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IL CONTRIBUTO DELL’IMPUTATO ALL’ACCERTAMENTO DEL FATTO – DI ROSITA DEL COCO

IL CONTRIBUTO DELL’IMPUTATO ALL’ACCERTAMENTO DEL FATTO – DI ROSITA DEL COCO

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IL CONTRIBUTO DELL’IMPUTATO ALL’ACCERTAMENTO DEL FATTO

di Rosita Del Coco*

Un’analisi delle diverse forme con cui l’imputato contribuisce alla ricostruzione del fatto nel processo penale, soffermandosi soprattutto sul diritto al silenzio, il valore delle dichiarazioni, la questione delle prove corporali e il ruolo delle tecnologie digitali. L’autrice sottolinea come il diritto al silenzio e il principio nemo tenetur se detegere siano centrali per garantire la libertà e la dignità dell’imputato, ma spesso risultino compressi o aggirati da prassi e orientamenti giurisprudenziali. Viene evidenziato il rischio che l’imputato sia indirettamente costretto alla collaborazione, soprattutto con riferimento a password digitali o a strumenti di pressione come la custodia cautelare. Il contributo si conclude auspicando una maggiore cultura delle garanzie e una tutela effettiva della libertà di autodeterminazione dell’imputato, valorizzata anche dalla recente giurisprudenza costituzionale e sovranazionale.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il silenzio. – 3. Il contributo dichiarativo. – 4. Il diritto al silenzio nel processo agli enti. – 5. Le prove “corporali”. – 6. Scelte autodifensive e prove tecnologiche. – 7. Conclusioni. 

  1. Premessa

Il tema del contributo dell’imputato all’accertamento del fatto risulta inevitabilmente condizionato da proposizioni fondamentali non soltanto giuridiche, ma anche, e soprattutto, etiche e politico-sociali. Relazioni di potere tra individuo ed autorità, libertà di autodeterminazione, libertà morale, dignità umana delineano, infatti, solo alcuni degli «sfondi culturali enormemente ricchi fuori dei quali» l’argomento che ci occupa non può nemmeno lontanamente essere compreso[1].

Come se non bastasse, ad acuire vieppiù la complessità della tematica contribuisce la ridefinizione del profilo strumentale degli apporti conoscitivi dell’imputato, che dischiude nuovi piani di indagine riferibili, da un lato, alle neuroscienze; dall’altro lato, alla giustizia riparativa. Sebbene impossibili da approfondire in questa sede, entrambi i settori esibiscono l’aspirazione a valorizzare la persona o il contributo dell’imputato, con l’obiettivo di realizzare finalità indirettamente collegate all’accertamento del fatto oggetto del processo. Sotto il primo profilo, si è rilevato che «il dovere di dire la verità, la ricerca e l’attesa della confessione, vengono sostituiti dal sapere tecnico, dalla previsione scientifico-statistica di quei comportamenti che possono essere “pericolosi”, nocivi ad un definito modello di vita sociale, ritenuto quello che deve essere protetto e difeso»[2]. In tale prospettiva, il determinismo che ispira le neuroscienze si presta a fungere da equipollente gnoseologicamente valido della confessione ed ambisce, al contempo, a divenire uno strumento di “ermeneutica del soggetto”, idoneo a “misurare” il grado di pericolosità di quest’ultimo, in una prospettiva non solo punitiva, ma anche preventiva. Sotto il secondo profilo, la dichiarazione confessoria dell’imputato è eletta a pre-condizione implicita di riparazioni e riconciliazioni, che si pongono in una prospettiva diversa, ma complementare rispetto a quella del processo penale, con quest’ultima destinata, tuttavia, ad intersecarsi sia nel momento di commisurazione della pena, sia ai fini della procedibilità, nel caso di remissione della querela da parte dell’offeso.

Dinanzi alla vastità e complessità del tema, in assenza di griglie interpretative consolidate, una interessante prospettiva di analisi è offerta dalla verifica del tasso di volontarietà assicurato, attraverso la disciplina acquisitiva e gli orientamenti giurisprudenziali, alle principali fenomenologie di apporto probatorio proveniente dalla persona dell’imputato. A tale riguardo si evidenzia che la volontarietà delle scelte autodifensive risulta espressione della libertà morale – la quale trova copertura costituzionale nell’art. 2 Cost. – a sua volta destinata a saldarsi al principio della presunzione di non colpevolezza, sancito dall’art. 27, comma 2 Cost., ed alla garanzia del diritto inviolabile di difesa, con cui è garantita all’imputato la libertà di scelta nella strategia difensiva tra silenzio e collaborazione. Con la conseguenza che, al di là di astratti idealtipi e vuote etichette classificatorie, proprio la volontarietà dei contributi probatori provenienti dal soggetto nei cui confronti si procede si presta a fungere da indicatore privilegiato del grado di effettività di quei diritti e, soprattutto, di quelle libertà che concorrono a delineare un modello processuale autenticamente accusatorio, in contrapposizione a modelli di giustizia refrattari verso scelte auto-difensive in grado di condizionare l’esito dell’attività di accertamento del giudice. In questa prospettiva, dunque, la ricognizione dei dati normativi e degli orientamenti dei giudici nazionali e sovranazionali consente di verificare il grado di attuazione di quella nuova cultura epistemologica inaugurata nel 1989, orientata al rifiuto di ogni forma di accertamento e convincimento giudiziale disancorato da parametri razionali[3].

  1. Il silenzio

A prima vista potrebbe sembrare contraddittoria la scelta di avviare la ricognizione dei contributi probatori dell’imputato proprio dal silenzio[4], che, di fatto, si sostanzia esattamente nella opzione contraria, ossia nella volontà di non offrire alcun apporto all’accertamento del fatto di reato contestato a proprio carico.

Senonché, com’è stato efficacemente evidenziato, nell’ambito delle scelte autodifensive, «silenzio e dichiarazioni si dimostrano facce speculari di una stessa medaglia»[5], tra loro connesse da una relazione di vera e propria implicazione. Agevole intuire, infatti, che nell’ambito del fondamentale canone del nemo tenetur se detegere, il pieno riconoscimento del diritto al silenzio, inteso come diritto di rifiutare ogni forma di collaborazione attiva all’accertamento del reato, costituisca il presupposto imprescindibile per garantire l’adozione di una libera e consapevole scelta dichiarativa da parte dell’accusato[6]. A ciò si aggiunga che il valore sostanzialmente “neutro” che dovrebbe caratterizzare il silenzio, sotto il profilo probatorio, è da tempo sconfessato da una giurisprudenza incline ad inferire dalla scelta di indefensio dell’imputato elementi di prova a riscontro della colpevolezza[7]. Il che giustifica una riflessione sulla effettività del diritto al silenzio e sul “peso specifico” che, ai fini dell’accertamento, riveste la scelta di non offrire il proprio contributo dichiarativo.

Sotto il primo profilo, lo ius tacendi, così come, del resto, il diritto a non autoincriminarsi, stentano a trovare adeguata consacrazione accanto ad altri diritti fondamentali. Non è casuale che, ad eccezione dell’affermazione nell’art. 14, § 3, lett. g) del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, tali imprescindibili prerogative non siano collocate tra i principi del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, ed abbiano trovato riconoscimento solo in via interpretativa da parte dei giudici di Strasburgo, i quali hanno individuato il fondamento del right to silence e del privilege against self incrimination in principi internazionalmente riconosciuti, che si collocano al cuore della nozione di processo equo, in stretta connessione con la presunzione di non colpevolezza[8].

A livello interno, altrettanto significativa di un atteggiamento “prudenziale” verso le due garanzie dell’autodifesa è la circostanza che queste ultime non siano state inserite tra gli essentialia del giusto processo[9], nemmeno a seguito della riforma dell’art. 111 Cost. Ora, al di là degli evidenti nessi del nemo tenetur se detegere con i principi che concorrono a delineare il modello di equo e giusto processo, il disinteresse delle Carte fondamentali a ribadire a chiare lettere il rilievo assunto dai due principali presidi della libertà di autodeterminazione potrebbe essere condizionato da una tendenziale resistenza verso una compiuta emancipazione da una cultura inquisitoria poco incline a fare a meno della parola dell’accusato. Una mancanza di sensibilità che traspare, con particolare riferimento al diritto al silenzio, pure nella Direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di non colpevolezza[10], preoccupata di “salvare”, a fini probatori, persino eventuali violazioni del diritto a non collaborare. Il riferimento è, in particolare, all’art. 10 della Direttiva, in forza del quale gli Stati membri possono garantire che, «nella valutazione delle dichiarazioni rese da indagati o imputato o delle prove raccolte in violazione del diritto al silenzio o del diritto di non autoincriminarsi, siano rispettati i diritti della difesa e l’equità del procedimento». Insomma, un vero e proprio “salvacondotto” probatorio alle violazioni del diritto!

Sotto il secondo profilo, relativo al valore probatorio del silenzio, oltre a dover constatare l’esistenza di una “cifra oscura” di decisioni in cui il tasso di discrezionalità del giudice è, di fatto, condizionato da tale opzione autoaccusatoria, si rileva la presenza di un orientamento inteso a valutare la condotta processuale dell’imputato, coniugandola con ogni altra circostanza sintomatica della colpevolezza[11]. Con la conseguenza che il giudice, nella formazione del suo libero convincimento, ben potrebbe considerare, in concorso con ulteriori riscontri, la portata probatoriamente significativa del silenzio.

Del resto, per smentire ogni incauto ottimismo sulla effettività della garanzia del silenzio basta porre mente al sovrautilizzo della custodia cautelare, ancora evidentemente connessa anche ad una strumentalizzazione delle forme di restrizione della libertà personale al fine di ottenere il prezioso contributo confessorio dell’imputato, il cui ostracismo continua ad assumere rilievo, soprattutto in ordine ai pericula libertatis, nonostante la «norma-manifesto»[12] del 1995 e le successive “mini-riforme” in materia di motivazione che a quest’ultima si sono succedute. Ma, ancora di più, il termometro delle numerose insidie che possono pregiudicare lo ius tacendi è rappresentato dalla persistente tendenza ad aggirare le regole poste a tutela del silenzio attraverso operazioni atipiche[13] destinate a trovare ingresso nel processo attraverso la testimonianza indiretta, la prova atipica o la prova documentale. Quest’ultima, in particolare, è stata progressivamente sottoposta ad processo di ipertrofia concettuale che l’ha trasformata in una specie di «contenitore […] pronto a recepire le più svariate ed imprevedibili realtà probatorie, ivi comprese quelle insuscettibili di essere considerate come pre-esistenti al processo e, perciò, pre-costituite, con correlativa inclusione di quelle costituite nel corso delle indagini, inidonee ad essere ricomprese in uno dei mezzi tipici disciplinati dal legislatore»[14]. Con un rischio evidente non solo per il diritto al silenzio, ma anche per l’affidabilità del risultato, soprattutto nel caso di prove tecnologiche.

  1. Il contributo dichiarativo

Se questo è “lo stato di salute” del diritto al silenzio, si comprende, allora, agevolmente, che la contraria opzione non costituisca sempre il risultato di una scelta volontaria e libera da pressioni e condizionamenti.

Eppure, a livello interno, va evidenziato che già il legislatore delegante aveva compiuto una «scelta ideologica forte»[15], ribadendo a chiare lettere la natura prettamente difensiva dell’interrogatorio, e lo stesso codice di rito si poneva all’avanguardia nella tutela della libertà fisica e morale, delineando un complesso di norme di profilassi, seppure con qualche refuso inquisitorio, finalizzate proprio a costruire una solida barriera contro le pericolose degenerazioni della prassi.

In realtà, occorre riconoscere che, nonostante gli sforzi apprezzabili, la ricorrenza di abusi è assai più frequente di quanto si possa immaginare[16], pure in mancanza di una «casistica giurisprudenziale idonea ad attestarli»[17] e di studi empirici simili a quelli che, nei sistemi di common law, consentono al giurista una corretta interpretazione delle prassi devianti e permettono al legislatore di orientare efficacemente le proprie scelte normative.

E proprio ai fini di una analisi delle dinamiche elusive del diritto a non autoincriminarsi, appare niente affatto neutra la scelta del legislatore interno di rinunciare sia ad una disciplina delle dinamiche operative dell’interrogatorio, sia ad una catalogazione, seppure non esaustiva, di indicatori volti a segnalare la presenza di un contributo dichiarativo eteroguidato e non autodeterminato, sulla falsariga di quanto previsto, ad esempio, dal sistema tedesco o dalle linee guida esistenti nei sistemi angloamericani. Entrambe le opzioni legislative, a ben vedere, si prestano ad essere chiavi di lettura plausibili di una sorta di riserva mentale verso regole procedurali troppo stringenti quando si tratta di acquisire il contributo dichiarativo dell’accusato.

Da questo specifico angolo visuale, suggeriscono ulteriori riflessioni la mancata regolamentazione legislativa della confessione e l’atteggiamento di renitenza verso l’uso di tale termine all’interno dell’articolato codicistico[18], che lo evoca solo nell’art. 449 c.p.p. in una versione – quella di presupposto all’instaurazione del giudizio immediato – che lo depotenzia di ogni vis evocativa e significato emotivo[19]. Come se l’avere bandito ogni ulteriore richiamo esplicito alla confessione intesa quale fattispecie probatoria possa in qualche modo emancipare la stessa dal peso di un passato che la vede irrimediabilmente associata all’idea di tortura[20].

E però, se la libertà di autodeterminazione che deve presiedere all’opzione dichiarativa dell’imputato implica l’assenza di costrizioni e condizionamenti, sono ancora oggi difficili da giustificare alcuni refusi dal valore inequivocabilmente inquisitorio come, ad esempio, l’accompagnamento coattivo, il meccanismo di recupero delle dichiarazioni previsto dall’art. 350, commi 6 e 7; l’utilizzo della custodia cautelare ad eruendam veritatem; l’erosione del diritto al silenzio su fatti concernenti la responsabilità altrui o i meccanismi di collaborazione forzata che trovano legittima applicazione nell’ambito del doppio binario trattamentale previsto all’interno del sistema penitenziario. Vere e proprie forme di tortura in caput sociorum[21] che fanno ricorso alla sofferenza della pena, al fine di coartare la libertà di coscienza dell’imputato o del condannato, con palese violazione della dignità dell’individuo, il cui rispetto esige che la persona non possa essere trattata come strumento in vista della realizzazione di qualsiasi scopo. Non basta.

Anche con riguardo al diritto a non autoincriminarsi si riproducono tentativi di elusione attraverso le indagini atipiche. Si pensi, in via meramente esemplificativa, alla registrazione di una conversazione effettuata da un interlocutore appartenente alla polizia giudiziaria o da quest’ultima appositamente “istruito”[22]. Con riguardo a tale contributo, la giurisprudenza, nonostante qualche incerto ripensamento[23], tende a confermare il principio secondo cui «la registrazione fonografica di colloqui tra presenti, eseguita d’iniziativa da uno dei partecipi al colloquio, costituisce prova documentale, utilizzabile come tale in dibattimento, e non intercettazione “ambientale” soggetta alla disciplina degli artt. 266 ss. c.p.p., anche quando sia effettuata su impulso della polizia giudiziaria e/o con strumenti forniti da quest’ultima, con la specifica finalità di precostituire una prova da far valere in giudizio»[24].

Sebbene non sia questa la sede per affrontare, con aspirazioni di minima completezza, la problematica in esame, relativa al cosiddetto “agente segreto attrezzato per il suono”, è evidente che la conclusione patrocinata dai giudici della Cassazione si ponga in contrasto con il diritto a non autoincriminarsi e con i principi affermati, in subiecta materia, dall’art. 8 CEDU, così come interpretato dai giudici di Strasburgo. Questi ultimi, infatti, hanno in più occasioni statuito che la registrazione tra presenti “gestita” dalla polizia giudiziaria costituisce un’ingerenza nella vita privata e nella corrispondenza, che viola l’art. 8 CEDU, salvo nell’ipotesi in cui sia prevista dalla legge; persegua uno o più scopi legittimi con riferimento al § 2 della medesima norma e sia necessaria per il raggiungimento dei predetti obiettivi. Segnatamente, con particolare riferimento alla previsione di legge, i giudici europei esigono un controllo della cosiddetta “quality of law” che si specifica nei requisiti dell’accessibilità e della prevedibilità.

Se, dunque, il tasso di tollerabilità dell’ingerenza nella vita privata si misura sulla base della prevedibilità dell’atto intrusivo, occorre, allora, ritenere che, al di fuori del paradigma intercettivo, le registrazioni effettuate da uno degli interlocutori su iniziativa dell’investigatore siano in contrasto con la disposizione convenzionale; con conseguente violazione dell’art. 117 Cost.

Ma anche nel caso in cui si ritenesse configurabile una intercettazione ambientale, sarebbero molteplici i rischi di lesione del canone nemo tenetur se detegere. Invero, se con riferimento alle intercettazioni gioca un ruolo decisivo la terzietà dell’ascoltatore e l’inconsapevolezza delle persone intercettate, maggiori pericoli si celano nelle registrazioni eseguite da uno degli interlocutori. In quest’ultima ipotesi il soggetto captante (sia esso un funzionario pubblico o un privato che agisce per conto della polizia) potrebbe provocare una contra se declaratio eludendo surrettiziamente le garanzie previste in sede di interrogatorio. Con il pericolo di una equiparazione nella valenza probatoria tra le ammissioni “provocate” e registrate e quelle provenienti dalla viva voce dell’interessato, frutto di una scelta deliberata, sia per le modalità di percezione, sia perché non collegata in alcun modo ad attività formalmente o sostanzialmente investigative, che si risolvano in un aggiramento della facoltà di non rispondere.

In tale ottica, andrebbe, allora, consentito alla registrazione, effettuata secondo il paradigma normativo delle intercettazioni, di diventare il veicolo probatorio di confessioni solo nel caso in cui il giudice accerti il pieno rispetto delle garanzie difensive. Con la precisazione che alcuna presunzione di spontaneità può essere collegata al soggetto che raccoglie o al mezzo di raccolta delle dichiarazioni.

Giunti a questo punto, alla luce delle considerazioni svolte, è difficile sottrarsi all’idea che, nonostante le altisonanti affermazioni di principio, la strada per garantire effettività al privilegio contro l’autoincriminazione sia ancora lunga e sia tutta in salita. Un importante passo indietro è stato purtroppo compiuto sempre dalla Direttiva europea sulla Presunzione di innocenza, il cui art. 7, comma 4 prevede che gli Stati membri possano consentire «alle proprie autorità giudiziarie di tenere conto, all’atto della pronuncia della sentenza, del comportamento collaborativo degli indagati e imputati». Come se la prospettiva di un premio per la collaborazione non incidesse, condizionandola, sulla libertà di autodeterminazione e sul diritto di non rendere dichiarazioni autoindizianti.

  1. Il diritto al silenzio nel processo agli enti

La difficoltà di garantire effettività al diritto al silenzio, riscontrata nell’ambito del processo penale alla persona fisica, si arricchisce di ulteriori profili problematici all’interno del processo volto all’accertamento della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche[25].

In particolare, l’art. 44 del d. lgs. n. 231 del 2001 circoscrive l’incompatibilità a testimoniare del rappresentante dell’ente alla sussistenza dei presupposti cumulativi della indicazione di tale soggetto nell’atto di costituzione e del conferimento allo stesso delle funzioni di rappresentanza anche all’epoca della commissione dell’illecito[26]. Ne consegue che il rappresentante nominato dopo tale specifico momento deve essere sentito in qualità di testimone, per il quale, dunque, opera l’obbligo di presentarsi, di rispondere in sede di esame e di dire la verità.

Nel caso in cui il compito di rappresentare l’ente non fosse stato ancora conferito al momento della consumazione dell’illecito, stante l’inconciliabilità tra i diversi status giuridici, le garanzie difensive vengono assegnate a soggetti diversi dal legale rappresentante – nello specifico il rappresentante ad processum o il difensore – così confondendo i differenti piani della rappresentanza sostanziale e processuale, ed elidendo il rapporto organico tra persona fisica e persona giuridica.

Difficile sostenere che la scelta di inibire al rappresentante la garanzia del diritto al silenzio trovi giustificazione nel criterio previsto dall’art. 35 d. lgs. n. 231/2001, il quale, nel sancire l’estensione delle disposizioni processuali relative all’imputato, opera un riferimento all’ente, e non al suo legale rappresentante[27]. Basta evidenziare che la persona giuridica può rendere dichiarazioni solo tramite la persona fisica che la rappresenta, per rendersi conto che l’estensione garantistica cui allude la disposizione da ultimo richiamata riguarda proprio il legale rappresentante, e non il soggetto collettivo in quanto tale.

Pure all’interno del processo civile, del resto, l’impersonificazione dell’ente nel suo legale rappresentante esonera quest’ultimo dall’obbligo di rispondere secondo verità, a prescindere dal rapporto temporale tra il conferimento dell’incarico e il momento in cui si sono verificati i fatti oggetto del giudizio[28]. Il che risalta l’irragionevolezza della scelta prevista per la responsabilità amministrativa dipendente da reato, soprattutto ove si consideri che il processo penale non dovrebbe andare al ribasso rispetto allo standard di tutela delle garanzie previste dall’omologo civilistico.

La verità, ancora una volta, è che quando si tratta di accertamento nell’ambito del processo penale riaffiora sempre l’aspirazione del legislatore a non disperdere il contributo dichiarativo dell’imputato, tanto che si tratti di persona fisica quanto di persona giuridica.

  1. Le prove “corporali”

Nel novero dei contributi provenienti dall’imputato una peculiare categoria è rappresentata dalle informazioni che coinvolgono quest’ultimo nella propria dimensione corporale[29].

Per tale tipologia di prove, già a partire dalla sentenza n. 30 del 1962, la Corte costituzionale aveva avuto modo di affermare che «la garanzia dell’habeas corpus non deve essere intesa soltanto in rapporto alla coercizione fisica della persona, ma anche alla menomazione della libertà morale quando tale menomazione implichi un assoggettamento totale della persona all’altrui potere»[30]. Il percorso evolutivo di tutela così inaugurato ha trovato ulteriore sviluppo con la nota sentenza 238 del 1996[31], con cui i giudici della Consulta hanno dichiarato l’illegittimità dell’art. 224, comma 2, c.p.p. – nella parte in cui consentiva «che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, dispon[esse] misure che, comunque, [avrebbero inciso] sulla libertà personale dell’indagato, dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge, come reclamato dall’art. 13, comma 2 Cost., per qualunque misura restrittiva della libertà personale» – dando luogo ad un vuoto normativo colmato, con non poche criticità, dalla legge 30 giugno 2009, n. 85[32]. Ai fini dell’assunzione di informazioni “corporali”, la novella legislativa prevede che il consenso operi come alternativa alla coazione, consentita solo nei limiti della duplice riserva di legge e giurisdizione e nel rispetto della dignità, del decoro e della riservatezza della persona[33].

A quest’ultimo riguardo, si evidenzia come la nozione di dignità della persona – intesa come clausola (o criterio) ispiratore degli ordinamenti giuridici – evoca genericamente un’esigenza di tutela, restando, tuttavia, concetto dai contorni e dal contenuto non puntualmente definibili. La tutela della dignità è, a sua volta, una sorta di contenitore che racchiude diritti diversificati della persona, i quali comprendono al proprio interno aspetti morali, sociali ed economici. E, dunque, appare indubbio che, proprio in virtù dell’indeterminatezza dell’espressione “dignità”, numerosi siano gli interventi destinati, potenzialmente, a ledere questo fondamentale diritto della persona.

Il richiamo esplicito alla salvaguardia della dignità è presente nella gran parte dei testi costituzionali dei Paesi dell’Unione Europea, con connotazioni differenziate: la nostra Costituzione ne accoglie l’accezione meno individualistica, riferendosi alla “dignità sociale”; mentre, in altri ordinamenti l’accento è posto proprio sulla intangibilità della dignità umana, limite di tutela inviolabile nei confronti di ogni libertà individuale. Peraltro, è proprio la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale a ricondurre anche sul piano dei diritti fondamentali il riferimento alla dignità della persona, come limite insuperabile agli accertamenti corporali coattivi e, più in generale, ad ogni forma di assoggettamento fisico.

Nell’ambito della disciplina del procedimento penale, il richiamo al rispetto della dignità riguarda tanto le modalità esecutive di talune attività probatorie (ispezioni o perquisizioni personali), quanto i prelievi, coattivi o non, di materiale biologico[34]. In termini concreti, il rispetto della dignità della persona, nelle circostanze indicate, si traduce essenzialmente nella inammissibilità, in fase di prelievo del campione, di manovre di coercizione prolungata, mortificanti o poco rispettose della persona.

Proprio a quest’ultimo riguardo, un fronte avanzato di tutela è stato dischiuso dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[35]. I giudici di Strasburgo, sostanzialmente in linea con la nostra giurisprudenza costituzionale, ritengono che nell’ambito delle prove reali non operi il privilegio contro l’autoincriminazione, generalmente riservato alle sole prove dichiarative, in cui la volontà dell’accusato incide sul processo formativo dell’elemento di prova. Tuttavia, nel caso Jalloh contro Germania del 2006[36], i giudici europei hanno ritenuto di estendere il privilegio anche alla prova “corporale”, quando questa sia stata acquisita contro la volontà dell’accusato, con modalità tali da integrare gli estremi del trattamento inumano e degradante. Nella prospettiva privilegiata, si evidenzia che i prelievi biologici coattivi sono in via di principio legittimi in base all’art. 6, comma 1, CEDU, dato che di regola il materiale utilizzato è ottenuto con procedure minimamente invasive. Tuttavia, quando la procedura sfoci, come nel caso di specie (in cui l’imputato era stato immobilizzato da quattro agenti di polizia e costretto ad ingerire un emetico al fine di eliminare lo stupefacente ingerito), in un trattamento disumano e degradante, diventa «appropriata» una rilettura del fatto anche alla stregua del privilegio contro l’autoincriminazione e dei relativi parametri di accertamento.  Il che impone, evidentemente, una rilettura, alla luce dei principi convenzionali, della disciplina attualmente prevista per il prelievo di campioni biologici[37], in cui l’aspetto pratico-operativo del prelievo è del tutto ignorato e si ravvisa la totale mancanza di “regole di profilassi” volte ad informare il soggetto interessato in ordine alle modalità ed agli scopi del prelievo.

  1. Scelte autodifensive e processo tecnologico

Il fondamentale canone del nemo tenetur se detegere ha conosciuto significative tendenze recessive sul versante della prova digitale[38].

Come noto, al giorno d’oggi, esistono vere e proprie barriere in grado di frapporsi all’accertamento dell’autore di una condotta criminosa. Tra queste, un ruolo di primo piano è rivestito da quegli “ostacoli” tecnologici frutto di legittime scelte dell’utilizzatore della strumentazione informatica, tra cui la crittografazione dei dati o la richiesta di password per accedere a un sistema o a parte di esso[39].

Se è vero che, in alcuni casi, un metodo di decrittazione bruteforce da parte della pubblica accusa o dei suoi ausiliari – espressamente consentito a livello codicistico ai sensi degli artt. 247, comma 1-bis e 352, comma 1-bis, c.p.p. – può condurre alla rimozione di tali intralci, è altrettanto vero che, in altre ipotesi, potrebbe essere impossibile superare le misure di protezione. Di tal ché, per proseguire nelle indagini, gli operanti si trovano “costretti” a dover richiedere la collaborazione del soggetto in possesso delle “chiavi” all’ostacolo di natura digitale, ad esempio richiedendo di rivelare la password.

In siffatta eventualità, la prosecuzione stessa delle indagini viene a dipendere da una scelta autodifensiva dell’indagato. Di qui, il correlativo dubbio se quest’ultimo sia costretto o meno a fornire tali informazioni alla polizia giudiziaria, tenendo a mente che, in caso di assenso alla richiesta collaborativa, egli fornirebbe un aiuto probabilmente decisivo alle indagini. Del resto, il “contatto” tra polizia giudiziaria e persona indagata avviene, nel corso delle indagini tecnologiche, in un momento iniziale del procedimento, giacché il sequestro delle attrezzature informatiche rappresenta, di regola, uno dei primi step investigativi. In tale fase, è ben possibile che, a fronte dell’impossibilità di accedere al contenuto dell’elaboratore, l’indagine debba arrestarsi.

La soluzione al quesito appare, a livello teorico, chiara. Il principio nemo tenetur se detegere, infatti, impone l’esclusione di qualsivoglia onere collaborativo dell’indagato in sede di indagini. Se così è, una siffatta richiesta da parte degli inquirenti dovrà essere preceduta dall’avviso di cui all’art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p., in virtù del richiamo operato dall’art. 350, comma 1, c.p.p. In assenza dell’avviso relativo alla facoltà di non rispondere, saranno inutilizzabili sia il dato raccolto sia i successivi accertamenti operati sul sistema informatico (art. 64, comma 3-bis c.p.p.).

Dalla visuale specifica delle misure cautelari, qualora l’indagato scelga di non fornire i codici d’accesso al sistema, l’art. 274, comma 1, lett. a) c.p.p. prevede a chiare lettere che le situazioni di concreto e attuale pericolo per le indagini non possono essere desunte dal rifiuto della persona sottoposta alle indagini di rendere dichiarazioni. Ed è indubbio che, per la loro natura di strumento mediante il quale gli inquirenti possono accedere a materiale probatorio utile ai fini dell’accusa, nel perimetro applicativo del diritto al silenzio vanno fatte rientrare anche le credenziali utili per accedere alla strumentazione informatica in uso all’indagato.

Pertanto, poiché costituisce un’ipotesi di esercizio delle proprie facoltà difensive, va escluso che lo ius tacendi relativo alla richiesta di fornire i codici d’accesso alla propria strumentazione informatica possa costituire la base probatoria per legittimare una restrizione della libertà personale. Ragionando diversamente, si indurrebbe l’indagato a una collaborazione investigativa che si pone al di fuori dell’architettura sistematica processuale penale.

Eppure, a livello di prassi, i giudici di legittimità sono giunti a conclusioni ben diverse. Segnatamente, la Corte di cassazione ha valorizzato il rifiuto dell’indagato di fornire i codici di sblocco dei dispositivi informatici a lui sequestrati quale elemento da cui desumere il pericolo di inquinamento probatorio di cui all’art. 274 c.p.p.[40]. Secondo quanto patrocinato dai giudici della Cassazione, l’ostacolo frapposto dall’indagato all’accesso, da parte della pubblica accusa, ai dati ivi contenuti avrebbe reso concreto il pericolo che, in condizioni di libertà, l’indagato potesse tentare di accedere a tali dati da remoto al fine di cancellarli.

Simile principio di diritto suscita notevoli perplessità. Teorizzare conseguenze nocive in capo all’indagato in ragione del rifiuto di fornire i codici d’accesso alla propria strumentazione informatica significa, in buona sostanza, inferire un colpo mortale al principio nemo tenetur se detegere e, più in generale, al diritto di difesa, dal momento che finisce per prospettare all’indagato una rigida alternativa tra (forzosa) cooperazione alle indagini e restrizione della libertà personale. Conclusione, questa, evidentemente non giustificabile né a livello normativo né, tantomeno, a livello di principi costituzionali.

  1. Conclusioni

I rilievi sinora svolti consentono di sostenere che il problema giuridico della violazione del canone nemo tenetur se detegere nasce sul terreno pre-giuridico del rapporto tra individuo ed autorità, ed approda ad una duplice rilevanza empirica: da un lato, la diffusione generalizzata di espedienti elusivi del dato normativo; dall’altro lato, la inadeguatezza di soluzioni legislative incentrate su una prospettiva di intervento novellistico dei singoli istituti già posti a presidio della libertà di autodeterminazione[41].

Ogni aspirazione orientata a restituire consapevolezza e volontarietà alle scelte autodifensive dell’imputato deve operare sia sul versante culturale, sia sul versante della politica legislativa e della interpretazione in senso stretto. Sulle tre linee direttrici indicate, influenze positive si effondono da una nuova sensibilità manifestata, negli ultimi anni, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte costituzionale.

Per quanto concerne la Corte di giustizia, merita assoluto rilievo la decisione con cui, su rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale[42], i giudici lussemburghesi si sono pronunciati sulla compatibilità delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate nei confronti di chi ometta di collaborare con le autorità amministrative indipendenti nel corso di un procedimento per l’accertamento di illeciti in materia di abuso di mercato.

 Deviando rispetto a precedenti posizioni[43], la Corte ha sostenuto, in primo luogo, che, nell’ambito di un procedimento amministrativo, lo ius tacendi non debba essere limitato alla confessione di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, ma si estenda fino a comprendere «le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona»[44].

In secondo luogo, l’organo di giustizia europea ha stabilito che il diritto al silenzio opera sia nelle procedure amministrative che possano sfociare in sanzioni aventi carattere penale, sia nei procedimenti destinati ad intersecarsi con quello penale, a causa di una possibile trasmigrazione degli elementi di prova ottenuti nell’ambito della prima procedura. Com’è stato opportunamente evidenziato[45], quest’ultimo principio è destinato a riversare i propri effetti su una necessaria rilettura dell’art. 220 disp. att. c.p.p., il quale, nel disciplinare l’assicurazione delle fonti di prova nel corso di attività “ispettiva e di vigilanza”, condiziona l’osservanza delle garanzie del processo penale alla emersione «di indizi di reato».  Una condizione la cui nota vaghezza rischia facili elusioni del diritto al silenzio.

In ambito interno, un ulteriore fronte di tutela del diritto al silenzio è stato aperto dalla recente sentenza con cui la Corte costituzionale ha esteso l’ambito di operatività dello ius tacendi anche alle domande sulle qualità personali dell’imputato[46]. In questa occasione, i giudici della Consulta hanno inteso ribadire che il diritto al silenzio opera ogni volta in cui l’autorità procedente «ponga alla persona sospettata o imputata […] domande che, pur non attenendo direttamente al fatto di reato, possano essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e siano comunque suscettibili di avere un impatto sulla condanna o sulla sanzione che le potrebbe essere inflitta»[47]. Un importante tassello nel lungo processo evolutivo di tutela della libertà di autodeterminazione.

Alla resa dei conti se, come sopra rilevato, la strada per garantire un’effettiva volontarietà dei contributi probatori offerti dall’imputato è lunga ed è in salita, il risveglio di una nuova sensibilità da parte della Corte costituzionale verso il canone del nemo tenetur se detegere ed il proficuo dialogo tra le Corti sembra avere finalmente tracciato il sentiero.

* Professore ordinario di diritto processuale penale presso l’Università di Teramo

[1] Così, a proposito della confessione, F. Cordero, La confessione nel quadro decisorio, in L. De Cataldo Neuburger (a cura di), La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamenti sul metodo (Atti del Convegno), Padova, 1988, p. 53.

[2] Così, B. Romano, Il dovere nel diritto. Giustizia, uguaglianza, interpretazione, Torino, 2014, p. 195.

[3] Cfr. A.A. Sammarco, Metodo probatorio e modelli di ragionamento nel processo penale, Milano, 2001.

[4] V. E. Amodio, Diritto al silenzio o dovere di collaborazione?, in Riv. dir. proc., 1974, p. 412; L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000; O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, in G. Ubertis-G.P. Voena (diretto da), Trattato di procedura penale, Milano, 2004, p. 42 ss.; V. Patané, Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006, p. 2 ss.

[5] Così, L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 4.

[6] Al riguardo, v. L. Lupária, La confessione dell’imputato nel sistema processuale penale, Milano, 2006, pp. 13 ss.

[7] Ex multis Cass. Sez. II, 3 febbraio 2023, n. 4838, non mass.; Id., Sez. II, 7 ottobre 2022 n. 38084, non mass.; Id., Sez. II, 18 novembre 2019, n. 46664, non mass.; Id., Sez. III, 11 luglio 2017, n. 5184 in C.E.D. Cass., rv. 271419; Id. Sez. II, 21 aprile 2010 n. 22651, ivi, rv. 247426.

[8] Si tratta di una giurisprudenza ormai consolidata a partire da CEDU, 25 febbraio 1993, Funke c. Francia, § 44 in www. echr.coe.int. Sul tema, v. F. Zacché, Gli effetti della giurisprudenza europea in tema di privilegio contro le autoincriminazioni e diritto al silenzio, in A. Balsamo, R.E. Kostoris (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Torino, 2008, p. 179 ss.

[9] Sul tema, di recente, P. Raucci, La valenza autonoma della formula “giusto processo” in Costituzione, Milano, 2023.

[10] Sul punto L. Camaldo, Presunzione di innocenza e diritto di partecipare al giudizio: due garanzie fondamentali del giusto processo in un’unica Direttiva dell’Unione europea, in Dir. pen. cont., 23 marzo 2016.

[11] V. supra, nt. 8.

[12] Così, con riferimento alla novellata versione dell’art. 274 c.p.p. a seguito delle modifiche apportate dall’art. 3, l. 8 agosto 1995, n. 332, L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 19.

[13] Sul tema, v. A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, 2a ed., Torino, 2019.

[14] In questi termini, L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 400.

[15] Così, L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, cit., p. 7.

[16] Sul tema si rinvia a L. Lupária, La confessione dell’imputato nel sistema processuale penale, cit., p. 147; L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, passim.

[17] E. Amodio, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell’imputato sul fatto altrui, cit., p. 3596, nt. 27.

[18] Il che, peraltro, non pare di per sé indicativo del disinteresse della “macchina” giudiziaria nei confronti della confessione. Sul tema del bisogno di confessione nel nostro sistema, cfr. G. Garofalo, Da Lovanio ad Avetrana: “appetito di confessione” e intolleranza alla ritrattazione, in L. Lupária-L. Marafioti (a cura di), Confessione, liturgie della verità e macchine sanzionatorie. Scritti raccolti in occasione del Seminario di studio sulle ‘Lezioni di Lovanio’ di Michel Foucault, Torino, 2015, p. 115 ss.

[19] Cfr. L. Lupária, La confessione dell’imputato nel sistema processuale penale, cit.

[20] Per una ricostruzione “storica” della confessione, v. P. Marchetti, Testis contra se. L’imputato come fonte di prova nel processo penale dell’età moderna, Milano, 1994.

[21] Cfr. T. Padovani, Quaestio in caput sociorum. Alle origini dell’obbligo del reo di collaborare alle indagini, in L. Stortoni-D. Castronuovo (a cura di), Nulla è cambiato? Riflessioni sulla tortura, Bologna, 2019, p. 67 ss.

[22] Al riguardo, volendo, v. R. Del Coco, Registrazioni audio-video effettuate da un privato su impulso dell’investigatore, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, cit., p. 3 ss.

[23] Non sono mancate pronunce tendenti ad esigere un provvedimento di autorizzazione del giudice o del pubblico ministero: Cass., Sez. IV, 11 luglio 2017, n. 48084, in C.E.D. Cass., rv. 271059; Id., Sez. II, 20 marzo 2015, n. 19158, ivi, rv. 263526; Id., Sez. II, 29 gennaio 2014, n. 7035, ivi, rv. 258551.

[24] Cass., Sez. II, 6 luglio 2022, n. 40148, in C.E.D. Cass., rv. 283977.

[25] In generale, sul tema, G. Paolozzi, Vademecum per gli enti sotto processo. Addebiti “amministrativi” da reato (d.lgs. n.231 del 2001), Torino, 2005.

[26] Al riguardo, A. Bernasconi, I profili della fase investigativa e dell’udienza preliminare, in Aa. Vv.  Responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Padova, 2002, p. 305; N. Di Paco, Il contributo dichiarativo da parte dell’ente: l’articolo 44 e il diritto al silenzio, in Resp. amm. soc. ed enti, 2020, pp. 217 ss.

[27] Sul punto v. P. Di Geronimo, Aspetti processuali del d. lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti per fatti costituenti reato: prime riflessioni, in Cass. pen., 2002, p. 1564 secondo cui «l’interpretazione secondo cui l’art. 35 riguarda l’ente in quanto tale e non il suo legale rappresentante va correttamente intesa, altrimenti si correrebbe il rischio di creare una scissione tra l’ente ed il suo rappresentante non conforme ai principi civilistici valevoli in materia. In virtù del rapporto organico, l’ente agisce per il tramite di persone fisiche, che, proprio in quanto organi dell’ente, sono destinatarie della normativa processuale prevista per l’imputato».

[28] A riguardo M. Gaboardi, La rappresentanza processuale delle società, in Riv. soc., 2015, pp. 785 ss.

[29] Sul tema, in generale, T. Alesci, Il corpo umano come fonte di prova, Milano 2017; L. Scaffardi, Giustizia genetica e tutela della persona. Uno studio comparato sull’uso (e abuso) delle Banche dati del DNA a fini giudiziari, Padova 2017; P. Felicioni, Accertamenti sulla persona e processo penale. Il prelievo di materiale biologico, Milano, 2007.

[30] Corte cost., 27 marzo 1962, n. 30.

[31] Corte cost., 27 giugno 1996, n. 238. Per un commento, M. Cingolani, Il prelievo ematico per l’accertamento della idoneità alla guida dopo le sentenze della Corte costituzionale 194 e 238 del 1996, in Riv. it. med. leg, 1997, pp. 867 ss.; V. Manzari, Come ovviare al vuoto sui prelievi coattivi creato dalla sentenza n. 238 del 1996, in Dir. pen. proc. 1997, pp. 362 ss.

[32] Per un commento, v. L. Marafioti-L. Lupária (a cura di), Banca dati del DNA e accertamento penale, Giuffrè, Milano, 2010.

[33] Sull’argomento si veda G. Vassalli, Il diritto alla libertà morale (contributo alla teoria dei diritti della personalità), in Aa.Vv., Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, II, Torino, 1957, pp. 1629 ss.; Id., La libertà personale nel sistema delle libertà costituzionali, in Aa.Vv., Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei, Padova, 1956, 403.

[34] Si veda A. Camon, La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali, in Proc. pen. giust., 2015, p. 165 ss.

[35] CEDU, V. S. e Marper c. Regno Unito, 4 dicembre 2008, in www. echr.coe.int. Successivamente, CEDU, Aycaguer c. Francia 22 giugno 2017, ivi; CEDU, Sez. I, Trajkovski e Chipovski c. Macedonia del Nord, 13 febbraio 2020, ivi; CEDU, Sez. I, Gaughran c. Regno Unito, 13 febbraio 2020, ivi.

[36] CEDU, Grande Camera, Jalloh c. Germania, 11 luglio 2006, in www.echr.coe.int.

[37] Cfr. F. Zacché, Gli effetti della giurisprudenza europea in tema di privilegio contro le autoincriminazioni e diritto al silenzio, cit., p. 192.

[38] Cfr. M. Pittiruti, Digital evidence e procedimento penale, Torino, 2017.

[39] Sul tema, v. G. Cotti, Accesso ai dispositivi elettronici e principio nemo tenetur se detegere: passwords biomediche ed alfanumeriche, ordini di decrittazione e di produzione, in Arch. pen., n. 2, 2025; A. Mangiaracina, Nuove fisionomie del diritto al silenzio. Un’occasione per riflettere sui vuoti domestici… e non solo, in Proc. pen. giust., 2021, n. 4, p. 729 ss.

[40] Cass., Sez. II, 26 febbraio 2021 (ud. 24 novembre 2020), n. 7568.

[41] Per considerazioni sul terreno, più ampio, dell’abuso del processo, v. E.M. Catalano, L’abuso del processo, Milano, 2004.

[42] V. Corte cost., ord. 10 maggio 2019, n. 117.

[43] Corte Giust., 18 ottobre 1989, Orkem, C-374/87, § 27; Corte Giust., 29 giugno 2006, SGL Carbon AG, C-301/04, § 40.

[44] Corte Giust., Grande Camera, 2 febbraio 2021, DB c. Consob, C-481/19, § 40. Su tale pronuncia, v. M. Aranci, Diritto al silenzio e illecito amministrativo punitivo: la risposta della Corte di Giustizia, in Sistema penale, n. 2, 2021, p. 73 ss.; M. Baldari, La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob, in Giust. insieme (web), 3 marzo 2021.

[45] Cfr. A. Mangiaracina, Nuove fisionomie del diritto al silenzio, cit., p. 733.

[46] Corte cost., sent. 6 giugno 2023, n. 111

[47] Corte cost., sent. 6 giugno 2023, n. 111. Per un commento, v. C. Morselli, Corte costituzionale, con sentenza ampliativa (revocabile) 5.6.23 n. 111 su diritto al silenzio dell’interrogato, omette il c.d. giudicato costituzionale e sovrappone “avvertimento” ad “ammonimento”, art. 21 att./1.12.23, in federalismi.it, 13 dicembre 2023.