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DELITTO E MORALE NELLA NUOVA SINTASSI PENALE DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA  – DI OLIVIERO MAZZA

DELITTO E MORALE NELLA NUOVA SINTASSI PENALE DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA – DI OLIVIERO MAZZA

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DELITTO E MORALE NELLA NUOVA SINTASSI PENALE DELLA GIUSTIZIA RIPARATIVA (IN MARGINE ALL’ORDINANZA DEL TRIBUNALE DI GENOVA)

CRIME AND MORALITY IN THE NEW CRIMINAL SYNTAX OF RESTORATIVE JUSTICE (IN THE MARGIN OF THE GENOA COURT ORDER)

di Oliviero Mazza

Sommario: 1. Prime applicazioni, primi problemi. –  2. Riparazione e confessione. – 3. Vittimocentrismo timido e questione di legittimità costituzionale. – 4. Morale, laicità e diritto penale. –

Traendo spunto da un’articolata ordinanza del Tribunale di Genova, vengono prese in esame le aporie del sistema della giustizia riparativa, soprattutto con riferimento al modello costituzionale di accertamento penale. I dubbi riguardano anche il superamento del principio, liberale e democratico, della laicità del diritto penale.

Drawing from an articulate ordinance of the Court of Genoa, the aporias of the restorative justice system are examined, especially with reference to the constitutional model of criminal ascertainment. The doubts also concern the overcoming of the liberal and democratic principle of the secularity of criminal law.

1. Prime applicazioni, primi problemi. – Dopo una precoce pronuncia della Cassazione, intervenuta ancor prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina e limitata alla questione marginale degli avvisi[1], iniziano a registrarsi le prime prese di posizione della giurisprudenza di merito sul complesso tema della giustizia riparativa.

L’ordinanza del Tribunale di Genova è certamente una delle più articolate e significative, dando al lettore l’impressione che sia il frutto di un’approfondita riflessione e di un’accurata preparazione. Proprio per questa sua strutturata caratteristica, i dubbi di legittimità costituzionali, presi in esame e di fatto superati solo dal difetto di rilevanza, meritano attenta considerazione.

Si tratta, però, di un provvedimento ancipite: la prima parte mette in evidenza le criticità del sistema, soprattutto nell’ottica del diritto di difesa dell’accusato; la seconda, invece, vira nettamente verso la tutela della vittima e su questo versante delinea una incostituzionalità latente della disciplina che non si trasforma nella relativa questione solo per la realistica presa d’atto della mancanza di mediatori formati per il nuovo compito. La ritenuta impossibilità di surrogarli con altri organismi di mediazione preesistenti è poi la chiave della decisione che sterilizza ogni questione di compatibilità costituzionale ed europea.

Questa conclusione, per quanto interlocutoria, merita piena approvazione, soprattutto se rapportata a scelte di segno diverso effettuate altrove, ad esempio nel distretto milanese, dove i ferventi sostenitori della giustizia riparativa hanno accettato che, almeno nella prima fase, tale delicatissimo procedimento possa essere gestito da soggetti non adeguatamente formati[2], come dire che il fine dell’immediata applicazione delle nuove norme giustifica anche il sacrificio della figura centrale del mediatore.

2. Riparazione e confessione. – Nella prima parte, quella più attenta alle ragioni della difesa dell’imputato, il giudice si sofferma sulle modalità di invio ai centri stabilite dall’art. 129-bis c.p.p. e giunge alla conclusione, ragionevole, ma non scontata, che vi siano soverchie «difficoltà di ammettere un programma di giustizia riparativa in corso di un processo (e ancora più di un procedimento) allorché l’imputato (o l’indagato) contesta la fondatezza dell’accusa».

Sarebbe un’affermazione così banale da non meritare la citazione testuale, se non fosse che gli ideologi della riforma hanno teorizzato un procedimento “complementare” in cui non «si richiede una confessione all’imputato», trattandosi di un «percorso dialogico condotto da un mediatore che prende le mosse non dalla responsabilità penale ma da un fatto nudo, a prescindere dalla sua corrispondenza rispetto alla condotta di reato»[3].

Tale stupefacente definizione, prima di essere demolita dal sano realismo giuridico del Tribunale di Genova, aveva già trovato smentita nella Relazione del Massimario della Cassazione secondo cui si tratta di un «procedimento incidentale, parallelo alla giustizia contenziosa»[4].

Del resto, al di là della prevedibile interpretazione giurisprudenziale, era la logica, non necessariamente giuridica, a riportare l’interprete a una realtà normativa che, finalizzata alla riparazione di qualcosa, ne postulava prima la rottura. Detto altrimenti, la giustizia riparativa delineata dal d.lgs. n. 150 del 2022 non è un gioco di società e nemmeno una seduta di analisi collettiva, ma è calata integralmente nel sistema penale come forma di risoluzione alternativa del conflitto interindividuale rappresentato dal reato.

A riprova di ciò, è sufficiente ricordare quali siano gli effetti penali sostanziali del procedimento incidentale di mediazione: per i reati procedibili a querela, il cui novero è stato significativamente incrementato proprio dalla riforma Cartabia, la risoluzione alternativa della controversia determina la remissione di querela (art. 152 comma 2 n. 2 c.p.). Il collegamento fra il procedimento principale e quello incidentale è reso ancor più chiaro dalla previsione che, «quando l’esito riparativo comporta l’assunzione da parte dell’imputato di impegni comportamentali, la querela si intende rimessa solo quando gli impegni sono stati rispettati». Per tutti i reati procedibili d’ufficio, l’esito riparativo determina l’applicazione di una specifica diminuente (art. 62 n. 6 c.p. che parifica la riparazione al risarcimento del danno e alle condotte riparatorie) nonché la sospensione condizionale della pena (art. 163 comma 5 c.p.). Senza dimenticare la prospettiva, tutt’altro che remota, di una surrettizia applicazione dell’archiviazione meritata – istituto abbozzato e poi abbandonato nei lavori preparatori della riforma – in seguito al buon esito della giustizia riparativa avviata per decisione del pubblico ministero.

Il quadro normativo certifica che davanti al mediatore non si discute di “nudi fatti”, privi di rilevanza penale, posto che l’unico oggetto del procedimento incidentale è la “rottura” dei rapporti personali determinata dal reato, con tutte le conseguenze del caso, tanto in termini di procedibilità e di definizione del procedimento già in fase di indagini quanto di dosimetria sanzionatoria e di benefici di legge.

Al di là della ricostruzione quasi esoterica della “conca riparativa”, per il giurista positivo è innegabile che l’ammissione da parte dell’imputato dei fatti che gli vengono addebitati costituisca la precondizione, logica e giuridica, indispensabile per l’accesso stesso ai programmi riparativi.

Dunque, confessione necessaria che il Tribunale di Genova ritiene imprescindibile anche nell’ottica della tutela della genuinità dell’accertamento rispetto al «rischio di inquinamento delle prove che debbono essere assunte nel contraddittorio delle parti davanti a un Giudice (e non a un mediatore, per quanto esperto)». Il Giudice con la G maiuscola, contrapposto al mediatore, fa capire quanto sia difficile accettare l’idea che l’affare penale venga risolto da una figura quasi mitologica, «un saggio mediatore – psicoanalista o parroco più che giurista – come tale attento alla persona e all’anima delle parti più che alle loro contrapposte ragioni di fatto e di diritto»[5].

Non è solo questione di difesa corporativa da parte della magistratura, ma gli stessi soggetti processuali, tanto l’imputato quanto la persona offesa, nonché la collettività dovrebbero interrogarsi sulla scelta di delegare la risoluzione dei conflitti interpersonali integranti il reato non più alla giurisdizione garantita, bensì a operatori sociali.

Si tratta di un passaggio molto rilevante. La giustizia riparativa può trovare spazio solo quando la quesitone cognitiva sia stata risolta mediante la scelta autodifensiva remissiva dell’imputato, quando l’autore del reato abbia riconosciuto i fatti essenziali del caso o, ancor meglio, quando gli stessi siano stati accertati all’esito di un giusto processo di cognizione. Il suo habitat naturale sarebbe, di conseguenza, la fase esecutiva.

Del resto, sebbene il d.lgs. n. 150 del 2022 non preveda espressamente la confessione quale condizione di accesso al programma, il rinvio generale ai principi internazionali, contenuto nell’art. 53 comma 1 d.lgs. n. 150 del 2022, è più che sufficiente per importare nella disciplina nazionale proprio quelle regole europee che impongono, quale condizione essenziale per l’avvio del procedimento, che «l’autore del reato [abbia] riconosciuto i fatti essenziali del caso» (art. 12, c. 1, lett. c, dir. 2012/29/UE). Analoga affermazione si ritrova nel par. 30 della Raccomandazione 8(2018) del Consiglio d’Europa, secondo cui «punto di partenza per un percorso di giustizia riparativa dovrebbe essere generalmente il riconoscimento a opera delle parti dei fatti principali della vicenda». La giustizia riparativa rimane, fin dalla sua matrice europea e nella sua connotazione finalistica, un istituto di favore e di garanzia per la vittima al quale l’imputato accede solo riconoscendo la sua responsabilità.

3. Vittimocentrismo timido e questione di legittimità costituzionale.

La seconda parte dell’ordinanza è quella più densa di contenuti, certamente la più interessante in quanto svela l’approccio culturale del giudice, solo parzialmente occultato dalle digressioni iniziali.

Con apprezzabile nettezza di pensiero, il Tribunale di Genova non solo cancella le fumisterie negazioniste di chi continua ad escludere che il sistema sia vittimocentrico[6], ma ritiene l’«istituto del tutto disfunzionale alla tutela delle vittime dei reati a sfondo sessuale o di genere, in totale distonia con la vocazione securitaria, spesso solo apparentemente pubblicizzata, dalle norme relative a tale specifico settore».

Detto per inciso, i giudici liguri sono in buona compagnia dato che in Europa vi sono esempi di normative nazionali, come quella spagnola, che espressamente escludono i reati del “codice rosso” dalla giustizia riparativa. E la Spagna è un modello universalmente riconosciuto di legislazione molto avanzata (direi addirittura troppo) nella lotta contro le violenze di genere.

Non si può negare che la vis polemica colga nel segno, segnalando la conclamata schizofrenia normativa di cui possono trovarsi infiniti esempi. Si pensi al giudice che applica una misura coercitiva all’imputato, magari il divieto di avvicinamento alla persona offesa, e al tempo stesso ordini l’invio di entrambi i soggetti in conflitto davanti al mediatore affinché possano “avvicinarsi” oppure a tutti i casi in cui l’imputato sia ristretto nella sua libertà personale in ragione del pericolo di recidiva e venga nondimeno disposto il suo invio al centro per la giustizia riparativa al fine di incontrare proprio chi si assume abbia già subito le conseguenze della condotta violenta.

Al di là delle sempre più evidenti contraddizioni di un sistema penale irrazionale, la giustizia riparativa presenta finalità ben precise, scolpite nell’art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2020, ma troppo spesso taciute da chi respinge ideologicamente la natura penitenziale del nuovo istituto. Cosa si deve intendere per riconoscimento della vittima, responsabilizzazione dell’imputato e ricostruzione dei legami con la comunità (rectius, società)? La connotazione assiologica della giustizia riparativa è tutt’altro che neutrale.

Nell’ipotesi più laica, si dà per scontato che ci sia un autore di reato da responsabilizzare, una vittima da riconoscere, in quanto soggetto che ha subito il reato, e una società che attende giustizia, magari anche solo riparativa. Nella versione moraleggiante, che è poi quella che va per la maggiore fra i primi commentatori, la responsabilizzazione dell’imputato sottende il suo pentimento, il riconoscimento della vittima passa attraverso la riparazione materiale e simbolica, mentre la comunità diviene il giudice popolare disposto al perdono stragiudiziale e ad accogliere nuovamente l’imputato che abbia compiuto tangibili atti di contrizione.

Questo è il programma delineato dal legislatore che, in entrambe le chiavi di lettura, risulta ben lungi dalla mistica delle emozioni, attingendo a una smaccata presunzione di colpevolezza.

Ogni riflessione ulteriore deve prendere le mosse dal dato di realtà giuridica: il legislatore non mette sullo stesso piano vittima e colpevole, il sistema è intriso di una cultura europea vittimocentrica che non si cura della questione cognitiva e della presunzione d’innocenza, ma punta solo alla resipiscenza dell’imputato, alla rielaborazione dell’agito delinquenziale e al perdono della persona offesa.

Senza eccedere nell’oggettivismo giuridico, le fonti eurounitarie (art. 12, c. 1, lett. a, dir. 2012/29/UE) ancora una volta non si prestano ad equivoci: «si ricorre ai servizi di giustizia riparativa soltanto se sono nell’interesse della vittima».

Superata, come ha fatto anche l’ordinanza in commento, la narrazione fiabesca di una “conca riparativa” in cui tutti i presenti hanno pari dignità, il testo legislativo risulta paradossalmente lesivo tanto delle prerogative dell’imputato quanto di quelle della vittima.

La quesitone di legittimità delineata dal Tribunale di Genova, ma non sollevata per difetto di concreta rilevanza, prende in considerazione solo il deficit di tutela della vittima che effettivamente segna un’innegabile divaricazione fra la normativa interna e quella europea. Probabilmente la quesitone è fondata e le volute ambiguità del testo interno, ispirato alla descrizione favolistica dell’incontro paritario, segneranno il destino della riforma, se non per mano della Corte costituzionale, certamente per l’opposizione delle vittime (anche surrogate) e di quel diffuso populismo giustizialista che assedia il sistema penale nel suo insieme.

Ciò detto, la vera ragione di opposizione all’innesto della giustizia riparativa nel processo penale non può essere la ridotta considerazione della vittima, come invece ritiene il Tribunale di Genova. Il difetto genetico sta, all’opposto, nella lesione della presunzione d’innocenza, con tutte le conseguenze sul diritto di difesa.

3. Un procedimento senza garanzie. – La giustizia riparativa, così come disciplinata dal d.lgs. n. 150 del 2022 è un procedimento incidentale che nasce, iussu iudicis, dal processo principale e che, in caso di esito positivo, conduce alla risoluzione alternativa della controversia, parafrasando la terminologia civilistica, ossia all’estinzione del reato procedibile a querela, ovvero determina notevoli effetti penali sostanziali in termini di diminuzione e di sospensione della pena. Il procedimento incidentale comunque refluisce in quello principale, anche in caso di esito negativo, in quanto il mediatore è costretto a riferire al giudice circa l’impossibilità o l’interruzione del dialogo riparativo.

La volontà del legislatore è cristallina: incistare la giustizia riparativa nel processo penale in modo tale da istituzionalizzare, con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di spesa pubblica (art. 67 d.lgs. n. 150 del 2022[7]), un percorso che, se fosse rimasto in ambito privato e volontario, avrebbe avuto pochissime possibilità di essere finanziato e di svilupparsi secondo le aspettative di chi lo ha teorizzato.

Partendo da questa constatazione, si è già segnalato come l’intersezione con il processo penale di cognizione possa determinare gravissime conseguenze per il rispetto della presunzione d’innocenza e del diritto di difesa dell’imputato: «nella fase di cognizione, la giustizia ripartiva, in tutte le sue forme, [è] ontologicamente incompatibile con il rispetto della presunzione d’innocenza, in quanto presuppone una già intervenuta cristallizzazione dei ruoli, colpevole e vittima, che per la logica del processo penale non solo non possono essere affermati fino all’accertamento definitivo di responsabilità, ma sono addirittura ribaltati dalla previsione costituzionale per cui l’imputato va considerato non colpevole e la vittima va presunta non tale o comunque non vittima dell’azione dell’imputato»[8].

L’invio al centro per la giustizia riparativa è disposto d’ufficio dal giudice, e ancor prima dal pubblico ministero, senza dover tener conto della volontà espressa dai soggetti interessati e senza che la scelta dell’organo giudicante ne determini la successiva incompatibilità al giudizio, trattandosi di anticipazione non indebita, in quanto prevista dalla legge, del convincimento.

L’ordinanza genovese si preoccupa del fatto che la persona offesa, non costituita parte civile, non debba nemmeno essere sentita, ma anche all’imputato e al suo difensore non è riservato un trattamento migliore, posto che l’interlocuzione non vincola in alcun modo il giudice. Ancora peggio quando la decisione è assunta dal pubblico ministero, ossia dalla controparte della difesa, con buona pace della parità tra le parti imposta dall’art. 111 comma 2 Cost.: «alla luce dei principi che reggono il giusto processo, non è infatti ammissibile che una parte, il p.m., pos­sa obbligare un’altra parte, l’imputato, a tenere un determinato comportamento che rientra a pieno titolo nella strategia e nelle prerogative difensive, ossia nell’esercizio di un diritto co­stituzionale definito inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dall’art. 24, c. 2, Cost., peraltro senza possibili deroghe o limitazioni»[9].

L’imputato è così costretto a subire una decisione dell’autorità procedente che sottende, all’evidenza, l’opinio delicti.

Al di là delle obiezioni di cui si discuterà a breve, si tratta, in primo luogo, di una questione di logica. Per quale ragione il giudice dovrebbe inviare l’imputato davanti al mediatore, per tentare la riparazione con la vittima, se lo ritenesse, come impone l’art. 27 comma 2 Cost., non colpevole? Come si può indicare la strada della riparazione, ossia della responsabilizzazione dell’imputato e del riconoscimento della vittima ex art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2022, se non si è convinti della rottura determinata dal reato attribuito all’accusato?

A tali elementari quesiti non è stata finora data una risposta convincente.

Si dice che la giustizia riparativa non è un accertamento parallelo, che nel suo ambito non si tratta di reati, ma di “nudi fatti”, che il linguaggio è quello delle emozioni e non del diritto penale, che non è richiesta la confessione e che il sistema non è vittimocentrico, in definitiva «è diverso l’oggetto del programma di giustizia riparativa rispetto al processo; diverso è lo scopo; diversi sono gli attori»[10].

Possiamo convenire che il procedimento incidentale della giustizia riparativa abbia un oggetto diverso dal procedimento principale: la giustizia riparativa, per il suo avvio e certamente per il suo buon esito, non può prescindere dalla confessione, mentre il processo di cognizione per fortuna sì.

Lo scopo è diverso perché il processo è cognitivo, mentre nella giustizia riparativa i ruoli sono già definiti ai blocchi di partenza, in violazione della presunzione d’innocenza e della regola di giudizio ad essa sottesa.

Gli attori sono diversi perché tutto è rimesso nelle mani del mediatore la cui equiprossimità è puramente illusoria e, comunque, di per sé si porrebbe in contrasto con l’art. 27 comma 2 Cost.: non si può essere equiprossimi a un presunto innocente e a una presunta non vittima. Infine, la comunità (meglio sarebbe dire la società) è giudice solo in corte d’assise, mentre nella giustizia riparativa viene istituzionalizzata quale tribunale del popolo.

Le diversità appena evidenziate sono i migliori argomenti per escludere la giustizia riparativa dal processo penale e per toglierle ogni effetto sul piano penale sostanziale.

Al contrario, tali argomentazioni, portate a sostegno della presunta diversità di piani, come propugnano i fautori della riforma, dimostrano una preoccupante dissociazione dalla realtà normativa.

Non è quindi del tutto inutile ribadire alcuni concetti fondamentali che vengono spesso offuscati da discorsi confusi, in cui l’unico dato che emerge con nettezza è l’adesione ideologica e aprioristica al dogma della giustizia riparativa.

L’invio – non invito, come spesso si sostiene con bischizzo intenzionale – è un atto d’ufficio dell’autorità giudiziaria procedente che prescinde dalla volontà delle parti, contrariamente alla vulgata per cui la giustizia riparativa sarebbe libera e volontaria.

L’avvio del procedimento incidentale non può essere riduttivamente inteso come «una semplice autorizzazione a iniziare un programma»[11].

L’autorizzazione, per essere tale, dovrebbe presupporre una richiesta di parte, mentre l’art. 129-bis c.p.p. disciplina un potere autonomo e ufficioso dell’autorità procedente. Si tratta di concetti basilari di teoria generale del diritto. Se davvero si fosse inteso prevedere una semplice autorizzazione, sarebbe bastato non utilizzare nella norma in quesitone il sintagma “anche d’ufficio”.

L’avvio del procedimento incidentale poggia, dunque, su un potere coercitivo attribuito all’autorità procedente, con la conseguenza che vittima e imputato sono costretti a presentarsi dinanzi al mediatore, pena l’inosservanza dell’ordine del giudice, dimostrando così che il “percorso” di giustizia riparativa è tutt’altro che libero e volontario. Un conto, infatti, è il dialogo riparativo che richiede il consenso per il suo avvio e per la sua prosecuzione, altro è il procedimento incidentale volto a realizzare il programma che nasce per una scelta autonoma dell’autorità procedente e costringe i soggetti interessati a presentarsi dinanzi al mediatore e a palesare le loro intenzioni.

Il comportamento renitente, se anche non costituisse in sé un illecito, sarebbe certamente valutabile dal giudice una volta chiamato ad apprezzare il comportamento dell’imputato susseguente al reato (art. 133 c.p.) o anche la meritevolezza della pretesa risarcitoria[12].

Non si può fingere che la scelta di disattendere la volontà del giudice non avrà un costo, anche solo in termini di cattiva impressione. Così come non ci si può trincerare dietro l’idea che il verbale negativo di mediazione non indichi il soggetto che si è reso indisponibile alla riparazione. Le parti, infatti, potranno sempre riferire al giudice il contegno reciprocamente tenuto nell’ambito del procedimento incidentale e ciò nel legittimo intento di sostenere le proprie ragioni nel corso del procedimento principale.

Nello sviluppo del procedimento incidentale non sono previste le garanzie fondamentali del diritto di difesa, a partire dall’assistenza del difensore al quale è graziosamente consentito di presenziare solo al primo incontro, quello finalizzato a raccogliere il consenso all’avvio del programma, e all’ultimo, quello deputato alla formalizzazione dell’esito riparativo materiale già intervenuto a sua insaputa.

È quasi imbarazzante dover ribadire che il diritto di difesa è inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 comma 2 Cost.), compresi i procedimenti incidentali. Non è quindi ammissibile che l’iter della mediazione venga condotto in assenza del difensore, addirittura con l’espressa previsione del divieto per quest’ultimo di presenziare agli incontri.

Ma anche a prescindere dalla palese illegittimità costituzionale derivante dall’esclusione del difensore, non si comprende per quale ragione tutti i sistemi di risoluzione alternativa delle controversie prevedano la negoziazione assistita dal difensore, mentre in ambito penale ciò non sia possibile.

Per rispondere al quesito, si ribatte che «nella conca della mediazione il difensore non ha alcun ruolo semplicemente perché non si parla il linguaggio tecnico del diritto penale (e non si accerta un reato), ma quello delle emozioni sprigionate dal conflitto»[13]. Se così fosse, verrebbe da chiedersi come sia possibile che il “linguaggio delle emozioni” determini l’estinzione del reato per remissione di querela, per non dire che su tale percorso emozionale si fondano attenuanti specifiche o i presupposti della sospensione condizionale della pena. A meno che non sia stata introdotta la nuova categoria del “diritto penale emozionale”, nella conca riparativa si parla proprio il linguaggio della responsabilità per un fatto tipico previsto dalla legge come reato.

Dove si parla di reato, di remissione di querela, di circostanze attenuanti e di sospensione condizionale della pena, a fianco dell’imputato deve esserci il difensore che ha il diritto/dovere di essere presente. La conclusione è disarmante: nel nuovo sistema penale etico la figura del difensore è da considerarsi estromessa per manifesta insignificanza.

Occorre, pertanto, essere rigorosi: se la mediazione è un fatto puramente morale ed emozionale, allora ben venga il bando del difensore, ma tale percorso non deve avere alcuna rilevanza in ambito penale e non deve intersecarsi con il processo penale di cognizione; se, invece, si vuole incentivare la mediazione con la premialità penale, allora il difensore deve esserne parte integrante per garantire al meglio gli interessi giuridici del suo assistito.

Non si comprende, infine, il veto alla presenza del difensore, quando invece nella conca riparativa sono ospitati addirittura gli esponenti della comunità ossia «enti ed associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato, rappresentanti o delegati di Stato, Regioni, enti locali o di altri enti pubblici, autorità di pubblica sicurezza, servizi sociali» (art. 45 lett. c d.lgs. n. 150 del 2022) ovvero «chiunque altro vi abbia interesse» (art. 45 lett d d.lgs. n. 150 del 2022).

Come si giustifica che l’accusato sia lasciato solo dinanzi a questo “tribunale del popolo” composto addirittura da rappresentati dello Stato, degli enti locali e della polizia? Ma soprattutto, perché chiunque vi abbia interesse può partecipare, ma non il difensore che sarebbe il primo ad avere un interesse per di più qualificato? C’è una sola possibile chiave di lettura ed è il malinteso ruolo del difensore quale complice processuale dell’imputato. Una visione offensiva del ruolo e della funzione difensiva, allineata al più becero populismo penale, indegna di essere normata in una legge dello Stato. La violazione dell’art. 24 comma 2 Cost. è palese e merita la più ampia censura.

L’ultimo aspetto procedurale che richiama l’attenzione è la presunta impermeabilità del processo penale nel caso di esito negativo del percorso di riparazione, tralasciando, per economia espositiva, altri irresolubili problemi legati alla segretezza degli atti di indagine che verrebbero portati a conoscenza di soggetti terzi presenti al tavolo della mediazione.

Secondo gli alfieri della giustizia riparativa, «quello che le persone si dicono non deve confluire nel procedimento ordinario e vi sono diverse paratie per assicurare l’impermeabilità»[14]. Le paratie, tuttavia, sono tutt’altro che a tenuta stagna.

Se si voleva ottenere il risultato di una netta segregazione dei piani, bisognava scrivere meglio le disposizioni. Non è previsto alcun obbligo di segretezza per i partecipanti, ma solo il vincolo di non divulgabilità e di riservatezza, peraltro senza sanzioni di sorta in caso di inosservanza.

L’argomento per cui non si sarebbe potuto imporre il segreto alle parti prova troppo ed è privo di fondamento normativo, come dimostra, ad esempio, l’art. 329 comma 3 lett. a) c.p.p. che impone la segretazione sul contenuto di atti ai quali ha partecipato l’imputato, come l’interrogatorio.

Ad ogni modo, anche volendo ammettere che alle parti processuali non si possa imporre un obbligo di segretezza sugli atti legittimamente conosciuti, a maggior ragione non avrebbe alcun significato il vincolo di riservatezza e di non divulgabilità. Logica vuole che qualunque vincolo sarebbe inefficace a fronte dell’interesse difensivo.

Pure la previsione della inutilizzabilità processuale dei verbali che riportano le dichiarazioni rese al tavolo della mediazione non impedisce che i contenuti del dialogo riparativo siano portati a conoscenza del giudice attraverso la diversa via della deposizione dei protagonisti. Credo che sia davvero impossibile teorizzare un divieto di testimonianza su quanto avvenuto dinanzi al mediatore quando tale narrazione possa avere una precisa rilevanza difensiva. Si pensi all’imputato o alla parte civile che intendano dimostrare al giudice, ossia a chi ha imposto l’avvio al procedimento incidentale, di aver fatto tutto il possibile per giungere all’esito riparativo, contrariamente alla controparte la cui opposizione ha impedito il raggiungimento del risultato sperato. Spiegare le ragioni per cui si è tornati a mani vuote dalla mediazione può rivestire un preciso interesse difensivo.

Dunque, la vagheggiata separazione fra i procedimenti è più un desiderio irrealizzabile che una effettività normativa. Del resto, raccontare nel processo quanto accaduto al tavolo della mediazione non significa, concettualmente, né divulgare né violare la riservatezza, dato che le informazioni vengono riversate in una sede propria come quella processuale dalla quale ha preso avvio il procedimento incidentale ripartivo e nella quale lo stesso refluisce fisiologicamente.

4. Morale, laicità e diritto penale. – Il programma di cui il giudice o il pubblico ministero dispongono l’avvio presenta una indiscutibile finalità di carattere etico: responsabilizzare l’imputato e riconoscere la vittima (art. 43 comma 2 d.lgs. n. 150 del 2022). Non c’è nulla di più etico che indurre qualcuno ad assumersi la responsabilità per un reato e, al tempo stesso, distinguere, in un preciso ruolo, chi è stato costretto a soccombere all’altrui condotta. Assunzione di responsabilità e riconoscimento delle ragioni altrui, distinguere fra bene e male, delitto e perdono, sono tutte categorie di un giudizio morale.

Il reato è (mal)inteso quale rottura di un rapporto interindividuale che deve essere ricomposta. Tale paradigma si applica anche nel caso di vittime aspecifiche o surrogate[15]. Il rapporto con la vittima surrogata, ossia con chi ha subito un reato diverso da quello per cui si procede, mette bene in evidenza il carattere puramente penitenziale della riparazione che può addirittura prescindere dalla composizione del conflitto con la vittima diretta o con i prossimi congiunti, nel caso in cui la persona offesa sia deceduta a causa della commissione del reato.

La giustizia riparativa sovrappone, inevitabilmente e volutamente, il piano del diritto con quello della morale. La laicità del diritto penale è però una conquista di civiltà alla quale non si può rinunciare senza avere ben presente che «la giustizia che insegue l’etica è espressione di uno stato autoritario»[16].

Finora il reato è stato considerato come violazione di norme legali poste a tutela di beni costituzionalmente rilevanti, con approccio laicamente ispirato all’accertamento cognitivo di un fatto tipico e alla conseguente irrogazione di una pena volta alla rieducazione, intesa come rivisitazione critica delle pregresse condotte criminali tale da condurre alla futura osservanza delle leggi.

La giustizia ripartiva, al contrario, intende il reato come un fatto privato che non riguarda il rispetto delle regole sociali e che non attiene all’attuazione di scelte politiche, ma che incide principalmente sulla vita delle persone nell’ottica di un conflitto interindividuale[17]. Una concezione privata e relazionale del diritto penale che cambia «la grammatica e la sintassi del reato per effetto della sua trasfigurazione da categoria giuridica a evento psicosociologico»[18].

Le notevoli ambiguità della visione morale del reato ricordano sempre più da vicino le pericolose deviazioni della concezione ottimistica o medicinale della pena di carneluttiana memoria[19]. La giustizia riparativa, intesa come catarsi dal reato e come ricostruzione dei rapporti con la vittima e con la comunità, non trova riscontro in un sistema penale, quale quello vigente, in cui la condotta antisociale e deviante oggetto di incriminazione non sempre è determinata dalla rottura di relazioni umane, basti pensare ai reati di pericolo astratto o a quelli che ledono interessi collettivi o comunque sovraindividuali.

A ciò si aggiunga che sarebbe del tutto improprio, nonché costituzionalmente eccepibile, attribuire alla giustizia penale lo scopo di favorire la riconciliazione fra autore del reato e vittima o la ricostituzione dei legami con la società. Si tratta di una «visione irenica e aconflittuale della società, di verosimile matrice religioso-comunitarista o in ogni caso di ispirazione umanista, tale per cui assurge a valore prioritario il recupero del legame personale e sociale che il reato avrebbe spezzato»[20].

La riconciliazione personale e di comunità è intrisa di innegabili venature morali che nel modello costituzionale di società laica e pluralista non possono assurgere a valore superiore della giustizia penale.

La riparazione, inoltre, non coincide con la rieducazione alla quale le pene devono tendere ai sensi dell’art. 27 comma 3 Cost. Vi è una profonda diversità fra i due concetti. La rieducazione, peraltro solo tendenziale, è il portato della laicità del diritto penale e postula che il condannato abbia condotto una rivisitazione critica della sua azione che consenta di escludere un pericolo di recidiva, a prescindere dai rapporti con la vittima o con la comunità di riferimento[21]: «un autore di reato di orientamento ideologico liberale-individualistico potrebbe rimanere indifferente rispetto alla prospettiva di entrare in sintonia con la vittima in carne e ossa, ma potrebbe nondimeno essere disposto a compiere impegnative prestazioni riparatorie volte a neutralizzare le conseguenze dannose del reato commesso. Dovremmo ritenere che, in un caso come questo, manchi qualcosa per considerare l’autore socialmente recuperato anche alla stregua dei principi e valori sottostanti alla GR? Se pensassimo così, a mio avviso giungeremmo a una conclusione costituzionalmente più che discutibile»[22].

Attribuire alla pena una finalità riparativa significa, oltretutto, innescare l’ibridazione del paradigma laico della rieducazione, postulandone una componente etica che si sviluppa proprio sul versante delle manifestazioni di interesse e di sensibilità nei confronti della vittima. Sarebbe un gravissimo arretramento rispetto alle conquiste di civiltà raggiunte, anche nella fase esecutiva, da quella giurisprudenza che scinde nettamente la rieducazione da ogni altra componente morale rappresentata da scuse o richieste di perdono rivolte alla persona offesa[23].

Come si è già avuto modo di sottolineare[24], la giustizia riparativa è stata organicamente inserita nella riforma efficientista del processo penale, caratterizzata dalla privatizzazione e dalla conseguente monetizzazione della giustizia penale. Alla matrice moralizzante si accompagna, quasi paradossalmente, una evidente curvatura per «scopi tecnocratico-efficientisti, cioè finalizzat[i] a deflazionare la macchina giudiziaria attraverso una definizione più rapida e informale di vicende delittuose di minore gravità»[25], come quelle contenute nel perimetro dei reati procedibili a querela per i quali il nuovo procedimento incidentale surroga appieno il giudizio di cognizione.

La giustizia riparativa presenta, quindi, matrici ideologiche complesse che vanno dalle istanze solidaristiche e comunitariste di ascendenza cattolica fino alla strumentalizzazione in chiave efficientista dell’accertamento penale, il tutto però unificato da una evidente distonia con i principi costituzionali della presunzione d’innocenza e della laicità del diritto penale, ben rappresentata, quest’ultima, dalla finalità tendenzialmente rieducativa, e non certo riparativa, della pena.

[1] A. PISCONTI, Una precoce pronuncia della Cassazione in materia di giustizia riparativa, in Arch. pen., 2023, n. 2, p. 1 ss.

[2] Cfr. Giustizia riparativa: lo schema operativo e i modelli diffusi dagli Uffici giudiziari milanesi, in Sist. pen., 8 settembre 2023.

[3] M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, in Il Dubbio, 26 settembre 2023, da cui è tratta anche la citazione immediatamente precedente nel testo.

[4] Ufficio del Massimario, Relazione su novità normativa. La ‘Riforma Cartabia’, 5 gennaio 2023, p. 277.

[5] B. CAVALLONE, Le prove nel nuovo millennio. Programmi per il passato, in Riv. dir. proc., 2022, p. 526.

[6] V. ancora M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.

[7] Che così recita: «nello stato di previsione del Ministero della giustizia è istituito un Fondo per il finanziamento di interventi in materia di giustizia riparativa, con una dotazione di euro 4.438.524 annui a decorrere dall’anno 2022».

[8] O. MAZZA, Sub art. 129-bis, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda – G. Spangher, Milano, 2023, p. 1970.

[9] O. MAZZA, Sub art. 129-bis, cit., p. 1972.

[10] M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.

[11] M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.

[12] Al contrario, sempre nell’ottica di giustificare le scelte ideologiche sottese alla riforma, si è addirittura sostenuto che, «data l’informalità della procedura, possiamo ritenere che, una volta ricevuta la convocazione, la vittima possa semplicemente decidere di non presentarsi. E questo varrebbe quale dissenso» (R.A. RUGGIERO, La giustizia ripartiva messa alla prova, in Sist. pen., 2024, p. 186).  In tal senso, v. anche V. ALBERTA, Giustizia riparativa: niente da salvare?, in Giur. pen., online, 2024, 1, p. 5-6.

[13] M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.

[14] M. GIALUZ – M. PASSIONE, Imputato e vittima: incontro che può aiutare a ricucire le ferite del processo penale, dentro e fuori dalle aule, cit.

[15] Cfr. Trib. Busto Arsizio, ord. 19 settembre 2023, in Sist. pen. ed. online, con nota di P. MAGGIO e F. PARISI.

[16] M. CASSANO, Processo mediatico, paletti ai pm e governo. Parla Margherita Cassano, in Il Foglio, 14 marzo 2024.

[17] Sono più che mai attuali le categorie concettuali teorizzate da M. R. DAMAŠKA, I volti della giustizia e del potere. Analisi comparatistica del processo (1986), trad. it., Bologna, 1991, p. 173 ss.

[18] G. FIANDACA, Punizione, Bologna, 2024, p. 142-143.

[19] F. CARNELUTTI, Il problema della pena, Roma, 1945, passim; ID., La lotta del diritto contro il male, in Foro it., 1946, IV, c. 1 ss.; ID., Meditazioni sull’essenza della pena, in Riv. it. dir. pen., 1955, p. 3; ID., Principi del processo penale, Napoli, 1960, p. 16-17.

[20] G. FIANDACA, Punizione, cit., p. 150.

[21] Così, ad esempio, Cass., Sez. 1 – , Sentenza n. 19818 del 23/03/2021 Cc.  (dep. 19/05/2021 ) Rv. 281366 – 02, secondo cui «la nozione di ravvedimento comprende il complesso dei comportamenti tenuti ed esteriorizzati dal soggetto durante il tempo dell’esecuzione della pena, obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale di rieducazione e recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali ed a formulare – in termini di certezza ovvero di elevata e qualifica probabilità confinante con la certezza – un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita del condannato all’osservanza delle leggi in precedenza violate». V. anche Cass., Sez. 1, Sentenza n. 34946 del 17/07/2012 Cc.  (dep. 12/09/2012 ) Rv. 253183 – 01.

[22] G. FIANDACA, Punizione, cit., p. 151.

[23] «Ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell’art. art. 16-nonies, d.l. 15 gennaio 1991, n. 8 il giudice, nel valutare il sicuro ravvedimento dell’istante, deve tener conto di indici sintomatici del “sicuro ravvedimento”, quali l’ampiezza dell’arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime dei reati commessi» (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 17831 del 20/04/2021 Cc.  (dep. 07/05/2021 ) Rv. 281360 – 01).

[24] O. MAZZA, Il processo che verrà: dal cognitivismo garantista al decisionismo efficientista, in Arch. pen., 2022, n. 2, p. 25-26.

[25] G. FIANDACA, Punizione, cit., p. 157.