GIURISPRUDENZA CORTE EDU – 4/2021
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A cura di Anna Onore e Giovanni Sodano, dottorandi di ricerca presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, con il coordinamento di Andreana Esposito, Professore Associato di Diritto Penale presso la medesima Università e componente dell’Osservatorio Europa UCPI
4/2021
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE, GALAN C. ITALIA, 17 GIUGNO 2021
La Prima sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella causa Galan c. ItaIia (ric. 63772/16), chiamata a pronunciarsi sull’asserita violazione degli artt. 7 e 13 della Convenzione e art. 3, Prot. 1 CEDU (diritto a libere elezioni), ha dichiarato inammissibile il ricorso.
La questione ivi sottoposta era se la sanzione dell’interdizione dai pubblici uffici, specie dall’elettorato passivo alla carica di parlamentare, disciplinata dal D. Lgs. 235/2012, fosse equivalente all’irrogazione della pena principale prevista per il reato di corruzione ex artt. 318 e 319 c.p. (reclusione) e rientrasse nel campo applicativo dell’art. 7 CEDU.
Nello specifico, il ricorrente affermava che il divieto di eleggibilità e la decadenza dal mandato di deputato a lui imposti costituivano una “penalità in senso stretto”, individuata la sua ratio punitiva; la difesa evocava i “criteri Engel” che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, consentono all’interprete di verificare in concreto la natura della sanzione irrogata, tale da scongiurare il noto fenomeno della “truffa delle etichette”.
A questa censura, il giudice europeo ricorda come l’applicazione dei diritti politici ed elettorali non rientra negli articoli 6 § 1 e 7 della Convenzione e che la normativa interna di contrasto al fenomeno della corruzione – sub specie D. Lgs. 235/2021 – è espressione di scelte legislative non sindacabili in quanto compatibili con le direttive di politica criminale, delineate a livello sovranazionale. Di concerto con la giurisprudenza della Consulta, la Corte EDU afferma che i provvedimenti impugnati non costituiscono sanzioni penali né effetti della condanna penale; infatti, il divieto di esercizio delle pubbliche funzioni comporta tra l’altro (ai sensi dell’art. 28 c.p.) la decadenza dai diritti elettorali nei loro aspetti attivi e passivi, quali l’impossibilità di votare per la prima parte e di essere eletti per la seconda, con la possibilità di essere riabilitati.
Quanto alla violazione del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva (art. 13 CEDU), il giudice sovranazionale conferma che il procedimento di decadenza del mandato elettivo si è svolto interamente davanti all’organo di cui faceva parte il ricorrente, e ciò in tre fasi: la prima davanti alla Commissione permanente per le incompatibilità, ineleggibilità e interdizioni, il secondo davanti alla Giunta Elettorale e il terzo davanti alla Camera dei Deputati; non ravvisa, quindi, alcuna violazione del diritto di difesa ovvero del contraddittorio tra le parti.
Infine, la Corte ricorda che l’art. 3 del Protocollo n. 1 sancisce un principio fondamentale in un sistema politico autenticamente democratico, simile ad altre disposizioni della Convenzione che tutela vari diritti civili e politici, ma non limitato da un elenco preciso di obiettivi perseguibili. Pertanto, gli stati membri possono invocare altri scopi purché questi siano compatibile con il principio dello stato di diritto. Nel caso in esame, il divieto di candidatura e l’interdizione per i parlamentari sono stati introdotti dal legislatore italiano, con la legge delega n. 190/2012 e succ. modifiche, allo scopo di assicurare il buon funzionamento delle pubbliche amministrazioni; misure interdittive intrinsecamente compatibili con gli obiettivi della Convenzione ma anche con la previsione di cui all’art. 66 della Carta Costituzionale.
In definitiva, la Corte EDU ritiene che le doglianze siano manifestamente infondate e respinge il ricorso ai sensi dell’art. 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione.
Decisione di inammissibilità, art. 35 della Convenzione
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, ÖMUR CAGDAS ERSOY C. TURCHIA, 15 GIUGNO 2021
Nel procedimento Ömür Çağdaş Ersoy v. Turkey (ric.19165/19), la Seconda Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accertato la violazione dell’art. 10 CEDU (libertà di espressione). Il caso riguardava la condanna di uno studente dell’ODTÜ (Ortadoğu Teknik Üniversitesi), accusato di aver insultato pubblicamente un P.U. nell’esercizio delle sue funzioni. Le Autorità nazionali lo avevano rinviato a giudizio sulla base delle dichiarazioni rese sull’allora Primo Ministro – R. Erdogan – in un discorso pronunciato, davanti al tribunale di Ankara nel dicembre 2012, durante una manifestazione pubblica. Nello specifico, l’imputato manifestava dissenso e disappunto per le scelte politiche del governo, descritto come una vera dittatura e reputava inaccettabile l’ostilità manifestata contro gli studenti. La Corte interna, applicando la normativa codicistica che riconosceva un maggiore grado di protezione ai funzionari statali rispetto ad altre persone nella divulgazione delle proprie opinioni, lo reputava colpevole del reato ascritto (artt. 125 e 131 c.p.).
Proposto ricorso dinanzi alla Corte EDU, viene rilevata la non conformità allo spirito della Convenzione della legge interna, in quanto non riconoscente dell’equo giudizio di bilanciamento tra liberà di espressione e tutela della reputazione personale. Appurata l’importanza dei principi anzidetti, che trovano tutela negli artt. 8 e 10 della Convenzione, la Corte ricorda che le restrizioni alla libertà di espressione sono limitate a due aree: quella del discorso politico e dell’interesse generale, ove solo un elevato livello di tutela della libertà di espressione può riconoscere un certo margine di discrezionalità nel riconoscere prevalenza al diritto alla reputazione e viceversa. Altresì, i giudici richiamano i criteri che l’interprete deve utilizzare nel predetto bilanciamento, ovvero il contributo a un dibattito sull’interesse generale, la notorietà dell’interessato, l’oggetto della segnalazione, il comportamento precedente dell’interessato, il contenuto, la forma e le ripercussioni della pubblicazione. Infatti, se l’equilibrio tra questi due diritti è effettuato secondo i criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte, solo la presenza di seri motivi consente la sostituzione del proprio parere a quello dei tribunali nazionali.
Violazione art. 10 della Convenzione
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SEZIONE TERZA, R.B. CONTRO ESTONIA, RICORSO N. 22597/16, 22 GIUGNO 2021
La ricorrente contesta una violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione, dolendosi dell’inefficacia e ineffettività dell’indagine condotta dall’autorità nazionale rispetto alle accuse di violenza sessuale mosse dalla stessa nei confronti del padre, assolto dal giudice nazionale per ragioni di natura meramente procedurale.
Ribaltando il verdetto emesso nei gradi di giudizio precedente, la Corte Suprema di giustizia estone ha provveduto a prosciogliere l’imputato, contestando la violazione delle regole procedurali interne concernenti l’esame della persona offesa, la cui testimonianza era stata decisiva nel formare il convincimento dei giudici in ordine alla colpevolezza dell’imputato.
A sostegno delle sue doglianze, la ricorrente censura le modalità attraverso cui le autorità nazionali hanno proceduto alla raccolta delle prove, rendendo il loro utilizzo impossibile nel processo. La ricorrente osserva, in particolare, che, in quanto minore, non poteva sottoposta alle stesse regole procedurali previste per l’audizione di un testimone adulto. Come in parte riconosciuto dalla stessa Corte suprema, sebbene il diritto estone non contempli una disciplina ad hoc per l’interrogatorio dei testimoni non maggiorenni, resta fermo il dovere degli Stati aderenti di tutelare l’interesse superiore del minore, garantendo un trattamento differenziato rispetto a quello previsto per gli adulti, come stabilito tra l’altro dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo, dalla Convenzione di Lanzarote e dal diritto comunitario. Applicando, tuttavia, rigorosamente le regole procedurali interne, le autorità nazionali non avrebbero tenuto sufficientemente conto delle esigenze e interessi di un minore, per giunta potenziale vittima di violenza sessuale, lasciandola senza una protezione efficace contro i maltrattamenti subiti.
La Corte ribadisce, preliminarmente, che gli articoli 3 e 8 della Convenzione comportano l’obbligo per lo Stato di salvaguardare l’integrità psico-fisica della persona (cfr. tra le altre, M. e C. v. Romania, n. 29032/04, §§ 107-11, 27 settembre 2011, e M.P. e altri v. Bulgaria, n. 22457/08, § 108, 15 novembre 2011). In particolare, i minori e i soggetti vulnerabili hanno diritto ad una protezione efficace e adeguata (cfr. M.C. v. Bulgaria, n. 39272/98, § 150, CEDU 2003-XII).
Laddove questi ultimi siano coinvolti nell’ambito di un procedimento penale, diventa essenziale salvaguardare la loro testimonianza sia durante la fase delle indagini preliminari sia in giudizio. Il diritto estone, viceversa, con riferimento in particolare alle avvertenze da dare ai testimoni, non prevede eccezioni o adattamenti per i testimoni minori. Circostanza che, nel caso di specie, si è rivelata decisiva nel determinare l’inammissibilità della testimonianza della persona offesa, privandola del diritto a una tutela giurisdizionale efficace e adeguata al suo status.
Alla luce di quanto precede, la Corte, senza esprimersi sulla colpevolezza dell’imputato, rileva che gli esiti del procedimento in questione appaiono viziati al punto da integrare una violazione manifesta degli obblighi positivi gravanti sullo Stato convenuto ai sensi degli articoli 3 e 8 della Convenzione.
Violazione artt. 3 e 8 della Convenzione
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, ERKIZIA ALMANDOZ CONTRO SPAGNA, RICORSO N. 5869/17, 22 GIUGNO 2021
Nella causa “Erkizia Almandoz contro Spagna” la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riscontrato, a maggioranza, una violazione dell’art. 10 della Convenzione.
A causa della partecipazione a una cerimonia volta a omaggiare un ex membro dell’organizzazione terroristica ETA, il ricorrente, un politico separatista basco, è stato condannato dalla sezione penale dell’Audencia Nacional per il reato di apologia del terrorismo alla pena di un anno di detenzione e sette anni di ineleggibilità.
Il ricorrente lamenta la violazione del suo diritto alla libertà di espressione, ritenendo manifestamente illegittima la pronuncia del giudice nazionale, il suo discorso avendo avuto come finalità esclusiva quella di stimolare una riflessione sulla possibilità di avviare un processo graduale e pacifico volto al conseguimento dell’indipendenza da parte dei Paesi Baschi.
Richiamando la sua giurisprudenza in materia di “discorsi d’odio” (cd. “hate speech”), la Corte, preliminarmente, osserva come la proporzionalità della sanzione applicata dallo Stato aderente debba essere vagliata alla luce di tre criteri: il contesto in cui è stato pronunciato il discorso, la sua attitudine intrinseca all’incitamento all’odio o alla violenza, la continenza e le sue modalità espressive (Animal Defenders International c. UK [GC], n. 48876/08, § 100, CEDH 2013, et Perinçek c. Svizzera [GC], n. 27510/08, § 196, CEDH 2015).
Alla luce dei predetti parametri, ad avviso del Collegio, sebbene il ricorrente abbia espresso le sue considerazioni nel corso di una cerimonia in memoria di un membro di una nota organizzazione terroristica ovvero nell’ambito di un contesto politico e sociale teso, il contenuto e la formulazione delle sue osservazioni non appaiono in maniera alcuna idonei a incitare le persone alla violenza o a inneggiare ad azioni terroristiche o, ancora, a giustificarne la commissione.
Non è rinvenibile, dunque, alcuna forma di incitamento diretto o indiretto alla violenza terroristica, il discorso del ricorrente alla cerimonia avendo, al contrario, prospettato l’individuazione di mezzi democratici per raggiungere gli obiettivi politici specifici della sinistra abertzale.
La Corte, pertanto, ha ritenuto che l’ingerenza delle autorità pubbliche nel diritto del ricorrente alla libertà di espressione non possa essere considerata “necessaria in una società democratica”, constatando una manifesta violazione dell’art. 10.
Violazione art. 10 della Convenzione
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDA SEZIONE, TERCAN C. TURCHIA, 29 GIUGNO 2021
Nel caso Tercan c. Turchia (ric. 6158/18) è stata posta all’attenzione della Corte la posizione di un cittadino turco, professore e poi giudice della Corte Costituzionale, il quale veniva ingiustamente tratto in arresto perché sospettato di essere membro attivo dell’associazione terroristica FETÖ/PDY (“Fetullahist Terrorist Organisation/Parallel State Structure”), a seguito del tentato colpo di stato avvenuto nel 2016. Sottoposto a misura cautelare dopo una perquisizione personale e locale illegali (perché eseguite in assenza di autorizzazione della Corte Costituzionale, in qualità di membro), il ricorrente veniva accusato di appartenere all’associazione criminale di cui sopra; destituito dalla posizione di giudice, veniva condannato a dieci anni di reclusione. Nel corso delle indagini gli veniva preclusa la possibilità di accedere agli atti del fascicolo e, quindi, esercitare il suo diritto di difesa. Allo stesso modo, venivano rigettate le istanze di ricorso proposte alla Corte di Cassazione e alla Corte Costituzionale.
Il ricorrente, così, si rivolgeva alla Corte EDU lamentando l’ingiusta detenzione, la violazione del suo diritto di presunzione di innocenza e la mancanza di imparzialità e indipendenza dei giudici che avevano disposto il provvedimento di custodia. Analogamente, contestava la violazione del principio della parità di armi nel processo penale. In definitiva, l’istante invocava la violazione degli artt. 5 § 1 e 5 § 3 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare e del proprio domicilio) della Convenzione.
Quanto alle norme ivi richiamate, la Corte osserva che l’arresto del ricorrente è avvenuto sulla base di un mero sospetto, perlopiù non fondato, e in assenza di prove; tanto non rappresenta motivo sufficiente all’irrogazione della misura privativa della libertà personale. Altresì, i giudici confermano la violazione della normativa interna, che dispone la preventiva autorizzazione da parte della Corte Suprema alla perquisizione richiesta dalle Autorità nei confronti dei giudici membri, violando lo spirito della Convenzione. La Corte, quindi, appurato che l’imputato non avrebbe avuto modo di godere delle garanzie a lui riconosciute ex lege, accoglie il ricorso e condanna la parte resistente (la Turchia) a versare una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno subito.
Violazione artt. 5 § 1, 5 § 3 e 8 della Convenzione
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, PRIMA SEZIONE CAUSA MAESTRI E ALTRI C. ITALIA, RICORSO N. 20903/15, 8 LUGLIO 2021
I ricorrenti sono stati coinvolti con altre persone in una serie di procedimenti penali relativi all’elusione fraudolenta del regime delle cd. “quote-latte”, introdotto ai sensi del regolamento (CEE) n.856/84. Accusati di frode aggravata e associazione per delinquere, per entrambi i reati sono stati condannati della Corte d’appello di Torino. Il giudice del gravame ha ribaltato, in parte, la pronuncia del Tribunale di Saluzzo, che aveva assolto tutti per il delitto di cui all’art. 416 c.p. giungendo viceversa a un verdetto di colpevolezza in relazione al delitto di frode (fatta eccezione per la posizione dell’imputata Maestri). Lamentando la mancata audizione dei testimoni e l’omesso esame degli imputati in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, i ricorrenti hanno in seguito adito la Corte di cassazione che ha confermato gli esiti del giudizio di appello. I giudici di legittimità hanno ritenuto la pronuncia d’appello immune da censure, osservando come i ricorrenti abbiano deliberatamente scelto di non comparire dinanzi alla corte d’appello e che, in ogni caso, il loro diritto a essere sentiti personalmente sia stato garantito dalla possibilità di rendere dichiarazioni spontanee e di parlare per ultimi.
Muovendo dalle medesime doglianze, gli interessati ricorrono al giudice di Strasburgo, invocando l’articolo 6, § 1, della Convenzione.
Nella sua sentenza il giudice di Strasburgo, preliminarmente, rammenta la necessità di considerare la peculiare configurazione del giudizio di appello e la possibilità che un ricorrente possa in modo inequivoco rinunciare al proprio diritto di prendervi parte. Resta ferma l’esigenza che il giudice di secondo grado, nel pronunciarsi sull’innocenza o sulla colpevolezza di un imputato, non possa decidere senza tenere in debito conto degli elementi di prova addotti personalmente dall’imputato medesimo. A tal proposito, richiamando la sua consolidata giurisprudenza (Júlíus Þór Sigurþórsson c. Islanda, n. 38797/17, 16 luglio 2019), la Corte mette in luce come la rinuncia a comparire non sottenda la rinuncia ad essere sentiti nel giudizio di appello, dovendo quest’ultima essere parimenti esplicita. Anche secondo il diritto interno, detta rinuncia è da considerarsi validamente espressa solo a fronte di una specifica citazione finalizzata all’audizione dei ricorrenti, alla quale i medesimi non diano seguito.
È, in tal senso, compito dei giudici nazionali adottare tutte le misure atte ad assicurare l’audizione dell’interessato, ad avviso della Corte, la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee o di prendere la parola al termine della discussione non rivelandosi sufficiente a escludere una violazione dell’art. 6, par. 1, non essendo un istituto paragonabile all’esame dell’imputato.
La Corte europea rinviene, in definitiva, per tutti i ricorrenti la violazione dell’art. 6 par. 1 in relazione alla condanna per associazione a delinquere intervenuta senza disporre l’esame degli imputati e, nel caso della Maestri, anche per la mancata audizione dei testimoni nel giudizio di appello, indicando la celebrazione di un nuovo giudizio come il rimedio più appropriato per sanare la violazione, pur entro i margini di apprezzamento lasciati allo Stato.
Violazione art. 6 §. 1.
Per leggere le considerazioni a prima lettura dell’Avv. Marina Silvia Mori dell’Osservatorio Europa UCPI, clicca qui.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, TERZA SEZIONE, BRAGI GUÐMUNDUR KRISTJÁNSSON C. ISLANDA, 31 AGOSTO 2021
Nel caso Bragi Gudmundur Krist Jansson c. Islanda (ric. 12951/18), la Terza Sezione della Corte EDU ha accertato la violazione dell’art. 4 Protocollo n. 7 della Convenzione che sancisce il divieto del ne bis in idem.
La questione sottoposta all’attenzione dell’organo giudicante riguardava l’irrogazione congiunta di una sanzione amministrativa e di una penale – a seguito dei rispettivi procedimenti – per la commissione di un illecito tributario. Infatti, il ricorrente dopo essere stato ingiunto al pagamento maggiorato dell’imposta evasa (mediante procedimento amministrativo) veniva dichiarato colpevole per reati fiscali dal tribunale penale e condannato a tre mesi di reclusione e ad una multa di circa 84.000 euro.
Lamentando la violazione del principio del ne bis in idem – che sancisce il divieto del doppio giudizio per il medesimo fatto – la parte ricorrente si rivolgeva al giudice di Strasburgo. Con la presente pronuncia si coglie l’occasione per ricordare l’evoluzione della giurisprudenza convenzionale circa il sistema del c.d. “doppio binario” sanzionatorio, meccanismo che consente l’irrogazione contestuale o progressiva tanto della sanzione penale quanto di quella amministrativa a seguito di autonomi procedimenti, relativamente al medesimo fatto illecito. Ciò premesso, inizialmente, la Corte EDU nella sentenza Grande Stevens e altri c. Italia (Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014) aveva sancito l’incompatibilità di questo meccanismo sanzionatorio con l’art. 4 Prot. 7 CEDU per due motivi: la natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata dall’Autorità amministrativa, in forza dei criteri Engel, e la previsione di un idem factum che preclude la celebrazione di due processi aventi ad oggetto il medesimo fatto storico, a prescindere dalla qualificazione giuridica. Successivamente, la Corte di Strasburgo – con la sentenza A e B c. Norvegia (Corte EDU, sentenza 15 novembre 2016) – giunge a conclusioni opposte: l’irrogazione della sanzione penale, nei confronti di chi sia stato sanzionato dall’amministrazione tributaria, non viola il principio convenzionale del ne bis in idem se tra i due procedimenti esiste una “sufficiently close connection in substance and time”, una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, sempre che le risposte sanzionatorie siano nel complesso proporzionate e prevedibili. In definitiva, per determinare se i procedimenti penali e amministrativi duali siano sufficientemente collegati nella sostanza, dovrebbero essere presi in considerazione diversi fattori: la finalità complementare perseguita a mezzo del procedimento (rectius se affrontano medesimi aspetti della questione); la prevedibilità delle conseguenze giuridiche a seguito della doppia contestazione; l’eventuale duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove e soprattutto della sanzione irrogata (verificando se quella amministrativa è sostanzialmente penale). Analogamente, il nesso temporale deve essere sufficientemente stretto da proteggere l’individuo dall’essere soggetto a incertezze e ritardi e da un procedimento che si protragga nel tempo; pertanto, non va interpretato nel senso che i due procedimenti devono essere condotti simultaneamente dall’inizio alla fine.
Nel caso di specie, effettuati i predetti accertamenti, la Corte rileva che il duplice procedimento contro il ricorrente non era sufficientemente connesso né nella sostanza né nel tempo da evitare una duplicazione dei procedimenti. Di conseguenza, la parte ricorrente è stata giudicata e punita per lo stesso o sostanzialmente lo stesso comportamento da autorità diverse in due diversi gradi di giudizio privi del necessario collegamento. C’è stata quindi una violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione.
Violazione art. 4 Protocollo n. 7 della Convenzione