmente chiamati ad applicare le normative censurate, il vaglio sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza delle questioni, per evitare l’applicazione degli art. 13, l. n. 47/1948; art. 595, c. 3, c.p. nelle more del giudizio di legittimità costituzionale.

Tanto è ritenuto necessario, in uno “spirito di leale collaborazione istituzionale” con il Parlamento, visti anche i numerosi progetti di riforma in esame dinanzi alle Camere, per “consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali” (§ 8 C.d.)[21].

  1. Le reazioni nella più recente giurisprudenza di legittimità e l’effetto boomerang dell’ordinanza sotto il filtro della ragionevolezza.

 

Orbene, le indicazioni della Corte costituzionale non hanno lasciato indifferenti i giudici di legittimità che hanno mostrato di recepire in due recentissime pronunce[22] la traccia esegetica di grande rilievo offerta dal Giudice delle Leggi, che, nell’ottica della Corte regolatrice, non può essere trascurata alla luce di una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata del tema del trattamento sanzionatorio della diffamazione.

In particolare, una prima pronuncia riguardava un caso di diffamazione a mezzo stampa in cui il ricorrente lamentava nel ricorso l’errata determinazione della pena per violazione dell’art. 133 c.p., per avere il giudice di prime cure inflitto al direttore di un giornale una pena troppo severa in rapporto alla gravità dei fatti, ossia la pena detentiva di otto mesi di reclusione e non quella pecuniaria, peraltro non condizionalmente sospesa.

In tale sentenza, la Corte di Cassazione fa mostra di assorbire le indicazioni delineate dalla Consulta, adducendo come “la scelta di applicare la pena detentiva non può che passare per la valutazione della portata delle condotte diffamatorie addebitate all’imputato; ciò allo scopo di apprezzarne – o meno – l’eccezionale gravità così come delineata dai precedenti sopra riportati, in presenza della quale sarebbe consentita l’applicazione della pena detentiva”. In altri termini, il giudice della legittimità ha affermato che spetta al giudice di merito accertare la ricorrenza del requisito dell’eccezionale gravità nel quale confluirebbero quelle “condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”.

Ecco, dunque, che pur in assenza di una maturata scelta legislativa, il giudice della nomofilachia punta l’attenzione sul giudice del merito, il quale dovrà nell’arco della sua discrezionalità vincolata ai parametri di cui all’art. 133 c.p., valutare in ultima istanza se la condotta del giornalista possa dirsi, sul piano dell’offensività nonché della colpevolezza, di gravità tale da parificarsi per “eccezionalità” ai discorsi d’odio o di istigazione alla violenza e, quindi, tale da pregiudicare in maniera seria il nucleo essenziale del diritto alla reputazione personale, riconnesso al principio-valore della dignità personale.

È nel criterio dell’eccezionalità che si individua, dunque, il parametro del bilanciamento tra il valore della libertà personale riconnessa all’intrinseca natura politica della libertà di stampa rispetto al diritto alla reputazione personale che, in qualche modo, appare scolorire nell’affermazione della pretesa punitiva dello Stato a meno che la portata dell’aggressione al valore in esame non sia tale da poter riverberarsi in conseguenze esorbitanti dalla mera sfera individuale del singolo, come nel caso dei discordi d’odio[23].

Se questo era il quadro in cui si iscriveva la questione problematica relativa al bilanciamento tra libertà di stampa e diritto alla reputazione, la Corte di Cassazione sembra tuttavia “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, nella misura in cui, in una successiva pronuncia,  in un caso di diffamazione commesso da un privato a mezzo un social network, allarga il suo spettro di tutela non solo ad i casi di diffamazione commessi a mezzo stampa, ma altresì a quelle fattispecie, che, presentando la medesima capacità diffusiva, ne sono in qualche modo assimilabili.

La Corte di Cassazione si pone dunque l’interrogativo, richiamando due precedenti della Corte di Strasburgo[24], riferibili al diritto di critica nei confronti degli organi giudiziari, se la pena detentiva possa ritenersi sproporzionata anche nei casi di condanna per diffamazione commessa non con il mezzo della stampa, o comunque non nell’esercizio dell’attività giornalistica e del connesso diritto di cronaca e di critica.  In particolare, il giudice della nomofilachia, in un preteso dialogo intonato con la Corte Costituzionale, ha sottolineato come il giudice delle leggi abbia posto la necessità di una rimeditazione del bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione che tenga conto anche “della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni”, e degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”. In altri termini, l’ordinanza “monito” non sembra circoscrivere, a parere della Corte di Cassazione, l’opportunità di una rimeditazione della necessità della pena detentiva ai soli casi di esercizio dell’attività giornalistica, estendendo la valutazione anche ai casi di rapida e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks.

In verità, occorre sottolineare come la pronuncia di legittimità sembri frutto di un fraintendimento argomentativo nella parte in cui riporta il riferimento, contenuto nell’ordinanza n. 132, agli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet”: riferimento che, nel contesto dell’ordinanza in esame, sembra spingere non tanto nella direzione dell’estensione della giurisprudenza europea a fattispecie non connesse all’esercizio della professione giornalistica, quanto, all’opposto, verso un’attenta considerazione delle rinnovate e più pregnanti esigenze di tutela della reputazione individuale nell’era dei social networks[25].

Tuttavia, la Corte di Cassazione ne ha dedotto sotto il profilo costituzionale come escludere la pena detentiva – riservandola soltanto ai c.d. discorsi d’odio – alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell’esercizio dell’attività giornalistica, rischia, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, coloro che commettano il fatto non nell’esercizio dell’attività giornalistica), e, dall’altro, il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva offensività, rispetto a quelli commessi nell’esercizio dell’attività giornalistica.

In altri termini, tale ultima sentenza del giudice di legittimità, rimettendo al giudice di merito la scrittura della parola definitiva sulla ragionevolezza della sanzione, presta il fianco ad una lettura ulteriore dell’ordinanza della Corte costituzionale de iure condendo.

Posta la necessità della ridefinizione dei criteri di bilanciamento nell’ambito del reato di diffamazione, ci si chiede se non sia, per l’appunto, ragionevole, vincolare gli stessi non tanto al parametro dell’eccezionale gravità, ricondotto peraltro analogicamente ai discorsi d’odio e di istigazione alla violenza, ma bensì a criteri ben più definiti, anche in omaggio ai principi di determinatezza e tassatività e che possano, da un lato distinguere la condotta del giornalista da quella del privato cittadino responsabile di condotte diffamatorie, dall’altro approntare le sanzioni proporzionate in rapporto al concreto canone dell’offensività della condotta.

D’altronde, sin dal 1966 la Corte Costituzionale ha posto l’accento sul ruolo del legislatore nel giudizio di bilanciamento, specificando che, nei casi in cui si verifichi una potenziale collisione fra la libertà di manifestazione del pensiero ed altro bene o interesse garantito in Costituzione, non dovrà giustificarsi il sacrificio del primo rispetto al secondo, ma occorrerà sempre operare un giudizio di prevalenza o soccombenza del valore in concreto dei due interessi che si trovano contrapposti: giudizio che sarà compito del legislatore il quale intende porre la norma, e dell’interprete poi chiamato ad applicarla, secondo l’unico canone della ragionevolezza[26].

Se, dunque, il giudizio di bilanciamento, seppure connotato da margini di incertezza e discrezionalità, potrebbe essere in linea con una considerazione finale della libertà di pensiero, come garanzia, cioè, di un bisogno insopprimibile dell’uomo, ma pur sempre da contemperare con altri interessi e beni innegabilmente essenziali; dall’ altro canto un uso generalizzato ed assorbente dello stesso finirebbe per “snaturare il diritto”, sradicando l’istituto dalle ragioni che lo sostengono.  E questo solo che si consideri anche il valore strumentale della libertà di manifestazione del pensiero per la ricerca della verità in vari campi dell’esperienza umana[27].

Il valore di verità, e dunque la dignità che il libero pensiero reca con sé non è infatti, né può essere indifferenziato, “perché pur essendo immancabile in ogni manifestazione del pensiero, assume rilievo apicale solo quando investe valori apicali (democrazia, azione-difesa, religione, scienza)”[28].

In tale quadro valutativo, meno facile sembrerebbe ammettere limiti alla libertà di pensiero, come traspare anche dall’argomentare della Consulta con riferimento alla stampa o finanche al diritto di difesa nell’ultima pronuncia citata della Cassazione, per i richiami predetti della giurisprudenza europea, dal momento che essa fa corpo con altri valori, assumendo un rilievo supremo nel suo sviluppo complessivo e nelle sue singole esplicazioni, che impedisce di separarne le sorti da quelle, apicali, appunto degli argomenti a cui inerisce.

Ciò tuttavia non vuole dire, come sembrerebbe ribadire allo stesso modo il Giudice delle Leggi nell’ordinanza in esame, che la libertà di manifestazione del pensiero possa essere limitata a discrezione del legislatore, ma che la legittimità delle limitazioni è subordinata alla duplice condizione che “il diritto stesso non ne risulti snaturato o che non ne sia reso arduo l’esercizio” e che sia giustificata dalla protezione di altri valori costituzionali[29].

 

  1. Le prospettive: nell’inerzia del legislatore, quali soluzioni possibili per sanare i vizi rilevati nell’ordinanza a “incostituzionalità prospettata”?

Si è visto che la Corte, dopo avere delineato per grandi linee le direttrici della riforma[30], ha fatto riferimento ai numerosi progetti di riforma in esame dinanzi alle Camere[31], per “consentire al legislatore di approvare nel frattempo una nuova disciplina in linea con i principi costituzionali e convenzionali” (§ 8 C.d.).

Tra i vari progetti, quello più significativo è il DDL Caliendo S. 812.

Tale sforzo riformatore, che sarà con ogni probabilità destinato a rimanere tale, non giungendo a compiuta realizzazione in tempo utile, prevede interventi ad ampio raggio sulla l. n. 47/1948 e sul tessuto codicistico.

Nel rinviare a osservazioni più approfondite, anche per una incisiva critica rispetto alla “coerenza” con le indicazioni della Corte[32], preme segnalare l’integrale rimodulazione del regime sanzionatorio delle fattispecie di diffamazione a mezzo stampa, con l’eliminazione della pena detentiva e lo speculare, sensibile, incremento dei corredi edittali della multa.

In letteratura, pur affermandosi che siffatta novella sarebbe stata tendenzialmente in grado di sanare le criticità evidenziate dalla Consulta, rendendo la disciplina maggiormente conforme alla libertà d’espressione, sono stati formulati numerosi rilievi critici.

Si è ad esempio osservato che il robusto innalzamento delle pene pecuniarie avrebbe potuto determinare parimenti una frizione con i principi convenzionali, dando vita a quel chilling effect che, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, non si riconnette esclusivamente alla pena detentiva[33]. A tale problema, di “sproporzione per eccesso”, si affianca un opposto rischio di sproporzione “per difetto”. Se si considera infatti che le sanzioni pecuniarie vanno di norma a colpire gli editori (oltre alla possibile frizione col principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.), si provoca un diverso livello di afflittività e, conseguentemente, di deterrenza, a seconda delle condizioni economico-patrimoniali degli stessi, alcuni dei quali (quelli con maggiore disponibilità economica) potrebbero effettuare un preciso calcolo economico di policy aziendale a fini di profitto, avallando di fatto una linea editoriale particolarmente aggressiva, in spregio sistematico alla reputazione individuale e alla riservatezza. Ancora, si è rimarcato l’utilizzo eccessivamente parco delle sanzioni interdittive, limitato ai soli casi di recidiva reiterata specifica.

Di là da queste osservazioni, che ora passano in secondo piano, visto che il legislatore non sarà in grado di mettere mano alla materia in tempo utile, occorre chiedersi come potrà decidere le questioni la Corte.

Come si è osservato[34], sembrano essere essenzialmente due le possibilità, connesse ai differenziati “versi” dell’intervento richiesto nei due atti di promovimento.

Una prima ipotesi, in linea con la prospettazione del Tribunale di Salerno, vedrebbe il Giudice delle leggi pronunciarsi con una sentenza ablativa, tale da espungere in toto la reclusione prevista (alternativamente) dall’art. 595, c. 3, c.p. e (cumulativamente) dall’art. 13 l. n. 47/1948.

Tale soluzione, più radicale, presenta due vantaggi principali[35].

Anzitutto, sotto il profilo della legittimazione, si mostra meno problematica, giacché la Corte non dovrebbe impegnarsi in una – altamente discrezionale – manipolazione, alla ricerca di discipline sostitutive interne al sistema, limitandosi ad un dispositivo seccamente demolitorio.

Inoltre, siffatta linea di intervento parrebbe più “conforme allo spirito e agli indirizzi complessivamente emergenti dalla giurisprudenza convenzionale e tale da non rimettere al singolo giudice una valutazione ‘pericolosa’, atteso il parametro sfumato e soprattutto l’esperienza passata … che vede la Cassazione, anche pendente la questione di legittimità costituzionale e la sospensione disposta dalla presente ordinanza, sollecitare il giudice del merito a compiere accertamenti sul carattere extra ordinem dell’episodio diffamatorio nella prospettiva di una, poco convincente, interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme[36].

Una decisione ablativa non sarebbe tuttavia immune da criticità.

Basti evidenziare che essa lascerebbe permanere “lacune di tutela effettiva per i controinteressi in gioco”, pure ben evidenziate nel provvedimento, non soltanto con riferimento ai “casi eccezionali” di hate speech e istigazione alla violenza o alla discriminazione[37], ma anche ad altre ipotesi alle quali sembra alludere la Corte in motivazione, ove sottolinea l’esigenza di assicurare, nel bilanciamento, un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio dell’attività giornalistica[38].

Alla luce di tali controindicazioni, potrebbe farsi dunque strada la possibilità di definire la quaestio legitimitatis con una sentenza di accoglimento manipolativa di tipo sostitutivo, secondo le indicazioni contenute nella ordinanza del Tribunale di Salerno[39].

In tale prospettiva, la Corte limiterebbe il proprio intervento alla comminatoria cumulativa dell’art. 13 l. n. 47/1948, sostituendo la congiunzione “e” con la congiunzione “o”, tratta dalla disposizione di cui all’art. 595, c. 3, c.p., in modo tale da rendere alternativa la sanzione anche per la ipotesi di diffamazione a mezzo stampa consistente nell’attribuzione di un fatto determinato. Si ritaglierebbe così, a beneficio del giudice, uno spazio discrezionale per irrogare eventualmente la pena detentiva solo nei casi ritenuti di eccezionale gravità, non lasciando completamente sprovvisti del presidio sanzionatorio detentivo controinteressi costituzionalmente rilevanti.

Si tratterebbe certamente di un’operazione manipolativa – la trasposizione di una “logica sanzionatoria predata” da una fattispecie ad un’altra non connotata da piena omogeneità strutturale – ad elevato tasso di discrezionalità, e per questo criticabile[40], seppur non priva di precedenti nella giurisprudenza costituzionale.

Già nella sentenza n. 222/2018[41], infatti, la Corte ha proceduto in modo del tutto analogo. In tale decisione si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del R.D. 6 marzo 1942, n. 267 nella parte in cui prevedeva l’applicazione, alla condanna per bancarotta fraudolenta, delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa «per la durata di dieci anni», anziché «fino a dieci anni», ritenendo possibile sostituire il trattamento sanzionatorio (giudicato sproporzionato) previsto dalla disposizione censurata prendendo a punto di riferimento gli artt. 217 e 218 che prevedono le medesime pene accessorie, ma di durata stabilita dal giudice «fino a» un massimo determinato dalla legge[42].

La problematicità di siffatta manipolazione sul corpo dell’art. 13 l. n. 47/1948 potrebbe pertanto risultare in certo senso “sdrammatizzata”, se si guarda ai più recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale, dove proprio la perdurante omissione legislativa, anche a fronte di precedenti esortazioni alla riforma secundum constitutionem del Giudice delle leggi, sembra oggi legittimare soluzioni manipolative contraddistinte da accentuato creativismo, «svincolate» dalla dettatura costituzionale, che erano fino a poco tempo fa precluse[43].

A ben vedere, l’ordinanza ad incostituzionalità prospettata adottata nel caso di specie e le cd. “doppie pronunce”[44] – come, ad esempio, la n. 222/2018 (preceduta dal monito della sentenza n. 134/2012, seguito da inerzia legislativa) – rispondono alla medesima esigenze di fondo (assicurare maggiore effettività alla protezione dei diritti fondamentali)[45], presentando però la prima l’indubbio plus di evitare una vigenza sine die dalla norma la cui incostituzionalità è stata “accertata, ma non dichiarata”.

Nel caso di cui si discute, allora, pare comprensibile che la Consulta non abbia optato in prima battuta per l’accoglimento corredato da un problematico dispositivo manipolativo-sostitutivo, aprendosi però la strada ad intervenire in tal senso, con “legittimazione rafforzata”, nel caso di inutile decorso del termine di sospensione concesso a beneficio del legislatore.

Anche se, alla luce di tali considerazioni, riteniamo questo l’esito decisorio più probabile[46], occorre evidenziare che esso non è comunque scevro da criticità. Infatti, non riuscirebbe ad attuare appieno i principi convenzionali, vuoi perché non eliminerebbe il chilling effect connesso alla semplice previsione astratta della reclusione; vuoi perché affiderebbe in definitiva al singolo giudice il delicato compito di selezionare, attraverso una complessa interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata (la cui impraticabilità era stata, peraltro, il presupposto interpretativo della rimessione alla Corte), i casi concreti più gravi (non definiti tassativamente né a livello legislativo né a livello giurisprudenziale) meritevoli di essere sanzionati con la pena carceraria, con esito di grande incertezza.

È quindi verosimile ipotizzare che il Giudice delle leggi accompagnerà la sentenza con quella che è stata definita “clausola di transitorietà”[47], rimarcando in tal modo la provvisorietà della disciplina sanzionatoria così come rimodulata, con un ulteriore monito che espliciti la possibilità, anzi il dovere, del legislatore di intervenire quanto prima con una riforma organica della materia, avvalendosi magari dei numerosi lavori parlamentari a cui si è fatto cenno in precedenza.

Ci si domanda, dunque, se non vi sia spazio, proprio in forza di quella legittimazione rafforzata della Corte costituzionale, di cui si è detto, per una pronuncia additiva di principio, che posta la regola, ossia il criterio dell’alternatività della pena sulla traccia del co. 3 dell’art. 595 c.p., fissi poi il principio di bilanciamento, raccogliendo le osservazioni già preannunciate nell’ordinanza, in modo da non lasciare solo l’interprete, nelle more di un intervento legislativo[48]. Bilanciamento che, in ultima istanza, sembra legittimare il ricorso alla pena detentiva non solo per sanzionare la condotta diffamatoria che si risolva in un discorso d’odio o un’istigazione alla violenza, ma anche per colpire quelle ipotesi particolarmente gravi di sistematica diffusione di notizie non rispondenti al vero, attuata nella consapevolezza della loro falsità e con il preciso intento di delegittimare una determinata persona assunta a bersaglio (cd. macchina del fango).

  1. Conclusioni

 

Qualunque sia la soluzione che adotterà la Corte Costituzionale, emerge, in ogni caso, che ancora una volta il legislatore ha sprecato un’occasione importante per affermare il “volto costituzionale” del diritto penale[49].

Qualora infatti si avvalori la libertà di opinione quale strumento di edificazione dello Stato, che diviene, in tal modo, permanente processo di “integrazione”[50], risulta evidente come la mera garanzia positiva del diritto non basti da sola a preservare dalle possibili “deformazioni” la sfera pubblica e la società civile: quando l’esercizio di questa libertà si trasforma in forza sovranamente indifferente alle conseguenze di quel che viene detto, ignara del rapporto fra parola e azione, negatrice della propria responsabilità. Ciò, tuttavia, non comporta e non deve comportare la necessità di subordinare il principio di libertà ad un’utilità ideologicamente orientata, oppure rinchiudere lo stesso in una logica di secca corrispondenza ai valori di una mutevole coscienza collettiva, che si risolve, infine, nel decisionismo dell’interprete e soprattutto dei giudici.

Piuttosto, le strutture comunicative della sfera pubblica dovranno essere mantenute intatte dalla vitalità della società dei cittadini [51] e da un agire responsabile, che altro non significa, in una società pluralista “assumere nei confronti delle proprie azioni le prospettive critiche che sono tipiche dell’esperto, dell’Altro generalizzato e del proprio Sé[52]. E di qui la necessità, ineludibile per un’etica della convivenza, imposta dal supremo principio personalista, di predisporre un ambiente normativo e culturale che riconosca appieno il ruolo e la responsabilità etica dei media e della comunicazione istituzionale nella formazione della sfera pubblica e al tempo stesso, riesca a contenere le distorsioni che i media potrebbero produrre sul discorso critico, presupposto fondamentale della democrazia[53].

Auspichiamo pertanto che l’esito di tale vicenda non si trasformi in una scena del teatro di Beckett e che quest’attesa non trascorra invano.

[1] Corte costituzionale, ordinanza 9 giugno 2020-26 giugno 2020, n. 132, Pres. Cartabia, Red. Viganò, in www.cortecostituzionale.it, decisione anticipata con comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale del 9 giugno 2020, in www.sistemapenale.it, con nota redazionale di G.L. Gatta, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schema-Cappato’ e passa la palla al Parlamento, rinviando l’udienza di un anno. A margine dell’ordinanza, in un’abbondante letteratura, cfr. A. Gullo, Diffamazione, pena detentiva e chilling effect: la Consulta bussa alla porta del legislatore, in Dir. pen. proc., 2021, 2, 217 ss.; M. Mantovani, Dalla Consulta un requiem per la tutela penale dell’onore?, in www.discrimen.it, 2 ottobre 2020; M.C. Ubiali, Diffamazione a mezzo stampa e pena detentiva: la Corte costituzionale dà un anno di tempo al Parlamento per trovare un punto di equilibrio tra libertà di espressione e tutela della reputazione individuale, in linea con i principi costituzionali e convenzionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 1476 ss.; L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione nell’orizzonte della tutela integrata dei diritti fondamentali, in www.sistemapenale.it, 21 gennaio 2021; M. Pisapia-C. Cherchi, Detenzione e libertà di espressione. Riflessioni sul trattamento sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa in occasione della pronuncia della Corte Costituzionale, in Giur. pen. web, 2020, 6, 1 ss. E ancora, da una prospettiva costituzionalistica, più focalizzata sull’analisi delle ragioni sottese all’impiego della peculiare tipologia decisoria, si v. A. Ruggeri, Replicato, seppur in modo più cauto e accorto, alla Consulta lo schema della doppia pronuncia inaugurato in Cappato (nota minima a margine di Corte cost. n. 132 del 2020), in Consulta online, 2020, II, 406 ss.; M. Cuniberti, La pena detentiva per la diffamazione tra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell’uomo: l’ordinanza della Corte costituzionale n. 132 del 2020, in Rivista AIC, 2020, 5, 121 ss.; M. Picchi, Un nuovo richiamo allo spirito di leale collaborazione istituzionale nel rispetto dei limiti delle reciproche attribuzioni: brevi riflessioni a margine dell’ordinanza n. 132/2020 della Corte costituzionale, in Oss. sulle fonti, 2020, 3, 1412 ss.; R. Pinardi, La Corte ricorre nuovamente alla discussa tecnica decisionale inaugurata col caso Cappato, in Forum quad. cost., 2020, 3, 104 ss.

[2] Come è stato rilevato in dottrina, le due ordinanze presentavano significative differenze, sia sul piano dell’argomentazione, sia sul piano dei petita. Il Tribunale di Salerno censurava tanto l’art. 13, l. n. 47/1948, quanto l’art. 595, c. 3, c.p. laddove tali aggravanti prevedono che la condotta incriminata sia punibile anche con la pena (alternativa) della reclusione, per asserito contrasto non soltanto con l’art. 117, c. 1, Cost. in relazione all’art. 10 CEDU e con l’art. 21 Cost., ma anche con gli artt. 25 e 27 Cost., mirando ad ottenere una sentenza ablativa della Corte, tale da espungere tout court dal novero delle sanzioni la pena detentiva. Diversamente, il Tribunale di Bari (sede di Modugno), censurava l’aggravante dell’art. 13 della legge sulla stampa, nella parte in cui sanziona il delitto di diffamazione aggravata, commessa a mezzo stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato con la pena cumulativa della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore ad euro 258, lamentando il contrasto con il solo art. 117, c. 1, Cost. in relazione all’art. 10 CEDU. Il rimettente chiedeva quindi di intervenire con una sentenza manipolativa di tipo sostitutivo, tale da rimpiazzare la congiunzione “e” con la congiunzione “o” e rendere la comminatoria alternativa, come quella dell’art. 595, così da fare residuare uno spazio di discrezionalità giudiziale per verificare caso per caso se, alla luce della gravità della condotta e del danno che ne deriva, possano configurarsi i “casi eccezionali” che giustificano la pena carceraria secondo i principi dell’ordinamento CEDU. Si v. amplius L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione, cit., 11-13; M.C. Ubiali, Diffamazione a mezzo stampa e pena detentiva, cit., 1478-1480; M. Cuniberti, La pena detentiva per la diffamazione, cit., 129-132; C. Melzi d’Eril-G.E. Vigevani, La riforma della diffamazione: da Strasburgo al Senato, passando per Palazzo della Consulta, in Media Laws, 2020, 3, 137 ss., 142-144.

[3] Su questa evoluzione giurisprudenziale, che costituisce la “dorsale” argomentativa dell’ordinanza, si v. da ultimo F. Viganò, La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021, 94-96.

[4] Così qualificata nella Relazione presentata dal Presidente della Corte costituzionale G. Lattanzi alla Riunione straordinaria del 21 marzo 2019, Giurisprudenza Costituzionale dell’anno 2018, p. 12, consultabile su www.penalecontemporaneo.it, con nota di C. Cupelli, Sindacato costituzionale e discrezionalità legislativa, 27 marzo 2019. Occorre segnalare che tale tipologia decisoria è stata di recente nuovamente adottata dalla Corte, per la terza volta nella sua storia, per definire la questione relativa all’ergastolo ostativo con riferimento alla preclusione all’accesso alla liberazione condizionale in caso di mancata collaborazione, si v. Corte costituzionale, ord. 11 maggio 2021, n. 97, Pres. Coraggio, Red. Zanon, in www.sistemapenale.it, con nota di E. Dolcini, L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, 25 maggio 2021.

[5] In dottrina si sono colti perspicuamente non soltanto i tratti di indubbia analogia con l’ordinanza n. 207/2018 – primo fra tutti lo spirito di leale cooperazione istituzionale tra Corte e Parlamento, dettato dalla preminente esigenza di assicurare effettiva protezione ai diritti fondamentali, evitando il protrarsi sine die una incostituzionalità “accertata ma non dichiarata”, determinato in passato dal ricorso all’inefficace strumento delle “sentenze monito” (si v. su questi due profili, anche per i riferimenti comparatistici di tali metodologie decisionali dialogiche-cooperative, la Relazione del Presidente della Corte costituzionale M. Cartabia, L’attività della Corte costituzionale nel 2019, in www.cortecostituzionale.it, 28 aprile 2020, spec. p. 12 ss., consultabile anche in www.sistemapenale.it, con nota di G.L. Gatta, La relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, 29 aprile 2020)  ma anche le significative differenze, soprattutto laddove l’ordinanza n. 132/2020 – per la molteplicità delle variabili in gioco, il timore di lasciare “vuoti di tutela” rispetto a contro-interessi costituzionalmente rilevanti e la natura sanzionatoria delle norme censurate – lascia più ampio margine di azione al legislatore, fornendo indicazioni meno puntuali in chiave di riforma. Queste ultime, come noto, nel caso Cappato erano state ritagliate sul modello normativo della l. n. 219/2017, prefigurando nitidamente già nell’ordinanza di sospensione i lineamenti della scriminante procedurale, poi compiutamente elaborata nella sentenza n. 242/2019, si cfr. A. Gullo, Diffamazione, pena detentiva e chilling effect, cit.; A. Ruggeri, Replicato, seppur in modo più cauto e accorto, alla Consulta lo schema della doppia pronuncia, cit., 406; M. Picchi, Un nuovo richiamo allo spirito di leale collaborazione istituzionale, cit., 1417-1420; in chiave particolarmente critica, v. R. Pinardi, La Corte ricorre nuovamente alla discussa tecnica decisionale, cit.

[6] Cfr. p.e. M.C. Ubiali, Diffamazione a mezzo stampa e pena detentiva, cit., 1489-1499; ma soprattutto C. Melzi d’Eril-G.E. Vigevani, La riforma della diffamazione, cit., spec. 145 ss.

[7] C. edu., sez. II, Sent. 8 ottobre 2013, Ricci c. Italia, n. 30210/06; C. edu., sez. II, Sent. 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10; C. edu., sez. I, Sent. 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia, ric. 22350/13.

[8] In tale prospettiva ermeneutica, i diritti riconosciuti dalla Convenzione EDU divengono sempre più imprescindibili criteri interpretativi delle stesse garanzie costituzionali interne, si v. F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quad. cost., n. 2/2019, 481 ss., spec. 491-492.

[9] Si veda, oltre alla nota sentenza Sallusti Cass. pen., Sez. V, Sent., (ud. 26/09/2012) 23/10/2012, n. 41249; conf. Cass. pen., Sez. V, Sent., (ud. 26/01/2015) 28/09/2015, n. 39195; Cass. pen., Sez. V, Sent. (ud. 23/11/2016) 10/02/2017, n. 6333. Contra v., isolatamente, Cass. pen., Sez. V, (ud. 11/12/2013) 13/03/2014, n. 12203.

[10]  Si tratta in particolare di Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 09/07/2020) 22-09-2020, n. 26509 nonché di Cass. Pen. Sez. V, Sent., (ud. 17/02/2021) 14-04-2021, n. 13993.

[11] CEDU, sentenza 25. 6. 1992 Thorgeir Thorgeirson c. Islanda.

[12] Per una ricostruzione della libertà di stampa nell’ambito della convenzione europea, si veda altresì S. Romano, La libertà di manifestazione di pensiero in Diritti e doveri, a cura di L. Mezzetti, Giappichelli Ed., Torino, 2013, p. 409 ss.

[13] Così CEDU, sentenza del 26. 11. 1991, Observer c. Guardian; sentenza del 23.4. 1991, Castells c. Spagna

[14] Così CEDU, sent. 8. 7. 1986, Lingens c. Austria.

[15] CEDU, sent. 25. 6. 2002, Colombani c. Francia

[16] CEDU, sent. 10. 12. 2007, Stoll c. Svizzera, vedi anche sent. 14. 12. 2004, Pedersen and Baadsgard c. Danimarca

[17] CEDU, sent. 8. 7. 1986, Ligens c. Austria

[18] CEDU, sent. 28. 9. 1999, Dalban c. Romania.

[19] CEDU, sent. 17.12.2004,  Cumpana e Mazare c. Romania.

[20] Sull’approfondimento del vulnus alla reputazione individuale che può derivare dalla diffusione di addebiti diffamatori sui social network, si v. da ultimo T. Guerini, Fake news e diritto penale. La manipolazione digitale del consenso nelle democrazie liberali, Torino, 2020, spec. 128 ss.

[21] Per un riassunto dell’ordinanza n. 132 del 2020, si veda anche la relazione della giurisprudenza annuale della Corte Costituzionale redatta a cura del Servizio Studi della Corte Costituzionale, datata 13 maggio 2021.

[22] Si tratta delle già menzionate sentenze: Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 09/07/2020) 22-09-2020, n. 26509 nonchè di Cass. Pen. Sez. V, Sent., (ud. 17/02/2021) 14-04-2021, n. 13993.

[23] Per alcune considerazioni critiche circa la radicale mutazione dei termini del bilanciamento – effettuata dalla Consulta tramite il recepimento della giurisprudenza convenzionale – che parrebbe configurarsi non più tra libertà d’espressione e diritto all’onore del singolo, ma tra libertà d’espressione e bene giuridico dell’ordine pubblico, quantomeno nell’ambito dei noti “casi eccezionali”, i soli meritevoli di pena detentiva, si v. A. Gullo, Diffamazione, pena detentiva e chilling effect, cit. e specialmente M. Mantovani, Dalla Consulta un requiem, cit.

[24] Corte EDU, Grande Chambre, caso Morice c. Francia, 23.4.2015 e Corte EDU, caso L.P. e Carvalho c. Portogallo, 8.10.2019: si trattava quindi di casi relativi a soggetti appartenenti a una particolare categoria professionale (quella degli avvocati), di cui occorre salvaguardare l’indipendenza, che potrebbe essere compromessa da un effetto dissuasivo sulla libertà di espressione derivante dall’inflizione della pena detentiva per condotte diffamatorie poste in essere nell’esercizio della professione.

[25] L.Tomasi, Diffamazione e illegittimità “convenzionale” della pena detentiva: oltre l’aggravante dell’uso della stampa? in Sistema Penale, 3 maggio 2021.

[26] C. Cost. sentt. n. 18 del 1966, 16 del 1981, e 126 del 1985.

[27] In merito al fondamento giustificativo del diritto costituzionale alla libera manifestazione del pensiero, che spesso viene dato in certa misura per scontato in seno alle democrazie liberali pluraliste, ma che invece, come insegna l’esperienza della riflessione teorica anglo-americana, presenta enorme complessità e necessita pertanto una incessante indagine “problematizzante”, si v. da ultimo l’interessante indagine monografica di A. Galluccio, Punire la parola pericolosa? Pubblica istigazione, discorso d’odio e libertà d’espressione nell’era di internet, Milano, 2020, in part. 51-103, sulla distinzione tra teorie consequenzialiste e non consequenzialiste.

[28] A. Bevere- A. Cerri, Il diritto di informazione e i diritti della persona, Giuffrè, Milano, 2006, 18.

[29] C. Cost. sent. n. 106 del 1974.

[30] Secondo la Corte, sull’organo democraticamente legittimato, “incombe la responsabilità di individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica; e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime – e talvolta maliziose – aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività. Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso … a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati …, ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico. In questo quadro, il legislatore potrà eventualmente sanzionare con la pena detentiva le condotte che, tenuto conto del contesto nazionale, assumano connotati di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, fra le quali si iscrivono segnatamente quelle in cui la diffamazione implichi una istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio” (§ 8 C.d.).

[31] Presso la Camera dei Deputati sono pendenti due proposte di legge: C. 416, presentata il 27 marzo 2018 (On. Walter Verini e altri), recante Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 3 febbraio 1963, n. 69, in materia di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di contrasto delle liti temerarie, di segreto professionale e di istituzione del Giurì per la correttezza dell’informazione, il cui esame in Commissione non è ancora iniziato; C. 1700, presentata il 26 marzo 2019 (On. Mirella Liuzzi e altri), recante Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione e di condanna del querelante, il cui esame in Commissione, anche in questo caso, non è ancora iniziato. Dinanzi al Senato è pendente la proposta S. 812, presentata il 20 settembre 2018 (Sen. Giacomo Caliendo), recante Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale, al codice di procedura civile e al codice civile, in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato, il cui esame in Commissione è terminato. Occorre segnalare anche un più risalente progetto di legge volto, tra gli altri interventi, ad abolire la reclusione dall’arsenale sanzionatorio per i reati di diffamazione, il DDL Costa (Atto Camera dei Deputati XVII legislatura, n. 925 presentato il 13 maggio 2013 d’iniziativa del deputato Costa; Atti Senato n. 1119-B trasmesso alla Camera il 25 giugno 2015), parimenti occasionato dalle sollecitazioni sovranazionali dei noti casi Sallusti e Belpietro, sul quale v. estesamente M. Pisapia-C. Cherchi, Detenzione e libertà di espressione, cit., 8-12.

[32] Si v. spec. M.C. Ubiali, Diffamazione a mezzo stampa e pena detentiva, cit.; C. Melzi d’Eril-G.E. Vigevani, La riforma della diffamazione, cit.

[33] Si v. da ultimo Corte EDU, Sez. I, sent. 16 gennaio 2020, Magosso e Brindani c. Italia.

[34] L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione, cit., 19-22.

[35] A. Gullo, Diffamazione, pena detentiva e chilling effect, cit.

[36] Così A. Gullo, Diffamazione, pena detentiva e chilling effect, cit., il quale, se da un lato si auspica tale esito decisorio, dall’altro lo ritiene più improbabile rispetto alla semplice declaratoria di illegittimità, con sentenza manipolativa di tipo sostitutivo, della sola cornice cumulativa dell’art. 13 della legge sulla stampa. Diversamente, v. p.e. M. Cuniberti, La pena detentiva per la diffamazione, cit., 139, che sembra considerare più probabile un dispositivo meramente ablativo, con definitiva e integrale eliminazione della previsione della pena detentiva.

[37] Che potrebbero essere invero sanzionati, pur non senza dubbi e problematicità interpretative, con altre norme (ad es. l’aggravante di cui all’art. 604 ter c.p. o la fattispecie autonoma dell’art. 604 bis c.p., o, in determinate circostanze, l’istigazione a delinquere ex art. 414 c.p.), per ulteriori considerazioni sul punto, si cfr. L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione, cit., 19, nt. 59; M. Cuniberti, La pena detentiva per la diffamazione, cit., 126.

[38] Come osserva L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione, cit., 16, 20, la Corte pare lasciare aperta la possibilità che la pena privativa della libertà personale possa legittimamente continuare ad essere giustificata nei casi di “campagna diffamatoria” (cd. “macchina del fango”), ossia di diffusione ripetuta nel tempo di informazioni false, da parte di soggetti consapevoli di detta falsità, che nondimeno attuano tale condotta con il preciso obiettivo di distruggere la reputazione altrui; si v. anche, analogamente, M. Cuniberti, La pena detentiva per la diffamazione, cit.,137, secondo cui “sia nella prospettiva dell’art. 21 Cost. che in quella dell’art. 10 CEDU, la consapevole e deliberata diffusione di una informazione falsa – avvenuta nella consapevolezza della sua falsità e con la specifica intenzione di distruggere la reputazione altrui – non dovrebbe considerarsi esercizio della libertà d’espressione ma, se mai, “abuso” della stessa”.

[39] L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione, cit., 20-22.

[40] Cfr. p.e. A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2019, 2, p. 251 ss., spec. 264-268, il quale parla criticamente di “proporzionalità a rime libere”.

[41] Su tale pronuncia, anche per ulteriori riferimenti, v. V. Manes, La proposizione della questione di legittimità costituzionale in materia penale e le sue “insidie”, in V. Manes-V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di legittimità costituzionale in materia penale, Torino, 2019, 171 ss., 372-378; volendo, P. Insolera-S. Romano, L’evoluzione del controllo di proporzionalità delle sanzioni penali nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in questa Rivista, 2020, 2, 321 ss., spec. 350-351, nonché P. Insolera, Oltre le “rime costituzionali obbligate”: la Corte ridisegna i limiti del sindacato sulla misura delle pene, in Giur. comm., 2020, 1, 40 ss.

[42] La Corte ha ritenuto che «la medesima logica, già presente e operante nel sistema, [potesse] agevolmente essere trasposta all’interno dell’art. 216 della legge fallimentare».

[43] Sulla «flessibilizzazione» e «relativizzazione» del limite della discrezionalità legislativa, e la correlata espansione della funzione di garanzia della Corte, determinata dall’inutile trascorrere del tempo, dopo un monito formulato al Parlamento v. efficacemente M. Ruotolo, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, in Rivista AIC, 2019, 2, pp. 644 ss., spec. 648-654.; Id., Corte costituzionale e legislatore, in Dir. e soc., 2020, 1, 53 ss., 64-72; A. Giubilei, I confini mobili della funzione di garanzia costituzionale: l’incidenza del fattore temporale sulla scelta della tecnica decisoria nelle più recenti pronunce del giudice delle leggi, in Rivista del Gruppo di Pisa, 2019, p. 91 ss., spec. 100-112.

[44] Si tratta, come precisa M. Cartabia, L’attività della Corte costituzionale, cit., 16, di ipotesi in cui «in un primo momento la Corte indica al Parlamento i punti problematici che richiederebbero una modifica legislativa nell’ambito di una sentenza di inammissibilità o di rigetto. Se il problema non trova risposta da parte del legislatore e continua ad essere portato all’esame della Corte, questa rompe gli indugi e pone essa stessa rimedio, utilizzando gli strumenti normativi a propria disposizione», v. ad es. sent. n. 222/2018 (preceduta dal monito in sent. n. 134/2012), 40/2019 (preceduta dal monito in sent. n. 179/2017), 156/2020 (preceduta dal monito in sent. n. 207/2017).

[45] V. espressamente sentenza n. 242/2019, § 4 C.d., che definisce il caso Cappato: “Il rinvio disposto all’esito della precedente udienza risponde, infatti, con diversa tecnica, alla stessa logica che ispira, nella giurisprudenza di questa Corte, il collaudato meccanismo della “doppia pronuncia” (sentenza di inammissibilità “con monito” seguita, in caso di mancato recepimento di quest’ultimo, da declaratoria di incostituzionalità). Decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la prioritàOve … i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta — come nel caso di specie — in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa), questa Corte può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento “secco” della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento (in questo senso, sentenze n. 40 del 2019, n. 233 e 222 del 2018 e n. 236 del 2016) ». In letteratura, su questi profili, acutamente, cfr. P. Gaeta, La scala di Wittgenstein: dialoghi tra Corti, giudice comune e primauté della Corte costituzionale, in Giustizia Insieme, 17 ottobre 2019, 1 ss., p. 12.

[46] Così, ad es., anche G.L. Gatta, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schema-Cappato’, cit., § 4.

[47] Per tale definizione si v. L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Napoli, 2020, 383 ss. La circostanza di lasciare aperta (anzi, di sollecitare) la possibilità di un intervento legislativo successivo alla censura, che, tramite un diverso bilanciamento complessivo degli interessi in gioco, ricalibri “in chiave sistematica” le comminatorie, a condizione però che si ponga entro la “cornice invalicabile” fissata dalla Corte, è stata sottolineata a più riprese nel contesto dei controlli sulla dosimetria edittale: v. p.e. Relazione del Presidente Lattanzi, Giurisprudenza Costituzionale, cit., p. 18; N. Zanon, L’ascesa del potere giudiziario, tra mode culturali e mutamenti costituzionali, in AA.VV., C. Guarnieri-G. Insolera-L. Zilletti (a cura di), Anatomia del potere giudiziario. Nuove concezioni, nuove sfide, Roma, 2016, 37 ss., p. 41; F. Viganò, Indipendenza delle corti e judicial review della legislazione, in AA.VV., G. Pitruzzella-O. Pollicino-M. Bassini (a cura di), Corti europee e democrazia. Rule of law, indipendenza e accountability, Milano, 2019, pp. 23 ss., spec. pp. 34-35. Si v. criticamente sul punto specifico, tuttavia, A. Morrone, Suprematismo giudiziario, cit., 268.

[48] Non ignoriamo, tuttavia, la estrema problematicità connaturata a tale tipologia decisoria in materia penale, come di recente rammentato dal Presidente Emerito Lattanzi: “In ogni caso nel campo del diritto penale sostanziale non possono mai trascurarsi prioritarie esigenze di certezza e conoscibilità delle disposizioni, tali da sconsigliare l’impiego di altre forme decisorie a minor tasso di determinatezza, come quelle delle pronunce additive di principio, ove un ruolo fondamentale di ricomposizione del tessuto normativo è affidato, in difetto di un intervento legislativo, al giudice comune”, v. G. Lattanzi, Giurisprudenza Costituzionale dell’anno 2018, cit., 17.

[49] Che è stato invece al centro della “svolta” nella giurisprudenza costituzionale dell’ultimo lustro, si v. p.e., espressamente, Corte costituzionale, sentenza n. 179/2017, § 4.4 Cons. in diritto.

[50] R. Smend, Costituzione e diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1988, 284 ss

[51] J. Habermas, Between Facts and Norms, tr. inglese di W. Regh, The Mitt Press, Cambridge (Mass), 1996, 426 ss.

[52] C.Offe, Bindung, Fessel, Bremse, in A. Honneth e Altri, a cura di, Zwischbetrachtungen, Frankfurt-Main, 1989, 789.

[53] Interessanti spunti di riflessione su questi profili, anche grazie a numerose esemplificazioni pratiche di tali “distorsioni” nell’attività giornalistica di narrazione della giustizia penale da parte dei media, in L. Manconi-F. Graziani, Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale, Torino, 2020, spec. 10-46.