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È L’EPOCA DEI GIUDICI O DEI PUBBLICI MINISTERI? – DI GAETANO INSOLERA

È L’EPOCA DEI GIUDICI O DEI PUBBLICI MINISTERI? – DI GAETANO INSOLERA

INSOLERA – È L’EPOCA DEI GIUDICI O DEI PUBBLICI MINISTERI?

È L’EPOCA DEI GIUDICI O DEI PUBBLICI MINISTERI?

di Gaetano Insolera

Se l’epoca dei giudici generava inquietudini negli ultimi sostenitori dello stretto legame tra specialità del penale e rappresentanza democratica, l’epoca dei Pubblici ministeri ci sospinge sempre più verso scenari ulteriori. Gli anni trascorsi hanno visto, in modo sempre più evidente, affiancarsi al potere delle giurisdizioni, quello degli uffici di procura: più diretto, tempestivo, pervasivo e, soprattutto, mediatico, quanto ad effetti politici e sulle libertà civili. Alcune riflessioni sulla recente “riforma” della giustizia penale e sulle ipotesi di riforma dell’ordinamento giudiziario.

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Testo rivisto e ampliato della relazione tenuta al convegno “Alla ricerca del legislatore perduto. Il tramonto della democrazia penale”, XIV edizione delle Giornate tridentine della difesa penale. Ordine degli avvocati di Trento, 27 novembre 2021.

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Sono trascorsi otto anni da quando, nell’Università di Bologna, in un seminario[1], si discusse su uno slogan – “è l’epoca dei giudici” – che era ormai penetrato in ampi settori della cultura giuridica, anche penalistica.

Non solo nel nostro contesto, si coglieva l’indebolimento dei sistemi di rappresentanza politica e del primato della legge, anche in campo penale.

In quella occasione si pose però un ulteriore interrogativo sullo stato del nostro sistema di giustizia penale: con risposte che dovevano essere diverse a seconda che riguardassero il potere di decidere, di concretizzare la disposizione normativa oppure i poteri delle Procure.

Se l’epoca dei giudici generava inquietudini negli ultimi sostenitori dello stretto legame tra specialità del penale e rappresentanza democratica, l’epoca dei Pubblici ministeri ci sospinge sempre più verso scenari ulteriori.

Gli anni trascorsi hanno visto, in modo sempre più evidente, affiancarsi al potere delle giurisdizioni, quello degli uffici di procura: più diretto, tempestivo, pervasivo e, soprattutto, mediatico, quanto ad effetti politici e sulle libertà civili.

Provo a sintetizzare alcune tesi sul tema di questo incontro.

1. Non è azzardato constatare che, se pure con diversa intensità, ovunque il modello delle liberal-democrazie attraversa una fase di crisi. Nel nostro paese, il tramonto della democrazia penale ne è una conseguenza: concetto, comunque, da assumere con prudenza. Nella esperienza contemporanea, novecentesca, le due parole, come due amanti infuocati, si sono inseguiti, incontrati, scontrati, ritrovati dopo drammatici distacchi.

Resto nella convinzione che, meno equivoco e pericoloso, sia parlare di diritto penale, assegnando a “democrazia” il ruolo di una particolare forma istituzionale della sovranità parlamentare a cui è riservata la scelta del punire.

In questo senso “Diritto penale” non deve connotare una pericolosa endiadi che accomuna e riveste della stessa sostanza potere coercitivo e libertà individuali in un rapporto di tipo funzionale sul quale si costruisce la narrativa intesa a legittimare l’inflizione legale della punizione. Diritto penale vuole contrapporre diritto al potere di punire: è ideologia dei diritti individuali e dei limiti alla coercizione, consustanziale questa ultima all’ esercizio effettivo di qualsiasi posizione di potere.

È in questa prospettiva che si legittima pienamente anche l’uso del sintagma Diritto penale liberale che, però, non ha mancato di far storcere il naso a qualche penalista.

Due fattori essenziali possono avvicinare liberalismo e democrazia. Da un lato l’idea di istituzioni rappresentative che sostituisce l’utopia della democrazia diretta, dall’altro, quella di Stato costituzionale di diritto[2]: con una sovranità limitata da una Costituzione scritta e rigida, da leggi, frutto di procedure predeterminate, “giustiziabili” da una Corte suprema.

2. La sofferenza del modello politico delle democrazie liberali caratterizza in modo speciale il caso italiano. Si può accettare convenzionalmente la efficace definizione di “democrazia giudiziaria[3]. Con la crisi e la paralisi del Parlamento come luogo di risoluzione delle tensioni sociali e quindi la implicita attribuzione alla magistratura del potere di mediare tra queste tensioni. Riflesso questo del tracollo dei partiti a partire dalla fine degli anni settanta; i partiti cominciano a rattrappirsi. Si allontanano progressivamente dalla società, dove maturano movimenti come l’ambientalismo, il femminismo, etc., estranei alla loro tradizione e che essi non capiscono.

I partiti, da espressione delle società, diventano espressione del sistema pubblico: si avvia la statalizzazione dei partiti politici.

Alla statalizzazione si è accompagnata la personalizzazione dei partiti politici come aggregazioni di persone attorno a un leader; se si preferisce, si è passati dal partito comunità al partito piedistallo[4].

3. Si è ormai diffusa la opinione, difficile da contestare, che vede negli avvenimenti di “mani pulite” la sovrapposizione di una decomposizione in atto del quadro delle istituzioni politiche della democrazia parlamentare, a cominciare da quella dei partiti, all’ affermazione, all’ interno della magistratura ordinaria, di un ingravescente e inarrestabile potere del Pubblico ministero.

A questo hanno contribuito: l’interesse del mondo politico uscito da quella tempesta per l’utilizzo delle inchieste penali nella competizione per l’ ottenimento di consensi[5]; il ruolo dei media,  a ciò si aggiunge l’irresistibile degrado a propaganda e rabbia del “post-giornalismo”[6] ;  le Procure, con i loro poteri e le loro iniziative assumono la missione di una pulizia morale del paese; il controllo generalizzato e diffuso di legalità, esercitato in forme esplorative, soppianta la funzione istituzionale volta ad innescare l’accertamento di responsabilità di fronte a notizie di reato[7].

È questo il contesto che determina la centralità, nell’operato, e negli scandali, del CSM occupata dalle lotte di fazione concentrate sulle nomine dei vertici delle Procure della Repubblica. Forse una dimostrazione disponibile dei miei precedenti rilievi.

4. Una prima conclusione, interlocutoria.

Il potere legislativo, la Lex parlamentaria, ha sofferto una erosione inarrestabile. Inutile negare che le elezioni politiche del 2018 – del cui risultato continuiamo a pagare le conseguenze – abbiano prodotto un ulteriore degrado qualitativo del ceto politico dei rappresentanti.

Ma non si può proprio trascurare il contributo ideologico a questo risultato fornito da molti maitre à penser.

È oggi di moda parlare, quasi con l’indulgenza solitamente dedicata a fanciulli e ad anziani, di idealtipico modello liberale, che persisterebbe solo nell’anacronistico immaginario dei penalisti. Un’antiquata fantasia liberale che non starebbe al passo con le società postmoderne[8].

Alla Legge, anche a quella penale si contrappone il diritto vivente, di creazione giurisprudenziale, per andare “oltre la legalità”[9].

Ma, nel riflettere sulle idee di Grossi, questa sua agognata “liberazione” dalla tirannia della legge, dalla politica sub specie di politica criminale e politica penale, da un lato, non fa i conti con una magistratura tetragona nella corporativa difesa di un reclutamento burocratico autogestito e gelosamente improntato ad una “autoformazione”, indistinto nella unicità dei ruoli di accusa e giudicanti. Dall’altro, vede nelle iniziative e nelle comunicazioni mediatiche di alcuni leader di Procura, gli strateghi preventivi o censori della politica criminale e penale[10].

5. Un passo indietro. Torniamo a “mani pulite”: l’icastica epifania di quanto costatiamo oggi, trenta anni dopo, trovò rappresentazione nel pronunciamento del Procuratore della Repubblica di Milano e dei sostituti impegnati nelle inchieste contro il cd. “decreto Biondi”, che intendeva porre alcuni limiti all’abuso della carcerazione preventiva: il braccio di ferro tra politica e ruolo assunto da quella Procura, nel 1994, si risolse con la sconfitta della politica: gli ingredienti c’erano già tutti. La mobilitazione delle piazze già sperimentata l’anno precedente contro il “decreto Conso”, quella dei media contro la “casta”, la salvifica leadership politica affidata alla Procura di Milano, ebbero un effetto esemplare che si diffuse all’intero contesto nazionale e costituirono lo spartito della conflittualità tra politica e magistratura per tutta la fase ventennale dei governi, quando erano presieduti da Berlusconi.

Non si può evitare un pensiero: avvenimenti, alcuni recentissimi, riguardanti quella Procura e alcuni reduci di quella esperienza confermano il logoramento che può subire l’acquisizione di poteri di fatto, basati su sostegni “a furor di popolo” e al di fuori delle rime istituzionali di una democrazia costituzionale.

6. Il codice processuale accusatorio. La fase della prima Repubblica si chiude con il lascito forse più significativo della cultura giuridica garantista di quel periodo.

Il codice di procedura accusatorio.

Al fallimento contribuì in modo decisivo il maggioritario schieramento della Magistratura: con il diluvio di questioni di incostituzionalità. La Corte, d’altra parte, giocò “di sponda” a cominciare dalle famigerate sentenze del 1992[11], e proseguendo, in quel decennio, nella demolizione del principio fondamentale di separatezza delle fasi.

E, già a partire dagli anni ’80, la Magistratura si era schierata compatta anche contro qualsiasi ipotesi di riforma dell’ordinamento giudiziario volta a marcare la distinzione tra funzione giudicante e requirente, indispensabile all’accusatorio. Una resistenza al cambiamento con il tabù della immodificabilità di reclutamento e formazione.

7. Tutta la politica è oggi ormai dominata e costretta ad inseguire i media, ponendo al centro dei discorsi la insicurezza, variamente declinata.

Dagli inizi del nuovo millennio i “pacchetti sicurezza” entrano nel gergo legislativo e sono intervenuti con firme politiche diverse.

Così non sarà ammissibile constatare che la emergenza mafiosa sia stata superata in talune aree, che la mafia non abbia vinto[12]; che, se il problema persiste, la mafia tuttavia non è dappertutto[13]; che la statistica criminale veda la diminuzione di molti gravi reati; che la corruzione percepita è cosa diversa dalla corruzione reale[14].

8. Si potrebbe obiettare come il prepotere del blocco costituito dalle Procure e dai principali media – o, addirittura, da un quotidiano che ne costituisce la “gazzetta ufficiale”, trovi comunque un limite e, in alcuni casi, contrasto nella operatività di controlli giurisdizionali previsti dalla legge processuale.

Obiezione diffusa: non si sa quanto ingenua o frutto di mancata conoscenza della realtà della nostra giustizia penale.

Alcuni spunti capaci di orientarci: la granitica opposizione alla separazione tra magistratura requirente e giudicante; la frequenza di messaggi e interventi politici dell’ANM, nei quali brilla l’assenza di sostegni rivolti a magistrati giudicanti che abbiano disatteso le costruzioni accusatorie e, per tale motivo, sono stati gettati nella pista del circo mediatico[15].

Il peso politico delle Procure si è fatto sentire – è solo un esempio – a proposito del tema centrale del “processo infinito” regalatoci dalla “spazzacorrotti”, con l’abbandono della iniziale indicazione della Commissione Lattanzi sulla inappellabilità delle sentenze di condanna o di proscioglimento da parte del pubblico ministero.

9. Gli eventi precipitano: la pandemia. Una riforma chiesta dall’Europa?

I fatti hanno smentito la vulgata populista dell’indifferenza dell’Unione europea nei confronti delle conseguenze economiche della pandemia, con un piano di interventi di sostegno imponente e con una speciale attenzione per la situazione italiana.

 Tra i vari fattori che, all’inizio del 2021 non portarono ad un reincarico a Conte – tra di essi la difesa a oltranza di un ministro della giustizia impresentabile – abbia giocato il diffondersi della convinzione, anche nelle principali cancellerie europee, della inadeguatezza, e, quindi dei connessi rischi, di affidare la gestione del Recovery plan e delle condizioni da esso poste al ceto politico che numericamente dominava la coalizione del secondo governo Conte.

La tenuta di una coalizione, che sostiene Draghi, tanto vasta quanto eterogenea è stata consentita dalla mancanza di alternative realistiche di fronte all’ urgenza delle decisioni da assumere.

Tra le condizioni poste dalle istituzioni europee per accedere ai vari sostegni economici contro gli effetti della pandemia, troviamo quella di una riforma della giustizia che garantisca maggiore efficienza e tempi più calcolabili.

Con una coalizione tanto eterogenea non era possibile immaginare che, sul tema della giustizia penale, il governo Draghi potesse invertire la rotta illiberale seguita da precedenti esecutivi.

Si trattava quindi di individuare soluzioni di mediazione che dessero però qualche segno di discontinuità.

Lo svolgimento di questa impresa di mediazione era gravato fin dall’inizio da una pesante ipoteca: si scelse infatti di intervenire sul Disegno di legge già elaborato dal ministro Bonafede[16]. Figura emblematica di un approccio “giustizialista” ed esasperatamente punitivo alla questione penale, definito come “questione identitaria”: sostenuta con retoriche sanculotte, con un egualitarismo punitivo rivolto al ceto politico e a tutte le “caste”: economiche, professionali, scientifiche, intellettuali. Retoriche accompagnate dal solidissimo sostegno della formazione politica di appartenenza dell’ex ministro all’esorbitante potere della magistratura penale e, soprattutto, a quello delle Procure antimafia e, in generale, alla funzione dell’accusa.

La rappresentazione mediatica della insicurezza e della lotta alla criminalità ha mantenuto un ruolo preponderante nella comunicazione, digitale, televisiva e di gran parte della stampa.

Il percorso intrapreso dal Governo Draghi ha incontrato un altro scoglio: la martellante propaganda incentrata sull’affermazione che la mancanza di un celere intervento sui tempi e le disfunzioni del sistema di giustizia avrebbe compromesso i sostegni della Unione europea per fronteggiare la crisi economica determinata dalla pandemia[17].

Si è trattato di un mainstream che ha accompagnato il tormentato percorso dei lavori della commissione, anchilosati dai diktat posti dalle “questioni identitarie” del partito di maggioranza relativa, ma fatti propri anche da altre forze della “sinistra” e da gran parte dei principali media.

In questo modo si è formato la convinzione, nella pubblica opinione, che la situazione di emergenza dovesse fare accettare una soluzione rapida, qualunque essa fosse, perché, altrimenti, si sarebbe corso il rischio di perdere l’intero stanziamento di sostegno economico all’Italia.

Una prospettiva emergenziale di cui è più che lecito dubitare.

A ben vedere per quanto attiene il settore penale gli interventi richiesti sembrano anzitutto riferiti alla lotta ai reati contro la pubblica amministrazione.

E in questo contesto che si colloca il mandato ampio attribuito alla commissione istituita dalla ministra Cartabia.

Vero è tuttavia che le indicazioni rinvenibili nel PNRR si riferiscono ad un apprezzamento per la disciplina della prescrizione lasciataci dal ministro Bonafede e a una stigmatizzazione per i tempi eccessivi del processo penale consentiti dalla disciplina vigente dell’appello: il tutto riferito ad una repressione della corruzione, ritenuta ancora troppo blanda (!!).

Non si tratta tuttavia, ed è evidente, di dictat precisi e soprattutto, in quanto tali, non suscettibili di porsi come condizioni che in caso di mancato adempimento comprometterebbero “l’erogazione dell’intero finanziamento europeo: non solo dei 2,3 miliardi di euro destinati al settore giustizia”.[18]

Quanto alla disciplina della prescrizione continua a non essere desumibile un vincolo europeo a proposito della sua natura – sostanziale o processuale.

Sul grado di appello, il quadro normativo sovraordinato, l’art. 14, 5° comma del Patto internazionale sui diritti civili e politici, non solo esclude soluzioni abolitive, pur avanzate da posizioni estreme del campo populista[19], ma anche escamotage che rendano fittizia la possibilità di un riesame nel merito delle decisioni di I grado[20].

La cd. Commissione Lattanzi ha quindi operato intervenendo su molteplici aspetti della nostra procedura penale in presenza di una conflittualità animata soprattutto dai media che, con maggior vigore, sostenevano in termini conservativi il disegno di legge di partenza del ministro Bonafede, ad essi si sono affiancate, in molte occasioni e su taluni aspetti, singoli magistrati e la stessa associazione sindacale dei magistrati.  Prova ne sia la duplicità delle soluzioni ipotizzate sul tema cruciale della prescrizione – prospettiva sostanziale o processuale – nella relazione finale della commissione depositata il 24 maggio 2021.

Dopo il deposito della relazione della Commissione Lattanzi il dibattito è stato sempre più acceso, soprattutto sul tema della prescrizione, ma non solo, fino alla pubblicazione della Legge. Quanto alla disciplina della prescrizione – normativa immediatamente applicabile, come molteplici altri interventi sulla procedura penale (art.2, mentre nell’ art 1 è prevista una legge delega) – si è optato per la contemporanea presenza della sua operatività di diritto sostanziale e processuale: un meccanismo complesso e incerto che non ha mancato di sollevare critiche da parte della letteratura processuale[21], alle quale si sono aggiunte, occorre dirlo, anche quelle dell’ANM,  di singoli magistrati e dei media. Ciò, però, in molte occasioni è avvenuto rivelando una malcelata affezione per la soluzione della imprescrittibilità “secca” dopo la sentenza di condanna di I grado, senza correttivi processuali.

In conclusione, nei travagliati lavori della Commissione è possibile cogliere quanto abbia influito il potere di veto della formazione maggiormente rappresentata in Parlamento, del Potere giudiziario e di parte rilevante dei media.

Paziente lavoro di mediazione quello del nuovo ministero. Qualche perplessità, fin dall’insediamento, poteva tuttavia nascere dalla composizione sia della commissione, sia del comitato scientifico. Dominante la componente proveniente dai ranghi della magistratura, quella universitaria in prevalenza occupata da docenti a tempo pieno – c’è da ritenere con scarsa esperienza delle dinamiche effettuali e delle prassi nel processo – pochissimo rappresentata l’avvocatura. Assenti infatti figure rappresentative, per impegno, adesione risalente ed esperienza, dell’Unione delle Camere Penali Italiane. Assenti, infine, penalisti e processualisti universitari che, appartenenti a diverse generazioni, per esperienza e impegno, si sono contraddistinti per una presenza costante nel discorso pubblico.

Questa sovrabbondanza di figure provenienti dal potere giudiziario, confermata dalla composizione delle cinque commissioni successivamente impegnate nella redazione della legge delega, desta perplessità anche per la particolarità della situazione italiana, come sappiamo, caratterizzata da almeno trenta anni, dalla forte conflittualità tra potere giudiziario e ceto politico. Qualche buon auspicio spero di trarlo dal successivo, recente, coinvolgimento di Francesco Petrelli, direttore della rivista Diritto di Difesa e storico aderente all’Unione delle Camere Penali Italiane.

Qualche osservazione conclusiva sul risultato ottenuto con la riforma della giustizia penale, che, anche in una recente occasione[22], è stato presentato dalla Ministra in carica come imprescindibile tempestivo adempimento delle condizioni poste dall’Europa che, in mancanza, avrebbe compromesso l’intero ammontare dei sostegni all’ Italia.

Richiamo quanto ricavato dalla “fonte” europea: le soluzioni tradotte in legge non corrispondono ad obblighi precisi, è invece quanto il legislatore italiano, ha scelto impegnandosi ad una riduzione della durata del processo penale del 25% in cinque anni (del 40% per il processo civile).

Che cosa dobbiamo comprendere?

Anzitutto: il raggiungimento dell’obiettivo è meramente ipotetico. D’altra parte forse non può essere diversamente. È mia opinione che questo avvenga spesso quando si lavori a riforme processuali: una situazione che ricorda la miscelazione di molti componenti chimici, con risultati immaginati solo in astratto. Esco dalla metafora: nel processo penale la prognosi di una riduzione dei tempi – resta comunque immaginario il percentile – diviene un obiettivo più facilmente raggiungibile quando si riducono invalidità, garanzie, diritti di indagati e imputati, effettività delle impugnazioni etc. Un altro simbolo, quello della bilancia: sicuramente i colpi della giustizia penale si infliggono più rapidamente alleggerendo il piatto dalla parte dell’imputato.

Ancora: se si dice di impegni assunti, che tuttavia non trovano corrispondenza in richieste precise, non può che darsi risalto ad opzioni che riflettono solo scelte influenzate dai rapporti di forza politici nella maggioranza che sostiene il governo in carica. Breve, anche e proprio in considerazione di alcune significative amputazioni intervenute sul testo licenziato della commissione Lattanzi[23], l’ampiezza del contesto  politico che sostiene la presidenza Draghi e la ministra Cartabia e la sua riforma, non mi pare tanto garanzia di una larga e ragionata condivisione dei suoi contenuti finali, quanto piuttosto una occasione colta per far prevalere, nella logica di impedire una crisi con scenari inquietanti, idee presenti anche in dottrina e maggioritarie tra i magistrati sul volto da imprimere al nostro sistema di giustizia penale.

È noto che questa riforma, partorita nell’emergenza di ottenere un risultato, ha coinciso con gravissimi scandali che hanno investito il Consiglio superiore della magistratura[24], crisi che si è manifestata anche sulla realtà di importanti vicende giudiziarie e sulla Procura della Repubblica di Milano: la più “blasonata” d’Italia dai tempi di “mani pulite”.

In parallelo alla Commissione Lattanzi, ha così operato altra commissione, “per elaborare proposte di interventi per la riforma dell’ordinamento giudiziario”.

Ancora non ha preso forma il disegno preciso di questa riforma. Quanto al testo della relazione finale della Commissione Luciani, si può notare che, se la riforma del processo penale non è stata in grado di segnare una precisa rotta innovativa rispetto alla legislazione illiberale dei precedenti governi, i presagi riguardanti la riforma dell’Ordinamento giudiziario e del CSM indicano, se possibile con maggiore chiarezza, l’intento di non toccare lo status quo caratterizzato dall’irresponsabile prepotere giudiziario e delle Procure[25].

Il cambio di rotta su altri temi e dello stile comunicativo impresso all’esperienza del governo Draghi, non riesce ad affermarsi sul campo della giustizia penale: una conferma, questa, della forza del blocco di potere costituito dalla Magistratura, orientata dalla leadership conquistata dalle Procure della Repubblica, e dai media.

È questa constatazione che ha rilanciato l’iniziativa di un referendum abrogativo da parte del Partito Radicale[26] articolato in sei quesiti.

10. Non può essere questa la sede per una valutazione puntuale della Legge n. 134/21: se la facessimo è certo che non potremmo condividere i modi agiografici di chi ha parlato di una epocale riforma organica. Di uno “straordinario investimento diretto agli obiettivi dell’efficienza e della ragionevole durata del processo[27].

Mi limito a indicare alcuni passaggi che non fanno proprio ben sperare per un riequilibrio dei rapporti tra le funzioni del Potere giudiziario. In sintesi, si coglie un ulteriore verso del de profundis recitato per il processo accusatorio, destinato ad essere una grande illusione.

Quanto alla legge delega, al dato statistico che vedeva la prevalenza delle prescrizioni maturare nella fase delle indagini preliminari, si è risposto incrementando il tempo delle indagini preliminari: alla lunga esperienza della inesistente penetrazione della valutazione del GIP sulla sussistenza dei presupposti della proroga, si è data risposta prolungando la fase dominata dal PM. Ed ecco le formule a cui si ricorre: “complessità delle indagini” o “ingiustificato e inequivocabile ritardo”, destinate ad un tradizionale pigro utilizzo; ritardo della iscrizione reso sindacabile dal GIP, a cui si attribuisce anche il potere di retrodatazione, come è noto, non era escluso in base al testo originario del c.p.p., ma affermatosi grazie ad un intervento ortopedico delle Sezioni unite. Anche in base al chiarimento ricavabile dalla legge delega, resta fermo che, in mancanza di motivazione del rinvio a giudizio, è possibile sterilizzare gli effetti della sanzione endoprocessuale della inutilizzabilità degli atti di indagine svolti fuori termine[28].

La modifica della regola del giudizio per la richiesta di archiviazione – in base alle indagini, il PM non ha una ragionevole previsione di condanna – è ricondotta all’ intento di contenere il numero delle assoluzioni in primo grado.

È irragionevole la preoccupazione che si instauri una presunzione, affidata al PM, che influenzerà il prosieguo e l’esito della vicenda processuale, a cominciare dalla prevista trasmigrazione della regola nell’udienza preliminare, per il rinvio a giudizio?

L’incombente intento di inseguire la velocità delle soluzioni e l’economia processuale traspare nelle modifiche che sacrificano ulteriormente la collegialità in primo grado e la previsione dell’udienza preliminare: un gusto per la velocità e la tecnica che fa pensare ad una riforma improntata a una estetica futurista. Il risultato è quello di rattrappire l’impatto della vicenda punitiva alla fase del PM e al primo grado. In questa prospettiva molti altri interventi nella delega: ancora la ragionevole previsione di condanna nella udienza predibattimentale, novità introdotta in assenza dell’udienza preliminare, le limitazioni all’appello, la preferenza per il contraddittorio scritto nelle impugnazioni.

Questo rifluire della vicenda punitiva alla fase delle indagini e al primo grado, sostenuto dalla ragionevole previsione di condanna, si allinea alla “questione identitaria” dei grillini sulla prescrizione. Il farraginoso sistema di proroghe ed eccezioni dei termini di improcedibilità è affrontato con il pannicello caldo del ricorso in Cassazione, nel termine di 5 (cinque!) giorni. E c’ è chi ha visto, in questo controllo sugli abusi del PM, una efficace sperimentazione fornita dall’ art. 406, 2° comma c.p.p. sul controllo delle proroghe delle indagini preliminari[29].

Per dirlo, come cantava De Andrè, “ci vuole tanto, troppo coraggio…”.

[1] Si veda in ius17@unibo.it 2013, 167 ss., consultabile nella rubrica riviste in www.discrimen.it

[2] A. Barbera, Costituzione della Repubblica italiana, in Enciclopedia del diritto, Annali, VIII, Milano 2016, 323 ss.

[3] Su questo concetto, tra gli altri, le sintetiche ed efficaci considerazioni di A. Panebianco L’ equilibrio perduto dei poteri, in Corriere della sera, 27 dicembre 2019; Ibidem, Gli squilibri di potere tra politica e giustizia, 8 dicembre 2019.

[4] L. Violante, La crisi del giudice “bocca della legge” e l’emergere di nuove concezioni di ruolo giudiziario, in AA.VV. Anatomia del potere giudiziario (a cura di C. Guarnieri,G. Insolera, L. Zilletti), Roma, 2016, 32 ss.

[5] Aspetto certo non nuovo – sia consentito rinviare al mio Forca e melassa, Mimesis, Milano, 2021 – ma che è divenuto sempre più evidente e pervasivo.

[6] Particolarmente efficace la lunga recensione di F. Debenedetti (L’ altro processo ai giornali, in Il Foglio, 23-24 ottobre 2021) alla ricostruzione di Andrey Mir, Postjournalism and the death of newspapers. The media after Trump: manufacturing anger and polarisation.

[7]Su questo ancora, di recente, L. Violante, Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia, in, Il Foglio, 14 novembre 2021.

[8] Richiama sinteticamente questa posizione V. Manes, Diritto penale no-limits. Garanzie e diritti fondamentali come presidio per la giurisdizione, in www.questionegiustizia.it   

[9] In modo significativo è questo il titolo attribuito da P. Grossi al suo recente pamphlet (Laterza, Bari, 2020)

[10] Preziosa la lettura dei ghiribizzi di F. Giunta, Ghiribizzi penalistici per colpevoli, ETS, Pisa, 2019.

[11] Allora, P. Ferrua, Studi sul processo penale. II. Anamorfosi del processo accusatorio, Torino, 1992, 157 ss.  Idem, per una istruttiva ricostruzione del tradimento dell’accusatorio, Governo della legge ed egemonia del potere giudiziario, in AA.VV. Nei limiti della Costituzione. Il codice repubblicano e il processo penale contemporaneo (a cura di D. Negri e L. Zilletti), CEDAM, Padova, 37 ss.  

[12] G. Fiandaca- S. Lupo, La mafia non ha vinto, Laterza, Bari, 2014)

[13] C. Visconti, La mafia è dappertutto: falso! Laterza, Bari, 2017)

[14] G. Insolera, Ha senso rafforzare ulteriormente le misure di contrasto alla corruzione? in www.discrimen.it

[15] E’ad esempio il caso della sentenza della Corte d’ assise di appello di Bologna del 2019 che, in un caso di omicidio, ridusse la pena, in base alla ritenuta equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata, e confermata, aggravante dei motivi abietti e futili della gelosia. In quel caso vi fu una mobilitazione, anche mediatica, per un “femminicidio”, ridimensionato con il rilievo assegnato alla “soverchiante tempesta emotiva e passionale” della gelosia. Il ministro della Giustizia Giulia Bongiorno intervenne dichiarando di non condividere “Il principio grazie al quale è stata ridotta la pena a un uomo che ha ucciso la sua compagna valorizzando come attenuante il suo stato d’ animo determinato dalla gelosia” (commento riportato da G. Stampanoni Bassi, Sull’ attitudine degli stati emotivi e passionali ad influire sulla misura della responsabilità penale. Brevi note su una recente sentenza di merito, in, Giurisprudenza penale, web 2019, 3). Dalla lettura della decisione, consultabile nello stesso sito, si ricava come la frase incriminata, sulla quale era montata la mobilitazione, anche di piazza, era ripresa dall’ esito di una perizia psichiatrica che non aveva individuato alcun profilo pertinente all’ imputabilità, ma aveva descritto la situazione psicologica dell’ autore nella quale era maturato l’ omicidio, contribuendo, insieme ad altri elementi, a integrare le attenuanti dell’ art. 62bis, ritenute equivalenti alle aggravanti.

Altro esempio, tra i tanti, le reazioni mediatiche alla decisione del Gip di Verbania di disporre la scarcerazione degli arrestati nella indagine per il disastro del Mottarone: in tutti i casi alla mancata tutela di chi decide diversamente dalle aspettative alimentate dall’ accusa, corrispondono invocazioni per una giustizia sommaria rinvenibili nei social e, non di rado, riprese dai media televisivi.

Sono i primi esempi che mi vengono in mente, ma ogni lettore potrà individuarne tanti altri offerti dalle cronache: ed è questa la vera solitudine di chi si trova a dover decidere quando ai fatti corrisponde il corale racconto accusatorio diffuso dai media.   

[16]Il mandato attribuito alla Commissione presieduta da Giorgio Lattanzi, faceva riferimento alla elaborazione di “proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge A.C. 2435…”. 

[17] Si è letto, sul più importante quotidiano economico italiano, che “Riformare la giustizia penale è necessario per più di una ragione. La prima è contingente e concreta: la riforma della giustizia è parte del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), fondamentale per superare la crisi economica che, con la pandemia, ha piegato le gambe al Paese: l’ erogazione di 191, 5 miliardi di euro da parte dell’ Unione europea, è subordinata all’ attuazione di tutte le riforme comprese nel Piano; anche di quelle della giustizia, da esse dipende l’ erogazione dell’ intero finanziamento europeo: non solo dei 2,3 miliardi di euro destinati al settore giustizia” (G. L. Gatta, Riduzione necessaria della durata dei processi, in Il Sole 24ore, 3 giugno 2021, 15.)

[18] Il piano europeo riprende quanto previsto dal programma NGEU (Next Generation EU) per sei macro aree (c.d. Pilastri): Transizione verde; Trasformazione digitale; Crescita intelligente, sostenibile e inclusiva; Coesione sociale e territoriale; Salute e resilienza economica, sociale e istituzionale; Politiche per le nuove generazioni, l’infanzia e i giovani. Le sei aree si articolano in sedici capitoli. Gli interventi in materia di  giustizia sono inseriti nella seconda parte del piano, quella  delle riforme necessarie per adeguare il PNRR alle prescrizioni dell’art. 18, punto b del Regolamento al PNRR  che  richiede ai singoli Paesi di spiegare come il PNRR  sia idoneo ad  affrontare in modo efficace tutte o un sottoinsieme significativo delle sfide, individuate nelle pertinenti Raccomandazioni specifiche per Paese (Country Specific Recommendations, CSR) emanate dal Consiglio dell’Unione Europea . La raccomandazione presa in considerazione nel PNRR è la n. 4 del 5 giugno 2019 la quale, al punto 28 si occupa della scarsa efficienza del sistema giudiziario civile italiano. Del settore penale si occupa il punto 29: si esprime apprezzamento per il miglioramento delle strategie contro la corruzione grazie alla legge del 2019 e per l’interruzione dei termini di prescrizione dopo il giudizio di I grado. Tuttavia sempre muovendo dal tema della lotta alla corruzione, si lamenta che la durata dei procedimenti penali continua a essere eccessiva in mancanza della tanto necessaria riforma del processo penale, ivi incluso il sistema di appello per evitare abusi dei contenziosi.

Si consenta una osservazione: non depone proprio per una conoscenza effettiva o per giudizi oggettivi sulla realtà della legislazione italiana da parte del Consiglio di Europa, l’affermazione secondo la quale permarrebbero lacune nel perseguimento di reati specifici, quali l’appropriazione indebita di denaro pubblico. La pena attualmente prevista dall’ art. 314 del C.p. (peculato) è della reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi. Più in generale con la legge, icasticamente denominata “spazzacorrotti” (L. 9 gennaio 2019, n. 3), si è proceduto anche ad una assimilazione dei reati dei pubblici agenti contro la Pubblica amministrazione, alla disciplina riguardante l’accesso ai benefici penitenziari già prevista per il contrasto alla criminalità organizzata.

[19] Si veda ad esempio G. C. Caselli, procuratore antimafia in pensione assai noto e molto presente sui media, Per velocizzare i processi è ora di abolire quelli d’ appello, in Il fatto quotidiano, 6/8/2019, 1).

[20] P.Ferrua, Appunti critici sulla riforma del processo penale secondo la commissione Lattanzi, in www.discrimen.it 12/7/21.

[21] Ancora le acuminate critiche di P. Ferrua, Appunti critici cit. Critiche estese dalla prescrizione alle mediazioni raggiunte sull’ appello e su altri istituti processuali.

[22] Faccio riferimento al suo intervento alla “Festa dell’ottimismo” organizzata dal quotidiano Il Foglio il 28 novembre 2021, vedi in https://twitter.com/ilfoglio_it/status/1464905388176953344?s=24

[23]Ad esempio, penso all’ art. 1bis inteso a ridimensionare il novero dei soggetti legittimati alla costituzione di parte civile: una presa d’ atto di quanto incida sui tempi del processo l’abuso dei maxiprocessi per le più disparate tipologie criminose; penso anche all’ art. 7, lett. c) della relazione che prevedeva la inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero.

[24]Larga diffusione ha avuto il libro-intervista di A. Sallusti e L. Palamara, Il sistema, Rizzoli, Milano, 2020. Il magistrato Luca Palamara, è stato presidente della Associazione nazionale magistrati e membro del Consiglio superiore della magistratura: dal suo racconto emerge un operato dell’organo di autogoverno della magistratura inquinato dal prepotere delle “correnti” e da rapporti con i politici che avrebbero determinato carriere, destinazioni e ruoli direttivi dei magistrati.

[25] Le osservazioni che seguono sono frutto del confronto e delle indicazioni del Prof. Carlo Guarnieri. Uno studioso di ordinamenti giudiziari e dei reali meccanismi della nostra giustizia penale: nel corso di molti anni la ininterrotta condivisione dei risultati del lavoro di ricerca suo e del gruppo di studiosi della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bologna, cresciuti alla scuola di Giuseppe Di Federico mi ha aiutato molto nell’ intento di guardare il Diritto penale in modo realistico e critico.

Dopo un esame della relazione finale depositata si possono formulare alcuni primi rilievi.

Le proposte avanzate toccano in maniera molto limitata le criticità – non solo quelle poste in rilievo dagli scandali – che hanno caratterizzato la nostra magistratura. Non affrontato il problema di arricchire la professionalità con il reclutamento di personale già esperto, cioè di avvocati dotati di significativa esperienza professionale. Si conferma inoltre la soppressione, almeno di fatto, delle scuole universitarie di preparazione alle professioni legali, che sono state, con tutti i loro limiti, ispirate dall’ obiettivo di socializzazione comune degli operatori: l’idea ha avuto un’anticipazione con la magnificata creazione dell’Ufficio per il processo (D.L. 8 giugno 2021, n.80), con funzioni ausiliarie del giudice, che si cumulano ai tirocini da tempo esistenti. La conseguenza potrebbe essere la creazione – almeno in via di fatto – di un canale di reclutamento privilegiato, gestito in modo esclusivo dalla magistratura, allargando ancora una volta il fossato, fra le varie professioni giuridiche. Nonostante le maggiori risorse assegnate, la struttura della Scuola superiore della magistratura non viene toccata, mantenendo il monopolio esercitato, almeno di fatto, dalla magistratura sulla sua gestione. È perciò probabile che resti un luogo dedicato al reclutamento propiziato dalle “correnti” – alla luce degli scandali, forse più adeguato parlare di “fazioni”, con proprie concezioni politiche – piuttosto che alla costruzione di una cultura comune fra le professioni legali.  Vengono rese più stringenti le procedure che governano le valutazioni di professionalità, ma nulla si fa per far venir meno il “conflitto d’interessi” che oggi rende i valutatori responsabili nei confronti dei valutati, incentivando così il lassismo. Se è apprezzabile lo sforzo di modificare la legge elettorale inteso a rendere più difficile il controllo del processo elettorale da parte delle correnti organizzate, va ricordato che nessuna riforma potrà cancellare del tutto il potere delle correnti. Nella recente occasione, già citata (supra n. 21), la guardasigilli, da un lato, sottolineando la necessità di intervenire sull’ indipendenza interna, ci fa pensare che una priorità sia assegnata invece alla riforma del sistema elettorale del CSM, dall’ altro, nell’ insistere sulla eccellenza del nostro corpo giudiziario, ci sia da temere che si sia allineata alla convinzione secondo la quale il “sacrificio” della “mela marcia” Palamara, consenta di non intervenire sull’ attuale assetto dell’ordinamento. Vedremo quanto il D. legs. 8 novembre 2021, n. 188, di tardivo recepimento della direttiva del 2016 sulla presunzione di innocenza, fortemente osteggiato, dal fonte giustizialista, troverà concreta osservanza.

[26] Iniziativa alla quale ha aderito anche la Lega di Matteo Salvini: una circostanza che sembra confermare quanto colto da F. Petrelli in Critica della retorica giustizialista, appena edito da Giuffrè, Milano. “Una torsione che non ha eliminato tuttavia quella dose di trasformismo che aveva caratterizzato il giustizialismo politico delle origini, la capacità di frequenti cambi di rotta da parte dei leader dei partiti e dei movimenti populisti, nei quali l’armamentario si sovrappone indifferentemente a campagne e ad iniziative proprie della storia del garantismo”.

[27] G.L. Gatta, G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale: contesto, obiettivi e linee di fondo della legge Cartabia, in www.sistemapenale.it, 15 ottobre 2021.

[28] Situazione non certo risolta dalla giurisprudenza delle Sezioni unite che si è attestata sulla esclusione della sindacabilità della tardiva iscrizione e sul potere di retrodatazione in capo al GUP, con la prospettazione, come è noto, di sanzioni extraprocessuali, disciplinari o penali, a carico del Pubblico ministero. Sul tema rinvio a G. Insolera, La ritardata iscrizione nel registro delle notizie di reato: tra “diritto vivente”, interpretazione costituzionalmente conforme e intervento legislativo, in Critica del diritto, 2008, 205ss.; Idem, Sul controllo della tempestiva iscrizione nel registro previsto dall’ art. 335 c.p.p., in Diritto penale e processo, 2018, 1359ss.

[29] G.L. Gatta, Riforma della giustizia penale cit., §6.2