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CONTINUIAMO A MANGIARE I FRUTTI DELL’ALBERO AVVELENATO: LA SENTENZA N. 252/2020 DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MATERIA DI PERQUISIZIONI – DI FRANCESCO FRATINI

CONTINUIAMO A MANGIARE I FRUTTI DELL’ALBERO AVVELENATO: LA SENTENZA N. 252/2020 DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MATERIA DI PERQUISIZIONI – DI FRANCESCO FRATINI

FRATINI – CONTINUIAMO A MANGIARE I FRUTTI DELL ALBERO AVVELENATO- LA SENTENZA N. 252 2020 DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MATERIA DI PERQUISIZIONI.PDF

CONTINUIAMO A MANGIARE I FRUTTI DELL’ALBERO AVVELENATO: LA SENTENZA N. 252/2020 DELLA CORTE COSTITUZIONALE IN MATERIA DI PERQUISIZIONI

WE KEEP EATING FRUITS OF POISONOUS TREE: THE CONSTITUTIONAL COURT JUDGMENT N. 252/2020 ON SEARCHES

di Francesco Fratini*

Il presente scritto commenta la sentenza della Corte Costituzionale n. 252/2020 in materia di perquisizioni. La Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni riguardanti l’art. 191 c.p.p. laddove non prevede l’inutilizzabilità degli esiti probatori degli atti di perquisizione illegittimi, mentre ha accolto la questione concernente l’art. 103 DPR 309/90 laddove non prevedeva che anche le perquisizioni autorizzate per telefono dovessero essere successivamente convalidate.

This comment deals with Constitutional Court judgment n. 252/2020 on searches. The Court declared clearly inadmissible the question of constitutionality raised on art. 191 of the criminal procedure code where it admits evidences coming from illegal searches; on the other hand, the Court declared unconstitutional art. 103 DPR 309/90 because it didn’t decree that also allowed by telephone searches should be validated afterwards.

Sommario: 1. Le questioni di legittimità costituzionale decise dalla Corte. – 2. La manifesta inammissibilità delle questioni riguardanti l’art. 191 c.p.p. – 3 La questione avente ad oggetto l’art. 103 DPR 309/90 (T.U. Stupefacenti) – 4. Il rispetto della legalità delle operazioni di perquisizione tra dettato costituzionale ed effettivo controllo giurisdizionale.

   

  1. Le questioni di legittimità costituzionale decise dalla Corte.

Con la sentenza n. 252/2020 la Corte Costituzionale si è pronunciata sulle questioni sollevate da sei ordinanze del Tribunale di Lecce (r.o. n. 17, 18, 19, 20 21 e 22 del 2020), per violazione degli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97 e 117, co. 1 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), aventi ad oggetto l’art. 191 c.p.p. nella parte in cui, secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, qualificabile come diritto vivente, non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di un divieto di legge riguardi anche gli esiti probatori – compreso il sequestro del corpo del reato – degli atti di perquisizione e ispezione domiciliare compiuti dalla polizia giudiziaria al di fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge, ovvero non convalidati, comunque sia, dal Pubblico Ministero con provvedimento motivato.

La Corte ha altresì affrontato la questione di legittimità, sollevata dalla sola ordinanza n. 22 del 2020 in riferimento agli artt. 13, 14 e 117, co. 1 Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, dell’art. 103 del DPR 309/90 nella parte in cui il prevede che il Pubblico Ministero possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza necessità di una successiva documentazione formale delle ragioni per cui l’ha rilasciata.

Con la sentenza in commento la Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni sollevate in relazione all’art. 191 c.p.p. , mentre ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 103, co. 3, DPR 309/90, nella parte in cui non prevede che anche le perquisizioni personali e domiciliari autorizzate per telefono debbano essere convalidate.

  1. La manifesta inammissibilità delle questioni riguardanti l’art. 191 c.p.p.

La prima delle questioni affrontate dalla Consulta è quella concernente l’art. 191 c.p.p., nei termini pocanzi indicati.

 Il Tribunale di Lecce aveva sollevato le eccezioni di incostituzionalità nel corso di giudizi per reati in materia di stupefacenti e per reati contro il patrimonio. In questi processi la prova, come spesso accade, era costituita dal corpo del reato sequestrato presso l’abitazione degli imputati a seguito di perquisizioni effettuate dalla Polizia Giudiziaria sulla base di notizie fornite da fonti confidenziali, ovvero in assenza della flagranza di reato, ovvero autorizzate verbalmente dal PM senza che ne risultassero le ragioni, ovvero effettuate ai sensi dell’art. 103 DPR 309/90  senza aver chiesto l’autorizzazione del PM e senza che constasse l’impossibilità di farlo.

Ad avviso del Giudice a quo l’applicazione dell’art. 191 c.p.p. avrebbe violato in primis gli artt. 13 e 14 Cost.: in forza di dette disposizioni costituzionali le perquisizioni personali (art. 13) e domiciliari (art. 14) sono ammissibili solo in presenza di un’autorizzazione dell’autorità giudiziaria rilasciata con provvedimento motivato e nei soli casi previsti dalla legge (c.d. riserva di legge e riserva di giurisdizione). Solo in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può provvedere in via autonoma con atti soggetti a successiva convalida da parte dell’autorità giudiziaria.  Secondo le ordinanze di rimessione, in mancanza di una convalida motivata le perquisizioni dovrebbero essere considerati atti privi di ogni efficacia, «perdita di efficacia che implicherebbe, necessariamente l’inutilizzabilità dei loro risultati sul piano probatorio, anche perché solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare, disincentivando la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria per finalità di ricerca della prova».

Sarebbero risultati altresì violati gli artt. 2 e 3, 24 e 97, co. 2 Cost.: con riferimento al primo, l’interpretazione dell’art. 191 c.p.p. fatta propria dal diritto vivente non avrebbe fornito adeguate garanzie contro le illecite violazioni dei diritti dell’uomo. L’art. 3 Cost., invece,  sarebbe venuto in rilievo sotto una molteplicità di aspetti: in primo luogo «per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto a situazioni analoghe nelle quali l’inutilizzabilità è espressamente prevista o riconosciuta dalla legge»; in secondo luogo «per contrasto con il “principio di necessaria razionalità dell’ordinamento” venendosi a teorizzare un sistema che considera “inefficaci ab origine le leggi incostituzionali” ma “efficacissimi” anche sotto il profilo probatorio, gli atti della polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino». L’art. 3, infine, avrebbe funto da parametro del giudizio di costituzionalità anche in combinato disposto con gli artt. 97, co. 2 e 24 Cost.: nel primo caso, in quanto si sarebbe data prevalenza all’azione illegale degli organi statali finalizzata alla repressione dei reati rispetto al rispetto dei diritti inviolabili dei singoli; nel secondo caso, perché si sarebbero considerate irrazionalmente utilizzabili prove acquisite in diretta violazione di un divieto di legge.

Infine, l’art. 191 c.p.p. nell’interpretazione offerta dal diritto vivente avrebbe altresì violato l’art. 117, co. 1 Cost. in relazione all’art. 8 CEDU perché non predisporrebbe efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia.

La Corte Costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni sollevate in quanto analoghe a quelle già decise con la sentenza n. 219 del 2019 e dichiarate inammissibili.

 In quella sentenza la Consulta ha chiarito che, invero, l’inutilizzabilità, al pari della nullità, risponde ai principi di legalità e tassatività e che, pertanto, solo la legge può stabilire, con norme di stretta interpretazione, in ragione della loro natura eccezionale, un divieto probatorio[1]; ne consegue la natura fortemente manipolativa delle eccezioni di incostituzionalità sollevate, dal momento che il Giudice a quo avrebbe preteso di «desumere l’automatica “inutilizzabilità” degli atti di sequestro, attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti, in ragione di una ritenuta non congruità – rispetto ai presupposti enunciati dall’art. 103 del DPR 309/90 – dell’apparato di motivazioni esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in questione, ancorché convalidati da parte del pubblico ministero».

Riteneva, inoltre, la Consulta, infatti, che «la tesi del giudice rimettente, secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre – come soluzione costituzionalmente imposta – alla “inutilizzabilità” del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, rinverrebbe, d’altra parte, la sua ragion d’essere nella circostanza che l’art. 191 c.p.p. svolgerebbe una funzione di tipo “politico costituzionale”, in quanto mirerebbe ad assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova attraverso lo strumento dell’inutilizzabilità dei relativi risultati. (…) In questa prospettiva, la stessa ratio essendi delle censure – volte a rendere automaticamente “contaminata” la utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dei casi consentiti dalla legge – finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di “politica processuale” che la stessa Costituzione riserva al legislatore»[2].

Le questioni, pertanto, erano dichiarate inammissibili in quanto la materia è caratterizzata da ampia discrezionalità del legislatore e la disciplina ha natura eccezionale; inoltre, l’obiettivo di prevenire possibili abusi da parte della Polizia Giudiziaria, secondo la Corte, è perseguito dall’ordinamento attraverso altri strumenti come la persecuzione diretta in sede disciplinare e penale dell’autore della condotta abusiva.

Dal momento che le questioni sollevate con le nuove ordinanze di rimessione erano sostanzialmente analoghe a quelle già risolte la Corte le ha dichiarate manifestamente inammissibili.

  1. La questione avente ad oggetto l’art. 103 DPR 309/90 (T.U. Stupefacenti).

La Corte ha invece esaminato nel merito ed accolto la questione avente ad oggetto l’art. 103 DPR 309/90. Il terzo comma di tale disposizione consente agli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano particolari motivi di necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del Pubblico Ministero, di procedere a perquisizioni dandone notizia entro quarantotto ore al Procuratore della Repubblica, il quale, se ricorrono i presupposti, le convalida. Nel caso di specie la polizia giudiziaria aveva proceduto ad una perquisizione presso l’abitazione di un imputato, previa autorizzazione telefonica del PM, il quale successivamente aveva provveduto alla sola convalida del sequestro effettuato all’esito della perquisizione.

Secondo il Tribunale di Lecce, l’art. 103 DPR 309/90, nella parte in cui prevede che il Pubblico Ministero possa consentire l’esecuzione di perquisizioni in forza di autorizzazione orale senza una successiva documentazione formale delle ragioni che l’hanno sorretta, violerebbe gli artt. 13, 14 e 117, co. 1 Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU, in quanto l’autorizzazione telefonica non consentirebbe al giudice un controllo effettivo sulla sussistenza delle ragioni che legittimano la perquisizione.

La Corte Costituzionale ha accolto la questione, pur non recependo il petitum del giudice a quo, che chiedeva nella sua ordinanza di imporre al Pubblico Ministero una successiva documentazione formale delle ragioni che lo hanno indotto ad autorizzare oralmente la perquisizione.

Secondo la Corte Costituzionale, infatti, la norma oggetto del giudizio di costituzionalità è incompatibile con il disposto degli artt.13 e 14 della Carta fondamentale nella parte in cui richiede che le perquisizioni possano essere disposte solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria.

La motivazione, infatti, «è funzionale alla tutela della persona che subisce la perquisizione, la quale deve essere posta in grado di conoscere – così da poterle, all’occorrenza, anche contestare – le ragioni per le quali è stata disposta una limitazione dei suoi diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare»; da questo punto di vista «un’autorizzazione telefonica – che di per sé non lascia traccia accessibile delle sue ragioni, né per l’interessato né per il giudice – non soddisfa tale requisito. Se i motivi per i quali è stata consentita la perquisizione restano nel chiuso di un colloquio telefonico tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, la tutela prefigurata dalle norme costituzionali resta inevitabilmente vanificata»[3].

La Corte Costituzionale ha, tuttavia, ritenuto che la richiesta del Tribunale di Lecce di imporre al Pubblico Ministero una successiva documentazione formale delle ragioni del provvedimento autorizzatorio non potesse essere accolta, in quanto non avrebbe specificato quando e come costui avrebbe dovuto adempiere tale obbligo.

La mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata non è stata considerata di ostacolo dalla Consulta alla luce della sua più recente giurisprudenza che ha ritenuto ammissibili le questioni sollevate laddove nell’ordinamento vi fosse la presenza di una o più soluzioni costituzionalmente adeguate. Nel presente caso, i Giudici costituzionali hanno ritenuto di individuare la soluzione nel richiedere, anche per la perquisizione autorizzata telefonicamente, la convalida entro il termine individuato dall’art. 352 co, 4 c.p.p.; pertanto, gli operanti hanno quarantotto ore di tempo dalla fine delle operazioni per inviare i verbali al Pubblico Ministero il quale ha ulteriori quarantotto ore per procedere alla convalida.

Nella motivazione della Corte sono individuate due ragioni a sostegno di questa scelta: la prima è che, pur di fronte all’anomalia di una convalida successiva di un atto già assentito, sia pur telefonicamente, l’assenso reso telefonicamente ai sensi dell’art. 103 DPR 309/90 non risponde ai requisiti richiesti dall’art. 13 Cost. e, proprio per questo, è necessaria la convalida successiva.

La seconda è che la norma in oggetto amplia i poteri della Polizia Giudiziaria rispetto al dettato del codice di rito: ciò giustifica, per la Corte, un sovrappiù di garanzie, che impone agli agenti operanti di munirsi di un assenso preventivo informale del pubblico ministero e successivamente al Pubblico Ministero di provvedere alla convalida formale dell’operazione, in modo tale da consentirgli di verificare le modalità con le quali la perquisizione è stata eseguita.

  1. Il rispetto della legalità delle operazioni di perquisizione tra dettato costituzionale ed effettivo controllo giurisdizionale.

La sentenza in commento ha ad oggetto le perquisizioni che, secondo il codice di procedura penale, sono mezzi di ricerca della prova strumentali alla ricerca di un oggetto materiale da assicurare al procedimento o di una persona da arrestare. L’ordinamento individua due tipi di perquisizione: personale, quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla sua persona il corpo del reato o cose pertinenti al reato, ovvero locale, quando vi è fondato motivo di ritenere che esse si trovino in un determinato luogo, o che in esso si possa eseguire l’arresto dell’imputato o dell’evaso. Se la perquisizione dà esito positivo, il corpo del reato o le cose pertinenti al reato vengono sottoposte a sequestro probatorio, altro ed autonomo mezzo di ricerca della prova (se, invece, viene trovata la persona ricercata, si procede all’esecuzione dell’ordinanza custodiale o ai provvedimenti di arresto e di fermo)[4].

In questo quadro si inserisce l’art. 103 DPR 309/90; si tratta di una disposizione derogatoria del regime codicistico delle perquisizioni, sia di quelle autorizzate dal Pubblico Ministero (art. 247 c.p.p), sia di quelle di iniziativa della P.G. (artt. 352 e 354 c.p.p.), per le quali la legge prevede degli specifici e stringenti requisiti[5]. In questi casi è comunque prevista la successiva convalida da parte del Pubblico Ministero, che ha la finalità di verificare che l’atto della Polizia Giudiziaria sia stato posto in essere nel rispetto di tutti i requisiti previsti dalla legge. L’art. 103 DPR 309/1990, invece, ha potenziato gli strumenti e l’operatività della Polizia Giudiziaria, consentendole di effettuare perquisizioni anche in assenza dei requisiti della flagranza o dell’evasione indicati dall’art. 352 c.p.p., purché nel corso di un’operazione antidroga ed in presenza del fondato motivo di ritener che la perquisizione possa portare al reperimento di sostanze stupefacenti.

La Corte Costituzionale ha ritenuto che la disciplina prevista da questa disposizione sia in contrasto con gli articoli 13 e 14 della Costituzione.

Si tratta, come noto, di due articoli che tutelano la libertà personale (art. 13) e l’inviolabilità del domicilio (art. 14); nello specifico ai fini della questione sollevata dinanzi alla Corte viene in rilievo il disposto dell’art. 13, co. 2 e 3, cui fa rinvio, per le perquisizioni domiciliari, anche l’art. 14, co. 2: secondo tali disposizioni, le perquisizioni, come ogni altro atto restrittivo della libertà personale o di domicilio, possono essere disposte solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria; solo in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria, che deve convalidarli entro le successive quarantotto ore.

La Costituzione, dunque, delinea un quadro ben preciso poi ripreso dalla normativa codicistica; dal momento che gli atti intrusivi della libertà personale (ivi compresa l’inviolabilità del domicilio, che della prima ne è la dimensione per così dire spaziale) sono ammessi solo per provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge (riserva di legge e riserva di giurisdizione), si possono dare due ipotesi:

  1. Autorizzazione preventiva da parte del magistrato (nello specifico il Pubblico Ministero) e successiva attività di perquisizione da parte della Polizia Giudiziaria: è l’ipotesi prevista dall’art. 247 c.p.p.;
  2. Perquisizione, in casi di straordinaria necessità ed urgenza (flagranza di reato ovvero evasione, ovvero ancora, ordinanza di custodia cautelare, fermo o ordine di carcerazione) e successiva convalida da parte del Pubblico Ministero: è l’ipotesi disciplinata dall’art. 352 c.p.p..

In entrambi i casi, l’intervento dell’autorità giudiziaria non è meramente formale: sia l’autorizzazione che la convalida devono essere motivate, dovendo indicare i presupposti di fatto che legittimano l’adozione del provvedimento incisivo della libertà personale. La riserva di giurisdizione individuata dalla Costituzione in materia di diritti personali non è, infatti, resa meno cogente da quelle disposizioni, come il terzo comma dell’art. 13, che consentono una qualche forma di intervento delle autorità di pubblica sicurezza: il fatto che il testo della Costituzione, come anche del codice di procedura penale, richiamino l’istituto della convalida, deve portare a ritenere che gli atti della Polizia Giudiziaria (nel caso che occupa le perquisizioni) siano atti originariamente invalidi ma temporaneamente efficaci e che solo la successiva e tempestiva convalida dell’autorità giudiziaria consenta loro di mantenere validità ed effetti[6].

La convalida, inoltre, deve essere disposta con atto motivato; come si legge nei passaggi conclusivi della sentenza, «non avrebbe senso, in effetti, che la norma costituzionale richieda l’«atto motivato» quando l’autorità giudiziaria, titolare ordinaria del potere, operi di sua iniziativa, e non pure nell’ipotesi – più delicata – in cui sia chiamata a verificare se la polizia abbia agito nell’ambito dei casi eccezionali di necessità ed urgenza nei quali la legge le consente di intervenire»[7].

La sentenza in commento, pur apprezzabile perché richiama al rispetto della legalità costituzionale anche le operazioni di polizia condotte con strumenti eccezionali come quelle antidroga, non affronta, perché al di fuori delle questioni sollevate con le ordinanze di rimessione, alcuni aspetti di rilievo. Invero, l’obbligo di convalida motivata successiva della perquisizione autorizzata telefonicamente dal Pubblico Ministero rischia di restare lettera morta se non si affrontano le problematiche, ad esso connesse, dei rapporti tra perquisizione e sequestro, del contenuto delle motivazioni dei decreti di autorizzazione o di convalida delle perquisizioni e degli strumenti di controllo, a disposizione dei difensori e del giudice, sui decreti di autorizzazione e di convalida.

Quanto al primo punto occorre ricordare che, anche se si tratta due diversi mezzi di ricerca della prova, la perquisizione è comunque finalizzata al rinvenimento di corpi del reato o di cose pertinenti al reato che, ai sensi dell’art. 253 c.p.p., sono oggetto del provvedimento di sequestro. Nella prassi quotidiana questo porta all’emanazione da parte del Pubblico Ministero di un solo provvedimento nel quale si convalidano (il più delle volte) o si autorizzano le perquisizioni ed i sequestri. Di solito, i decreti di convalida dei Pubblici Ministeri sono laconici ed apodittici, facendo un mero richiamo alle norme di legge che autorizzano la perquisizione ed il successivo sequestro della Polizia Giudiziaria che avrebbe agito nel rispetto dei presupposti di legge, senza indicare quali siano i beni oggetto del vincolo di indisponibilità e gli atti della Polizia Giudiziaria. È palmare che una siffatta motivazione, meramente apparente, elude, se non viola, il disposto costituzionale e codicistico. Sul punto è intervenuta recentemente la Corte di Cassazione, stigmatizzando queste prassi devianti e richiamando al rispetto al principio di legalità, non solo formale, ma sostanziale, con una sentenza nella quale si legge «il decreto di sequestro probatorio deve essere necessariamente sorretto da idonea motivazione che non si deve limitare ad indicare le disposizioni di legge violate, ma, compatibilmente con la fase processuale e la natura dell’indagine, deve contenere una concisa descrizione: a) della condotta criminosa ipotizzata a carico dell’indagato con l’indicazione delle sue coordinate spazio temporali; b) della natura dei beni da vincolare; c) della loro relazione con tale ipotesi criminosa. Solo attraverso la descrizione della condotta criminosa, infatti, è possibile una verifica sia del nesso di pertinenza probatoria tra questa e la res che della ragione giustificatrice del vincolo imposto, evitando che il mezzo di ricerca della prova venga indebitamente utilizzato per finalità meramente esplorative non consentite dalla legge. A tal fine non può ritenersi sufficiente il mero richiamo nel decreto di sequestro di specifici atti di polizia giudiziaria da cui sarebbero desumibili i connotati specifici della condotta al cui accertamento è strumentale il mezzo di ricerca della prova»[8].

Il principio deve valere a maggior ragione per le perquisizioni ed i sequestri posti in essere ai sensi dell’art. 103 DPR 309/90, dal momento che in questi lo strumento è più invasivo rispetto a quello delineato dal codice. Operando, infatti, oltre i limiti individuati dall’art. 352 c.p.p., la perquisizione è sganciata in questo caso dall’esistenza di una notizia di reato a carico del prevenuto, potendo essere disposta anche solo per la concomitante esistenza di un’operazione di polizia per la prevenzione e la repressione del traffico di sostanze stupefacenti[9]. Da questo punto di vista la sentenza ribadisce che il nucleo essenziale dei diritti costituzionalmente garantiti non può essere intaccato neanche da norme eccezionali, le quali ben possono introdurre regimi derogatori rispetto a quanto previsto in via ordinaria, purché queste eccezioni siano comunque rispettose dei principi e delle norme costituzionali.

Altro aspetto è quello dei controlli giurisdizionali sui decreti di perquisizione. Si tratta di un tema in parte affrontato, indirettamente, nella sentenza annotata laddove ha respinto le questioni di legittimità dell’art. 191 c.p.p. formulate dal Giudice a quo. La sentenza fa propri alcuni punti fermi della giurisprudenza di legittimità:

  1. I vizi di invalidità degli atti processuali sono individuati tassativamente dal codice e quindi non è possibile per la Corte Costituzionale dichiarare incostituzionale l’art. 191 c.p.p., laddove non preveda l’inutilizzabilità degli esiti probatori, compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e degli atti di perquisizione compiuti dalla Polizia Giudiziaria al di fuori dei casi previsti dalla legge[10];
  2. I mezzi di impugnazione degli atti sono anche questi tassativamente indicati dalla legge e pertanto non è ammissibile né il riesame né il ricorso per cassazione avverso il decreto di convalida della perquisizione[11];
  3. Avverso le perquisizioni illegittime l’ordinamento appresta altri strumenti, di natura disciplinare o penale.

La Corte sembra non rendersi conto che l’operare congiunto di questi principi non può che portare alla creazione di una zona grigia nell’ordinamento, nella quale le garanzie ed i diritti dell’indagato rimangono senza alcuna specifica tutela.

Infatti, a fronte di un decreto di perquisizione illegittimo, ovvero di un’operazione di perquisizione della Polizia Giudiziaria convalidata illegittimamente dal Pubblico Ministero, non è apprestato dall’ordinamento alcuno strumento di tutela per il privato, a meno che il successivo provvedimento sequestro sia anch’esso affetto da vizi diversi da quelli della perquisizione. Invero, in forza del principio per cui gli agenti di Polizia Giudiziaria sono tenuti a disporre il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, che rinvengano nel corso delle loro operazioni di polizia, il sequestro in questi casi è legittimo, pur se le cose sulle quali cade il vincolo di indisponibilità sono state rinvenute all’esito di una perquisizione illegittima.

In questo modo, infatti, si ritorna al principio del «male captum, bene retentum», che in passato ha giustificato anche l’utilizzo della tortura o di altri strumenti pur di acquisire fonti di prova.

Non vi è chi non veda, pertanto, che la questione sollevata dal Tribunale di Lecce fosse tutt’altro che di poco momento e la Corte Costituzionale, richiamando sue precedenti pronunce, ha avallato un indirizzo interpretativo e giurisprudenziale che, come vedremo, è stato di recente sottoposto ad un vaglio critico dalla Corte EDU. Soprattutto, la Consulta non ha percepito la contraddizione tra la seconda parte della sentenza, nella quale si rafforzano le garanzie per i privati, e la prima parte, nella quale a queste garanzie non si danno effettivi strumenti di tutela. Ciò è ancora più vero, se si tiene conto che, ai sensi dell’art. 13 Cost., terzo comma, cui fa rinvio l’art. 14 Cost., secondo comma, gli arresti posti in essere, nei casi di necessità e urgenza previsti dalla legge, da parte della polizia giudiziaria, se non sono convalidati dall’autorità giudiziaria nelle successive quarantotto ore, “si intendono revocati e restano privi di ogni effetto”.

Né, a tal fine, può aver alcuna rilevanza il fatto che le condotte abusive della Polizia Giudiziaria possono rilevare in sede disciplinare o penale; invero, la Corte sembra sottovalutare che l’illegittimità di un atto è cosa ben diversa dell’illiceità della condotta di chi quell’atto ha posto in essere e che, sul piano dei rimedi, le sanzioni disciplinari o penali (o anche civilistiche) non vanno ad incidere su ciò che più rileva per l’interessato, cioè che quell’atto non possa avere alcuna efficacia probatoria contro di lui. Infatti, se anche a distanza di alcuni anni si appurasse che la condotta dell’operante di Polizia Giudiziaria ebbe rilevanza penale, ciò non toglie che l’atto posto in essere ed illegittimamente convalidato sia ancora pienamente efficace.

Sul punto occorre segnalare che è intervenuta di recente anche la Corte EDU nella sentenza Brazzi c. Italia del 27 settembre 2018. La Corte è stata investita del caso da un ricorrente, indagato in un procedimento per reati fiscali, sottoposto a perquisizione autorizzata con provvedimento del Pubblico Ministero, che ebbe esito negativo; avverso il decreto di perquisizione il sig. Brazzi propose ricorso per cassazione, dichiarato inammissibile dalla Corte.

Secondo la Corte Europea, nel presente caso, vi è stata violazione dell’art. 8 della Convenzione, [12]che tutela la vita privata, in quanto «anche se la misura controversa aveva una base giuridica nel diritto interno, il diritto nazionale non ha offerto al ricorrente sufficienti garanzie contro gli abusi o l’arbitrarietà prima o dopo la perquisizione. Di conseguenza, l’interessato non ha beneficiato di un “controllo effettivo” come richiede lo stato di diritto in una società democratica. In tali circostanze, la Corte ritiene che l’ingerenza nel diritto al rispetto del domicilio del ricorrente non fosse «prevista dalla legge» ai sensi dell’articolo 8 § 2 della Convenzione».

La sentenza della Corte Costituzionale, a parere di chi scrive, dunque, pur ampliando le garanzie per i singoli nel caso delle perquisizioni, in particolare quelle previste da norme eccezionali come l’art. 103 DPR 309/90, pur tuttavia, anche per i limiti imposti dal petitum del Giudice a quo, non segna alcun passo in avanti in tema di effettività dei rimedi avverso i provvedimenti di perquisizione illegittimi.

*Avvocato del Foro di Tivoli

[1] Si legge nella sentenza n. 219/2019 (punto n. 4 del considerato in diritto) che «come rammentato dalla giurisprudenza di legittimità “essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto a paradigma del parametro costituzionale del “giusto processo”, qualsiasi divieto probatorio positivamente introdotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 marzo-9 aprile 2010 n. 13426), con l’ovvia conseguenza che le norme le quali introducano divieti probatori si atteggiano, nel sistema, alla stregua di norme eccezionali e di stretta interpretazione».

[2] Cfr. sent. n. 219/2019, punto n. 7 del Considerato in diritto.

[3] Cfr. par. 4.3 del considerato in diritto.

[4] Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2013, pag. 385.

[5] La perquisizione su iniziativa della polizia giudiziaria è ammessa in presenza di quattro requisiti (Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., pag. 518):

  1. Oggetto da ricercare: cose o tracce pertinenti al reato ovvero la persona dell’indagato o dell’evaso;
  2. Situazione in cui la perquisizione avviene: flagranza di reato; evasione; fermo di persona indagata; esecuzione di un’ordinanza che dispone la custodia cautelare ovvero la carcerazione per uno dei reati per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza;
  3. Pericolo nel ritardo: necessità di ricercare cose o tracce che si possono cancellare o andare disperse;
  4. Fondato motivo: la Polizia Giudiziaria deve avere a disposizione elementi obiettivi tali da far ritenere con sufficiente probabilità che le cose o le persone ricercate si trovino nel posto ove è effettuata la perquisizione.

[6] Cfr. A. Baldassarre, Diritti inviolabili, in Enciclopedia giuridica, vol. XI, 1989, pag. 38 secondo il quale «tale intervento, infatti, oltreché eccezionale, è presuntivamente considerato invalido dalla stessa Costituzione, tanto che per essere definitivamente ritenuto come atto valido e per produrre effetti stabili, ha bisogno di una vera e propria convalida ad opera dell’autorità giudiziaria, che è perciò riconosciuta come l’unica autorità pienamente legittimata ad intervenire in materia. Questo principio non è neppure contraddetto dall’art. 14, cpv., poiché il fatto che si possano prevedere con leggi speciali anche procedure amministrative in deroga è una conferma che la regola è quella opposta».

[7] Cfr. par. 4.4 del considerato in diritto.

[8] Cfr. Cass., sez. VI, sent. n. 10815/2021.

[9] È concreto, infatti, il rischio che la perquisizione, in questi casi, da mezzo di ricerca della prova diventi mezzo di ricerca del reato. Sul punto la Corte di Cassazione ha chiarito che può farsi ricorso alla perquisizione solo se sia già stato individuato il tema nel cui ambito tale ricerca ha un suo contenuto di concretezza e specificità, posto che, diversamente, la perquisizione da strumento di ricerca della prova diverrebbe un mezzo di acquisizione della notitia criminis. Cfr. Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., pag. 385.

[10] Cfr. ex multis Cass., sez. I, sent. n. 5068/2021.

[11] Cfr. ex multis Cass., sez. I, sent. n. 15537/2020.

[12] L’articolo recita: «Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

Non può aversi interferenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che questa ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà degli altri».