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GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 4/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 4/2020

GIURISPRUDENZA CORTE EDU 4-2020.PDF

A cura dell’Osservatorio Europa dell’Unione delle Camere Penali Italiane

4/2020

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, CAUSA JHANGIRYAN C. ARMENIA, RICORSI NN. 44841/08 E 63701/09, SENTENZA DELL’8 OTTOBRE 2020

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, CAUSA SMBAT AYVAZYAN C. ARMENIA, RICORSO N. 49021/08, SENTENZA DELL’8 OTTOBRE 2020

I casi in questione riguardano le accuse rivolte a due noti personaggi pubblici armeni nell’ambito della repressione, a scopi politici, di una protesta su vasta scala contro l’esito delle elezioni presidenziali del 2008. Dopo le elezioni, scoppiarono proteste su tutto il territorio nazionale che denunciavano brogli. Quotidianamente si svolsero manifestazioni nel centro di Yerevan, dove era stato allestito anche un campo. Il primo marzo, nelle prime ore della notte, la polizia intervenne, innescando alcuni scontri.

All’epoca il ricorrente GagikJhangiryan era sostituto procuratore generale e il ricorrente SmbatAyvazyan era un ex membro del parlamento armeno che aveva rivestito diversi incarichi nel governo.

Entrambi i ricorrenti erano coinvolti nel movimento di protesta. Il signor Ayvazyan partecipò attivamente alle manifestazioni. il signor Jhangiryan tenne un discorso in Piazza della Libertà il 22 febbraio criticando lo svolgimento delle elezioni ed esprimendo il suo sostegno al candidato dell’opposizione; venne perciò esonerato dal suo incarico il giorno successivo.

I ricorrenti lamentavano di essere stati fermati da un gruppo di uomini armati e mascherati mentre erano a bordo delle loro auto e presi in custodia dalla polizia rispettivamente il 23 e 24 febbraio. La polizia contestò loro, sulla base di denunce anonime, di detenere illecitamente armi. I ricorrenti furono formalmente arrestati il ​​giorno successivo, dopo essere stati presi in custodia. Entrambi furono accusati di aver aggredito agenti di polizia durante la loro custodia. Il sig. Jhangiryan fu anche accusato di possesso illegale di due pistole, accusa che fu successivamente ritirata perché egli aveva un regolare porto d’armi. Il 27 febbraio i ricorrenti furono condotti avanti al giudice, che ne ordinò la detenzione per due mesi. Tutti i loro ricorsi avverso la carcerazione furono respinti.

Alcuni mesi dopo fu formulata contro di loro una nuova accusa, “cospirazione per usurpare il potere”, e utilizzata come motivo per estenderne la detenzione dopo che i loro procedimenti penali furono riuniti a quello principale avviato contro i leader e i sostenitori dell’opposizione coinvolti nel movimento di protesta. Quest’ultima contestazione fu, tuttavia, archiviata per insufficienza di prove, mentre furono giudicati colpevoli dell’accusa di aggressione. Furono condannati entrambi a una pena detentiva compresa tra due e tre anni. Il sig. Ayvazyan venne anche ritenuto colpevole di un’altra nuova accusa, introdotta nel giugno 2008: possesso illegale di un manganello espandibile rinvenuto sulla sua persona quando venne arrestato. I ricorrenti presentarono impugnazione, sostenendo, in particolare, che le decisioni dei tribunali si basavano esclusivamente sulle testimonianze della polizia e che la vera ragione per cui furono processati e condannati era punirli per le loro opinioni politiche e il loro sostegno attivo al movimento di protesta. I loro ricorsi furono respinti in quanto infondati. Ad ogni modo, entrambi vennero rilasciati nel giugno 2009 a seguito di un’amnistia.

Con il ricorso alla Corte europea, i ricorrenti lamentavano che l’esercizio dell’azione penale e la condanna nei loro confronti fossero motivati soltanto dalla volontà di impedire loro di partecipare alle manifestazioni e di punirli per le loro opinioni politiche. Il sig. Jhangiryan si doleva altresì che il suo arresto fosse illegale e non fondato su ragionevoli indizi di colpevolezza, mentre il signor Ayvazyan denunciava che la sua detenzione tra il 15 e il 22 luglio 2008 non fosse supportata da una decisione del tribunale, era illegale e che i tribunali avevano rifiutato di esaminare i ricorsi pro libertate. Entrambi ritenevano che le autorità giudiziarie non avessero motivato adeguatamente la loro detenzione e che i procedimenti penali contro di loro non erano stati equi: il sig. Jhangiryan rilevava che il tribunale che aveva giudicato il suo caso non fosse imparziale perché il figlio del giudice era un membro della squadra investigativa che si era occupata del procedimento penale riguardante il movimento di protesta; il signor Ayvazyan lamentava altresì che la sua condanna per aggressione si era basata sulle dichiarazioni degli agenti di polizia senza dargli l’opportunità di interrogare alcuni di questi e di chiamare testimoni in sua difesa.

Nel caso di specie, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 5 §1, §1 c) (per il. sig. Jhangiryan), § 3, § 4 (per il sig. Ayvazyan) CEDU e artt.  6 § 1 e 11 CEDU, riconoscendo a titolo di equa soddisfazione, a ciascun ricorrente, 14.000 euro a titolo di danno morale e 2.000 euro per costi e spese.

Leggi la sentenza Jhangiryan c. Armenia

Leggi la sentenza SmbatAyvazyan c. Armenia

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, CAUSA GRACIA GONZALEZ C. SPAGNA,  RICORSON. 65107/16, SENTENZA DEL 6 OTTOBRE 2020

Il caso concerne un procedimento penale instaurato per far luce su un incidente in elicottero in cui erano deceduti il marito della ricorrente, sig.ra Gonzalez, e altri cinque vigili del fuoco mentre era in corso un incendio boschivo. Il giorno dell’incidente, il 19 marzo 2011, le autorità spagnole avviarono un procedimento per l’accertamento di eventuali responsabilità penali e al contempo le autorità dell’aviazione civile aprirono un’indagine tecnica. Le autorità aeronautiche pubblicarono il loro rapporto finale nel marzo 2014, concludendo per la sussistenza di un nesso causale tra l’omessa ispezione di una delle componenti dell’elicottero, il servo attuatore, e l’incidente.

Nell’agosto 2014 il giudice istruttore ordinò l’archiviazione del procedimento penale per infondatezza della notitiacriminis. Tuttavia, la decisione fu revocata nel dicembre 2014, a seguito del ricorso presentato dall’Associazione dei piloti commerciali dell’aviazione civile, che si era costituita nel procedimento per difendere i propri interessi.

Il giudice decise di riaprire il caso e di avviare un procedimento contro l’azienda produttrice e/o il fornitore del componente difettoso. L’Associazione dei piloti impugnò due volte questa decisione, chiedendo che le indagini fossero rivolte, altresì, ad accertare se il proprietario e l’operatore dell’aeromobile fossero penalmente responsabili.

Il fascicolo fu trasferito all’AudienciaProvincial, che respinse il ricorso, confermando la richiesta del pubblico ministero di archiviare il procedimento e avallando le sue motivazioni secondo cui le autorità aeronautiche non avevano fornito prove di fatti nuovi decisivi, presupposto legislativo per la riapertura del procedimento. Tutti i successivi appelli, con cui la ricorrente lamentava l’impossibilità di impugnare la richiesta del pubblico ministero e la motivazione per cui il rapporto delle autorità aeronautiche non era stato considerato una nuova prova, furono respinti.

La sig.ra Gonzalez ha quindi presentato ricorso alla Corte EDU denunciando la “disparità delle armi” rispetto al pubblico ministero nel procedimento di impugnazione dell’archiviazione, atteso che non le era stata data la possibilità di contestare le osservazioni dell’Accusa e di prospettare le proprie ragioni per la riapertura del procedimento.

Nella fattispecie concreta, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto violato l’articolo 6 § 1 CEDU (diritto a un equo processo). La Corte ha ribadito, invero, che il diritto al processo accusatorio è strettamente correlato al principio parità delle armi, che è infatti uno dei requisiti del concetto più ampio di equo processo. In ossequio a detto principio, a ciascuna parte deve essere data una ragionevole opportunità di presentare le proprie ragioni a condizioni che non la pongano in uno svantaggio sostanziale rispetto alle altre.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO,      QUINTA SEZIONE, CAUSA MIRGADIROV C. AZERBAIGIAN E TURCHIA, RICORSO N. 62775/14, SENTENZA DEL 17 SETTEMBRE 2020

Art. 8 CEDU, diritto al rispetto della vita privata e familiare e della corrispondenza:

– mancanza di una base giuridica per le restrizioni al diritto del detenuto di ricevere e di abbonarsi a riviste e giornali socio-politici: violazione;

– mancanza di una base giuridica che giustifichi una restrizione del diritto del detenuto a ricevere e ad abbonarsi a riviste e giornali socio-politici: violazione.

A seguito all’espulsione dalla Turchia in Azerbaigian, il ricorrente venne arrestato in Azerbaigian e accusato di alto tradimento per spionaggio. Fu posto in custodia cautelare in carcere in attesa del processo. Gli inquirenti si determinarono a limitare i diritti del richiedente di utilizzare il telefono, di inviare e ricevere corrispondenza, di incontrare persone diverse dai suoi avvocati e di ricevere ed abbonarsi a qualsiasi giornale o rivista socio-politica. Tali misure furono imposte temporaneamente durante le indagini preliminari, senza alcun limite di tempo specifico, sulla base della pertinente normativa nazionale.

Il ricorrente, una volta esperiti senza successo i rimedi accordati dall’ordinamento interno contro tali misure, si è rivolto alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 8, dal momento che le misure contestate si sostanziavano in un’interferenza nell’esercizio del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare e della corrispondenza.

In particolare, è emerso come le restrizioni imposte al diritto di ricevere e di abbonarsi a qualsiasi giornale o rivista socio-politica non trovassero riscontro alcuno nella legislazione nazionale e, conseguentemente, l’interferenza con il diritto del ricorrente a tale riguardo risultava sprovvista di base legale.

Le ulteriori restrizioni, pur essendo previste dall’ordinamento giuridico azero in modo chiaro, accessibile e sufficientemente preciso, non erano giustificate posto che le ragioni addotte dalle autorità nazionali a sostegno di tali compressioni all’esercizio del diritto di cui all’art. 8 CEDU non erano pertinenti e sufficienti.

La Corte ha inoltre stabilito all’unanimità che vi era stata una violazione dell’articolo 5 § 1 per l’assenza di un ragionevole sospetto che il richiedente avesse commesso un reato e per la detenzione del richiedente dal 19 al 20 novembre in assenza di un’ordinanza del tribunale; la violazione dell’articolo 5 § 4 a causa della mancata valutazione da parte dei Giudici nazionali degli argomenti addotti dal ricorrente a favore del suo rilascio, e dell’articolo 6 § 2 sulla base di una dichiarazione pubblica del luglio 2014, che ha violato il diritto alla presunzione di innocenza del ricorrente; che non vi era, viceversa, stata alcuna violazione dell’articolo 18 § 5 in combinato disposto con l’articolo 5, sulla base del fatto che le prove dinanzi alla Corte non hanno permesso di stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio che l’arresto e la detenzione del ricorrente avevano perseguito un ulteriore scopo.

La Corte ha ritenuto che non fosse necessario esaminare le doglianze del ricorrente ai sensi dell’art. 5 § 4 contro la Turchia, mentre ha dichiarato irricevibili le ulteriori.

(Cfr. anche Khoroshenko c. Russia [GC], 41418/04, 30 giugno 2015, nota informativa 186; Moiseyev c. Russia, 62936/00, 9 ottobre 2008, nota informativa 112; e Andrey Smirnov c. Russia, 43149/10, 13 febbraio 2018).

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, CAUSA RAGIP ZARAKOLU C. TURCHIA, RICORSO N. 15064/12, SENTENZA DEL 15 SETTEMBRE 2020

Il caso riguardava la detenzione del ricorrente – il sig. Ragıp Zarakolu, all’epoca dei fatti direttore e proprietario di una casa editrice, membro onorario della filiale turca della International Writers’ Association – motivata dal sospetto che questi appartenesse a un’organizzazione illegale: il Kurdistan Communities Union (Koma Civakên Kurdistan, KCK).

I pubblici ministeri che condussero le indagini avviarono diversi procedimenti penali nei confronti di politici, uomini d’affari, avvocati, professori universitari, studenti e giornalisti. Secondo gli inquirenti, il KCK era il “ramo urbano” del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkerên Kurdistan, PKK), un’organizzazione armata illegale che perseguiva l’obiettivo di stabilire uno Stato curdo indipendente fondato sui principi del “confederalismo democratico”.

Il 27 ottobre 2011, nell’ambito di una serie di operazioni contro il KCK, un giudice della Corte d’assise di Istanbul ordinò la perquisizione dei locali dell’accademia politica del Partito per la pace e la democrazia (Barış ve Demokrasi Partisi, BDP), un partito filo-curdo di sinistra, e delle abitazioni di sessanta persone, tra cui il signor Zarakolu, nonché l’arresto delle stesse. Il 28 ottobre 2011 il ricorrente fu quindi fermato e detenuto in custodia cautelare con la contestazione, formulata dopo l’interrogatorio con il pubblico ministero del 31 ottobre 2011, di appartenere al KCK ossia un’organizzazione terroristica.

Il 2 novembre 2011 il sig. Zarakolu presentò ricorso avverso il provvedimento di custodia, chiedendo la propria rimessione in libertà; ricorso che venne respinto dalla Corte d’Assise.

In data 19 marzo 2012, il pubblico ministero esercitò l’azione penale nei confronti di centottantatre persone, compreso il ricorrente; quest’ultimo venne accusato di aver consapevolmente e deliberatamente agevolato e favorito un’organizzazione terroristica. L’accusa principale contro il sig. Zarakolou era quella di aver tenuto una conferenza presso l’accademia politica del BDP.

Il 10 aprile 2012 la Corte d’assise ordinò il rilascio del sig. Zarakolu, ma il processo contro il medesimo è ancora pendente.

Il sig. Zarakolu ha presentato ricorso alla Corte Edu, lamentando come non vi fosse alcuna prova che fornisse ragioni plausibili per indagarlo della commissione di un reato e per giustificarne la carcerazione preventiva, come non fosse stato posto in grado di contestare efficacemente i provvedimenti di limitazione della propria libertà personale, per altro non debitamente motivati, nonché, da ultimo, come la custodia cautelare avesse violato il suo diritto alla libertà di espressione.

Nel caso di specie, la Corte ha riscontrato la violazione dell’art. 5 §1 e § 4 CEDU (diritto alla libertà e alla sicurezza) e dell’art. 10 CEDU (libertà di espressione), riconoscendo al ricorrente, a titolo di equa soddisfazione,6500 euroa titolo di danno non patrimoniale.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, QUINTA SEZIONE, CAUSA SHURIYYA ZEYNALOV C. AZERBAIGIAN, RICORSO N. 69460/12, SENTENZA  DEL 10 SETTEMBRE 2020

Il caso riguardava la morte del figlio del ricorrente mentre si trovava in stato di detenzione; decesso asseritamente dovuto alle torture subite dagli agenti del Ministero della Sicurezza Nazionale (MNS) della Repubblica Autonoma di Nakhchivan (NAR).

Nell’agosto 2011 il figlio del ricorrente, Turaj Zeynalov, nato nel 1980, venne arrestato con l’accusa di alto tradimento per la presunta collaborazione con i servizi di intelligence iraniani. Detenuto in custodia cautelare, il 28 agosto fu condotto al MNS della NAR per essere interrogato. Ad un certo punto venne chiamata un’ambulanza e Turaj Zeynalov morì prima di arrivare in ospedale.

Dopo la morte, i membri della famiglia fornirono ai media alcune fotografie e un video da cui si evincevano segni di maltrattamenti sul corpo del ragazzo. Secondo le autorità, Turaj Zeynalov morì di embolia polmonare e non era stato maltrattato.

La famiglia chiese altresì al MNS della NAR, al Procuratore generale della NAR, al Procuratore generale della Repubblica dell’Azerbaigian e al Difensore civico i documenti relativi alle indagini sulla morte, ma nulla venne fornito. Né i tribunali ordinari né quelli amministrativi accolsero l’istanza della famiglia per dichiarare illegittimo il diniego di accesso agli atti di indagine. Nel novembre 2012 il ricorrente presentò ricorso alla Corte Suprema della NAR avverso la decisione del tribunale amministrativo, senza ricevere risposta.

Il ricorrente si è rivolto ai giudici di Strasburgo, lamentando che lo Stato azero non era stato in grado di proteggere la vita di suo figlio, che suo figlio era stato torturato dagli agenti del MNS e che non erano state condotte indagini effettive ed efficaci.

Nella fattispecie concreta la Corte EDU ha ritenuto accertata la violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita) per la morte del figlio del signor Zeynalov mentre si trovava in custodia cautelare e dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) per i maltrattamenti subiti dal medesimo; nonché per l’ineffettività delle indagini su tali fatti. Ha pertanto riconosciuto al ricorrente 35.000 euro a titolo di danno non patrimoniale e di 2.000 euro per i costi e le spese.

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CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, QUARTA SEZIONE, CAUSA VELKOV C. BULGARIA, RICORSO N. 34503/10, SENTENZA DEL 21 LUGLIO 2020

Art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, diritto a non essere giudicato o punito due volte:

– procedimento penale ed amministrativo per turbamento dell’ordine pubblico in occasione di una manifestazione sportiva e mancanza di connessione sufficientemente stretta dal punto di vista materiale: violazione.

Il caso riguardava la doglianza del ricorrente che assumeva di essere stato sanzionato due volte per lo stesso fatto di aver turbato l’ordine pubblico in occasione di una partita di calcio. La Corte ha ritenuto che, sebbene vi fosse stato uno stretto nesso temporale tra il procedimento amministrativo e quello penale, non potesse dirsi, tuttavia, sussistente una connessione sufficientemente stretta dal punto di vista materiale fra di essi, di tal che il ricorrente era stato perseguito e punito due volte, secondo i criteri Engel, per lo stesso reato, in violazione del principio del ne bis in idem.

I Giudici di Strasburgo hanno osservato che i reati per i quali era stato punito in entrambi i procedimenti riguardavano la stessa condotta illecita verificatasi durante lo stesso evento sportivo. I due procedimenti erano stati avviati contemporaneamente e si sono svolti in parallelo fino al 29 maggio 2008, data in cui il procedimento amministrativo si è concluso con una sentenza definitiva. Il procedimento penale era proseguito e si era concluso più di due anni e quattro mesi dopo, nell’ottobre 2010. Alla luce della sua giurisprudenza, la Corte ha pertanto ritenuto che vi sia stata una connessione sufficientemente stretta nel tempo tra i due procedimenti. Per quanto riguarda la sussistenza di una connessione sostanziale tra le due serie di procedimenti, la Corte ha rilevato, in primo luogo, che il procedimento amministrativo e quello penale avevano perseguito essenzialmente lo stesso scopo, vale a dire punire il turbamento dell’ordine pubblico causato dal ricorrente durante la partita di calcio del 17 maggio 2008. In secondo luogo, l’accertamento dei fatti nel procedimento amministrativo non era stato preso in considerazione nel procedimento penale. In terzo luogo, la pena detentiva inflitta a seguito del procedimento amministrativo non era stata presa in considerazione nelle decisioni del giudice penale. La Corte ha attribuito particolare importanza al fatto che le due serie di procedimenti avevano perseguito lo stesso scopo punitivo. Alla luce di queste considerazioni ha ritenuto che non vi fosse una connessione sufficientemente stretta nel merito tra il procedimento amministrativo e quello penale a carico del ricorrente.

(Per i criteri di compatibilità delle procedure miste penale ed amministrativa col principio del ne bis in idem convenzionale, si veda A. e B. c. Norvegia [GC], 24130/11 e 29758/11, 15 novembre 2016, §§ 130-134).

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