IL DECRETO CAIVANO: UN INTERVENTO “BARBARO” SULLA DISCIPLINA DELLA GIUSTIZIA PENALE MINORILE – DI ALESSANDRO GAMBERINI
GAMBERINI – IL DECRETO CAIVANO UN INTERVENTO BARBARO SULLA DISCIPLINA DELLA GIUSTIZIA PENALE MINORILE.PDF
IL DECRETO CAIVANO: UN INTERVENTO “BARBARO” SULLA DISCIPLINA DELLA GIUSTIZIA PENALE MINORILE
THE “CAIVANO DECREE”: A “BARBARIC” INTERVENTION IN JUVENILE CRIMINAL JUSTICE
di Alessandro Gamberini*
Tribunale per i minorenni di Bari, Ordinanza del 25 marzo 2024, n. 104 pubblicata nella GU n. 24 del 12 giugno 2024
Processo minorile – Sospensione del processo con messa alla prova – Questione di legittimità costituzionale
(Art. 28, comma 5-bis, d.p.r. n. 448/1988 – Art. 31, comma 2, Cost.)
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 5-bis, d.p.r. n. 448/1988, nella parte in cui prevede che le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai delitti previsti dall’art. 609-bis del codice penale limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609-ter del codice penale, in relazione all’art. 31, comma 2, Cost.
____________
Un grave episodio di cronaca che ha coinvolto alcuni ragazzini in un crimine esecrabile è stato il pretesto per alcune modifiche, con lo strumento esecrabile del decreto-legge, in materia di giustizia per i minorenni, che hanno stravolto il significato dell’intervento della giurisdizione, da sempre ispirato al superiore interesse del minore, in coerenza a una costante giurisprudenza della Corte costituzionale.
In particolare, la sottoposizione dei minori a misure di prevenzione, nate per i soli maggiori di età, l’aumento generalizzato delle pene per la loro violazione e la riduzione drastica dell’applicazione della messa alla prova, istituto cardine della proiezione rieducativa dei minori, danno la misura della gravità dell’intervento che, in violazione dell’art.31 della Costituzione e di tutte le Convenzioni internazionali, conferisce alla pena detentiva un ruolo privilegiato nella reazione ai fenomeni devianti.
A serious incident involving some youths in an execrable crime was used as a pretext for certain changes, through the unusual instrument of a decree-law, in juvenile justice, which have distorted the jurisdiction’s role, traditionally guided by the best interest of the minor, in line with the Constitutional Court’s consistent jurisprudence. Specifically, the imposition of preventive measures on minors, originally intended only for adults, the general increase in penalties for violations, and the drastic reduction of probation—a key institution in the rehabilitative projection of minors—highlight the severity of the intervention. This violates Article 31 of the Constitution and all international conventions, giving a privileged role to imprisonment in responding to deviant behavior.
SOMMARIO: 1. La cronaca come pretesto per un uso eccentrico del decreto-legge in materia penale. – 2. L’aumento delle pene copre l’impotenza a regolare complessità dei fenomeni e produce un intervento barbaro che scardina un modello di giustizia minorile funzionante. – 3. Lo stravolgimento del codice della giustizia minorile del 1988. L’esclusione della messa alla prova, sulla base del titolo di reato addebitato alla minore, norma manifestamente incostituzionale. – 4. Il “nuovo percorso di rieducazione del minore”, strumento sbrigativo e senza garanzie difensive, creato allo scopo di deflazionare le indagini per i fatti di minore rilevanza. – 5. Analfabetismo giuridico e Convenzioni internazionali. – 6. Questioni di legittimità costituzionale e principio di irretroattività
- La cronaca come pretesto per un uso eccentrico del decreto-legge in materia penale.
Un episodio di cronaca, che vedeva protagonista un gruppo di adolescenti autori di violenze sessuali continuate ai danni di due bambine di dieci e dodici anni, avvenuto nel Comune di Caivano alla periferia nord di Napoli, è stata l’occasione per l’ennesimo intervento in materia penale secondo uno schema, peraltro già collaudato in passato.
Il fatto avrebbe evidenziato un’emergenza, imponendo un intervento eccezionale e urgente con lo strumento del decreto-legge, la cui conversione rapida è stata affidata al voto di fiducia per tacitare comunque ogni dibattito parlamentare (Il d.l. 15 settembre 2023 n. 123 convertito nella L. 13 novembre 2023 n.159).
Un modo di legiferare, che stravolge il significato dell’istituto, violando sostanzialmente il canone della riserva di legge, lasciando all’esecutivo il monopolio sostanzialmente incontrollato della produzione normativa.
Nel caso tanto più visibile perché l’episodio rivelava non un’improvvisa emergenza, ma l’esistenza di un degrado ben noto, reso possibile dall’assenza dello Stato come strumento di controllo e prevenzione delle variegate forme criminali che dettavano le regole della convivenza in quell’area.
Fenomeno complesso che avrebbe imposto una serie di interventi sociali, amministrativi e di polizia, che ben potevano prescindere dalla modifica del sistema penale che non difetta di strumenti efficaci, sempre che siano garantite le risorse agli operatori.
Di questi interventi il decreto si occupa in modo molto limitato, accentrandoli peraltro in modo circoscritto sul Comune di Caivano e ben avrebbero dovuto interessare un’area molto più estesa ad altri Comuni di quella zona, nella quale sono presenti fenomeni altrettanto gravi (lo nota Antonio Cavaliere, Il cd decreto Caivano: tra securitarismo e simbolicità, in www.penaledp.it).
L’intervento penale dà corpo alla vocazione carcerocentrica dell’esecutivo, di cui aveva dato prova fin dai suoi primi passi (pensiamo al d.l.162/2022, cd decreto Rave): l’efficacia simbolica dell’intervento vale a legittimare l’azione di governo indipendentemente dalla sua efficacia.
Precluso l’aumento delle pene edittali nella materia delle violenze sessuali, già caratterizzata da sanzioni molto severe, il decreto propone una drastica modifica del sistema che fino ad oggi ha caratterizzato la giustizia penale minorile e più in generale l’approccio alle forme di devianza che interessano i minori.
- L’aumento delle pene copre l’impotenza a regolare complessità dei fenomeni e produce un intervento barbaro che scardina un modello di giustizia minorile funzionante.
L’espansione dell’azione punitiva avviene a scapito di un modello che ha dato prova di funzionare, solo che fossero stati presi in considerazione i dati che dovrebbero essere all’attenzione del legislatore. I minori denunciati all’autorità giudiziaria nell’ultimo decennio sono sostanzialmente stabili, mentre solo 426 dei 14.000 giovani in carico alla giustizia minorile sono i detenuti negli istituti penali per i minorenni, mentre 2800 sono quelli sottoposti alla misura della messa in prova, che presenta una percentuale molto elevata di successi, senza fenomeni di recidiva (i dati sono riportati da S. Marietti, Un commento puntuale sul Decreto Caivano, in www.ragazzidentro.it).
Siamo così di fronte a un intervento “barbaro” (nell’etimo greco del termine) frutto di un approccio balbettante che ignora la complessità delle questioni sottese ai fenomeni, privilegia scorciatoie demagogiche, disattende l’orientamento consolidato in numerose sentenze della Corte costituzionale e delle Convenzioni internazionali che da molti anni hanno orientato alla rieducazione e al superiore interesse del minore il ruolo del Tribunale per i (e non dei) minorenni.
Mi limiterò a richiamare sinteticamente il significato delle numerose modifiche normative, senza avere la pretesa di analizzarle compiutamente.
Si allargano ai minorenni le misure di prevenzione di polizia destinate agli adulti (il cd. Daspo urbano del Decreto Minniti n. 13/ 2017) e le misure di prevenzione antimafia del d.lgs 159 del 2011, con forti limitazioni alla libertà di circolazione sul territorio e con un inasprimento delle pene per la loro inosservanza e si prevede, anche per il minore non imputabile tra i dodici e i quattordici anni, l’ammonimento del questore (art. 8, co. 1-2 d.l. 11/ 2009), con le conseguenze di stigmatizzazione e difficoltà di integrazione che possono derivarsi, visto che in parallelo non è stato previsto alcun intervento in chiave di prevenzione primaria (assistenza alla famiglia, come nota Cavaliere, cit. pag. 6).
Un modello di gestione repressiva nella quale lo strumento amministrativo, privo di ogni garanzia e arbitrario nei suoi contorni applicativi, fa da anticamera a quello penale, avendo come destinatarie fasce di popolazione, di cui aggrava la marginalità.
Si tratta di misure afflittive tutte irrogate senza alcuna garanzia, affidate a una discrezionalità dell’autorità di polizia, senza alcuno strumento di controllo nelle quali l’intervento della giurisdizione, svincolato dall’accertamento di un fatto non è in grado di farle uscire dalla penombra del principio di legalità cui sono confinate.
Rispetto ai minori lo strumento appare di difficile comprensione anche per il destinatario: pensiamo alle conseguenze dell’allontanamento burocratico di un minore dai luoghi abituali di frequentazione e/o all’inibizione dell’uso di strumenti informatici nei quali si iscrivono i suoi rapporti sociali.
Come si comprende siamo di fronte a una serie di misure nelle quali l’interesse del minore, principio cardine della materia, viene cancellato in nome di pure esigenze di ordine pubblico (e, al contrario, potrà produrre effetti criminogenetici).
È, peraltro, sul versante più direttamente penalistico che il decreto espande i suoi effetti perniciosi.
L’art. 3 del decreto convertito pone all’attenzione le modifiche in aumento delle pene detentive previste dal decreto Minniti per la violazione delle misure di prevenzione, modificando in aumento tutte le cornici edittali.
Lo stesso schema si riproduce anche per il codice antimafia nel quale l’art. 76 comma 3 passa dalla previsione di una pena “da uno a sei mesi” alla pena della reclusione “da sei a diciotto mesi”.
Aumento delle pene alle quali si accompagna anche un aumento generalizzato delle sanzioni pecuniarie.
All’art. 4 si prevede ancora un aumento delle pene previste dalla legge 18 aprile 1975 in materia di armi e l’introduzione all’art. 421 bis c.p. di una nuova fattispecie di “Pubblica intimidazione con uso di armi”.
Viene disposto un aumento delle pene edittali anche per l’ipotesi lieve prevista dall’art. 73 n. 5 del testo unico sugli stupefacenti: la pena passa da quattro a cinque anni nel massimo, con le conseguenze che derivano in materia di arresto obbligatorio in flagranza, con un inevitabile aumento di presenza carceraria per violazioni che già oggi superano ampiamente la media europea riferita a questa materia.
Anche la pena minima sale da sei a diciotto mesi “quando la condotta assuma i caratteri della non occasionalità”, in stridore cacofonico con la norma del Codice penale che, all’art.131 bis, fonda sull’esistenza della non abitualità, se mai, una causa di non punibilità.
- Lo stravolgimento del codice penale minorile del 1988. L’esclusione della messa alla prova manifestamente incostituzionale, sulla base del titolo di reato addebitato al minore
Dove il decreto mostra il suo volto deforme è l’intervento, agli artt. 6, 7 e 8, sul Codice penale minorile disciplinato dal d.p.r. 448 del 1988, stravolgendone istituti e cadenze.
Si privilegia anche per i minorenni la pena detentiva abbassando le soglie del suo utilizzo anche in sede cautelare, modificando gli art. 18 bis, 19 e 22 e 23 di quel codice, prevedendola anche per i delitti di violenza e resistenza a pubblico ufficiale e per tutti delitti di cui all’art. 73 legge sugli stupefacenti.
Si interviene direttamente su un istituto cardine dell’intervento sanzionatorio rispetto ai reati commessi dai minorenni, la sospensione del processo con messa alla prova disciplinata dall’art. 28 del d.p.r. del 1988, inibendo la possibilità di fruirne sulla base del titolo di reato, escludendola così per “i delitti previsti dall’art. 575 c.p., limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art.576, dagli artt.609 bis e octies c.p., limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 609 ter e dall’art. 628, terzo comma, numeri 2) e 3) e 3 quinquies ) del codice penale”. Norma, quest’ultima introdotta, su proposta governativa, in sede di conversione.
Al contempo si prevede, solo per reati che hanno una pena non superiore a 5 anni nel massimo e sempre che “i fatti non rivestano particolare gravità” una definizione anticipata del procedimento in fase di indagini, decisa dal Gip su proposta del PM, con l’accettazione da parte del minore dello svolgimento di lavori socialmente utili.
L’istituto della messa alla prova, affidato al Giudice dell’udienza preliminare aveva dato, come già rilevato, un eccellente prova di sé grazie a una scelta fondata su una valutazione completa vuoi del fatto addebitato e della responsabilità, vuoi della personalità e della maturità del minore, chiamato a risponderne.
La Corte costituzionale era intervenuta in più occasioni rilevando come la disciplina, in particolare quando la gravità del reato avrebbe imposto una lunga presenza carceraria, consentiva di evitare gli inevitabili guasti che si sarebbero prodotti sul percorso rieducativo del minore. Una disciplina coerente alle cadenze della procedura penale minorile che prevede, all’art. 9, che l’autorità giudiziaria debba acquisire “elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità…. disponendo le adeguate misure penali…”.
La sentenza 263/2019 ha ritenuto incostituzionali, in fase esecutiva, le preclusioni dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, se riferite ai minori d’età, perché le presunzioni di pericolosità che si basano esclusivamente sul titolo di reato irrigidiscono la regola di giudizio in contrasto coi principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, sottesi all’intera disciplina del nuovo ordinamento penitenziario minorile e richiama i molti precedenti sui quali il Giudice delle leggi si era pronunciato.
Il contrasto con i principi costituzionali è stato ravvisato in relazione alla preclusione della sospensione per messa alla prova quando l’imputato aveva chiesto il giudizio abbreviato (Corte Cost. n. 125/1995); in relazione al divieto di disporre misure alternative quando la pena detentiva derivi da conversione di pena sostitutiva (Corte Cost. n. 109/1997); rispetto all’esclusione dai permessi premio nel biennio successivo alla commissione di un delitto doloso (Corte Cost. n. 443/1997); sulle condizioni soggettive per fruire delle sanzioni sostitutive della pena detentiva (Corte Cost. n. 16/1998), rispetto alla previsione della necessaria espiazione di una determinata quota di pena ai fine della concedibilità dei permessi premio (Corte Cost. n. 450/1998); alla preclusione triennale dei benefici per il condannato nei cui confronti sia stata revocata l’applicazione della misura alternativa (Corte Cost. n. 436/1999); al divieto di sospensione delle pene detentive brevi, di cui all’art. 656, comma 9 lettera a) c.p.p. (Corte Cost. n. 90/2017).
Sentenze che hanno un unico filo conduttore, volto a richiamare la specialità dello statuto penale dei minori, che non ammette automatismi di sorta, in coerenza all’art. 31 della Carta e impone prognosi individualizzate e flessibilità del trattamento. Una norma che impedisce qualsiasi automatismo fondato su esigenze di pura retribuzione e di prevenzione generale e, in tal senso, la Corte ha escluso sempre la possibilità di prevedere nei confronti dei minori “un rigido automatismo fondato su una presunzione di pericolosità legata al titolo del reato commesso, che escluda la valutazione del caso concreto e le specifiche esigenze del minore”(Corte Cost. n. 90/2017).
Tanto più quando si voglia escludere, come avviene nel decreto che qui si commenta, solo sulla base del titolo di reato, la messa alla prova che “costituisce nell’ambito del processo a carico dei minorenni uno strumento particolarmente qualificante, rispondendo più di ogni altro alle indicate finalità della giustizia minorile” (Corte Cost. n. 125/1995).
La stessa ragione dell’esistenza di un giudice specializzato era stata ribadita come necessaria fin dalle prime sentenze del Giudice delle Leggi (la 25 del 1964, la 16 e la 17 del 1981), perché il compito primario dell’esercizio di questa giurisdizione è “il recupero del minore deviante” (così la 222 del 1983, che richiama i principi stabiliti dal Patto internazionale sui diritti civili e politici di New York del 19 dicembre 1966, ratificato dall’Italia il 25 ottobre 1977, a norma del quale occorre sempre tenere conto dell’età e dell’interesse a promuovere la rieducazione).
La fattispecie prevista all’art. 6 del decreto che, come rilevato, introduce all’art. 28 bis del codice minorile del 1988 un’esclusione espressa delle disposizioni sulla messa alla prova sulla base della gravità astratta dei titoli di reato ascritti al minore è dunque manifestamente incostituzionale.
A conferma del fatto che si tratta di un intervento estraneo alla nostra cultura giuridica e a qualsiasi rispetto istituzionale, ho citato le numerose e risalenti decisioni nelle quali l’orientamento della Corte costituzionale si era espresso, in contrapposizione radicale con la riforma dell’istituto che viene dettata dal decreto Caivano.
- Il “nuovo percorso di rieducazione del minore”, strumento sbrigativo e senza garanzie difensive creato allo scopo di deflazionare le indagini per i fatti di minore rilevanza
Il contrasto viene ulteriormente aggravato dalla previsione, che introduce all’art. 27 bis la norma, già richiamata, titolata “Percorso di rieducazione del minore”. Da un lato si anticipa alla fase delle indagini una proposta di definizione anticipata del procedimento sulla base del compimento di lavori di pubblica utilità sul modello della messa alla prova degli adulti e, dall’altro, la si confina ai delitti puniti con la pena fino a un massimo di cinque anni di reclusione “sempre che i fatti non rivestano particolare gravità”.
Anche in questo caso la riforma ignora e contrasta una recente sentenza della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 139/2020) che aveva ampiamente motivato la ragione per la quale sarebbe stata in contrasto con l’istituto della messa alla prova del minore la sua anticipazione alle indagini e dunque l’affidamento al Gip della decisione. La Corte aveva ribadito nell’occasione la profonda diversità funzionale esistente tra la messa alla prova dell’adulto “che conserva innegabili caratteri sanzionatori” e quella del minore con “finalità essenzialmente rieducativa” “svincolata da un rapporto di proporzionalità con il reato per il quale si procede” “tanto da essere consentita per tutti i reati anche quelli puniti con la pena dell’ergastolo” e affidata alla sola discrezionalità del Giudice.
La Corte aveva sottolineato la coerenza della scelta del legislatore di affidare la decisione sulla messa alla prova alla fase dell’udienza preliminare per la struttura collegiale dell’organo giudicante, che valorizza, nella sua composizione mista, la capacità di comprendere, alla luce di competenze scientifiche, “il particolare trattamento che consenta il recupero del minore”.
Questo non sembra lo scopo della misura proposta dalla riforma, vista la fase in cui è disposta e visto che l’unico elemento al quale viene ancorata è la cornice edittale del reato e la non particolare gravità del fatto.
Si può ulteriormente aggiungere che l’anticipazione alle indagini aggrava ulteriormente il rarefarsi delle garanzie per l’indagato che connota la giurisdizione specializzata per i minorenni nella quale l’inevitabile e necessaria attenzione al soggetto, alla sua personalità e alla sua maturità può entrare in tensione con l’accertamento della responsabilità (che dovrebbe mantenere ferma anche per questa giurisdizione la regola Bard). Crea solo uno strumento destinato a una sbrigativa deflazione degli affari penali, senza particolare riguardo né alla persona del minore né alle garanzie processuali che devono assisterlo.
- Analfabetismo giuridico e Convenzioni internazionali
La riforma contraddice anche la Direttiva 2016/800/UE sulle “Garanzie per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali”. Valga citare i “considerando” che precedono le disposizioni, indicate peraltro (c.67) come “norme minime”, impongono (c.7) “una giustizia a misura di minore”, dunque (c.35) “il diritto a una valutazione individuale diretta a identificare le sue specifiche esigenze in materia di protezione, istruzione, formazione e reinserimento sociale….dirette ad accertare l’entità della responsabilità penale e l’adeguatezza di una determinata pena o misura educativa nei suoi confronti” (c.36) “tenuto conto del suo ambiente di vita nonché delle sue vulnerabilità specifiche”. Ancora viene sottolineato l’impegno che gli ordinamenti nazionali devono avere per evitare ove possibile la custodia cautelare (c.45) “visto il rischio potenziale per il suo sviluppo fisico e mentale e sociale”, precisando che (c.46)“ le autorità competenti dovrebbe sempre considerare misure alternative alla detenzione e ricorrere ove possibile “ad una valutazione individuale che indaghi personalità e maturità e individui così le misure adeguate ed efficaci a suo beneficio sempre nel suo superiore interesse”, invocando (c.11)“misure alternative alla detenzione”.
Prima di questo intervento governativo, oggetto di questo mio breve commento, erano in gioco alcune proposte in materia di mediazione penale che potevano interessare anche la giustizia minorile, di cui dà conto Lorenzo Polito in un interessante articolo pubblicato su Archivio penale del 2022 (pag. 17 e s). Il saggio, tra l’altro, richiama l’incessante attività di sollecitazione sovranazionale a introdurre sistemi alternativi alla risoluzione dei conflitti per i minorenni inclusivi e non stigmatizzanti rispetto alle procedure giudiziarie. In questa direzione cita le varie Convenzioni, cogenti per l’Italia che le ha ratificate, tra le quali vale citare la Convenzione sui diritti del fanciullo approvata a New York il 20 novembre 1989, nonché la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori conclusa a Strasburgo il 25 gennaio 1996. Più recentemente “Le linee guida per una giustizia a misura di minore”, redatte dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa il 17 novembre 2010.
L’analfabetismo giuridico di chi ha redatto e approvato il testo del decreto Caivano, ignorando, come visto, una giurisprudenza costante e pluriennale della Corte costituzionale, non consentiva certo di pensare che potessero essere prese in considerazione le Convenzioni citate.
- Questioni di legittimità costituzionale e principio di irretroattività
In data 25 marzo 2024 il Gup del Tribunale di Bari ha emesso un’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale dell’art. 28 comma 5 bis del d.p.r. 448/1988 introdotto dal decreto Caivano per contrasto con l’art. 31, secondo comma, della Costituzione, argomentando anche sulla base di alcune sentenze della Corte precedentemente citate.
Mi limiterò dunque a esprimere il mio dissenso da quell’ordinanza sul punto avente ad oggetto la rilevanza della questione, visto che i fatti oggetto del procedimento a carico del minore sono stati commessi antecedentemente all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto, che ha introdotto la fattispecie oggetto della questione sollevata.
Sul punto la critica nasce dall’avere il Gup di Bari considerata la norma del decreto come una modifica esclusivamente processuale, disciplinata dal tempus regit actum.
Il richiamo del testo dell’ordinanza alla disciplina della lex mitior non coglie peraltro nel segno, perché si tratta invece, più radicalmente, della violazione del divieto di retroattività della norma sfavorevole, cardine del principio di legalità presidiato dall’art. 25, 2 Cost.
La tesi, riprodotta anche in un commento adesivo (L. Camaldo, Dubbi di legittimità costituzionale del decreto Caivano, in Sistema penale, fasc.5 del 2024), è fondato in particolare sulla considerazione, avvallata dalla Corte costituzionale (sentenza 68 del 2019) citata in nota, sulla non deducibilità del periodo trascorso in una messa alla prova fallita dalla misura della pena successivamente irrogata.
Una scelta motivata in coerenza al carattere prevalentemente rieducativo e non afflittivo dell’istituto, come si legge nella decisione citata.
Argomento che non tocca, anzi conforta l’irretroattività della disposizione perché illumina l’alternativa alla pena che la messa alla prova comporta in modo evidentemente favorevole all’imputato anche nel suo svolgimento e, tanto più, nel suo esito potenzialmente positivo, con effetti estintivi del reato.
La messa alla prova nel codice dei minori ha certamente un modello processuale al quale riferirsi, che regola i modi e le fasi nelle quali è possibili chiedere di esserne o comunque venirne ammessi anche d’ufficio, certamente regolato dal principio richiamato, che rimanda al tempo della sua applicazione.
La normativa presa in esame in realtà non tocca quel modello processuale, ma inibisce, in dipendenza del titolo di reato, di accedere all’istituto nei suoi effetti sostanziali.
L’effetto che ne deriva è di prospettare un trattamento potenzialmente più sfavorevole all’imputato, precludendogli un percorso alternativo alla pena detentiva, con effetti estintivi del reato.
Vale richiamare sul punto i molti commenti che si sono occupati anche in dottrina del tema, rilevando che norma processuale e norma sostanziale sono due facce della stessa medaglia e dunque la persona dovrebbe essere comunque tenuta al riparo da interventi post factum che realizzino un trattamento più severo, indipendentemente dalla qualificazione formale delle norme in gioco. Si tratta di “aspetti simbiotici” (come rileva G. Trinti, Principio tempus regit actum nel processo penale e incidenza sulle garanzie dell’imputato, in Dir.Pen Cont., 9/2017, 15 e ss), visto il carattere spesso inscindibile del modo con il quale la fattispecie viene accertata e i criteri con i quali viene irrogata la sanzione.
Ciò che conta, come aveva rilevato M. Gallo (Appunti di diritto penale, vol.1 pag.18) è la “norma reale” e “il prodursi di effetti sanzionatori”. Principio ribadito da G. Toscano (Successioni di leggi penali e materia cautelare, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2014, pag 2010) che aveva ribadito che “i precetti che incidono su beni costituzionalmente tutelati, anche se contenuti nel codice di rito, sono coperti dall’art. 25, 2 della Costituzione”. Si può aggiungere che la violazione del principio di legalità conseguente all’applicazione retroattiva delle preclusioni alla messa alla prova è evidente anche rispetto all’art. 7 della CEDU, nella sua accezione di prevedibilità del modello sanzionatorio all’atto della commissione del fatto.
L’eccentricità della nuova disciplina nella materia e dunque la violazione del principio di affidamento che conseguirebbe a un’applicazione retroattiva ci consente di richiamare ancora la Corte costituzionale (04/01/99 n. 416), perché tale principio “non può essere leso da disposizioni retroattive le quali trasmodino in un regolamento irrazionale di situazioni sostanziali fondate su leggi precedenti”.
Nel caso mi sembra dunque non possano esservi dubbi sugli effetti sostanziali del mutamento che sottrae all’imputato una causa estintiva del reato e sulla radicale preclusione a una applicazione retroattiva della nuova fattispecie.
*Avvocato del Foro di Bologna