Enter your keyword

CARCERE, EMERGENZA SANITARIA E POPULISMO PENALE – DI CONCETTO DANIELE GALATI

CARCERE, EMERGENZA SANITARIA E POPULISMO PENALE – DI CONCETTO DANIELE GALATI

GALATI – CARCERE, EMERGENZA SANITARIA E POPULISMO PENALE.PDF

di Concetto Daniele Galati*

L’emergenza sanitaria ha sollevato il velo sulle condizioni del sistema penitenziario nazionale, sulle sue risalenti fragilità e sugli effetti di scelte politico-legislative incapaci di valutazioni prospettiche. Una crisi che mostra quanto abbia inciso sul carcere e sulla vita dei detenuti il sostanziale abbandono della complessiva riforma dell’ordinamento penitenziario, concepita e mai nata, in favore di iniziative securitarie di breve respiro, antitetiche rispetto ai principi costituzionali e sovranazionali in materia di funzione ed esecuzione della pena. Un problema culturale, prima che normativo, che ha fatto sì che ogni sforzo di innovazione rimanesse solo sulla carta, con il drammatico effetto di perpetuare la permanenza nell’illegalità – accentuata dalla pandemia – della fase esecutiva della sanzione penale.

SOMMARIO: 1. Vite di scarto: carcere e populismo penale. – 2. Il sistema detentivo italiano: fra malfunzionamento cronico e occasioni sprecate; – 2.1. (segue) le censure della Corte Edu e la “reazione” del legislatore; – 2.2. (segue) gli Stati Generali sull’esecuzione penale; – 2.3. (segue) Il “cambiamento” a passo di gambero. – 3. Carcere e pandemia; – 3.1. (segue) art. 41 bis, diritto alla salute ed emergenza sanitaria: cenni; – 3.2. (segue) il decreto c.d. “Ristori”. – 4. Considerazioni conclusive.

  

  1. Vite di scarto: carcere e populismo penale.

Il carcere è un muro, «il più spaventoso strumento di violenza esistente»[1], che cela a una società distratta il quotidiano ripetersi di ingiustificati abusi e privazioni, che nulla hanno a che vedere con la funzione della pena: spazi angusti, strutture fatiscenti e ricolme oltre la capienza tollerabile, inevitabile promiscuità, degrado diffuso, inattività coatta per l’endemico difetto di risorse[2].

Un «locus carens caelo et aere», per riprendere una risalente ricostruzione etimologica[3], che appare più retaggio di epoche passate che espressione delle modalità esecutive della pena in un moderno Stato democratico[4].

Uno iato, per chi subisce la detenzione, fra vivere e sopravvivere.

Condizioni esistenziali insostenibili, le quali determinano un’evidente cesura fra legalità dell’esecuzione della sanzione penale e concrete modalità di espiazione, confliggendo apertamente con i principi costituzionali e con quelli che, almeno in astratto, sorreggono il vigente ordinamento penitenziario, secondo cui il detenuto è titolare di un proprio patrimonio di diritti fondamentali che lo status detentionis non può comprimere senza valide ragioni[5].

Il carcere diviene, in tal modo, «camera oscura della legalità»[6], «un’istituzione» – che già di per sé rappresenta la «vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta»[7] – «al tempo stesso illiberale, diseguale, atipica» nonché lesiva della dignità della persona, penosamente e inutilmente afflittiva»[8].

Una realtà di cui è difficile, per chi non ne ha una percezione diretta, avere piena contezza.

Deformante è anzitutto la narrazione mediatica, basata sull’idea che al reato debba conseguire una punizione “esemplare”, idonea a segnare in modo imperituro la vita del reo e a prevalere persino su diritti incomprimibili, come quello alla salute[9].

Il solo titolo di reato per cui è intervenuta la condanna diviene, in questa prospettiva, sineddoche attraverso cui definire l’individuo e la sua essenza.

Una chiave di lettura che trova humus fertile nella pubblica opinione, in cui sovente un escamotage lessicale sembra segnare la linea di demarcazione fra realtà e convinzioni individuali, come se l’essere “condannato”, “imputato” o “indagato” determini il non essere più “persona”, ma un nemico «della collettività»[10] «su cui riversare risentimento e disprezzo»[11].

La detenzione è altresì una realtà distante[12], avvolta in una nebbia di confuse opinioni che trasmodano in una congerie di mistificazioni, fra cui l’idea sin troppo diffusa che il carcere si sostanzi in una sorta di gratuita accoglienza alberghiera a cinque stelle[13]. Tali distorsioni valutative si dissolvono repentinamente solo quando il sistema penale, con tutto il suo carico di afflizione, si presenta fisicamente alla porta, determinando l’istantanea quanto tardiva riscoperta dell’importanza di diritti e garanzie[14].

Si allungano poi da tempo sul sistema carcerario, percepito come «unico rimedio alle paure del nostro tempo»[15], le ombre di una tendenza politico-criminale caratterizzata dall’estremismo sanzionatorio, dal prevalere di forme di giustizia sommaria in nome della sicurezza collettiva[16], dalla contrazione dei diritti da tutelare utilizzando come «grimaldello», per moltiplicare all’infinito le istanze di protezione individuale, il «diritto a non avere paura»[17].

La parossistica enfatizzazione del rischio-criminalità[18] ha infatti dato vita a politiche penali volte alla rassicurazione della collettività mediante la strumentalizzazione in chiave securitaria dell’esecuzione penale, snaturando la filosofia dell’ordinamento del 1975, in cui sono stati innestati divieti, preclusioni e automatismi che ne hanno irrimediabilmente compromesso la coerenza sistematica[19].

Un trend[20] ancora attuale nella più recente iniziativa politica, circoscritta a ipotetiche proposte di edilizia carceraria[21], ispirata nelle sue linee essenziali – quando non vi è stata un’esplicita adesione a un modello punitivo finalizzato all’annullamento assoluto del detenuto[22] – da un indefinito principio di “certezza della pena”, cieca rispetto alle criticità che affliggono l’esecuzione penale[23], animata dalla volontà di non assumere posizioni sconvenienti sul fronte del consenso elettorale[24] e dall’idea che lo stigma della condanna (anche solo eventuale, considerata l’elevatissima percentuale di detenuti sottoposti a regime cautelare[25]) legittimi qualsivoglia reazione statuale[26].

Quella descritta è una concezione della pena in contrasto con il quadro assiologico di un moderno Stato di Diritto e da cui emerge una visione del mondo fondata sulla labile e discrezionale contrapposizione fra “cattivi”[27] e “cittadini che da questi si sentono minacciati”[28]. In tal modo il principio di autorità  «finisce per sovrastare il paradigma democratico, perno della società liberale» e i suoi principi fondamentali, fra cui il finalismo rieducativo[29], trasfigurando la pena e la sua funzione in «una risposta truculenta e cieca disancorata da ogni istanza di razionalità e da ogni equilibrio di proporzionalità»[30]. Si abbandona in tal modo la stessa dignità della persona chiamata a rispondere del reato, soppiantando la razionalità dell’intervento punitivo a favore dell’emotività[31].

Quelle dei detenuti appaiono sempre più, riprendendo le riflessioni di Bauman, «vite di scarto», da sigillare in appositi contenitori forniti dal sistema penale[32], vittime di una cultura che intende il carcere esclusivamente come «meccanismo di esclusione e di controllo», in cui i diritti del reo sono considerati antitetici a quelli della vittima e, quindi, radicalmente opposti a quelli del pubblico[33].

Una visione della sanzione penale che non ha trovato requie neppure a fronte di un’emergenza sanitaria, quale quella derivante dalla diffusione del Covid-19, che ha sconvolto la normalità esistenziale globale, come dimostra l’inadeguatezza della risposta politica al rischio epidemico nelle carceri[34].

  1. Il sistema detentivo italiano: fra malfunzionamento cronico e occasioni sprecate;

Gli istituti penitenziari italiani sono ormai da tempo, ben prima dell’emergenza sanitaria da Covid-19, endemicamente connotati da criticità idonee a trasformare l’esecuzione della sanzione penale in una insostenibile sospensione delle più elementari esigenze umane.

In base ai risultati dei rapporti Space I[35], l’Italia si è negli ultimi anni costantemente collocata, con riferimento al problema del sovraffollamento carcerario, nelle ultime posizioni in relazione ai quarantasette Stati che aderiscono al Consiglio d’Europa, con una percentuale di detenuti non destinatari di una sentenza definitiva e di suicidi, «drammatico indicatore delle condizioni legate allo stato di detenzione»[36], al di sopra della media europea[37].

Una tendenza confermata dai rapporti Space I 2018, pubblicato il 2 aprile 2019, e 2019, pubblicato il 25 marzo 2020[38]. In particolare, nell’ultimo rapporto si registra un tasso di densità detentiva per cento posti pari al 118,9, rispetto a una media europea di 89,5. Pertanto, il tasso di affollamento nazionale degli istituti di pena è pari a circa 119 persone ristrette ogni 100 posti disponibili. Il dato è in crescita rispetto a quanto rilevato nel 2018, dove si registrava una densità detentiva pari a 115 persone ristrette ogni 100 posti[39].

Non sono maggiormente confortanti i dati registrati nelle prime fasi dell’emergenza sanitaria da Covid-19: al 29 febbraio 2020 il numero complessivo dei detenuti ammontava, a fronte di una capienza di 50.931 posti, a 61.230, di cui 18.956 non destinatari di una condanna definitiva[40].

I dati numerici non consentono tuttavia di cogliere a pieno le effettive criticità che affliggono il sistema detentivo nazionale, le quali emergono invece,  in tutta la loro evidenza, dall’indagine realizzata nel 2019 da Associazione Antigone, avente ad oggetto più della metà degli istituti penitenziari nazionali[41]: il riscaldamento, nei mesi invernali, è risultato non funzionante nel 7% dei casi, mentre l’accesso all’acqua calda sanitaria, per il malfunzionamento delle caldaie, sarebbe “non garantito” nel 35% degli istituti, fra cui le più grandi carceri del Paese; la maggioranza degli istituti penitenziari non ha una doccia all’interno della cella e consente di usufruire delle docce in sezione “a turni”, in molti casi solo una volta a settimana e in locali comuni spesso ammuffiti e insalubri; in molte carceri il numero settimanale di ore di presenza dei medici per cento detenuti è minimo e inidoneo a garantire le richieste di assistenza; la presenza di psichiatri e psicologi non è adeguata a far fronte a un disagio psichiatrico diffuso, dato che oltre un quarto dei detenuti assume una terapia psichiatrica. La quotidianità della vita detentiva è inoltre connotata da sedentarietà, immobilismo e ozio forzato: «negli istituti visitati solo un terzo delle persone detenute lavora (il 28,8% alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 4,2% alle dipendenze di altri soggetti), il 4,6% segue dei corsi di formazione professionale (nel 38,6% degli istituti non risultano attivati corsi di formazione professionale) e il 26,5% è coinvolto in un qualche corso scolastico»[42].

Giova ribadire che le drammatiche condizioni delle carceri, oltre a comprimere la dignità e i diritti dei detenuti, sono foriere di tragiche conseguenze: il numero dei suicidi, in carcere, è diciotto volte superiore alla media che riguarda la popolazione libera[43].

2.1. (segue) Le censure della Corte EDU e la “reazione” del legislatore;

L’esecuzione della pena è quindi afflitta, nel nostro Paese, da una patologia cronica, che la rende evidentemente incompatibile, oltre che con la Carta costituzionale, con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[44], come confermano le pronunce di condanna della Corte di Strasburgo e l’incapacità del legislatore di individuare soluzioni efficaci a lungo termine.

In particolare, l’art. 3 CEDU, rubricato “Divieto di tortura”, prevede che nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani e degradanti, sancendo un principio fondamentale delle società democratiche[45] – il quale, non a caso, è un elemento costante in tutti gli strumenti internazionali di tutela dei diritti dell’uomo e nella maggior parte delle Costituzioni moderne, fra cui la nostra – la cui violazione non solo lede la dignità del singolo, ma i principi fondanti dell’Europa come collettività[46].

Da tale divieto discende il diritto dei detenuti a un trattamento penitenziario che garantisca spazio adeguato, assenza di maltrattamenti fisici e psichici, ventilazione, illuminazione, temperatura sufficiente e, più in generale, le condizioni che rendono “umana” la restrizione della libertà[47]. Il problema del sovraffollamento è strettamente correlato a quello del diritto alla salute, poiché è collegato alla necessità di garantire parametri di igiene e salubrità all’interno delle strutture penitenziarie[48].

La Corte europea dei diritti dell’uomo, che già da tempo riteneva integrata una violazione dell’art. 3 Cedu quando all’esiguità dello spazio a disposizione del detenuto si accompagnassero altri fattori attinenti alle condizioni del luogo di detenzione (illuminazione, aerazione, servizi igienici, condizioni climatiche)[49], ha ritenuto proprio in riferimento al sistema detentivo italiano, con la sentenza Sulejmanovic c. Italia del 2009, che le asfittiche condizioni di una cella, con uno spazio individuale inferiore a 3mq, integrassero da sole un trattamento disumano[50].

Per far fronte alla gravità del sovraffollamento carcerario, anche a seguito della censura effettuata dai giudici di Strasburgo, il Governo adottava una serie di misure[51] che non producevano gli effetti sperati.

Difatti, la situazione del sistema penitenziario italiano rimaneva sostanzialmente immutata[52], al punto da meritare nuovamente il biasimo della Corte europea, pronunciato all’unanimità con la sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia[53].

La Corte, in particolare, accertava la violazione dell’art. 3 CEDU, osservando come la carcerazione non determini per il detenuto – il quale potrebbe avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato – la perdita dei diritti sanciti dalla Convenzione[54] ed evidenziava come il difetto di condizioni di detenzione adeguate non fosse «la conseguenza di episodi isolati», ma traesse «origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario»[55].

Siffatta condanna imponeva allo Stato italiano, in conformità all’art. 46 della Convenzione, di adottare misure, individuali e generali, che – data la natura “sistemica” del problema – non avrebbero potuto tradursi in iniziative di breve respiro volte a tamponare l’emergenza, come provvedimenti clemenziali o interventi di edilizia carceraria, occorrendo «misure in grado di incidere sulle cause del problema del sovraffollamento, interventi radicali» che proponessero «nuove politiche penali indirizzate a ripensare l’organizzazione del sistema penitenziario» e il «sistema sanzionatorio penale»[56].

La necessità di rimuovere i difetti strutturali stigmatizzati dai giudici di Strasburgo originava un periodo di forte agitazione istituzionale, concretizzatosi in due sentenze della Corte costituzionale[57], un Messaggio alle camere del Presidente della Repubblica in cui si esprimeva profonda indignazione per le condizioni delle carceri nazionali e si invitava il Parlamento a porvi rimedio[58], un piano d’azione presentato il 27 gennaio 2013 alla Corte europea, tre decreti legge[59].

Tale stagione di riforme produceva nell’immediato una riduzione del sovraffollamento carcerario, raggiungendo però un traguardo solo transitorio, dato che già nel 2015 si registrava una rapida crescita della popolazione detenuta che rendeva evidente come le iniziative assunte dal legislatore fossero «poco più di un antipiretico (…), che fa scendere la temperatura nell’immediato, ma che non assicura la guarigione»[60].

Pertanto, nonostante i plurimi interventi legislativi, volti a un tempestivo adeguamento del sistema penitenziario alle indicazioni della Corte europea e non a «rimettere in asse» la legge penitenziaria[61], la realtà carceraria italiana rimaneva ancora distante dalle caratteristiche e dalle finalità che la Costituzione assegna alla pena: alto numero di suicidi e gesti autolesionistici; carenze igieniche e inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, pressoché assoluta assenza della dimensione affettiva; mancanza di lavoro in carcere e fuori dallo stesso; insoddisfacente ricorso alle misure alternative; carenze dell’assistenza successiva alla detenzione.

2.2. (segue) gli Stati Generali sull’esecuzione penale;

Il 23 dicembre 2014 veniva presentato alla Camera dei deputati il disegno di legge n. 2798[62], il quale, all’art. 29, prevedeva la “Delega al Governo per la riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario” secondo i principi e i criteri direttivi esplicitati nel successivo art. 31.

In questo contesto, con il d.m. 8 maggio 2015, veniva decretata la costituzione di un Comitato di esperti, successivamente integrato con il d.m. 9 giugno 2015, incaricato di predisporre le linee di azione per lo svolgimento della consultazione pubblica sulla esecuzione della pena denominata “Stati Generali sulla esecuzione penale”, ossia una iniziativa volta a favorire una riflessione fra esperti dell’esecuzione penale, coinvolgendo anche la pubblica opinione, i cui risultati avrebbero dovuto fornire spunti per eventuali modifiche parlamentari del disegno di legge e per la redazione dei decreti legislativi delegati.

L’esperienza degli Stati Generali ha rappresentato a tutti gli effetti «la lucida consapevolezza dei problemi ancora da risolvere e dei modi per contribuire a ridurre lo scarto tra l’essere e il dover essere della sanzione penale»[63], con una inedita mobilitazione di energie ideali e istituzionali[64].

I lavori degli Stati Generali venivano articolati in diciotto tavoli di lavoro su specifici ambiti tematici e portavano, nell’aprile del 2016, alla pubblicazione di documenti conclusivi in cui venivano tracciate le linee di riforma dell’ordinamento penitenziario[65].

Pur non essendo possibile, in questa sede, affrontare nel dettaglio le molteplici proposte avanzate, occorre evidenziare come gli Stati Generali abbiano avuto il merito di affrontare la complessità delle problematiche del carcere e dell’esecuzione penale in un’ottica sistematica, al netto delle spinte sicuritarie che hanno connotato la politica sanzionatoria degli ultimi anni[66] e nella prospettiva di una revisione organica del sistema di esecuzione penitenziaria ispirata ai principi del finalismo rieducativo e dell’umanizzazione della pena, scolpiti dall’art. 27, co. 3, Cost.

Nella sintesi finale predisposta dal Comitato degli esperti emerge infatti un modello di esecuzione penale costituzionalmente e convenzionalmente orientato, al cui centro vengono posti «l’uomo-condannato o internato per promuoverne il processo di ricollocazione nel contesto della società libera»[67], ponendo in primo piano la funzione rieducativa della pena rispetto alle istanze di difesa sociale e ribadendo l’irrinunciabile esigenza di garantire l’effettività del divieto di trattamenti inumani e degradanti.

Centrale è l’attenzione riservata alla dignità e ai diritti dei detenuti, a cui si correlano proposte volte alla piena attuazione del principio secondo cui la restrizione all’esercizio dei diritti fondamentali del detenuto deve essere contenuta nei limiti di quanto strettamente necessario alla tutela dell’ordine e della sicurezza.

Dopo un tormentato iter parlamentare veniva approvata la l. 23 giugno 2017, n. 103, contenente un ampia delega al Governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. In particolare, il co. 83 dell’unico articolo che compone la suddetta legge fissava i tempi di attuazione della delega, da esercitarsi entro un anno, mentre il co. 85 definiva i criteri e i principi direttivi per la riforma.

Con il d.m.  19 luglio 2017 venivano istituite tre Commissioni per dare attuazione alla legge delega, le quali realizzavano «il più ampio disegno di rinnovamento dell’esecuzione penale nel nostro Paese»[68], mediante la riscrittura delle norme concernenti l’espiazione della pena, la rifondazione del sistema delle misure di sicurezza, l’elaborazione di un nuovo corpus normativo dedicato all’ordinamento penitenziario per i minorenni.

Tuttavia, nonostante la grande “consultazione sociale” realizzatasi con gli Stati generali, i lavori delle Commissioni, gli obiettivi prospettati con la legge delega, le scelte del legislatore non si sono rivelate all’altezza delle aspettative[69].

2.3. (segue) Il “cambiamento” a passo di gambero.

Sulle prospettive di riforma dell’Ordinamento Penitenziario si abbatteva la procellaria elettorale, la quale inibiva sin dai prodromi qualsivoglia iniziativa in materia penitenziaria che si contrapponesse al sentire collettivo, al punto che il Governo, dopo il parere favorevole delle Commissioni parlamentari, rinunciava a varare, proprio in vista delle elezioni, la c.d. “riforma penitenziaria Orlando”.

Nell’agone politico si invocava, da più parti, l’equazione più carcere più sicurezza che, pur contraddetta dai portati delle scienze penalistiche[70], era destinata a divenire un’espressa finalità programmatica del futuro Governo.

I risultati raggiunti dagli Stati Generali sull’esecuzione e il vento riformatore che ne aveva alimentato le vele finivano infatti, in seguito alle elezioni legislative del 4 marzo 2018, per essere travolti dal Libeccio di nuove istanze populistiche, il cui vessillo si sostanziava nella promessa di “più sicurezza” e nella continua invocazione, in una giaculatoria senza fine, della formula “certezza della pena”, trasfigurata nel suo originario significato per «asseverare l’esigenza di pene immodificabili in itinere, ovvero la messa al bando di misure di comunità e di ogni incentivo volto a favorire la partecipazione del condannato a percorsi di rieducazione»[71].

Tutti gli sforzi compiuti nell’arco di un decennio per superare la cultura carcero-centrica e ricondurre l’esecuzione della pena nell’alveo dei principi costituzionali venivano improvvisamente vanificati[72].

Gli slogan elettorali divenivano, a seguito delle elezioni, parte integrante del “Contratto del Governo del cambiamento”, dove si assumeva esplicitamente l’impegno all’inasprimento sanzionatorio per una serie di reati, alla costruzione di nuove carceri, alla revisione/soppressione della sorveglianza dinamica, alla «rivisitazione e organica» (paradossalmente invocata in correlazione alla finalità rieducativa della pena) «di tutte le misure premiali», alla riscrittura della riforma dell’ordinamento penitenziario «al fine di garantire la certezza della pena per chi delinque», all’attuazione di interventi sul 41 bis o.p. per «un effettivo rigore nel funzionamento del regime del “carcere duro”».

Breve: «una sorta di museo degli orrori della politica sanzionatoria penale»[73], che apriva una nuova fase di miope misoneismo.

Difatti, il mutato quadro politico influiva in maniera significativa sulla riforma penitenziaria: solo una piccola e residuale parte delle modifiche di stampo riformatore contenute negli articolati redatti dalle Commissioni ministeriali, incaricate per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo per l’attuazione della delega penitenziaria, sono state inserite nei Decreti Legislativi intervenuti, rispettivamente, sull’Ordinamento penitenziario (D.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123), sulla vita detentiva e il lavoro penitenziario (D.lgs. 2 ottobre 2018, n. 124) e sull’esecuzione penale minorile (D.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121).

Nonostante alcune novità positive in materia di assistenza sanitaria in carcere e lavoro penitenziario[74],  e qualche apprezzabile affermazione di principio dallo scarso rilievo pratico[75], nei suddetti decreti ben poco è rimasto del disegno di riforma “Orlando”: nessun intervento significativo è stato attuato in relazione alle preclusioni e agli automatismi inerenti all’accesso ai c.d. benefici penitenziari, alla valorizzazione delle misure alternative alla detenzione, all’affettività dei detenuti, alle problematiche relative alle situazioni di disagio psichico di detenuti e internati[76].

Una riforma priva di un effettivo contenuto riformatore, al punto che il sistema dell’esecuzione penale è di fatto rimasto «ancora uguale a se stesso»[77], «a distanza abissale dalla Costituzione»[78].

Il legislatore del 2018 si è quindi rivelato un nomoteta penitenziario poco sensibile ai principi costituzionali, fra cui la finalità rieducativa, l’umanità della pena e il diritto alla salute[79].

 

  1. Carcere e pandemia.

Su un sistema penitenziario già in grave sofferenza (v. supra, par. 2), in un contesto politico-culturale poco incline a riconoscere ii diritti dei detenuti, si abbatteva, sin dalla fine del mese di febbraio 2020, l’emergenza sanitaria da Covid-19.

Il diffondersi dell’epidemia innescava, in un primo momento, una serie di iniziative che si traducevano in ulteriori restrizioni per i detenuti, fra cui l’interruzione dei colloqui con i famigliari e le c.d. persone terze, delle attività dei volontari e delle associazioni, dei permessi premio, della semilibertà e del lavoro esterno[80].

A tale “blocco” corrispondeva, peraltro, la mancata adozione di provvedimenti volti a tutelare i detenuti da un potenziale contagio proveniente dall’esterno, atteso il difetto di misure di controllo sui soggetti che accedevano al carcere per funzioni di sicurezza o di amministrazione[81].

A ciò si aggiunga che il carcere, per le sue caratteristiche, si presentava come il contesto ideale per una diffusione massiva e incontrollabile del contagio.

In tal senso deponevano: le limitazioni nella possibilità di fruire dell’acqua e i riflessi di una simile condizione sull’igiene personale[82]; il fatto che la sanità penitenziaria non fosse attrezzata per fronteggiare adeguatamente emergenze come quella in esame; il difetto degli strumenti tipici della medicina d’emergenza, delle malattie infettive e della terapia intensiva; l’assenza, quantomeno nella fase iniziale dell’epidemia, di dispostivi individuali di protezione[83].

Tutto ciò in un ambiente carcerario sovraffollato e, di conseguenza, non in grado di garantire l’adozione di misure di profilassi analoghe a quelle assunte nel mondo esterno, come il distanziamento sociale e l’isolamento dei positivi.

È agevole intuire quale fosse il ribollire di tensioni e paure, sfociate, a partire dal 7 marzo 2020, in una serie di violente sommosse – le «più gravi della storia repubblicana»[84] – in diversi istituti penitenziari italiani (circa il 10% del totale nazionale), con un epilogo drammatico[85].

Alla rigorosa repressione di tali rivolte non sono conseguite iniziative idonee ad attenuare realmente, in una prospettiva di lungo periodo, le conseguenze della pandemia sul sistema penitenziario.

La scelta del Governo è stata, in una prima fase, quella dell’inerzia, ignorando le sollecitazioni e le proposte, provenienti da più parti[86], per una riduzione della popolazione carceraria e, il 17 marzo 2020, l’adozione del d.l. n. 18, c.d. «cura Italia», convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2020, n. 27, il quale contemplava una serie di misure volte a far fronte all’emergenza[87]. A fronte di una pandemia inedita per gravità ed estensione, potenzialmente in grado di produrre effetti devastanti sul sistema penitenziario nazionale e sulla popolazione ristretta, si è optato per soluzioni blande, temporanee, e di limitata portata applicativa[88], privilegiando una «gestione securitaria del mondo penitenziario»[89], con scelte non in linea con i documenti di indirizzo adottati sul piano internazionale[90].

È inoltre rimasto del tutto nell’oblio il tema dei detenuti in custodia cautelare, destinatario unicamente di discutibili disposizioni sospensive delle udienze e dei termini[91].

Tutto ciò a fronte di un quadro assai più articolato di possibili soluzioni per attenuare i riflessi dell’emergenza sanitaria sul sistema penitenziario[92].

La riduzione della popolazione carceraria registratasi nel corso della c.d. prima ondata della pandemia – comunque insufficiente a rendere il numero dei ristretti corrispondente a quello dei posti effettivamente disponibili – deve ricondursi prevalentemente, come si evince dai rilievi del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale[93], a ragioni diverse dalle disposizioni contenute nel d.l. n. 18 del 2020: scarcerazione dei positivi affetti da Covid 19, minori ingressi in carcere, modifica o revoca delle misure cautelari custodiali, sforzi della magistratura di sorveglianza[94].

La situazione degli istituti penitenziari è comunque rimasta critica[95], come attesta il numero di suicidi più alto degli ultimi anni[96] nonché il numero complessivo dei ristretti al 25 giugno 2020, pari a 53.527, ancora significativamente superiore ai posti disponibili[97].

Pertanto, gli interventi legislativi attuati per far fronte all’emergenza sanitaria hanno prodotto effetti  limitati, al punto che tre mesi dopo l’adozione del Decreto c.d. «Cura Italia» si registrava una tendenziale crescita della popolazione detenuta: a fine luglio, le presenze in carcere erano 53.619, con un tasso di affollamento ufficiale al 106,1% ( era del 119,4% un anno fa),  ma che in ventiquattro istituti superava  il 140% e, in tre,  il 170% (Taranto con il 177,8%, Larino con il 178,9%, Latina con il 197,4%)[98]. Di analogo tenore sono i dati più recenti, i quali danno atto della presenza negli istituti penitenziari nazionali, al 30 settembre 2020, di 54.277 ristretti (di cui 8.506 non destinatari di una condanna definitiva), a fronte di una capienza regolamentare di 50.570 unità[99].

Il carcere è pertanto rimasto un contesto fortemente problematico, incapace di garantire adeguate condizioni di vita ai detenuti e una efficace tutela dal rischio contagio, legato al perdurare dell’emergenza sanitaria e al suo, ormai evidente, aggravamento[100].

3.1. (segue) art. 41 bis o.p., diritto alla salute ed emergenza sanitaria: cenni; 

Il sostrato culturale che ha animato il legislatore dell’emergenza emerge chiaramente da quanto avvenuto a fine aprile 2020, allorquando la magistratura di sorveglianza applicava ad alcuni soggetti, noti per aver rivestito posizioni apicali nell’ambito di associazioni riconducibili alla criminalità organizzata, a fronte del ricorrere di gravi stati di infermità integranti le condizioni previste dagli artt. 146 e 147 c.p.[101], la misura domiciliare ex art. 47 ter, co. 1 ter, o.p.

Non può infatti non rilevarsi come solo l’adesione incondizionata al rancore sociale, alimentato iperbolicamente da roboanti sollecitazioni mediatiche, possa spiegare la timida risposta ai pericoli connessi al diffondersi dell’epidemia negli istituti penitenziari e, per converso, la subitanea reazione, con l’adozione dei d.l. 30 aprile 2020, n. 28 e 10 maggio 2020, n. 29, alla polemica innescata dalle suddette scarcerazioni, invero ben lontane dallo “scandalo” evocato, costituendo piena attuazione di diritti inderogabili di rilievo costituzionale[102] e sovranazionale[103].

Difatti, alle decisioni della magistratura di sorveglianza conseguiva l’immediato avvio di ispezioni ministeriali e, a distanza di pochi giorni, l’adozione del d.l. n. 28, etichettato in una prospettiva propagandistica come “antiboss[104], il quale introduceva in relazione a permessi di necessità e alla detenzione domiciliare c.d. umanitaria o “in surroga” un inedito parere obbligatorio del Procuratore distrettuale e, nel caso di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis o.p., del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo – per molti versi irragionevole[105] e di dubbia utilità[106] – in merito all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e alla pericolosità del soggetto[107].

Da tali disposizioni normative emergeva la volontà “politica” di «mostrare all’opinione pubblica la capacità dell’esecutivo di frenare i giudici»[108], con l’effetto di «indebolire il ruolo della magistratura di sorveglianza» in un momento di peculiare delicatezza[109].

L’attenzione mediatica sul tema delle scarcerazioni, sostanziatasi in una evidente trasfigurazione del dato reale[110],  stimolava ulteriormente l’attività del legislatore[111], il quale interveniva nuovamente in materia con il d.l. n. 29 del 2020.

Il decreto, in particolare, con una discutibile tecnica normativa[112], introduceva un meccanismo[113] volto alla rivalutazione, da effettuarsi nel termine di quindici giorni dall’adozione del provvedimento e successivamente con cadenza mensile, delle ordinanze di concessione della detenzione domiciliare o di differimento della pena, al fine di verificare la «permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria»[114], con la finalità, ictu oculi percepibile, di «indurre a revocare le decisioni che hanno applicato la misura della detenzione domiciliare o il differimento»[115]. In sostanza, «la magistratura veniva invitata a far rientrare il più presto possibile in cella i detenuti mafiosi già scarcerati»[116].

Il d.l. n. 28 del 2020 veniva convertito nella l. 25 giugno 2020, n. 70, mentre il d.l. n. 29, formalmente abrogato dall’art. 3 della l. n 70 del 2020, è stato trasposto, in sede di conversione, nel d.l. n. 28[117].

Per quanto osservato, le suddette iniziative normative riflettono le preoccupazioni securitarie del legislatore rispetto ai provvedimenti della magistratura di sorveglianza, rivelandosi espressione dell’attuale “momento punitivo”[118], in linea con quella politica «populista» che «vuol gestire la questione criminale senza e persino contro gli organi pubblici della repressione dei reati», a cui si ascrive la presunta «carenza di rigore punitivo», ritenendo i sentimenti delle vittime del reato preminenti sullo spazio operativo del giudice, i cui poteri andrebbero «bloccati per evitarne l’esercizio in senso buonista»[119].

È quindi l’emotività correlata al delitto a guidare la mano del legislatore, il quale percepisce il carcere come unica forma possibile di espiazione, secondo una logica esclusivamente segregativo-retributiva e «vittimocentrica»[120].

Il dolore delle vittime, per quanto comprensibile, non può però essere «un criterio di commisurazione della pena, né di valutazioni e decisioni che debbono bilanciare interessi confliggenti, comprese le esigenze di cura»[121].

Non può poi seriamente sostenersi che la modifica delle modalità esecutive della sanzione penale, per soggetti affetti da gravi patologie e prossimi al fine pena, abbia determinato un effettivo pericolo per la collettività tale da legittimare, in piena emergenza sanitaria, l’attribuzione di valore prioritario a iniziative tese a ottenere il ripristino della restrizione carceraria rispetto all’incomprimibile, per tutti, diritto alla salute.

3.2. (segue) Il decreto c.d. “Ristori”.

A fronte delle criticità del sistema penitenziario e dei pericoli connessi alla c.d. “seconda ondata” epidemica, evidente in ragione della rapida crescita dei contagi[122], le priorità del Governo sembrano ancora una volta altre[123], mentre le iniziative in materia penitenziaria assumono le sembianze del palliativo.

Con il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, c.d. decreto «Ristori», il Governo ha adottato misure volte alla riduzione, per far fronte alla recrudescenza della pandemia, della popolazione carceraria.

Un’ iniziativa normativa, preceduta dallo stucchevole cliché dell’annuncio a mezzo social [124], che mostra già ab imis le connotazioni del rattoppo temporaneo, definito ancora una volta con la fuorviante etichetta “svuotacarceri”, a una falla che richiederebbe interventi di ben più ampio respiro.

L’art. 28 del d.l. n. 137 del 2020, analogamente a quanto stabiliva l’art. 124 del d.l. n. 18 del 2020, prevede la possibilità per i condannati ammessi al regime di semilibertà di ottenere licenze premio straordinarie ex art. 52 o.p.  per una durata superiore a quella di quarantacinque giorni previsti ex lege.

L’art. 29, co. 1, d.l. n. 137 del 2020, consente, fino al 31 dicembre 2020, la concessione, in deroga ai limiti di legge (per i maggiorenni: quindici giorni per ciascun permesso fino a un massimo di quarantacinque giorni; per i minorenni: trenta giorni per ciascun permesso fino a un massimo di cento giorni all’anno per i minorenni), dei permessi premio di cui all’art. 30 ter o.p., ai detenuti che ne siano già stati destinatari “e” che siano già stati assegnati al lavoro all’esterno o ammessi all’istruzione o alla formazione personale all’esterno. Il co. 2 della medesima norma esclude dal perimetro applicativo delle suddette disposizioni i condannati per uno dei reati ostativi di cui all’art. 4 bis o.p. o per i reati di cui agli artt. 572 e 612 bis c.p., per i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero per quelli commessi avvalendosi del c.d. metodo mafioso o per finalità mafiosa (fattispecie invero già ricomprese nel catalogo ex art. 4 bis o.p.), «anche del caso in cui i condannati abbiano già espiato la parte di pena relativa ai predetti delitti, quando, in caso di cumulo, sia stata accertata dal giudice della cognizione o dell’esecuzione la connessione ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettere b) e c), del codice di procedura penale tra i reati la cui pena è in esecuzione». Tale ultima puntualizzazione appare censurabile sia per la natura delle preclusioni, ancorate al titolo di reato (la cui selezione è peraltro affidata a criteri non sempre cristallini) e incuranti del percorso seguito dal detenuto nel corso dell’esecuzione della pena, sia perché definisce un divieto di scioglimento dei cumuli di pena difficilmente condivisibile in base ai principi costituzionali in materia[125].

Se la disposizione di cui all’art. 28 d.l. n. 137 del 2020 costituisce condivisibile reiterazione di una misura rivelatasi efficace, riducendo il rischio di contagio correlato all’alternarsi di momenti di libertà e detenzione[126], la portata deflattiva dell’art. 29 del medesimo decreto appare piuttosto limitata: la norma, facendo riferimento al condannato già ammesso ai permessi e – utilizzando la congiunzione semplice “e” – anche assegnato al lavoro esterno, sembra non estendere la sua portata operativa al complesso di detenuti che abbiano già positivamente fruito di esperienze premiali[127]; le preclusioni, accompagnate dal divieto di scioglimento dei cumuli di pena, sembrano avere un significativo effetto restrittivo poco coerente con le necessità connesse alla situazione emergenziale.

L’art. 30 del decreto in esame ha ripristinato la misura di cui all’art. 123 d.l. n. 18 del 2020 relativa alla detenzione domiciliare prevedendo, in deroga alla l. n. 199 del 2010 e fino al 31 dicembre 2020, per tutti coloro che entro tale termine matureranno i requisiti per poterne godere, che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, sia eseguita, su istanza dell’interessato, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, previa applicazione del c.d. braccialetto elettronico (a meno che si tratti di minorenni o di condannati a pena da espiare inferiore a sei mesi), salvo che il magistrato di sorveglianza non «ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura». La detenzione domiciliare ex art. 30 d.l. n. 137 del 2020 non può essere applicata a: a) condannati per reati ostativi di cui all’art. 4 bis o.p. o per quelli previsti dagli artt. 572 e 612 bis  c.p. ovvero per delitti  commessi  per  finalità  di  terrorismo,  anche internazionale, o di eversione dell’ordine  democratico  mediante  il compimento di atti di  violenza,  nonché per i delitti  di  cui  all’art. 416 bis c.p.,  o  commessi  avvalendosi  delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, «anche  nel  caso  in cui i condannati abbiano già espiato la parte di  pena  relativa  ai predetti delitti quando, in caso di cumulo, sia stata  accertata  dal giudice della cognizione o dell’esecuzione la  connessione  ai  sensi dell’articolo 12, comma 1, lettere b e c,  del  codice  di  procedura penale tra i reati la cui pena è in esecuzione; b) delinquenti abituali, professionali o per tendenza; c) detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare di cui all’art. 14 bis o.p; d) detenuti sanzionati nell’ultimo anno per infrazioni disciplinari; e) detenuti nei cui confronti, successivamente all’entrata in vigore del decreto legge, sia redatto rapporto disciplinare; f) detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.

In maniera simile all’art. 123 d.l. n. 18 del 2020, la norma in esame stabilisce che la direzione dell’istituto penitenziario, ai fini dell’applicazione della detenzione domiciliare, possa omettere la relazione – prevista dall’art. 1, co. 4, della l. n. 199 del 2010 – sulla condotta tenuta dal condannato durante la detenzione, salvo che non venga in rilievo la specifica ipotesi ostativa di previ sanzioni o rapporti disciplinari a carico del detenuto. La direzione dell’istituto penitenziario è comunque tenuta ad attestare che il soggetto rientri nei limiti di pena previsti dalla norma, che non sussistano le suddette preclusioni, che il condannato abbia fornito consenso espresso al controllo tramite braccialetto elettronico, alla trasmissione del verbale di accertamento dell’idoneità del domicilio, redatto dalla polizia penitenziaria ovvero, nel caso di condannato sottoposto a programma di recupero o che intenda sottoporsi ad esso, la documentazione di cui all’art. D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 390.

Anche in relazione all’art. 30 valgono, in primis, le perplessità già espresse in relazione al divieto di scioglimento dei cumuli (cfr. supra)[128].

Si ripresentano poi, con la subordinazione della misura alla disponibilità di dispositivi elettronici di controllo (salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena da eseguire non sia superiore a sei mesi), le criticità già emerse in relazione all’art. 123 del d.l. n. 18 del 2020[129].

Sul punto giova rilevare che secondo i dati del Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, il numero di detenzioni domiciliari concesse dal 18 marzo al 5 giugno è stato di 3.489 e solo in circa 1000 casi è stato applicato il braccialetto elettronico[130]. Se il numero di dispositivi effettivamente disponibili rimane un’incognita, il dato relativo al ricorso agli stessi in costanza si pandemia stride rispetto ai circa 1000 braccialetti al mese che, almeno a partire dal 31 dicembre 2018, avrebbero dovuto costituire oggetto di specifica fornitura[131].  Pertanto, in linea puramente teorica, un elevato numero di dispositivi dovrebbe già essere immediatamente utilizzabile, destando perplessità il fatto che l’art. 30 del d.l. n. 137 del 2020 preveda l’indicazione degli strumenti da rendere disponibili «nei  limiti  delle  risorse  finanziarie  disponibili a legislazione vigente».

Resta il fatto che le misure da ultimo adottare appaiono inidonee a contrastare efficacemente gli effetti della pandemia[132]: per i limiti applicativi delle misure adottate; per l’impossibilità materiale della magistratura di sorveglianza di operare al ritmo del contagio; per la mancanza di un numero sufficiente di dispositivi elettronici di controllo; per i problemi di organico; per l’assenza di spazi adeguati all’isolamento dei detenuti che giungono dall’esterno; per gli standard igienici degli istituti; per i difetti strutturali che rendono particolarmente difficile le condizioni dei detenuti più vulnerabili[133].

  1. Considerazioni conclusive.

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha sollevato il velo sulle condizioni del sistema penitenziario nazionale, sulle sue risalenti fragilità e sugli effetti di scelte politico-legislative incapaci di valutazioni prospettiche.

Una crisi che mostra, plasticamente, quanto abbia inciso sul carcere e sulla vita dei detenuti il sostanziale abbandono della complessiva riforma dell’ordinamento penitenziario, concepita e mai nata, in favore di iniziative securitarie di breve respiro, antitetiche rispetto ai principi costituzionali e sovranazionali in materia di funzione ed esecuzione della pena.

Un problema culturale, prima che normativo, che ha fatto sì che ogni sforzo di innovazione rimanesse solo sulla carta, con il drammatico effetto di perpetuare la permanenza nell’illegalità della fase esecutiva della sanzione penale.

Il carcere è in tal modo divenuto “waste land”, una “terre gaste” dove il diritto alla salute cede innanzi a indefinite istanze di sicurezza della collettività, dove il passato criminale del detenuto è anche presente e futuro, dove non conta il percorso individuale seguito dopo la condanna, dove non vi è spazio per l’affettività[134], dove non vi è possibilità alcuna di riscatto, dove il concetto stesso di “speranza” perde ogni contenuto semantico.

È dunque in un contesto fortemente critico che si è resa necessaria, per effetto della pandemia, l’adozione di misure emergenziali – per loro natura temporanee e di carattere settoriale – che non solo si sono rivelate inadeguate, ma hanno disvelato un animus del legislatore poco incline a soluzioni di ampio respiro, per quanto umanamente e giuridicamente non procrastinabili[135].

Una tensione ideologica che ha avuto, quindi, il palmare effetto di aggravare una patologia già radicata nell’ormai risalente incapacità legislativa di guardare oltre l’urgenza, di effettuare una semina in grado di produrre frutti durevoli, di definire e perseguire obiettivi in linea con i principi costituzionali.

Sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, inadeguatezza dell’assistenza sanitaria, problematiche strutturali si traducono in intollerabili afflizioni – accentuate dalla pandemia – additive rispetto alla privazione della libertà personale, che sola «dovrebbe esaurire il contenuto della pena inflitta dallo Stato in nome della giustizia»[136].

Quelle descritte sono condizioni che si concretano, evidentemente, in una negazione della dignità umana, «parte integrante di un patrimonio di civiltà», di cui le più recenti iniziative in ambito penitenziario appaiono dimentiche, «che trova riscontro e conferma nella Carta costituzionale»[137] e che, come ha osservato la Corte di Strasburgo, costituisce un valore fondamentale «al centro del sistema creato dalla Convenzione»[138].

L’importanza di tali principi appare oggi, a fronte dell’aggravarsi del quadro epidemico, ancor più evidente, e mette in luce l’impellente necessità – oltre che di misure immediate ed efficaci per fronteggiare il diffondersi del virus nelle carceri ed evitare che ciò si traduca in un insostenibile aggravamento delle condizioni di detenzione[139] – di una riforma che sappia incidere in maniera duratura sull’esecuzione penale, dando concreta attuazione al principio costituzionale della finalità rieducativa della pena[140].

Per fare ciò è irrinunciabile il mutamento della cultura sociale della sanzione penale, eliminando ogni pulsione securitaria e carcerocentrica[141], con la contestuale assunzione di consapevolezza circa un «ridottissimo credito di fiducia» che la misura carceraria merita in termini di efficacia specialpreventiva, protezione sociale, riabilitazione e reinserimento dell’autore del reato nella comunità[142].

Non resta che sperare che l’emergenza sanitaria, avendo messo a nudo molti dei problemi che affliggono il sistema penitenziario nazionale, possa divenire stimolo ed occasione «per cominciare a portare un po’ di luce di umanità nel buio delle carceri»[143].

Godot «oggi non verrà, ma verrà (forse) domani».

*Avvocato del Foro di Busto Arsizio, docente di diritto processuale penale nell’Università LIUC di Castellanza, componente della Commissione Iniziative Legislative dell’Unione Camere Penali Italiane.

[1] In questo senso si esprime S. Bonvissuto nel racconto, dedicato al carcere, “Il Giardino delle arance amare”, contenuto nell’opera “Dentro”, Torino, 2012, p. 35. L’Autore, riflettendo sulla struttura del carcere, a p. 25, ne descrive efficacemente l’impatto soggettivo: «Quel posto non presentava nessuna delle cose esistenti nell’universo. Non avevano tolto tutto fino a non lasciare più niente, lì avevano tolto tutto e poi ci avevano messo il nulla. Col nulla avevano rivestito il pavimento. Ci avevano impastato il cemento delle mura. Ci avevano verniciato le pareti. Ed è difficile accettare la manifestazione massiccia del nulla».

[2] Come rileva L. Zilletti, L’immoralità pericolosa: il carcere nell’epoca del coronavirus, in disCrimen, 26 marzo 2020, p. 2, vi è «una realtà tragicamente estensibile alla (quasi) totalità dei penitenziari italiani», ossia un «fenomeno – fatiscenza+sovraffollamento – che l’opinione pubblica maggioritaria avverte in sottofondo, senza realmente preoccuparsene».

[3] C. A. De Rosa, Criminalis decretorum praxis, l. I, cap. III, n. 15, 22.

[4] Pare non essersi avverato l’auspicio di M. Beltrani-Scalia, Sul governo e sulla riforma delle carceri in Italia. Saggio storico e teorico, Torino, 1867, 401-402, che dopo aver censurato le condizioni delle carceri dell’epoca, affermava: «alla oscura carcere vedremo sostituirsi vasti, aerati e ben disposti locali che hanno formato oggetto di severi e pazienti studi – allo squallore, alla miseria, agli abusi d’ogni sorta, all’ozio corruttore, vedremo succedersi il conforto del bisognevole, l’ordine, la disciplina, la istruzione, il lavoro». Per una prospettiva storica sul carcere v. L. Garlati, Il carcere al tempo delle Pratiche criminali: riti antichi per funzioni nuove, in Dir. pen. cont., 2017, p. 12.

[5] F. Fiorentin, Sicurezza e diritti fondamentali nella realtà del carcere: una coesistenza (im)possibile, in Dir. pen. proc., 2019, p. 1598, il quale osserva che con l’ordinamento penitenziario del 1975 la persona detenuta è stata posta «al centro della scena», diversamente da quanto avveniva con il regolamento penitenziario del 1931, in cui era, secondo il “principio di autorità”, in uno stato di assoluta soggezione all’istituzione carceraria.

[6] M. Focault, Alternatives à la prison: diffusion ou décroissance du contróle sociale, in Criminologie, 1993, p. 25: «non bisogna mai dimenticare che al cuore di questa macchina della giustizia, destinata a far rispettare la legge, c’è un macchinario che funziona nell’illegalità permanente. La prigione è la camera oscura della legalità».

[7] F. Turati, Le carceri: cimitero dei vivi. Riflessione sulla possibilità di riforma, Discorso alla camera dei deputati del 18 marzo 1904.

[8] L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 2009, p. 410.

[9] Costituiscono paradigma esemplificativo di una simile tendenza la pletora di articoli di stampa dedicata alla scarcerazione, per motivi di saluti, di alcuni detenuti condannati per reati di mafia, fra cui, ad esempio: G. Pipitone, Coronavirus, l’emergenza riporta a casa i mafiosi dal 41 bis: concessi i domiciliari al colonnello di Provenzano, in Il Fatto Quotidiano, 21 aprile 2020; L. Abbate, Esclusivo: coronavirus, i mafiosi al 41 bis lasciano il carcere e tornano a casa, in L’Epresso, 21 aprile 2020.

[10] E. Amodio, Il populismo penale nell’italia dell’antipolitica, in Cass. pen., 2020, p. 1818.

[11] F. Palazzo, Nemico-nemici-nemico: una sequenza inquietante per il futuro del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 705.

[12] R. De Vito, La cultura della pena alla prova del contagio. Riflessioni su carcere e virus, in Questa rivista, 31 marzo 2020, rileva come le carceri siano «oggetto di una rimozione collettiva, di una rinuncia a vedere e capire», sorrette da una narrazione che, alimentando la paura, «rende l’acqua torbida e non favorisce l’intelligenza delle cose».

[13] Una percezione a cui, in realtà, sembrano non essere estranei neppure alcuni rappresentanti dello Stato, cfr. L. Fazzo, “Carcere Hotel a 5 stelle”. Il procuratore umilia il detenuto Formigoni, in Il Giornale, 28 marzo 2019.

[14] Il problema della percezione distorta, nella pubblica opinione, del Diritto penale è da tempo nota agli studiosi della materia. Come osserva W. Hassemer, Perché punire è necessario, Bologna, 2012, p. 19 ss., il Diritto penale è nel contempo vicino e lontano. Vicino perché, quale spettacolo affascinante e dall’oscura capacità seduttiva, penetra nella quotidianità attraverso i mezzi di comunicazione di massa, i quali «riportano di giorno in giorno le notizie giudiziarie operando una grottesca distorsione». Lontano in quanto chi è estraneo al mondo del Diritto, pur portato a ritenersi esperto per effetto delle informazioni apprese dai media, ritiene poco importante sapere con precisione cosa sia e come funzioni il sistema penale, «finché non ci raggiunge fisicamente». Analoghe riflessioni possono essere estese al mondo carcerario, le cui effettive condizioni, pur ignorate dalla maggior parte dei consociati, sono costantemente oggetto di pubbliche statistiche e di esplicite denunce da parte degli operatori del diritto e delle associazioni che si occupano della tutela dei diritti e delle garanzie.

[15] G. Giostra, La riforma penitenziaria: il lungo tormentato cammino verso la costituzione, in Dir. pen. cont. (web), 9 aprile 2018.

[16] Per una efficace analisi di una simile tendenza v. E. Amodio, A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde, Roma, 2019.

[17] In questo senso si esprimono A. Ceretti – R. Cornelli, Il diritto a non avere paura, in Dir. pen. proc., 2019, p. 1482, i quali evidenziano le tendenze che, segnando un cambio di paradigma rispetto al progetto democratico inclusivo, hanno caratterizzato i principali interventi legislativi degli ultimi decenni in campo penale.

[18] C. De Maglie, Alle radici del bisogno di criminalizzazione. Riflessioni in tema di moralità, immoralità e diritto penale, in disCrimen, 17 luglio 2018, p. 18.

[19] G. Giostra, La riforma penitenziaria: il lungo tormentato cammino verso la costituzione, cit.

[20] È una tendenza che caratterizza il fenomeno del c.d. “populismo penale”, etichetta elaborata, fra gli altri, da D. Salas, La volonté de punir. Essai sur le populisme pénal, Parigi, 2005. G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, p. 97, ha sottolineato come «l’ispirazione populistica si è notoriamente tradotta in una accentuata strumentalizzazione politica del diritto penale, e delle sue valenze simboliche, in chiave di rassicurazione collettiva rispetto a paure e allarmi a loro volta indotti, o comunque enfatizzati da campagne politico-mediatiche propense a drammatizzare il rischio-criminalità; in particolare, il presunto rischio proveniente dal “diverso”».

[21] Nonostante il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, sin dalla Raccomandazione (99) 22, riguardante il sovraffollamento carcerario, abbia evidenziato la necessità di cercare soluzioni a siffatta problematica mediante un ampio ricorso a misure alternative alla detenzione e alla depenalizzazione, sconsigliando – in quanto scelta inappropriata e controproducente – la creazione di nuove strutture penitenziarie: il risultato dell’attuazione di programmi di costruzione di nuovi penitenziari, è stato il solo aumento della popolazione ristretta.

[22] Troppe le pubbliche esternazioni, ad opera di rappresentanti politici di rilievo, inequivoche: “marcire in galera”; “gettare via le chiavi”, “lavori forzati”. Un decadimento lessicale che è lapalissiana espressione di un impoverimento culturale. Come osserva G. Antonelli, Volgare eloquenza. Come le parole hanno paralizzato la politica, Bari, 2017,  la lingua che oggi sovente veicola il messaggio politico «più che una neolingua, è una veterolingua che invece di mirare al progresso vorrebbe farci regredire, riportandoci agli istinti e alle pulsioni primarie».

[23] G. Giostra, Questione carceraria, insicurezza sociale e populismo penale, in Quest. giust., 27 giugno 2014, osserva come stesse «folate allarmistiche» alla base delle «novellazioni sicuritarie» inibiscono la ricerca di soluzioni alle problematiche che affliggono l’esecuzione penale.

[24] Rileva G. Giostra, Questione carceraria, insicurezza sociale e populismo penale, cit.: «gli stentorei manifesti programmatici imperniati sulla fermezza della repressione e sulla tolleranza zero si rivelano puntualmente un ottimo strumento di procacciamento di consensi».

[25] In base ai dati pubblicati dal Ministero della Giustizia, reperibili sul sito www.giustizia.it, al 31 marzo 2020 il numero dei detenuti non definitivi corrispondeva a più del 30 % del totale dei soggetti ristretti.

[26] Significative, rispetto al rapporto populismo penale/giustizia, sono le riflessioni di F. Petrelli, Così il populismo ha cancellato il valore della parola giustizia, in Il Foglio, 19 giugno 2018: «la giustizia cade per prima perché di tutti i poteri è il più fragile e il più spaventoso. Da bene collettivo e pacifico, principio fondante di ogni comunità civile progredita, si muta rapidamente in gogna, vendetta, purificazione, spettacolo osceno (…). Come tutti i valori fragili l’idea stessa di giustizia risulta strumento formidabile, e a costo zero, per proiettare sull’altro ogni senso di colpa di una società incapace di indagare i propri limiti e la propria incultura».

[27] Come sottolinea G. Insolera, Il populismo penale, in disCrimen, 13 giugno 2019, p. 6, le ideologie «populiste negative» «scelgono i bersagli convogliando i diversi rancori di una società frammentata, fatta di nuove corporazioni e osservanze feudali».

[28] A. Ceretti – R. Cornelli, Il diritto a non avere paura. Sicurezza, populismo penale e questione democratica, cit., p. 1481.

[29] E. Amati, L’utopia della decenza. La giustizia penale ai tempi del populismo, in disCrimen, 16 aprile 2020, p. 8.

[30] A. Barbano – V. Manes, Dei processi e delle pene, dialogo su un abisso civile, in Il Foglio, 16 dicembre 2019.

[31] E. Amodio, Il populismo penale nell’italia dell’antipolitica, cit., p. 1818.

[32] Z. Bauman, Vite di scarto, Bari, 2005, p. 106 ss. I rei – osserva il sociologo – divengono una sorta di «rifiuti umani» per i quali l’unica strada percorribile è quella dello «smaltimento definitivo», con buona pace della finalità rieducativa, oggetto di occasionali esercizi retorici a cui sovente «fa da contrasto un coro furibondo di assetati di sangue, con i rotocalchi popolari che giocano la parte di direttori d’orchestra, e le parti soliste affidate ai politici di primo piano».

[33] D. Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Milano, 2004, p. 447 ss.

[34] V., a questo proposito, V. Maiello, La funzione terapeutico-costituzionale di una misura di clemenza generale nella quarantena dello Stato di diritto, in Arch. pen., 28 aprile 2020, p. 1.

[35] Space è l’acronimo di Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe, ossia statistiche, commissionate all’Università di Losanna, che annualmente vengono pubblicate dal Consiglio d’Europa. Si tratta di due progetti collegati: Space I concerne la detenzione nelle istituzioni penali e viene pubblicato con cadenza annuale dal 1983; Space II concerne i dati sulle sanzioni e sulle misure non custodiali e viene pubblicato con cadenza annuale dal 1992. I rapporti sono reperibili in www.coe.int/en/web/prison/space.

[36] E. Dolcini, A proposito di “leggi svuotacarceri”, in Dir. pen. cont. (web), 13 marzo 2018.

[37] La media europea dei detenuti non destinatari di una sentenza definitiva si attestava al 26,9%, in base alle rilevazioni del Consiglio d’Europa fornite dal Rapporto Space I-2015, diffuso il 14 marzo 2017, contro il 34,4% di quella italiana. In Italia il tasso di suicidi era pari a 8,4 su 100.000 detenuti, in Europa la media si attestava a 7,2. Per un commento v. G. Mentasti,  Carcere e sanzioni non detentive in Europa, i Rapporti Space I e Space II 2015, in Dir. pen. cont. (web), 25 maggio 2017.

[38] I rapporti Space I 2018 e 2019 sono reperibili in https://wp.unil.ch/space/space-i/annual-reports.

[39] Critici rispetto alla possibilità di utilizzare simili dati per effettuare una comparazione fra i sistemi detentivi europei, in ragione della diversità dei criteri utilizzati da ciascuno Stato per definire le capienze regolamentari delle celle e lo spazio carcerario pro capite, sono A. Albano – F. Picozzi, Conoscere per deliberare? Lo strano caso delle statistiche europee sul sovraffollamento carcerario, in Cass. pen., 2020, p. 1369 ss.

[40] Dati ufficiali tratti dal sito www.giustizia.it.

[41] Associazione Antigone, XV Rapporto sulle condizioni di detenzioni, Il diritto alla salute: diagnosi di un sistema malato, 2019, p. 2 ss., reperibile sul sito www.antigone.it. V. anche Il carcere al tempo del coronavirus. XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzioni, 2020, p. 27 ss., reperibile sul sito dell’Associazione.

[42] Associazione Antigone, XV Rapporto sulle condizioni di detenzioni, Il diritto alla salute: diagnosi di un sistema malato, cit.

[43] Associazione Antigone, ivi, p. 1. V. anche R. Polidoro, Costituzione, carcere, coronavirus e “diritto di difesa”, in Questa rivista, 13 marzo 2020, p. 3, il quale a questo proposito osserva come la violazione quotidiana da parte dello Stato dei principi costituzionali e delle norme dell’Ordinamento penitenziario abbia come «conseguenza diretta il numero di morti che affliggono il sistema penitenziario: al 5 marzo di quest’anno (senza effetto covid-19): 20 decessi, tra cui 9 suicidi, un morto ogni tre giorni».

[44] Sul punto la dottrina è unanime, v., ex multis, A. Gargani, Sovraffollamento carcerario e violazione dei diritti umani: un circolo virtuoso per la legalità dell’esecuzione penale, in Cass. pen., 2011, p. 426 ss.; G. Giostra, Sovraffollamento carceri: una proposta per affrontare l’emergenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 55 ss.

[45] Principio ribadito dalla Corte Edu sin dalla pronuncia Soering c. Regno Unito del 7 luglio 1989, ric. n. 14038/88, § 88.

[46] In questo senso F. Urban, Il diritto del detenuto ad un trattamento penitenziario umano a quattro anni dalla sentenza Torreggiani c. Italia, in Rivista di diritti comparati, 2017, p. 5.

[47] Cfr. Corte Edu, 12 marzo 2015, Muršić c. Croazia, ric. n. 7334/13.

[48] F. Urban, Il diritto del detenuto ad un trattamento penitenziario umano a quattro anni dalla sentenza Torreggiani c. Italia, cit., p. 10.

[49] Cfr., ex multis, Corte Edu, 12 marzo 2009, Aleksandr Makarov v. Russia, ric. n. 15217/07, § 94-100; Corte Edu, 9 ottobre 2008, Moisseiev v. Russia, ric. n. 62936/00, § 121-127; Corte Edu, 24 luglio 2001, Valašinas v. Lithuania, ric. n. 44558/98, § 107-112. V., per un approfondimento sulla giurisprudenza della Corte Edu 2008-2010, A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont., 2011, p. 236 ss.

[50] Corte Edu, sez. II, Sulejmanovic c. Italia, ricorso n. 22635/03, decisione del 16 luglio 2009. Sulla sentenza v. L. Eusebi, Ripensare le modalità della risposta ai reati. Traendo spunto da Cedu 19.07.2009, Sulejmanovic c. Italia, in Cass. pen., 2009, p. 4938 ss.; G. Garuti, La situazione carceraria in Italia, in Dir. pen. proc., 2009, p. 1175 ss.

[51] Con il D.P.C.M. 13 gennaio 2010, il Governo deliberava lo stato di emergenza nazionale, successivamente prorogato al 31 dicembre 2012, elaborando un Piano straordinario penitenziario che contemplava la costruzione di nuove strutture e l’ampliamento di quelle esistenti nonché interventi normativi sul sistema sanzionatorio. In questa prospettiva, la c.d. «legge ponte» 26 novembre 2010, n. 199, prevedeva – in attesa della riforma della disciplina delle misure alternative alla detenzione e non oltre il 31 dicembre 2013 – la possibilità di scontare la pena detentiva non superiore a un anno, anche residua di maggior pena, presso la propria abitazione, o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza. Simili iniziative apparivano sin dall’inizio inidonee al raggiungimento dell’obiettivo sperato, rivelandosi un mero «pannicello caldo» sulla piaga del sovraffollamento carcerario: significative perplessità destava infatti il reperimento delle risorse finanziarie necessarie per l’attuazione del piano straordinario di edilizia carceraria e la riduzione della portata applicativa della norma rispetto al disegno di legge, con l’eliminazione degli automatismi nella concessione della misura. Sul punto v. F. Della Casa, Approvata la legge c.d. svuota-carceri: un altro “pannicello caldo” per l’ingravescente piaga del sovraffollamento carcerario, in Dir. pen. proc., 2011, p. 5 ss. Successive misure finalizzate alla riduzione del sovraffollamento venivano introdotte con la l. 17 febbraio 2012, n. 9, con cui si aumentava a diciotto mesi il limite per la detenzione domiciliare previsto dalla l. 199/2010, si affrontava il problema della breve permanenza degli arrestati in flagranza da sottoporre a rito direttissimo, si integravano i fondi per l’edilizia giudiziaria, si interveniva sulla riparazione per ingiusta detenzione e si sanciva la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Per approfondimenti v. A. Giarda, La realtà carceraria italiana: un dramma angosciante, in Corr. merito, 2012, p. 219; C. Fiorio, Sovraffollamento carcerario e tensione detentiva, in Dir. pen. proc., 2012, p. 409.

[52] P. Corvi, Sovraffollamento carcerario e tutela dei diritti del detenuto: il ripristino della legalità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1797.

[53] Corte Edu, sez. II, Torreggiani e altri c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10, decisione dell’8 gennaio 2013.

[54] Corte Edu, sez. II, Torreggiani e altri c. Italia, cit., § 65.

[55] Corte Edu, sez. II, Torreggiani e altri c. Italia, cit., § 88. Per una compiuta analisi della decisione v. F. Viganò, Sentenza pilota della Corte Edu sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in Dir. pen. cont. (web), 9 gennaio 2013; G. Forti, Dignità umana e persone soggette all’esecuzione penale, in Diritti umani e diritto internazionale, 2013, p. 237 ss.

[56] P. Corvi, Sovraffollamento carcerario e tutela dei diritti del detenuto: il ripristino della legalità, cit., p. 1797.

[57] Con la sentenza 7 giugno 2013, n. 135, la Consulta si pronunciava sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, dichiarando che non spetta al Ministro della Giustizia disporre che non venga data esecuzione ad un provvedimento emesso da un magistrato di sorveglianza all’esito di un procedimento giurisdizionale, nel quale si dichiari che un determinato comportamento dell’Amministrazione Penitenziaria è lesivo di un diritto del detenuto. In tal modo la Corte ha ribadito che l’Amministrazione Penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti del detenuto: sul punto v. A. Della Bella, La Corte costituzionale stabilisce che l’amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti, in Dir. pen. cont. (web), 13 giugno 2013. Occorre poi ricordare che, nell’insufficienza delle misure legislative, la magistratura di sorveglianza, nel cercare una soluzione, proponeva questione di illegittimità costituzionale dell’art. 147 c.p., relativo al differimento facoltativo della pena: Trib. Sorveglianza Venezia, ord. 13 febbraio 2013, con nota di F. Viganò, Alla ricerca di un rimedio giurisdizionale preventivo contro il sovraffollamento delle carceri: una questione di legittimità costituzionale della vigente disciplina in materia di rinvio dell’esecuzione della pena detentiva, in Dir. pen. cont. (web), 20 febbraio 2013; Trib. Sorveglianza di Milano, ord. 12 marzo 2013, con nota di A. Della Bella, Sollevata ancora questione di illegittimità costituzionale dell’art. 147 c.p.: il Tribunale di sorveglianza di Milano segue la strada imboccata dal Tribunale di Venezia per rispondere al problema del sovraffollamento carcerario, ivi, 28 marzo 2013. La Corte costituzionale, con la sentenza 9 ottobre 2013, n. 279, pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Sorveglianza di Venezia e Milano, indirizzava al legislatore un monito ad adottare le «necessarie decisioni dirette a far cessare l’esecuzione della pena in condizioni contrarie al senso di umanità». V., a tale proposito, M. Ruotolo, Quale tutela per il diritto a un’esecuzione della pena non disumana? Un’occasione mancata o forse soltanto rinviata, in Giur. cost., 2013, p. 4549 ss.

[58] Messaggio alle Camere sulle condizioni delle carceri italiane, 8 ottobre 2013, in cui il Presidente della Repubblica affermava, fra l’altro, che «l’Italia viene, soprattutto, a porsi in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale per le tantissime violazioni di quel divieto di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti che la Convenzione europea colloca accanto allo stesso diritto alla vita».

[59] Il piano d’azione per la risoluzione del problema del sovraffollamento carcerario veniva articolato su cinque ambiti di intervento: 1) adozione di misure legislative in materia di politica penale per un più ampio ricorso a misure alterative alla detenzione; 2) costruzione di nuovi istituti penitenziari o ingrandimento di quelli esistenti; introduzione di misure organizzative all’interno delle carceri volte a una maggiore libertà di circolazione dei detenuti; 4) creazione di ricorsi interni di tipo preventivo; 5) previsioni di rimedi compensativi e risarcitori (v. A. Mangiaracina, Italia e sovraffollamento carcerario: ancora sotto osservazione, in Dir. pen. cont., 2015, p. 414 ss.). A tale piano veniva data attuazione con una serie di provvedimenti: il d.l. 1 luglio 2013, n. 78 (convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 94); il d.l. 23 dicembre 2013, n. 146 (convertito con modificazioni dalla l. 21 febbraio 2014, n. 10); la l. 28 aprile 2014, n. 67; il d.l. 26 giugno 2014, n. 92 (convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 117). Per una approfondita analisi di tali interventi normativi v. A. Della Bella, Emergenza carceri e sistema penale, Torino, 2014.

[60] A. Della Bella, Il carcere oggi: tra diritti negati e promesse di rieducazione, in Dir. pen. cont., 2017, p. 45.

[61] F. Della Casa, L’urgenza della riforma penitenziaria: un malinconico anacronismo nell’era della riscoperta centralità del carcere, in Dir. pen. cont. (web), 25 giugno 2018, p. 3.

[62] XVII Legislatura, A.C. n. 2798 e A.S. 2067.

[63] M. Pelissero, Gli stati generali sull’esecuzione penale: i problemi noti messi a nudo e la necessità di risposte di sistema, in Dir. pen. proc., 2016, p. 1125 ss.

[64] F. Fiorentin, La conclusione degli “stati generali” per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, in Dir. pen. cont. (web), 6 giugno 2016, p. 2.

[65] Per una completa disamina delle conclusioni raggiunte v. Stati Generali sull’esecuzione penale, documento finale, in www.giustizia.it.

[66] In questo senso M. Pelissero, Gli stati generali sull’esecuzione penale: i problemi noti messi a nudo e la necessità di risposte di sistema, cit., p. 1126.

[67] F. Fiorentin, La conclusione degli “stati generali” per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, cit., p. 5.

[68] G. Giostra, La riforma penitenziaria: il lungo tormentato cammino verso la costituzione, cit.

[69] M. Bortolato, Luci ed ombre di una riforma a metà: i decreti legislativi 123 e 124 del 2 ottobre 2018, in Quest. giust., 9 novembre 2018.

[70] A titolo esemplificativo, è opportuno ricordare lo studio condotto da G. Mastrobuoni- D. Terlizzese, Rehabilitation and recidivism: evidence from an open prison, in Quest. giust., 12 giugno 2017, il quale, in linea con i risultati di numerose ricerche internazionali, ha evidenziato come la pena interamente scontata in carcere – in condizioni di ozio, insalubrità e promiscuità – non produce maggiore sicurezza sociale, mentre un carcere “aperto”, rispettoso della dignità e dei diritti fondamentali dei detenuti, è in grado di ridurre la recidiva e, di riflesso, la popolazione carceraria.  Come ricorda F. Della Casa, L’urgenza della riforma penitenziaria: un malinconico anacronismo nell’era della riscoperta centralità del carcere, cit., p. 7, l’ampio ricorso a misure alternative alla detenzione «al di là della controversa quantificazione degli indici di recidiva che connotano, rispettivamente, il fine pena con dimissione “secca” dal carcere e quello conseguente alla fruizione di una misura alternativa, è di intuitiva evidenza per chiunque consideri la questione senza deformazioni ideologiche che il «punir autrement» oltre ad un impegno finanziario assai più contenuto, garantisce risultati molto più sicuri sul versante del reinserimento del condannato nel contesto sociale».

[71] E. Dolcini, A proposito di “leggi svuotacarceri”, cit., il quale evidenzia come la formula “certezza della pena”, snaturata nel linguaggio politico, debba intendersi, nella corretta prospettiva giuridica, come «probabilità che l’autore di un reato sia scoperto e punito», ossia una «condizione primaria per assicurare un effetto di prevenzione generale» e, pertanto, «un obiettivo al quale devono tendere tutte le istanze della giustizia penale». A questo proposito, E. Amodio, Il populismo penale nell’italia dell’antipolitica, cit., p. 1818, rileva come il dogma della “certezza della pena”, totem del nuovo corso del diritto penale, sia «una idea-forza che si sviluppa su tre piani distinti: la certezza della condanna, concepita come meta naturale del processo penale; la certezza della pena più severa, che è un antidoto alla discrezionalità buonista dei magistrati, incapaci di intercettare l’estremismo punitivo generato dalla emotività reattiva delle vittime; la certezza del carcere, misura punitiva privilegiata che blocca ogni fuga verso le misure alternative alla detenzione, anch’esse da respingere perché espressione del buonismo rieducativo dei giudici».

[72] D. Stasio, Carcere e recidiva, l’offensiva contro le statistiche per fermare il cambiamento (vero), in Quest. giust., 28 maggio 2018. Osserva a questo proposito G. Giostra, Che fine hanno fatto gli stati generali?, in Dir. pen. cont. (web), 20 aprile 2017, come gli Stati generali volessero «abbassare ponti levatoi tra carcere e società, e ovunque – anche oltre oceano – si parla soltanto di erigere muri»; vi era la necessità «di una società affrancata dalla paura e tutto, quotidianamente, induce insicurezza».

[73] E. Dolcini, La pena ai tempi del diritto penale illiberale, in Dir. pen. cont., 22 maggio 2019, p. 2.

[74] Per un approfondimento si vedano: A. Della Bella, Riforma dell’ordinamento penitenziario: le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario, in Dir. pen. cont. (web), 7 novembre 2018; G. Di Rosa, La riforma dell’ordinamento penitenziario. I D. legisl. n. 123 e 124 del 2 ottobre 2018, in Studium iuris, 2019, p. 699; A. Massaro, La riforma dell’ordinamento penitenziario: assistenza sanitaria e vita detentiva, in Dir. pen. proc., 2019, p. 149 ss.

[75] E. Dolcini, La pena ai tempi del diritto penale illiberale, cit., p. 4, il quale fa riferimento, a titolo esemplificativo, al nuovo testo dell’art. 1 o.p. che, sotto l’immutata rubrica «Trattamento e rieducazione», enuncia il divieto di «discriminazioni in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale», inserendo le affermazioni che seguono: «ad ogni persona privata della libertà sono garantiti i diritti fondamentali; è vietata ogni violenza fisica e morale in suo danno».

[76] Occorre sottolineare che l’assistenza psichiatrica negli istituti penitenziari non solo non è stata incrementata, come previsto dalla legge delega, ma è stata oggetto di una modifica di segno inverso: dal testo del nuovo art. 11 o.p. è stata eliminata la previsione in base alla quale «ogni istituto dispone (…) dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria».

[77] V. Mozione di Magistratura Democratica su Pena e Carcere, XII Congressi nazionale di MD, in Dir. pen. cont. (web), 7 marzo 2019.

[78] E. Dolcini, La pena ai tempi del diritto penale illiberale, cit., p. 4.

[79] Alle carenze del legislatore ha cercato di porre rimedio la Consulta, nei limiti che connotano la sua azione. In relazione alla flessibilità della pena, la Corte costituzionale ha precisato che è un assunto sotteso all’art. 27, co. 3, Cost., quello «secondo cui la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile», a cui si correla la «responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società».  In questo senso C. Cost., 11 luglio 2018, n. 149, in Giur. cost., 2018, p. 1657 ss., con nota di F. Fiorentin,  La Consulta svela le contraddizioni del “doppio binario penitenziario” e delle preclusioni incompatibili con il principio di rieducazione del condannato, con cui la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, sotto il profilo della irragionevolezza intrinseca, e 27, co. 3, Cost., l’art. 58-quater, co. 4, della l. n. 354 del 1975, nella parte in cui si applica ai condannati all’ergastolo per il delitto di cui all’art. 630 c.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione) che abbiano cagionato la morte del sequestrato. Sul tema v. anche M. Pelissero,  Ergastolo e preclusioni: la fragilità di un automatismo dimenticato e la forza espansiva della funzione rieducativa, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1359 ss. I principi espressi nella sentenza n. 149 del 2018 sono stati successivamente ribaditi da C. Cost, 8 novembre 2019, n. 229, in Sistema penale, 21 novembre 2019, con cui la Corte ha espunto dall’ordinamento penitenziario il co. 4 dell’art. 58 quater o.p. perché in contrasto con gli artt. 3 e 27 co. 3 Cost., nella parte in cui si applica ai condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 630 c.p. che abbiano cagionato la morte del sequestrato. Si veda, a questo proposito, L. Caraceni, Palingenesi costituzionale del trattamento rieducativo: cade il vessillo securitario dell’art. 58-quater comma 4 ord. penit., in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 343. Nel solco della suddetta pronuncia si colloca anche C. Cost. 4 dicembre 2019, n. 253, in www.cortecostituzionale.it, con cui la Consulta si è confrontata con la presunzione assoluta di pericolosità sociale, prevista dall’art. 4 bis co. 1 o.p., derivante dalla mancata collaborazione con la giustizia. La Corte, segnatamente, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis co. 1 o.p.  nella parte in cui non prevede che, ai condannati per delitti di mafia e comunque aggravati dall’agevolazione mafiosa o dal metodo mafioso, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione, allorché siano acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo di un loro ripristino. Per una più approfondita analisi della decisione v. R. De Vito,  Mancata collaborazione e permessi premio: cade il muro della presunzione assoluta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 348 ss. Il Giudice delle leggi è anche intervenuto, con la sentenza 19 aprile 2019, n. 99, in Dir. pen. cont. (web), 20 aprile 2019, sulla problematica dell’infermità psichica sopravvenuta, dichiarando l’illegittimità dell’art. 47 ter, co. 1 ter, o.p. «nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter».

[80] L’art. 2, co. 8 e co. 9, d.l. 8 marzo 2020, n. 11, stabiliva che i colloqui con i detenuti avvenissero solo in via telefonica o “da remoto” nonché la possibilità di sospendere la concessione dei permessi-premio e della semilibertà fino al 31 maggio 2020. Nulla si è invece previsto in relazione all’accesso del personale civile e delle forze dell’ordine. Per una analisi più articolata del complesso di provvedimenti adottati e, segnatamente, delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria v. A. Lorenzetti, Il carcere ai tempi dell’emergenza Covid-19, in www.osservatorioaic.it, 7 aprile 2020.

[81] Osserva M. Palma, Il carcere nello specchio di un’emergenza, in Diritto penale e uomo, 25 marzo 2020, che una simile asimmetria ha dato «la sensazione plastica di una lettura esterna del mondo detentivo non soltanto come non appartenente al complessivo quadro sociale, ma come un universo carico di una morbilità intrinseca che coinvolgeva le persone ristrette e anche quelle a loro legate».

[82] L. Manconi, Carceri, il coraggio che non c’è, in “La Repubblica”, 19 marzo 2020.

[83] R. De Vito, Il vecchio carcere ai tempi del nuovo colera, in Quest. giust., 11 marzo 2020.

[84] Cfr. il comunicato “non aspettare”, in Quest. giust., 24 marzo 2020.

[85] A questo proposito R. Polidoro, Costituzione, carcere, coronavirus e “diritto di difesa”, cit., p. 3, osserva: «in alcuni istituti vi sono state gravi devastazioni, vere e proprie guerriglie tra detenuti e forze dell’Ordine, con feriti e 12 detenuti morti “per overdose”, dopo l’assalto ai locali farmacia del carcere. Sarà la magistratura a fare luce su questi decessi, ma se il dato fosse vero – per quanto inverosimile – manifesta la disperazione di queste persone che, all’apice della protesta, ingurgitano farmaci perché in crisi di astinenza ovvero per porre fine ad un’esistenza straziante».

[86] Si segnalano, fra le altre, le seguenti iniziative: il 9 marzo 2020, l’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI) rivolgeva un appello al Governo e a tutte le forze politiche e parlamentari affinché fossero adottate misure immediate per salvaguardare la vita e la salute dei detenuti, individuando amnistia e indulto come strade da seguire e suggerendo nel contempo di rafforzare il personale dei Tribunali di Sorveglianza per verificare quanti detenuti avessero «diritto ad avere gli arresti domiciliari ovvero la misura (pena) alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche aumentando, con decreto legge, il tetto della pena da scontare per accedere al beneficio» (Emergenza coronavirus nelle carceri: appello al governo ed a tutte le forze politiche e parlamentari, in www.camerepenali.it, 9 marzo 2020). Nel comunicato si evidenziava altresì come i «cittadini detenuti» non potessero «essere privati dei loro diritti, a causa dell’inefficienza di un sistema che pur ammettendo le sue colpe, non ha mai trovato rimedi per uscire da una storica urgenza, quella di rendere le carceri luoghi vivibili e in linea con i principi costituzionali». Si sottolineava inoltre la necessità di una forte riduzione dei nuovi accessi nelle carceri mediante «una graduazione in arresti domiciliari delle misure richieste in carcere», nonché quella di sospendere «gli ordini di esecuzione per pene residue inferiori almeno a due anni»; in data 11 marzo 2020 l’UCPI inviava una missiva al Ministro della Giustizia, chiedendo l’immediata adozione di provvedimenti urgenti per affrontare la situazione creatasi nelle carceri (Emergenza giustizia ed emergenza carceri: la lettera al ministro Bonafede, in www.camerepenali.it, 11 marzo 2020); il 15 marzo 2020, in assenza di concrete risposte del Ministro Bonafede sulle proposte avanzate sul tema del carcere, l’UCPI rivolgeva un appello alle forze politiche protagoniste degli Stati generali perché assumessero iniziative volte ad alleggerire le drammatiche condizioni delle carceri, «in nome dei principi di civiltà e di umanità invocati da tutti gli operatori e da chi da sempre opera nel mondo del carcere, nonché in ragione dell’improcrastinabile necessità di evitare ulteriori emergenze sanitarie dentro e fuori le carceri» (Emergenza carcere: lettera pubblica ai protagonisti degli Stati Generali dell’esecuzione penale, in www.camerepenali.it, 15 marzo 2020); lo stesso giorno, la magistratura di sorveglianza della Regione Lombardia, con una segnalazione al Ministro della Giustizia a norma dell’art. 69 o.p., sottolineava la necessità, a fronte del «gravissimo collasso» degli istituti penitenziari lombardi, di provvedimenti immediati, volti a ridurre il numero di detenuti, che non richiedessero l’intervento della magistratura, non in grado di garantire risposte tempestive a causa dei riflessi dell’epidemia sugli uffici giudiziari. Si suggeriva, in particolare: l’estensione automatica, atteso l’ampio numero di detenuti con pene brevi e medio-brevi,  della detenzione domiciliare c.d. «speciali» per i detenuti con pena, anche residua, inferiore a quattro anni di reclusione; uno sconto di pena di settantacinque giorni in assenza di rilievi disciplinari, sempre di immediata applicazione; la previsione di una licenza speciale allo stato di settantacinque giorni ai semiliberi (Carcere e coronarivus: la segnalazione inviata dai Tribunali di Sorveglianza di Milano e Brescia al Ministro della Giustizia, in Giurisprudenza penale web, 22 marzo 2020); il Coordinamento Nazionale dei Magistrati di Sorveglianza (CONAMS), il 16 marzo 2020, marcava la necessità di adottare misure serie e celeri di prevenzione e di contenimento della diffusione virale nelle carceri, auspicando un piano ragionato «che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione» (L’appello dei giudici di sorveglianza: subito misure serie contro diffusione virus, in “Il riformista”, 17 marzo 2020).

[87] Per un esame di dettaglio si rinvia a P. Gentilucci, La longa manus del Coronavirus sulla giustizia penale e sulle carceri, in Giurisprudenza Penale web, 20 marzo 2020.

[88] In tal senso si esprimeva, il 23 marzo 2020, ponendo l’accento sul grave sovraffollamento carcerario e sulle preoccupanti carenze igienico-sanitarie che affliggono il sistema penitenziario nazionale, l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale (AIPDP), nel documento Osservazioni e proposte del Consiglio direttivo AIPDP sull’emergenza carceraria da coronavirus, in www. aipdp.it, 23 marzo 2020. Sulla disciplina v. A. Lorenzetti, Il carcere ai tempi dell’emergenza Covid-19, cit.

[89] V. Polimeni, Emergenza Covid-19. Riflessioni a margine delle rivolte in carcere: l’ennesimo campanello d’allarme, in disCrimen, 9 aprile 2020, p. 17.

[90] Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle punizioni e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa (CPT), con un documento ufficiale rivolto agli Stati membri, pubblicava i «principi relativi al trattamento delle persone private della libertà personale nell’ambito della pandemia del coronavirus (Covid-19)», ricordando la vigenza assoluta del divieto assoluto di tortura e trattamenti disumani e degradanti a norma dell’art. 3 CEDU anche in situazioni emergenziali come quella da covid-19. V., a questo proposito, G. Gatta, Coronavirus e persone private della libertà: l’Europa ci guarda. Le raccomandazioni del CPT del Consiglio d’Europa, in Sistema penale, 21 marzo 2020. Il principio base consiste nell’adozione di «ogni possibile misura per la protezione della salute e della sicurezza di tutte le persone private della libertà personale», preservando di conseguenza anche «la salute e la sicurezza del personale». Nel suddetto documento si sottolineava altresì la necessità del rispetto effettivo delle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in tutti i luoghi di privazione della libertà personale. Il CPT ribadiva inoltre «il diritto a che ogni misura restrittiva adottata nei confronti delle persone private della libertà abbia una base legale e rispetti i criteri di necessità, proporzionalità, rispetto della dignità umana e limitazione temporale, nonché il diritto delle persone private della libertà a ricevere un’informazione completa in una lingua comprensibile». Fra le indicazioni contemplate vi sono poi quelle di: accentuare il «ricorso a forme alternative alla privazione della libertà in tutti i settori dove questa si realizza (penale, sanitario, amministrativo…)»; garantire i diritti fondamentali, fra cui il mantenimento di un adeguato livello di igiene personale, il diritto all’attività all’aperto, la compensazione della restrizione dei contatti con forme di comunicazione alternative, il contatto umano quotidiano per le persone in isolamento sanitario; conservare le tutele giuridiche fondamentali come l’accesso a un avvocato, l’accesso a un medico, la notifica della detenzione a una terza persona; il pieno esercizio dei poteri degli organismi di monitoraggio in tutti i luoghi di privazione della libertà personale, inclusi quelli in cui si attua la quarantena. L’organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato, a sua volta, una guida sulla prevenzione e il controllo dell’epidemia in carcere e negli altri luoghi di detenzione, in quanto contesti connotati da maggior rischio di contagio per le condizioni di vita promiscue, per le inadeguate condizioni igienico-sanitarie delle strutture, per la indisponibilità di igienizzanti (Preparedness, prevention and control of Covid-19 in prisons and other places of detention, in www.euro.who.int, 15 marzo 2020). Si tratta, segnatamente, di indicazioni rivolte alle Autorità penitenziarie, di sanità pubblica e politiche, ai direttori e dirigenti degli istituti o degli altri centri di detenzione, al personale sanitario e di custodia, con cui si propongono tre principali obiettivi: indirizzare la progettazione e l’implementazione, per affrontare la pandemia da Covid-19, di piani di preparazione adeguati per carceri e altre strutture di detenzione; fornire meccanismi efficaci di prevenzione; delineare un approccio appropriato per avvicinare i sistemi di pianificazione sanitaria e di emergenza nazionale/locale alle realtà di detenzione.

[91] Cfr. Osservazioni dell’Associazione tra gli Studiosi del Processo Penale “G.D. Pisapia” sulle disposizioni eccezionali per la giustizia penale nell’emergenza COVID-19, in Sistema penale, 13 aprile 2020.

[92] Diverse sono state le proposte volte ad un miglioramento delle condizioni del sistema penitenziario: implementazione del ricorso a misure alternative di immediata applicazione, come il differimento dell’esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare a norma degli artt. 146, 147 c.p. e 47 ter o.p., per i detenuti portatori di patologie fisiche o psichiche (Cfr. Tribunale di Sorveglianza di Milano, 31 marzo 2020, ord. n. 2206, in Giuriprudenza Penale web, 5 aprile 2020); differimento, per evitare l’ingresso in carcere di nuovi soggetti, dell’emanazione degli ordini di esecuzione relativi a reati di bassa gravità, per i quali è già di regola possibile godere della sospensione dell’esecuzione in attesa dell’esito della richiesta di poter fruire di una misura alternativa (Osservazioni e proposte del Consiglio direttivo AIPDP sull’emergenza carceraria da coronavirus, cit., p. 2); in alternativa alla concessione di misure alternative, per evitare di gravare sulla magistratura di sorveglianza, già in forte difficoltà, la previsione di una ulteriore riduzione di pena per chi sia stato destinatario della liberazione anticipata a norma dell’art. 54 o.p. ovvero “monetizzare” immediatamente, per chi si trovi in tale condizione, i tre mesi meritati nell’ultimo anno (G. Giostra, Disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri. Gli effetti della pandemia di Covid-19 sulla realtà dei penitenziari e le soluzioni possibili, in Sistema penale, 22 marzo 2020).

[93] In base ai dati raccolti dal Garante, al 5 giugno 2020 le persone detenute erano pari a 52.520, con una riduzione, rispetto alla popolazione ristretta al 29 febbraio, di 8.710 soggetti, di cui 3.489 detenzioni domiciliari concesse dal 18 marzo e 642 persone in semilibertà con licenze prolungate (cfr. Bollettino n. 35, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it, 5 giugno 2020). Il totale di misure con braccialetto elettronico erano 1.005 (cfr. Bollettino n. 34, ivi, 29 maggio 2020).

[94] Cfr. L. Milella, Il Garante dei detenuti al Governo: “cambiare subito i decreti sicurezza”, in La Repubblica, 26 giugno 2020, intervista in cui il Presidente del Garante ha individuato tre fattori alla base della riduzione della popolazione carceraria: «il primo, e più importante, è stata l’accelerazione di provvedimenti dei magistrati di sorveglianza che sulla spinta del rischio epidemico hanno fatto un grande lavoro di esame di tutte le situazioni meno rilevanti. Il secondo fattore è stato il minor numero di ingressi in carcere, sia per il calo dei reati durante il lockdown, sia per essere tornati alla custodia cautelare in carcere come misura estrema. Il terzo fattore è la norma del 17 marzo, contenuta nel decreto Cura Italia, che ha previsto una più rapida possibilità di accesso alla detenzione domiciliare. Va detto comunque che gli effetti di questa norma eccezionale sono stati ben minori degli altri due».  Il Garante, nella Relazione al Parlamento 2020, in  www.garantenazionaleprivatilibertà.it, p. 69, ha osservato: «la novità legislativa introdotta, come era prevedibile, ha prodotto effetti diretti piuttosto contenuti, ma ha certamente dato l’avvio a un orientamento generale da parte della Magistratura di sorveglianza che (…) ha contribuito con i propri provvedimenti alla consistente riduzione delle presenze in carcere che si è prodotta tra i mesi di marzo e di maggio».

[95] In particolare, l’evoluzione della situazione, sul fronte del sovraffollamento, viene ricostruita dal Garante come segue:, pur a fronte di una progressiva (lenta rispetto alla situazione emergenziale) riduzione del numero dei detenuti, si evince il permanere di una situazione fortemente critica: al 31 marzo 2020,  si constatava la presenza di 57.405 ristretti a fronte di meno di 48.000 posti disponibili, un numero ancora troppo elevato per consentire l’attuazione di «misure precauzionali indispensabili per impedire la diffusione del virus Covid-19» (Bollettino n. 15, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it, 31 marzo 2020); al 3 aprile il numero di detenuti era pari a 56.830 con 47.000 posti «realmente disponibili», con un tasso di sovraffollamento pari al 121% (Bollettino n. 18, ivi, 3 aprile 2020); al 7 aprile il dato di presenze nelle camere detentive era di 56.238 che, se comparato con i posti disponibili, poneva in luce la necessità di «interventi ben più decisi» (Bollettino n. 20, ivi, 7 aprile 2020); al 15 aprile il numero dei detenuti scendeva a 55.030 (Bollettino n. 23, ivi, 15 aprile 2020); il 1° maggio a 53.187 (Bollettino n. 29, ivi, 1° maggio 2020); in data 8 maggio a 52.878 (Bollettino n. 31, ivi, 8 maggio 2020); il 15 maggio a 52.679 (Bollettino n. 32, ivi, 15 maggio 2020); il 29 maggio a 52.622 (Bollettino n. 34, ivi, 29 maggio 2020).

[96] Dato riportato nel Bollettino n. 34, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it, 29 maggio 2020. Ai primi di marzo il numero di suicidi, da inizio anno, era pari a 12 (Bollettino n. 2, ivi, 12 marzo 2020).

[97] Cfr. Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà nazionale, Relazione al Parlamento 2020, www.garantenazionaleprivatilibertà.it, p. 68. Occorre peraltro osservare che il mero calo degli indici di sovraffollamento non implica l’automatico rispetto dell’art. 3 CEDU, poiché, come evidenzia la giurisprudenza della Corte europea, anche quando sia garantito lo spazio minimo di tre metri quadri, la carenza di altri fattori ambientali (aria, luce naturale, igiene) può comportare comunque una detenzione inumana e degradante. V., a tale ultimo proposito, A. Pugiotto, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi insegnamenti costituzionalistici, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, p. 1206.

[98] Associazione Antigone, XVI Rapporto sulle condizioni di detenzioni, Il diritto alla salute: diagnosi di un sistema malato, cit., p. 12 ss. Nel rapporto si evidenzia, fra l’altro, l’incremento di suicidi rispetto all’anno precedente, che per lo stesso periodo di riferimento sono passati da 26 a 34. Il 20% di questi aveva fra i 20 e i 29 anni ( i due più giovani ne avevano solo 23), il 43% ne aveva fra i 30 e i 39, per entrambe le fasce d’età 40- 49 e 50- 59 troviamo il 17% dei suicidi, il detenuto più anziano aveva 60 anni. Il 40% dei suicidi è avvenuto in un istituto del nord Italia, il 36% al sud e il 23% al centro.

[99] Aggiornamento sui detenuti presenti nei penitenziari italiani al 30 settembre 2020, in www.giustizia.it.

[100] Il monitoraggio dell’evoluzione della c.d. seconda ondata pandemica all’interno delle carceri è, allo stato, resa difficile dall’assenza di dati ufficiali. Sul punto v. A. Stella, Il Coronavirus dilaga in carcere, in 12 giorni casi raddoppiati, in Il Riformista, 24 ottobre 2020.

[101] Il Magistrato di sorveglianza di Milano, con ordinanza emessa in via provvisoria e urgente, osservava come il detenuto, settantottenne affetto da gravi patologie cardiache ed oncologiche, fosse esposto al rischio di «conseguenze particolarmente gravi» per effetto dell’emergenza sanitaria, ritenendo che il pericolo di contagio non potesse ritenersi annullato, a fronte del contatto quotidiano con il personale, dall’isolamento che caratterizza il regime detentivo speciale. In quest’ottica, il giudice riteneva che il pericolo di un grave pregiudizio derivante dalla prosecuzione della detenzione imponesse l’applicazione della misura domiciliare, realizzando un equilibrio ragionevole fra tutela della salute e prevenzione del pericolo di commissione di futuri reati, da escludersi per le precarie condizioni di salute del detenuto, per la lunga carcerazione subita e per l’approssimarsi del fine pena (Mag. Sorveglianza Milano, ord. 20 aprile 2020, in Sistema penale, 1° maggio 2020). Il Tribunale di sorveglianza di Sassari, invece, applicava la detenzione domiciliare a un condannato afflitto da una grave patologia tumorale, necessitante un programma diagnostico-terapeutico indifferibile e non più attuabile, a causa della pandemia, presso il centro ospedaliero che avrebbe dovuto svolgere l’attività di “follow up”. Più nel dettaglio, il Tribunale verificava in via preliminare la possibilità di trasferire il detenuto presso l’istituto penitenziario di Cagliari o direttamente presso il nosocomio di tale città per il proseguimento dell’iter diagnostico-terapeutico, ricevendo una risposta negativa, e chiedeva al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) di «verificare l’eventuale possibilità di trasferimento in altro Istituto penitenziario attrezzato per quel trattamento o prossimo a struttura di cura nella quale poter svolgere i richiesti esami diagnostici e le successive cure». In difetto di una risposta da parte del Dap e in ragione dei pericoli correlati alla prosecuzione della detenzione e al rischio di contagio, nella consapevolezza che la protrazione della detenzione in assenza di cure avrebbe integrato un trattamento inumano, i Giudici optavano – dopo aver rilevato l’attenuazione della pericolosità del condannato – per la concessione della misura domiciliare per un periodo di cinque mesi (Trib. Sorveglianza Sassari, ord. 23 aprile 2020, in Sistema penale, 1° maggio 2020).

[102] Osserva a questo proposito A. Della Bella, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in Sistema penale, 1° maggio 2020, che l’art. 32 Cost. sancisce il diritto alla salute, mentre il diritto a un trattamento umano è tutelato dagli artt. 2 e 27, co. 3, Cost. La CEDU accorda poi tutela assoluta – non essendo derogabili, a norma dell’art. 15, neppure in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione – alla vita e all’integrità fisica (art. 2) nonché al divieto di trattamenti inumani (art. 3).

[103] Come sottolineato dalla Corte EDU, il diritto alla salute delle persone detenute è infatti assoluto e prescinde dal titolo di reato per il quale è intervenuta la condanna, trovando applicazione anche in relazione a detenuti per reati di criminalità organizzata. La Corte, ad esempio, nel caso Provenzano c. Italia ha condannato l’Italia, per violazione dell’art. 3 CEDU, a causa della reiterazione del regime di cui all’art. 41 bis o.p., in assenza di attuale rivalutazione delle condizioni di salute. V. Corte Edu, sez. I, Provenzano c. Italia, ricorso n. 55080/13, 25 settembre 2018, in Dir. pen. cont. (web), 29 ottobre 2018. V. anche, sul tema, V. Manca, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (controriforma), in Giurisprudenza Penale web, 2 maggio 2020, p. 6 ss.

[104] L. Milella, Cdm: via libera al decreto di Bonafede contro le scarcerazioni facili dei boss, in La Repubblica, edizione on line, 29 aprile 2020.

[105] M. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, in Sistema penale, 1° maggio 2020, osserva come irragionevole sia un intervento normativo circoscritto alla sola misura domiciliare surrogatoria e non al differimento ex art. 147 c.p. In questa prospettiva, la mancata estensione dell’obbligo di parere all’ipotesi di applicazione della misura del rinvio dell’esecuzione di cui agli artt. 146 e 147 c.p. rischierebbe di determinare il «paradosso di un giudice di sorveglianza che è obbligato a chiedere il parere al procuratore antimafia quando è in gioco l’applicazione della detenzione domiciliare surrogatoria e può invece prescinderne quando si tratta di disporre il differimento dell’esecuzione».

[106] In questo senso si esprime, dopo aver rilevato la natura non vincolante del parere e la brevità dei termini, A. Della Bella, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in Sistema penale, cit.

[107] In particolare, l’art. 2 del d.l. n. 28 del 2020, rubricato «disposizioni urgenti in materia di detenzione domiciliare e permessi», modificava la disciplina degli artt. 30 bis e 47 ter, prevedendo per entrambe le misure un parere obbligatorio, richiesto dalla magistratura di sorveglianza, al procuratore antimafia (distrettuale, qualora la decisione riguardi l’autore di uno dei reati indicati dall’art. 51, co. 3 bis e co. 3 quater, c.p.p.; anche quello nazionale, nell’ipotesi di detenuto sottoposto a regime ex art. 41 bis o.p.). Il legislatore non ha previsto un obbligo di motivazione del parere in discorso, con la conseguente possibilità, per il rappresentante della pubblica accusa, di esprimere un parere negativo immotivato (M. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, cit.).  Il decreto, per i permessi di necessità, prevede che la misura non possa essere concessa dal magistrato di sorveglianza prima di ventiquattro ore dalla richiesta di parere, «salvo ricorrano esigenze di motivata eccezionale urgenza». Per la detenzione domiciliare “umanitaria”, invece, la decisione dei giudici di sorveglianza non può essere adottata, nel caso in cui il destinatario sia autore di uno dei reati previsti dall’art. 52 c.p.p., prima che siano decorsi due giorni dalla richiesta di parere e, nell’ipotesi di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis o.p., prima di quindici giorni, salvo, in entrambi i casi, la ricorrenza di una situazione di «motivata eccezionale urgenza». I pareri, in ossequio al principio di autonomia e indipendenza della magistratura e attesa la prevista possibilità per i giudici di sorveglianza di pronunciarsi, una volta decorsi i termini, anche in difetto degli stessi, devono ritenersi non vincolanti (Cfr. Questioni di legittimità del meccanismo di rivalutazione delle scarcerazioni per covid: alla luce della l. 70/2020, la Consulta restituisce gli atti al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, in Sistema penale, 23 luglio 2020; A. Della Bella, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in Sistema penale, cit.).

[108] A. Della Bella, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in Sistema penale, cit.

[109] M. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, cit. V. anche Comunicato del Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza (CONAM) del 28 aprile 2020, in www.ristretti.it.

[110] Il dato numerico relativo alle scarcerazioni di detenuti per reati di criminalità organizzata è infatti assai meno clamoroso di quanto rappresentato dai media. Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, nel Bollettino n. 15, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it, 15 maggio 2020, rilevava che solo 4 detenuti soggetti al regime ex art. 41 bis o.p. (di cui uno nemmeno giudicato in via definitiva) hanno beneficiato di misure domiciliari.

[111] L. Cesaris, Il d.l. n. 29 del 2020: un inutile e farraginoso meccanismo di controllo, in Giurisprudenza penale web, 23 maggio 2020.

[112] La disposizione in parola sollevava sin da subito diverse perplessità, divenendo oggetto, pressoché immediatamente, di due questioni di legittimità costituzionale. V., sul punto, Mag. Sorveglianza di Spoleto, ord. 26 maggio 2020, in Sistema penale, 5 giugno 2020, con nota di M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione; Trib. Sorv. Sassari, ord. 9 giugno 2020, in Sistema penale, 10 giugno 2020, con nota di A. Cabiale, Un’altra questione di legittimità costituzionale di abbatte sul d.l. antiscarcerazioni: questa volta entra in gioco il diritto alla salute.

[113]  Il procedimento previsto appariva sin da subito non esente da censure in riferimento alla compressione del diritto di difesa. Sul punto v. M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in Sistema penale, cit., il quale rileva: «si è pensato di poter derogare ai canoni fondamentali desumibili dagli artt. 13, 24, comma 2, 27, comma 3, 111 Cost., come se quella esecutiva fosse una vicenda puramente amministrativa, nella quale non vengono in gioco i beni più preziosi dell’individuo, quali la salute e la libertà personale dell’individuo, ma solo interessi pubblici la cui valutazione può essere affidata esclusivamente alle amministrazioni pubbliche».

[114] Simili modalità di controllo venivano circoscritte ai provvedimenti relativi a condannati o internati per i delitti di cui agli artt.  270, 270 bis, 416 bis c.p. e 74, co. 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ovvero per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione mafiosa, o per un delitto commesso con finalità di terrorismo ex art. 270 sexies c.p. Per un compito esame della disciplina prevista dal d.l. n. 29 del 2020 si rinvia a L. Cesaris, Il d.l. n. 29 del 2020: un inutile e farraginoso meccanismo di controllo, cit.

[115] M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, cit. Una ulteriore previsione che tende evidentemente a favorire il ripristino dell’esecuzione carceraria, privilegiando pretese esigenze di tutela della collettività rispetto alla tutela della salute individuale, è anche quella di cui all’art. 2, co. 1, del d.l. n. 29 del 2020, la quale prevede che, nel caso di comunicazione del Dap circa la disponibilità  di strutture penitenziarie o di reparti di  medicina  protetta  adeguati alle condizioni di salute del detenuto o dell’internato ammesso alla detenzione domiciliare o ad usufruire del differimento della pena, la valutazione dei provvedimenti di concessione avvenga «immediatamente, anche prima della decorrenza» del termine di quindici giorni o della verifica mensile.

[116] G. Fiandaca, Scarcerazione per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in Sistema penale, 5 giugno 2020.

[117] Per una compiuta ricostruzione delle scelte del legislatore in sede di conversione v. A. Cabiale, Covid e “scarcerazioni”: diventano legge, con alcune novità, i contenuti dei dd.ll. nn. 28 e 29 del 2020, in Sistema penale, 13 luglio 2020. Il legislatore ha tentato di porre rimedio alle criticità oggetto di questione di legittimità costituzionale sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto. Con ordinanza 22 luglio 2020, n. 185, in Sistema penale, 1° agosto 2020, la Corte Costituzionale ha, a seguito delle modifiche apportate dalla l. 25 giugno 2020, n. 70 all’art. 2 del d.l. n. 29 del 2020, riprodotto nel nuovo art. 2 bis del d.l. n. 28 del 2020, con l’inserimento di un nuovo co. 4, restituito gli atti al Magistrato di Sorveglianza di Spoleto (v. E. Andolfatto, Un’ordinanza interlocutoria della Consulta sul “decreto antiscarcerazioni”, in Sistema penale, 1° agosto 2020). Con ordinanza del 18 agosto 2020, il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto ha trasmesso nuovamente gli atti alla Corte Costituzionale (V. J. Della Torre, Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto non demorde: il “d.l. antiscarcerazioni” di nuovo alla Consulta, in Sistema penale, 23 settembre 2020), affermando che «pur alla luce dello ius superveniens rappresentato dalla legge di conversione n. 70/2020, che sia non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 24 comma 2 e 111 comma 2 Cost, dell’odierno art. 2 bis del d.l. 30 aprile 2020 n. 28, come convertito nella l. 25 giugno 2020 n. 70». Simili questioni sono state ritenute infondate dalla Consulta. Si rinvia, a questo proposito, al comunicato stampa della Corte, reperibile in Sistema penale, 6 novembre 2020.

[118] D. Pulitanò, Pena e carcere alla prova dell’emergenza, in Questa rivista, 13 maggio 2020, p. 4, il quale riprende la definizione di D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, Milano, 2018.

[119] E. Amodio, Il populismo penale nell’italia dell’antipolitica, cit., p. 1817.

[120] Osserva E. Amati, La strana genesi del c.d. “decreto scarcerazioni”. Tra i due litiganti il terzo soccombe, in Questa rivista, 14 maggio 2020, p. 3, come in tal modo «lo Stato non si sostituisce più alle vittime, ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi “complicità” sospetta con il “nemico”».

[121] D. Pulitanò, Pena e carcere alla prova dell’emergenza, cit., p. 5.

[122] Cfr. comunicato del Garante 28 ottobre 2020, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it

[123] Cfr. artt. 8 e 9 D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, «Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale». Per un primo commento v. G. Mentasti, L’ennesimo ‘decreto immigrazione-sicurezza’ (d.l. 21 ottobre 2020, n. 130): modifiche al codice penale e altre novità, in Sistema penale, 23 ottobre 2020.

[124] Le misure relative al carcere sono state preannunciate a mezzo facebook dal Ministro della Giustizia, il quale ha ritenuto di precisare che «è escluso chi è stato condannato per mafia, terrorismo, corruzione, voto di scambio politico-mafioso, violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking, nonché chi ha subito una sanzione disciplinare, o ha un procedimento disciplinare pendente, per la partecipazione a tumulti o sommosse nelle carceri». Cfr. L. Milella, Misure anti-virus in carcere, Bonafede: “Fuori chi ha meno di 18 mesi ma nessun permesso per mafiosi e rivoltosi”, in La Repubblica, 28 ottobre 2020.

[125] G. Pestelli, D.l. 137/2020 (c.d. Ristori): i nuovi interventi sulla procedura penale e l’ordinamento penitenziario, in Quot. giur., 30 ottobre 2020, osserva come si tratti di una disposizione non agevolmente «giustificabile alla luce del dettato costituzionale». Sul punto la Corte Costituzionale, con la sentenza 27 luglio 1994, n. 361, in CED Cass., pd. 20765, ha precisato ormai da tempo che «che le misure alternative alla detenzione sono concedibili anche in caso di cumulo di pene inflitte per reati diversi, uno dei quali “ostativo” alla concessione dei benefici, se la pena relativa a quest’ultimo sia già stata espiata: l’opposta interpretazione (emergente nelle più recenti sentenze della Cassazione, ma non qualificabile come diritto vivente) comporterebbe infatti un’irragionevole discriminazione – lesiva dell’art. 3 Cost. – di situazioni tra loro assimilabili, finendo col diversificare il regime dei presupposti di applicazione delle misure alternative, in relazione al dato contingente dell’esistenza di un rapporto esecutivo in atto, a sua volta dipendente da circostanze meramente casuali che le misure alternative alla detenzione sono concedibili anche in caso di cumulo di pene inflitte per reati diversi, uno dei quali “ostativo” alla concessione dei benefici, se la pena relativa a quest’ultimo sia già stata espiata». In termini analoghi si sono espresse le Sezioni Unite della Cassazione, le quali hanno affermato che «nel corso dell’esecuzione il cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato è scindibile, ai fini della fruizione dei benefici penitenziari, in ordine ai reati che di questi non impediscono la concessione e sempre che il condannato abbia espiato la pena relativa ai delitti ostativi» (Cass. pen., sez. un., 30 giugno 1999, n. 14, in CED Cass., rv. 214355-01). Rilevante in materia è anche il più recente orientamento giurisprudenziale secondo cui «in presenza di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti, è legittimo lo scioglimento del cumulo nel corso dell’esecuzione quando occorre procedere al giudizio sull’ammissibilità della domanda di concessione di un beneficio penitenziario (nel caso di specie, l’affidamento in prova al servizio sociale per finalità terapeutiche di cui all’art. 94, comma primo, L. n. 309 del 1990), che trovi ostacolo nella presenza nel cumulo di uno o più titoli di reato inclusi nel novero di quelli elencati nell’art. 4 bis l. n. 354 del 1975, sempre che il condannato abbia espiato la parte di pena relativa ai delitti ostativi» (Cass. pen., sez. I, 3 dicembre 2013, n. 2285, in CED Cass., rv. 258403-01; nello stesso senso: Cass. pen., sez. I, 12 aprile 2016, n. 14563, in CED Cass., rv. 233946; Cass. pen., sez. I, 17 gennaio 2012, n. 5158, in CED Cass., rv. 251860. Contra: Cass. pen., sez. I, 20 febbraio 2020, n. 12339, in CED Cass., rv. 278701-01; Cass. pen., sez. I, 18 luglio 2019, n. 42088, in CED Cass., rv. 277294-01). In senso contrario si esprime F. Gianfilippi, Il Decreto legge Ristori e le carceri, in www.giustiziainsieme.it, 1° novembre 2020, secondo cui l’operatività del meccanismo di scorporo «deve ritenersi ammettere delle eccezioni, soltanto ove espressamente individuate dal legislatore, come nel caso di specie».

[126] F. Gianfilippi, Il Decreto legge Ristori e le carceri, cit.

[127] F. Gianfilippi, Il Decreto legge Ristori e le carceri, cit.

[128] Sul punto v. anche C. Minnella, Dal decreto-legge ‘sicurezza-bis’ a quello ‘ristori’: errare humanum est, perseverare autem diabolicum., in Questa rivista, 8 novembre 2020.

[129] Come osservato da UCPI; la previsione circa l’obbligatorietà del controllo mediante strumenti tecnici si concretava – come oggi – in una iniziativa «irresponsabile», subordinando la detenzione domiciliare alla effettiva disponibilità di strumenti di cui, nel contempo, si riconosceva l’insufficienza (Carcere: scelte ciniche e irresponsabili legate a braccialetti che non esistono, in www.camerepenali.it, 18 marzo 2020).

[130] cfr. Bollettino n. 34, in www.garantenazionaleprivatilibertà.it, 29 maggio 2020.

[131] Cfr. D. Aliprandi, Covid in carcere: misure insufficienti e il mistero dei braccialetti elettronici, in Il Dubbio, 30 ottobre 2020.

[132] V. l’intervista rilasciata dal Garante a V. Lanza, Mauro Palma: “Le misure del governo avranno effetti limitati”, in Il Riformista, 30 ottobre 2020.

[133] F. Gianfilippi, Il Decreto legge Ristori e le carceri, cit.

[134] Non si possono non condividere le osservazioni di A. Barbano, Il carcere rimosso, in Huffpost, 1° ottobre 2020, il quale osserva che «forse nessuno sa che in Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Spagna, ma anche in Russia, Croazia e Albania, i detenuti sono autorizzati a incontrare per ore, e talvolta per intere giornate, la famiglia in miniappartamenti senza alcun controllo (…). Nessuno riconosce più l’orrore di una giustizia che diventa la più potente e nello stesso tempo la più occulta macchina di dolore umano. È la terribile ambivalenza del vedere e non vedere. Il detenuto indagato nell’intimità, negli affetti, negli umori e perfino nei bisogni fisiologici, e allo stesso tempo invisibile alla comunità dei cittadini liberi».

[135] G. Fiandaca, Gratteri irresponsabile. Mattarella dai la grazia!, in Il Riformista, 4 aprile 2020, p. 3 ss., ad esempio, evidenziava, fra l’altro, a fronte dell’eccezionalità della situazione, la necessità di adottare misure deflattive della popolazione carceraria per almeno 10 e 20 mila presenze, la previsione di misure alternative per detenuti con pena residua di quattro anni di pena, indulto eventualmente, in modo provocatorio, sostituito dal ricorso massivo alla grazia del Presidente della Repubblica. V. anche, sul punto, A. Manna, Coronavirus, emergenza carceraria ed il ruolo della magistratura di sorveglianza, in Questa rivista, 29 aprile 2020.

[136] C. Mazzucato, Sovraffollamento carcerario e differimento dell’esecuzione penale, in Criminalia, 2014, p. 462.

[137] E. Dolcini, La pena ai tempi del diritto penale illiberale, cit., p. 10.

[138] V., in relazione a Corte Edu, sez. I, 13 giugno 2019, Viola c. Italia, S. Santini, La dignità umana quale barriera invalicabile: la Corte di Strasburgo respinge la disciplina italiana dell’ergastolo ostativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 2246 ss.

[139] L’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane ha a tale proposito, con il comunicato del 9 novembre 2020, reperibile su www.camerepenali.it, rivolto il condivisibile invito al Parlamento «ad emanare l’amnistia e l’indulto, parole oggi impronunziabili», ma che nel momento attuale, più che in ogni altra situazione, troverebbero giustificazione. Nel suddetto documento sono state anche individuate una serie di soluzioni, tutte praticabili, per far fronte immediatamente all’emergenza: «Con coraggio e sano realismo, occorre eliminare le preclusioni che hanno impedito alla detenzione domiciliare, da ultimo ridisegnata dal Governo, di svolgere un’adeguata funzione di riduzione del carico umano nelle carceri. È necessario innalzare la soglia di detenzione residua per la concessione del beneficio da 18 a 24 mesi, lasciando l’applicazione dei c.d. braccialetti elettronici alla valutazione concreta del magistrato ove davvero disponibili. Eliminare la preclusione allo scioglimento del cumulo, consentendo così l’applicazione del beneficio in questione per la parte di pena residua per reato comune. Introdurre la liberazione anticipata speciale di 75 giorni per ogni semestre di pena espiata come avvenne per dare risposte immediate al Consiglio d’Europa dopo la Sentenza “Torreggiani”. Prevedere per il giudice, chiamato ad emettere una misura cautelare custodiale in carcere, di considerare, nella valutazione delle concrete esigenze cautelari, l’attuale emergenza sanitaria per il “coronavirus” unitamente al persistente sovraffollamento, favorendo, piuttosto, gli arresti domiciliari. Disporre l’applicazione transitoria della disciplina in questione anche per coloro che già si trovano in custodia cautelare in carcere all’entrata in vigore della legge. Solo assumendo, con coraggio e determinazione, queste immediate misure ed assegnando alla Giustizia le necessarie risorse, potremo consentire al “processo” di recuperare dignità e all’esecuzione penale di rispettare i principi costituzionali».

[140] G. Giostra, La riforma penitenziaria: il lungo tormentato cammino verso la costituzione, cit.

[141] G. Giostra, Ibidem.

[142] M. Ceresa gastaldo, La legge, il giudice, la pena, in Sistema penale, 15 ottobre 2020, p. 2.

[143] P. Calamandrei, Bisogna aver visto, in “Il ponte”, 1949, n. 3, p. 225 ss.