IL “SISTEMA” CORRUTTIVO DELLA C.D. “MAFIA CAPITALE” NON COSTITUISCE UN’ASSOCIAZIONE DI STAMPO MAFIOSO DI NUOVO CONIO (NOTA ALLA SENTENZA N. 18125/2020) – DI ALÌ ABUKAR HAYO
ABUKAK HAYO – NOTA A SENTENZA MAFIA CAPITALE.PDF
Sentenza Cassazione Mafia Capitale.pdf
Il “sistema” corruttivo della c.d. “mafia capitale” non costituisce un’associazione di stampo mafioso di nuovo conio.
(nota alla sentenza n. 18125/2020 emessa dalla sesta Sezione della Corte di Cassazione)
The corruption “system” set up by so-called “mafia capitale” is no new form of mafia-type criminal association
(note to ruling no. 18125/20 by the sixth Division of the Corte di Cassazione)
di Alì Abukar Hayo*
La Corte di Cassazione ha ritenuto insussistente il vincolo associativo mafioso nella nota vicenda “Mafia Capitale”, facendo leva su due principi di diritto: a) la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. postula che la forza intimidatrice appartenga al gruppo e non alla persona; b) nei rapporti corruttivi non viene esercitata forza intimidatrice. L’Autore commenta favorevolmente la pronuncia giudiziale, conforme all’indirizzo giurisprudenziale prevalente – che richiede un avvalimento attuale ed effettivo della forza intimidatrice del vincolo associativo e della derivante condizione di assoggettamento omertoso – chiosando infine che in subjecta materia il fatto costituente reato si compone di elementi valutativi, come correttamente evidenziato in sentenza.
Italy’s Supreme Court, the Corte di Cassazione, has ruled that the Rome-based criminal organisation dubbed “Mafia Capitale”, must not be considered a mafia-type criminal association on the basis of two legal principles: a) article 416 bis of the criminal code posits that the force of intimidation belongs to the group and not the individual; b) no force of intimidation is applied in the case of corruption. The Author favourably comments on the ruling, which is consistent with established case law – requiring the actual and effective reliance of the force of intimidation, and of the ensuing circumstance of colluding subjection – finally commenting that, in subjecta materia, the crime is made up of elements of evaluation, as correctly highlighted by the ruling.
1.I profili generali della questione 2. Gli orientamenti giurisprudenziali sull’attualità del requisito, di cui al terzo comma dell’art. 416 bis c.p., per le mafie non tradizionali 3. I punti essenziali della pronuncia della Suprema Corte 3.1. Il carattere impersonale dell’intimidazione mafiosa 3.2. L’incompatibilità con le relazioni economico-giuridiche instaurate inter pares 3.3. I possibili effetti applicativi dei criteri di accertamento probatorio enunciati dalla Corte 4. La pronuncia incidentale sulla connessione fatto/valutazione.
1. La sentenza in commento[1] si pronuncia sul punto più controverso della complessa tipicità del reato di cui all’art. 416 bis c.p. L’associazione di stampo mafioso si connota ai sensi del 3° comma per il fatto che i partecipi si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle generalizzate condizioni di omertoso assoggettamento che ne derivano. Si è posta la questione se fosse necessario un “avvalimento” attuale o anche meramente potenziale; la quale, in termini dogmatici, si riverbera sulla natura “pura” o “mista” del reato associativo de quo. Il paradigma puro postula la sola attitudine della struttura organizzativa a realizzare il programma criminoso “di avvalersi della forza intimidatrice …”, a prescindere dalla realizzazione anche parziale del programma; il paradigma misto suppone invece che la struttura associativa, utilizzata per i reati fine, non necessariamente realizzati, operi in un ambito territoriale e relazionale – per dir così – “pre-intimidito”. Infatti, in quest’ultima logica, ci si può avvalere della forza intimidatrice del vincolo associativo, solo nel caso in cui la struttura associativa sia percepita all’esterno come seriamente pericolosa e organizzata[2]; sicché l’associazione incute timore, in relazione a un “pregresso”, necessario a costruirne e consolidarne la fama[3].
Nel tentativo di un’estrema sintesi semplificatrice, si può dire che le due opzioni interpretative differiscano in ciò: l’intimidazione e la conseguente omertà sono intesi come parte dei programmi associativi, in un caso; come “capitale” sociale, utilizzato per ciò stesso che la struttura associativa opera in qualunque modo, nell’altro caso; ora attengono ai fini, ora agli strumenti associativi. Si rischia comunque di pervenire a risultati applicativi incongrui, o per eccesso o per difetto di punibilità: la prima opzione interpretativa, basata sul paradigma associativo puro, sembra tradire, in qualche modo, il significato letterale della norma, che tipizza il reato in funzione della condotta attuale di “avvalersi”, non già dell’intendimento di “avvalersi” in futuro; la seconda opzione, basata sul paradigma misto, sembra ostacolare, in qualche modo, l’applicazione della norma ai nuovi fenomeni di criminalità organizzata, non storicamente radicata nel territorio, giacché le condizioni generalizzate di succubanza ravvisabili nell’omertà diffusa implicano la necessità logica del “pregresso”.
Ciò premesso, risulta chiaro che le più spinose questioni ermeneutiche riguardano appunto l’applicabilità della norma al di fuori dei contesti territoriali e relazionali della mafia storica e tradizionale, ben conosciuta alla saggistica sociologica e variamente denominata nel meridione d’Italia (mafia, ‘ndrangheta, camorra). La questione si è posta per le mafie autoctone delocalizzate, per le mafie straniere e quelle di nuova costituzione.
2. Nel caso di cellule delle mafie tradizionali operanti in territori diversi da quelli di origine, l’orientamento giurisprudenziale, prevalente nella prima ora, ha ritenuto che il legame della struttura delocalizzata con la “casa-madre” non fosse di per sé sufficiente a connotare l’utilizzo del metodo mafioso, ma fosse necessario verificare in concreto l’effettiva forza intimidatrice del sodalizio nel contesto territoriale di riferimento[4]. E l’aver conseguito in concreto siffatta capacità d’intimidazione sul territorio richiedeva necessariamente l’esteriorizzazione del metodo, con atti di uno o più dei componenti della struttura associativa[5].
A tale orientamento se n’è contrapposto un secondo, caratterizzato dall’interpretazione estensiva del requisito di cui al 3° comma dell’art. 416 bis c.p., ritenuto sussistente per il fatto stesso del collegamento con la casa madre[6]. A questa stregua, la cellula avrebbe goduto di per sé della forza intimidatrice mutuata dalla casa-madre, in guisa di capacità potenziale di determinare condizioni diffuse di assoggettamento e omertà. In altri termini, si è ritenuto sufficiente l’attitudine intimidatrice, piuttosto che l’effettiva intimidazione. In tal modo, si è configurata l’associazione di stampo mafioso come reato dalla “doppia natura”, di pericolo e di danno[7]: il pericolo per l’ordine pubblico non esaurisce l’interezza dell’offesa, giacché si connette al danno arrecato alla libertà morale dei terzi, in conseguenza della “diffusa propensione al timore nei confronti del sodalizio”.
È pensabile che questo secondo indirizzo della giurisprudenza abbia tratto alimento dalle difficoltà di provare in giudizio le concrete manifestazioni di forza intimidatrice dei componenti delle cellule delocalizzate e le conseguenti condizioni di assoggettamento e omertà nelle comunità sociali di riferimento. Non è mancata, infatti, l’esplicita ammissione che la verifica dell’effettivo esercizio della forza intimidatrice comporterebbe “l’impossibilità di configurare l’esistenza di associazioni mafiose in regioni refrattarie, per una serie di ragioni storiche e culturali, a subire i metodi mafiosi propri, nella specie, della ‘ndrangheta”[8].
Invero non ci pare che la difficoltà probatoria e la lamentata “impossibilità” di applicare la norma di cui all’art. 416 bis c.p. in “regioni refrattarie” possano costituire un argomento valido, per sostituire, all’esercizio effettivo del metodo, la mera potenzialità d’esercizio.
Il dato testuale della norma non lascia adito a dubbi di sorta: l’uso dell’indicativo presente del verbo “avvalersi” non può che significare la concretezza attuale dell’esercizio della forza intimidatrice; d’altronde, se ci “si avvale di …” è chiaro che lo strumento (di cui ci si avvale) è nella disponibilità del soggetto agente, cosicché l’assoggettamento omertoso della comunità umana di riferimento risulta tipizzato come fatto “presente”, non già come programma futuro. La difficoltà probatoria non può fare ombra sulla precisione linguistica e concettuale della fattispecie tipica e d’altronde non può essere considerata catastrofica l’eventualità di un verdetto di assoluzione, a fronte della mancata prova di reità. Senza contare che l’impossibilità di provare la sussistenza dell’associazione di cui all’art. 416 bis c.p. non preclude ovviamente la condanna, ai sensi dell’art. 416 c.p., per il comune reato associativo, nel cui genus si inscrive la species di stampo mafioso.
Sull’argomento della disparità di trattamento, a parità di colpevolezza individuale, tra il fatto commesso nelle regioni di appartenenza della casa madre e quello commesso dalla cellula delocalizzata in regioni supposte “refrattarie”, si può osservare che la gravità del reato non dipende solo dalla riprovevolezza etico-giuridica del comportamento individuale. Non è la stessa cosa, ai fini della sanzione penale, essere componente di una struttura associativa di dimensioni e caratura criminale minime o di un’altra di dimensioni e caratura massime, ancorché l’affectio societatis sia supposta identica. Il pericolo per l’ordine pubblico derivante dall’una e dall’altra associazione è ben diverso, in relazione alla forza coattiva del sodalizio criminoso[9]. Ma tale forza di condizionamento e coazione dipende anche dalla forza di reazione dei soggetti cui si dirige la violenza morale. Sicché, in ultima analisi, la gravità del pericolo, che fonda la gravità del reato, commisurandosi alla percezione sociale, viene a dipendere anche dalla reazione culturale dell’ambiente sociale, non solo dalla capacità organizzativa della consorteria criminale. Se ciò vale per la misura edittale della gravità di uno stesso reato, vale anche per distinguere un reato più grave da uno meno grave. Ci sembra dunque giusto ed equo che, laddove non si rinvengano nel tessuto sociale i segni dell’intimidazione e dell’omertà generalizzate, sia ritenuto insussistente il reato di associazione mafiosa, ancorché la cellula periferica sia legata alla struttura centrale, dotata di ben altra forza intimidatrice nel territorio di origine.
Per quanto riguarda la criminalità organizzata straniera insediatasi in Italia[10], è necessario sottolineare, in primo luogo, che il legislatore del 2008 modificò la rubrica e l’ultimo comma dell’art. 416 bis c.p., aggiungendo la locuzione “anche straniere”[11]. Giunse così a compimento ed ebbe “consacrazione” legislativa il processo di autonomia della fattispecie incriminatrice dal terreno tradizionale delle mafie “storiche”. Gli arresti giurisprudenziali hanno riguardato un centro islamico milanese[12], una organizzazione cinese operante a Firenze[13], una pluralità di sodalizi nigeriani[14], la “Brigada” romena operante a Torino[15] e la moldava “Vor v’zacone” attiva in Veneto ed Emilia[16]. In tutte le sentenze concernenti tali c.d. “piccole mafie” è stato adottato un parametro che ha ridotto di scala i requisiti oggettivi del reato. La forza intimidatrice e le condizioni di assoggettamento e omertà sono stati calibrati in riferimento a un contesto sociale più ristretto: da un esteso “controllo del territorio”, che si ascrive alle mafie storiche, si è passati alla dimensione della prossimità relazionale, ristretta agli appartenenti alla stessa comunità etnica dei componenti del sodalizio e alle persone rientranti nella loro sfera di interesse e attività. La cerchia degli “intimiditi” si è rimpicciolita di molto, in termini quantitativi, ma non sono venuti meno i caratteri “qualitativi” della “mafiosità”, sicché è stata richiesta la prova di un effettivo utilizzo della forza di intimidazione e dell’assoggettamento e omertà che ne derivano[17].
Per quanto riguarda le c.d. mafie autoctone, diverse da quelle storiche, si possono citare i casi della c.d. “mafia del Brenta” in Veneto e della “banda della Magliana” a Roma. Nell’un caso e nell’altro, la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. è stata applicata, si potrebbe dire, de plano, essendo stato accertato il metodo mafioso[18]; mentre nelle vicende che ruotavano intorno a un Casinò[19] è stato escluso il requisito dell’assoggettamento e dell’omertà, pertanto la fattispecie de qua non ha trovato applicazione.
Da questo breve excursus possiamo trarre alcune prime conclusioni. È ben vero che sull’attualità del “metodo mafioso” si sono formati indirizzi giurisprudenziali difformi: uno restrittivo, che ha sempre invocato il rigoroso accertamento del requisito dell’intimidazione e della conseguente omertà, ravvisato come “fatto” attuale; l’altro estensivo[20], più incline a ravvisarlo come processo in divenire. Sarebbe errato negare tale difformità. Se la si volesse negare, non si potrebbe spiegare perché è stato invocato, in due occasioni, l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite. Tuttavia, a ben considerare, la questione riguarda specificamente la casistica delle c.d. cellule delocalizzate e verte sulla possibilità di dedurre l’attualità del metodo mafioso dal legame tra le neoformazioni periferiche e la “casa madre” tradizionalmente insediata in territori diversi. La vera questione, fin qui emersa, sembra riguardare, non tanto il requisito in sé, quanto l’ammissibilità della prova “semplificata” (della sussistenza del requisito) in alcuni casi specifici. Infatti, in relazione alle “piccole mafie” straniere e autoctone, il criterio della “semplificazione probatoria” non è stato utilizzato e le sentenze di condanna hanno sempre fatto seguito alla puntuale verifica dell’intimidazione e delle condizioni di assoggettamento e omertà in atto, sia pure in limiti “relazionali” più circoscritti rispetto alla generalità “territoriale”. A conforto di ciò si può addurre che la consistenza della difformità giurisprudenziale è stata ridimensionata, entrambe le volte, dall’avviso del Presidente della Corte di Cassazione, il quale non ha ritenuto di sottoporre la questione alle Sezioni Unite[21].
In questo quadro, segnato da una difformità giurisprudenziale “latente”[22], ristretta comunque entro i confini dell’accertamento probatorio, la sentenza in commento prende in considerazione il caso dell’associazione, non legata alle mafie tradizionali, operante a Roma, nota alle cronache come “Mafia Capitale”, dedita alla corruzione sistematica dei funzionari pubblici in vista dell’aggiudicazione di gare d’appalto indette dal Comune. La Suprema Corte ne ha disconosciuto i caratteri della “mafiosità”, ravvisati invece nella sentenza di appello, che aveva accolto la domanda di reformatio in pejus della sentenza assolutoria (sul punto) di primo grado, formulata dalla Procura della Repubblica.
3. La sentenza in commento ribadisce, innanzitutto, che il “metodo mafioso”, che caratterizza l’associazione di cui all’art. 416 bis c.p., suppone l’utilizzo di una forza d’intimidazione attuale e non meramente potenziale[23]. Sotto questo profilo, può dirsi che l’approdo interpretativo della Corte non si discosta da quello tradizionalmente prevalente in giurisprudenza, che declina il requisito di cui al 3° comma in senso restrittivo[24]. Tuttavia, come s’è detto, la vera questione ci sembra che verta, non tanto sull’essenza del requisito, quanto sulla prova processuale della sua sussistenza; ed è qui che si devono cercare le parti più “innovative” e significative della pronuncia giudiziale del Supremo Collegio; da questo punto di vista, ci pare che la sentenza riesca a mettere due “paletti” di grande rilevanza.
3.1. La prima puntualizzazione riguarda la fonte dell’intimidazione. Può sembrare ovvio riferire al gruppo e non al singolo la capacità d’intimidazione, non foss’altro in ossequio al tenore letterale della norma, la quale punisce gli associati che “si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo”. E’ quel vincolo, non già la persona del partecipe, la fonte dell’intimidazione[25]. Ma, a ben vedere, l’ovvietà non è poi così “ovvia” e scontata, giacché cela una questione tutt’altro che secondaria, attinente ai criteri probatori.
Invero, il riferimento al gruppo comporta l’impersonalità dell’intimidazione e questa, a sua volta, postula un’efficienza intimidatrice consolidata nel tempo e in qualche modo socialmente riconosciuta. Se l’intimidazione promana dal gruppo e non dal singolo, cambia la sua dimensione “temporale”, perché la pluralità indeterminata degli intimiditi la percepisce come continuativa e durevole, destinata a permanere anche oltre la sfera d’intervento spazio-temporale del singolo. È evidente infatti che la minaccia della persona individuale ha un’efficacia ristretta entro i margini nei quali può operare quella persona, mentre l’intimidazione che promana dal gruppo li trascende, perché la minaccia, la quale si suppone non più attuabile da parte del singolo, può essere attuata dai suoi sodali[26]. Al contempo, l’intimidazione del gruppo ha una dimensione “sociale” e “relazionale” ben diversa. Mentre il fatto della persona ricade sotto la percezione sensoriale dell’osservatore, l’esistenza della societas sceleris non è un dato empirico e visibile. Ne consegue che l’intimidito, avendo avuto la percezione sensoriale dell’azione intimidatrice individuale, la può intendere come promanante dal gruppo, e non dal singolo, solo a condizione che la “fama” sociale di tale gruppo si sia diffusa.
Sicché, a ben considerare, la superiore puntualizzazione dice molto di più di ciò che appare ovvio; indica un criterio probatorio di non poco conto, ai fini della punibilità ex art. 416 bis c.p. È vero che il carattere personale/impersonale dell’intimidazione può essere dedotto dal contesto storico-sociale di riferimento, nel senso che, nei territori tradizionalmente permeati dal fenomeno mafioso, si può pensare a forme di intimidazione diffuse e impersonali, percepite nel consesso sociale come riconducibili alla criminalità organizzata; ma è vero anche il contrario, perché la relazione è biunivoca; laddove l’intimidito coglie nell’azione di intimidazione un fatto della persona, piuttosto che un fatto del gruppo, si deve ritenere insussistente il requisito di cui al 3° comma dell’art. 416 bis, sintetizzabile come “metodo mafioso”. In definitiva, l’impersonalità della forza di intimidazione diventa un indice probatorio di rilevante entità e può suggerire un criterio discretivo che può rivelarsi decisivo in molti casi dubbi: laddove la “caratura criminale” appartiene al singolo, più che al gruppo, non è ravvisabile l’associazione mafiosa, la quale invece si può ravvisare solo quando sia “riconosciuta” nel consesso sociale di riferimento, e sia pure in ambienti specifici, una caratura criminale di gruppo.
3.2. Il secondo “paletto”, che funge da criterio restrittivo dell’esuberante comprensività della fattispecie punitiva, consiste nella declaratoria di incompatibilità tra tale impersonale metus, promanante dalla struttura associativa, e un contesto relazionale, fondato su rapporti inter pares[27]. Anche qui siamo nell’ambito dell’apparente “ovvio”. La forza intimidatrice del vincolo associativo, di cui si avvalgono gli intranei, per essere tale, deve coartare la libertà morale degli estranei; laddove, invece, le relazioni umane si sviluppano su basi volontarie, senza alcuna coazione morale, viene meno quel contesto di riferimento, che costituisce l’humus del metodo mafioso. Intimidazione e libertà morale sono incompatibili, del pari l’associazione mafiosa è incompatibile con un tessuto economico-sociale di relazioni inter pares.
Nel processo alla c.d. “mafia capitale”, si ipotizzava che un sodalizio criminoso avesse assunto le caratteristiche della “mafiosità”, essendo dedito alla corruzione sistematica dei funzionari pubblici, per l’aggiudicazione di gare d’appalto del Comune. E’ noto tuttavia che nei rapporti corruttivi la volontà del corrotto e del corruttore si pongono sullo stesso piano, esulando qualsivoglia forma di coazione morale. Sicché, tra i protagonisti del patto corruttivo, il “metodo mafioso”, che suppone il ricorso alla forza intimidatrice del vincolo associativo, sarebbe stato da escludere ab origine, proprio in virtù della contestuale supposizione del rapporto corruttivo. E tuttavia, esclusa l’intimidazione all’interno del rapporto corruttivo, non la si può escludere all’esterno. Per esempio, non si può escludere a priori – in linea meramente teorica – che i responsabili di una serie indeterminata di episodi corruttivi, sia nella veste di corrotti sia nella veste di corruttori, diano vita a una struttura associata capace di intimidire gli estranei. L’intimidazione rivolta all’esterno sarebbe, per ipotesi, finalizzata a distogliere potenziali competitors dalla partecipazione alle gare d’appalto, in modo da assicurare la vittoria degli intranei all’associazione.
In questa ipotesi, corrotti e corruttori si adopererebbero per conseguire un comune “utile d’impresa”, ripartito secondo i patti associativi, mediante l’intimidazione dei concorrenti di mercato. Nel quadro degli interessi in gioco, il conseguimento del profitto sociale vedrebbe corrotti e corruttori dalla stessa parte della barricata, in quanto intranei all’associazione criminosa, giacché l’interesse in conflitto – in ipotesi soccombente – sarebbe quello dei soggetti intimiditi, estranei all’associazione, e, secondo l’ipotesi, esclusi dalle gare d’appalto. Questa costruzione teorica è astrattamente compatibile con gli estremi tipici dell’associazione mafiosa, in quanto l’intimidazione non riguarderebbe la relazione corruttori-corrotti, bensì l’altra che si instaura fra intranei ed estranei, essendo intranei sia i corruttori sia i corrotti.
Orbene, nelle pagine processuali della vicenda “mafia capitale” non emerge tale intimidazione “esterna”[28], posto che tutti gli episodi, riconducibili al consorzio criminoso, sono stati considerati indici di un “sistema” corruttivo, al cui interno si sarebbe sviluppata la dinamica intimidatrice. In tale rappresentazione ideale dei fatti, non ci può essere posto per un’associazione di stampo mafioso, giacché la forza d’intimidazione sarebbe esercitata all’interno del “sistema” corruttivo; proprio laddove vigono, per definizione, rapporti paritari, instaurati sulla base della libera determinazione di ognuna delle parti, arbitra delle proprie utilità e convenienze.
La Corte, tuttavia, non si limita ad enunciare siffatta incompatibilità logico-giuridica tra il metus, che comprime la libertà morale, e la posizione paritaria delle volontà dei contraenti nella stipula del singolo patto corruttivo (e anche, a somiglianza, nella stipula del patto costitutivo del “sistema” corruttivo), ma si sforza di individuare un criterio, che possa fungere da indice probatorio, nella consapevolezza che il thema decidendum attiene – come detto – molto più al versante “probatorio”, che a quello degli elementi costitutivi del fatto tipico. Ravvisa nel “vantaggio” del corrotto l’indice probatorio della sua libera determinazione volitiva, che esclude la presenza del metus[29]. Non è necessario essere intimiditi, per andare alla ricerca del proprio vantaggio; anzi, è assolutamente improbabile, in base all’id quod plerumque accidit, la ricerca del vantaggio è una scelta dell’individuo assolutamente libera, diretta all’appagamento dei suoi desideri.
Questo stesso criterio è utilizzato dalla giurisprudenza per tracciare la linea di confine tra la concussione e la corruzione: laddove il privato non consegue o persegue alcun vantaggio indebito, in conseguenza dell’atto del pubblico ufficiale dedotto nel pactum sceleris, si ritiene che subisca il metus publicae potestatis e sussista pertanto la concussione; laddove, invece, consegue o persegue un suo vantaggio, si ritiene che il metus sia assente e pertanto ricorrano gli estremi della corruzione (o dell’induzione indebita)[30]. Similmente, nella vicenda “mafia capitale”, la Corte, correttamente, ritiene che i consistenti vantaggi economici, indebitamente conseguiti o perseguiti dai corrotti, fossero sintomatici dell’assenza di metus e pertanto dovesse esulare il reato di associazione di stampo mafioso, fondata sul fatto di avvalersi del metus.
3.3. I due criteri restrittivi, individuati dalla Corte – impersonalità dell’intimidazione e incompatibilità coi traffici economico-giuridici di tipo paritario – possono avere conseguenze applicative di grande rilievo, non solo nelle aree “refrattarie”, ma anche in quelle caratterizzate dalla presenza di mafie storiche. Qui, certamente, le condizioni di assoggettamento e omertà possono essere provate sulla base dell’id quod plerumque accidit. Ma deve trattarsi di una massima d’esperienza, che ammette la prova contraria. Non è infatti escluso che la società civile sviluppi nel tempo gli anticorpi sufficienti a ridimensionare siffatte condizioni di assoggettamento e omertà. E mentre tale processo evolutivo può essere lungo per il consorzio sociale nella sua interezza, è verosimile che possa essere più breve in determinati ambienti sociali. Si può pensare pertanto che, nei casi in cui le vicende si svolgano in ambienti divenuti nel tempo “refrattari”, non debba darsi per scontata la sussistenza del requisito di cui al terzo comma dell’art. 416 bis, anche nelle aree meridionali del nostro Paese.
Per contro, il secondo criterio restrittivo, fin da subito, può dispiegare in pieno i propri effetti applicativi in tutto il territorio nazionale, a prescindere dalla presenza della mafia storica. Se le vicende si svolgono nell’ambito di traffici economico-giuridici paritari, l’intimidazione non sussiste, ancorché sullo sfondo possa aleggiare la mafia, che nel caso concreto non interferisce nel pactum sceleris. Sicché, nei casi dubbi, il criterio della reciprocità del vantaggio dei contraenti può rivelarsi utile per discernere patti associativi “semplici” da strutture di criminalità mafiosa, a prescindere che i fatti accadano in Piemonte o in Sicilia[31].
4. Vale la pena annotare brevemente un altro punto incidentalmente lambito dalla pronuncia de qua. La Corte Suprema asserisce che i fatti e la valutazione dei fatti non sono nettamente separabili[32]. L’asserzione potrebbe essere formulata in termini generali, in guisa di obiter dictum; è chiaro tuttavia che ha una ragion d’essere specifica in subjecta materia, nella quale l’accertamento probatorio non riguarda solo l’imputazione del fatto, ma la sussistenza stessa degli elementi del fatto, tipizzati con formule aperte alla valutazione del giudicante. È chiaro che l’avvalersi della forza intimidatrice del vincolo associativo e le derivanti condizioni di assoggettamento e omertà sfuggono alla percezione sensoriale e sono ricostruiti in base a un processo mentale di astrazione, con numerosi passaggi intermedi necessariamente valutativi.
Il che spiega la diversa opinione dei Giudici di primo e secondo grado sulla sussistenza del fatto oggettivo dell’associazione mafiosa (non già sulla sola imputazione soggettiva del fatto) e spiega anche la speciale “corposità” della sentenza commentata, che consta di ben 379 pagine, nelle quali si ricostruiscono i “fatti” di causa. Parrebbe perfino che la Suprema Corte abbia invaso il campo del fatto, piuttosto che attenersi alle sole questioni di diritto. Ma così non è, perché la Corte enuncia infine criteri generali di accertamento probatorio del fatto di reato associativo e dunque enuncia principi di diritto, ma per farlo deve pur analizzare gli accertamenti probatori di primo e secondo grado[33].
Il tema meriterebbe di essere approfondito; in questa sede, sia consentito limitarci a una semplice chiosa. L’inscindibile connessione fatto/valutazione non riguarda solo la fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p.. Sono numerose infatti le norme incriminatrici, pregne di elementi valutativi, incidenti sul fatto costitutivo di reato. Sicché il condivisibile orientamento della Corte, seppure enunciato incidenter tantum, potrebbe avere ricadute notevoli, in relazione ai criteri di ammissibilità dei ricorsi per cassazione. Se è vero infatti che, in molti casi, la valutazione e la storicità del fatto non sono nettamente separabili, si potrebbe opinare che le declaratorie di inammissibilità del ricorso, per formulazione di motivi attinenti al fatto e non al diritto, dovrebbero essere pronunciate con maggiore oculatezza.
*Ordinario di Diritto Penale presso l’Università degli studi di Roma “Unicusano”
[1] Nella vicenda nota alle cronache come “Mafia Capitale”, la Corte di Cassazione, sez. VI, con sentenza n. 18125/2020 del 16-22.10.2019, depositata il 12.06.2020, ha annullato con rinvio (per alcuni imputati senza rinvio) la sentenza della Corte di Appello di Roma, che riconosceva la sussistenza di un’associazione di stampo mafioso, in riforma della sentenza del Tribunale, che la denegava. Sulle sentenze di primo e secondo grado cfr. ZUFFADA, Per il Tribunale di Roma ‘Mafia Capitale’ non è mafia: ovvero, della controversa applicabilità dell’art. 416-bis c.p. ad associazioni criminali diverse dalle mafie ‘storiche’, in Dir. pen. cont., 11/2017; CIPANI, La pronuncia della Corte d’Appello di Roma nel processo c.d. Mafia Capitale: la questione dell’applicabilità dell’art 416-bis c.p. alle mafie atipiche, in Dir. pen. cont., 14 maggio 2019.
[2] In base all’orientamento giurisprudenziale prevalente, la capacità intimidatrice del metodo mafioso “deve essere attuale, effettiva, deve avere necessariamente un riscontro esterno. Non può essere limitata ad una mera potenzialità astratta; deve, piuttosto, trovare conforto in elementi oggettivi che possano consentire all’interprete di affermare che l’azione riferibile ad un determinato gruppo organizzato di persone, strutturato secondo le connotazioni tipiche degli organismi di matrice mafiosa, sia anche oggettivamente in grado di permeare – per l’assoggettamento e l’omertà provocate e correlate alle concrete iniziative illecite poste in essere – l’ambiente territoriale economico, sociale, politico di riferimento, deviandone le dinamiche e piegandone ai propri scopi l’ordinato assetto (…). Il c.d. metodo mafioso deve necessariamente avere una sua ‘esteriorizzazione’ che può avere le più diverse manifestazioni purché si concreti in atti concreti, riferibili ad uno o più soggetti, suscettibili di valutazione, al fine dell’affermazione, anche in unione con altri elementi che li corroborino, dell’esistenza della prova del metodo mafioso.” (Cass. pen., sez. VI, n. 50064 del 16.09.2015, Barba, Rv. 265656). Nello stesso senso, sez. II, 24.04.2012, Barbaro, Rv. 254031; sez. VI, n. 44667 del 12.05.2016, Camarda, Rv. 268676; sez. I, n. 55359 del 17.06.2016, Pesce, Rv. 269043; sez. II, n. 34147 del 30.04.2015, Agostino, Rv. 264623. Tale indirizzo ermeneutico dominante, secondo il quale la percezione sociale della forza intimidatrice del consorzio criminoso costituisce elemento essenziale di fattispecie, è ribadito dalla sentenza in commento: “secondo l’ormai consolidata elaborazione giurisprudenziale … la condizione di assoggettamento e omertà deve essere sufficientemente diffusa, anche se non generale” (pag. 284).
[3] La sentenza in oggetto fa riferimento alla necessità che i sodali si avvalgano di un “prestigio criminale” (appartenente al gruppo e non al singolo) derivante da una “pregressa consuetudine di violenza” (pag. 283). Analogamente, si è parlato di consolidata consuetudine di violenza dell’associazione, quale clima percepito all’esterno di cui si avvantaggiano gli associati per perseguire i propri fini (sez. I, 10 luglio 2007, n. 34974, in Mass. Uff. n. 237619). La necessaria presupposizione del passato è sottolineata da FALCINELLI, Della Mafia e di altri demoni. Storie di Mafie e racconto penale della tipicità mafiosa (Spunti critici estratti dal sigillo processuale su Mafia Capitale), in Arch. pen., 2020 n. 2, 20: “il portante del metodo mafioso riesce razionalmente a radicare anche il presente del delitto nel passato di una Storia di sangue che è il fattore genetico della norma incriminatrice …”
[4] Secondo l’indirizzo prevalente della Corte Suprema, è necessario che l’articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva ed obiettivamente riscontrabile; in questo senso, sez. I, n. 51489 del 29.11.2019, dep. 2020, Albanese; sez. I, n. 55359 del 17.06.2016, Pesce, Rv. 269043; sez. I, n. 13143 del 9.03.2017, Nesci; sez. VI, n. 22546 dell’11.04.2018, Rullo; sez. V, n. 19141 del 13.02.2006, Bruzzaniti, Rv. 234403; sez. VI, n. 30059 del 5.06.2014, Bertucca, Rv. 262398; sez. II, n. 25360 del 15.05.2015, Concas, Rv. 264120; sez. VI, n. 6933 del 4.07.2018, dep. 2019, Audia, Rv. 275037. Non è necessaria una diffusione totale delle condizioni di assoggettamento; è importante che la forza intimidatrice sia esplicata in un settore limitato della popolazione, individuabile per ambiente e tipologia di attività; VISCONTI, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord. Una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, n. 1; cfr. anche SPARAGNA, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont., 10 novembre 2015; BALSAMO-RECCHIONE, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont., 18 ottobre 2013; BORRELLI, Il ‘metodo mafioso’, tra parametri normativi e tendenze evolutive, in Cass. pen., 2007, 2781 ss., nota a Cass., sez. V, 13 febbraio 2006, n. 19141.
[5] Cass. sez. II, n. 31512 del 24.05.2012, Barbaro, Rv. 254031.
[6] Cass. sez. II, n. 29850 del 18.05.2017, Barranca; sez. V, n. 28722 del 24.05.2018, Demasi, Rv. 273093; sez. V, n. 31666 del 3.03.2015, Bandiera; sez. II, n. 24850 del 28.03.2017, Cataldo, Rv. 270290; sez. II, n. 4304 dell’11.01.2012, Romeo.
[7] SERRAINO, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 297. Si deve a SPAGNOLO la messa a fuoco della categoria dei reati associativi a ‘struttura mista (Dai reati associativi ai reati a struttura mista, in Beni e tecniche della tutela penale, Milano, 1987, 156).
[8] Cass., sez. I, 10 gennaio 2012 (dep. 15 febbraio 2012), n. 5888. Sul punto della percezione sociale della forza intimidatrice in territori che non conoscono il linguaggio mafioso, cfr. NOTARO, Art. 416 bis c.p. e ‘metodo mafioso’, tra interpretazione e riformulazione del dettato normativo, in Riv. it. dir. proc. pen.,1999, 1484 ss.
[9] D’altronde un regime punitivo particolarmente severo, come quello riservato ai componenti delle associazioni mafiose, può essere giustificato, in base ai principi di offensività e proporzione, solo se oggetto del rimprovero penalistico è la responsabilità di alimentare una consorteria criminale particolarmente pericolosa, per il fatto stesso della sua esistenza, a prescindere dalla realizzazione dei reati scopo; in questo senso CAVALIERI, L’associazione di tipo mafioso, in MOCCIA (a cura di), Reati contro l’ordine pubblico, Napoli, 20017, 381 ss.; FIANDACA, Controllo penale e criminalità organizzata, in Studi in onore di Giuliano Vassalli, vol. II, Milano 1991, 31 ss..
[10] Sul punto AMATO, Mafie etniche, elaborazione e applicazione delle massime di esperienza: le criticità derivanti dall’interazione tra ‘diritto penale giurisprudenziale’ e legalità, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2015, n. 1, 266 ss.
[11] Sul punto RIONDATO-RUVOLO, Associazioni di tipo mafioso anche straniere, in FORNASARI-RIONDATO (a cura di), Reati contro l’ordine pubblico, Torino, 2017, 66 ss.
[12] Cass., sez. VI, 1 marzo 1996, Abo El Nga, in Cass. pen., 1996, 3628.
[13] Cass., sez. VI, 4 ottobre 2001, Hsiang e altri, in CED Cass., n. 221245.
[14] Cass., 13 marzo 2007, I.E.I., in Dir. Imm. e citt., 2008, 209; Cass. sez. II, 14 aprile 2017, Lee e altri, in CED Cass., n. 269747.
[15] Cass., sez. II, 21 luglio 2017, Paun, n. 1586.
[16] Cass., sez. II, 8 novembre 2017, n. 50949 Bivol e altri, in CED Cass., n. 271376.
[17] Si può riscontrare una sostanziale uniformità interpretativa sull’estensione dell’assoggettamento omertoso; non è necessario un controllo territoriale generalizzato e capillare; sono punibili, ai sensi dell’art. 416 bis c.p. anche le “organizzazioni che, pur senza controllare indistintamente quanti vivono o lavorano in un determinato territorio, circoscrivono le proprie illecite attenzioni a danno dei componenti di una specifica comunità, avvalendosi di metodi tipicamente mafiosi” (Cass., sez. II, 21 luglio 2017, Paun, cit.). Nello stesso senso MERENDA-VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416 bis tra teoria e diritto vivente, in Dir. pen. cont., 1/2019, 15.
[18] Corte di Assise di Roma, 23 luglio 1996, Abbatino e altri, inedita; Cass., sez. VI, 28 dicembre 2017 n. 57896, Fasciani, in CED Cass., n. 271724; Cass., sez. V, 4 ottobre 2018, in CED Cass., n. 274120.
[19] Cass., sez. V, 19 dicembre 1997, Magnelli, in Riv. it. dir. proc. pen., 1475 ss., con ampio commento di NOTARO, L’art. 416 bis e il metodo mafioso, cit.
[20] Sugli eccessi punitivi si sono levate voci critiche, che hanno parlato di un “doppio binario” nell’accertamento dei fatti di mafia; AA.VV., Il ‘doppio binario’ nell’accertamento dei fatti di mafia, a cura di GAITO e SPANGHER, Torino, 2013; INSOLERA, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziario, in Ind. pen., 2015, 223; MERENDA-VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., 2.
[21] La Sezione seconda della Corte di Cassazione, con ordinanze 15807 e 15808 del 28 aprile 2015, invocò l’intervento nomofilattico delle Sezioni Unite; il Primo Presidente della Cassazione restituì gli atti alla Sezione, ritenendo insussistente il contrasto giurisprudenziale, in quanto si poteva rinvenire un comune principio di diritto, così formulato: “l’integrazione della fattispecie di associazione mafiosa implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità d’intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”. La questione fu riproposta dalla seconda Sezione, con ordinanza n. 15768, depositata il 10 aprile 2019; anche in questo caso gli atti sono stati restituiti alla Sezione, giacché il Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione, con decreto del 23 luglio 2019, non ha ravvisato il contrasto giurisprudenziale, sottolineando che “è necessario accertare la sussistenza di tutti i presupposti costitutivi del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e, dunque, l’esternazione del metodo mafioso con le sue ricadute nell’ambiente esterno in termini di assoggettamento e omertà”. Proprio sulla necessità di tale esternazione fa leva la sentenza in commento, per denegare il carattere mafioso della c.d. “Mafia Capitale” (pag. 289).
[22] Alcuni Autori ritengono tuttora persistente la difformità giurisprudenziale, sia pure limitata alla questione delle mafie delocalizzate; VISCONTI, I giudici di legittimità ancora alle prese con la ‘mafia silente’ al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in Dir. pen. cont., 5 ottobre 2015; NINNI, Alle Sezioni Unite la questione della configurabilità del delitto di associazione di tipo mafioso con riguardo ad articolazioni periferiche di un sodalizio mafioso in aree ‘non tradizionali’, in Dir. pen. cont., 6/2019, 23 ss.
[23] L’espressione legislativa ‘si avvalgono della forza d’intimidazione del vincolo associativo’, a parere della Corte, “rende esplicita la necessità che il gruppo faccia un effettivo esercizio, un uso concreto della forza d’intimidazione, non essendo sufficiente un semplice dolo intenzionale di farvi ricorso; occorre che il sodalizio dimostri di possedere detta forza e di essersene avvalso”; ed ancora: “l’associazione mafiosa non è strutturata sulle ‘intenzioni’, ma su una rete di effettive derivazioni causali”; “non un’associazione per delinquere, ma un’associazione che delinque; il metodo mafioso costituisce il mezzo, lo strumento, il modo con cui l’associazione persegue gli scopi indicati dalla norma e per tale ragione è necessaria, sempre, la sua concreta manifestazione esterna” (pagg. 282-3 della sentenza annotata); ed infine: “la forza di intimidazione deve essere manifestata e percepita” (286).
[24] La pronuncia della Corte è stata criticata per la fedeltà all’indirizzo giurisprudenziale prevalente. Si è osservato che il “metodo mafioso” oggi è mutato; l’intimidazione può essere intesa “in senso meramente ambientale”; “può essere violenta ma anche di tipo induttivo (coartazione mediante corruzione)”; MUSACCHIO, ‘Mafia capitale’ è il simbolo delle metamorfosi mafiose, in www.dirittopenaleuomo.it. Invero tale osservazione critica non ci pare convincente, giacché porta con sé il rischio di equiparare quoad poenam fatti che presuppongono violenza morale e fatti che non la presuppongono, la cui riprovevolezza ci sembra diversificata. Il ”sistema” basato sul mercimonio della funzione pubblica pare ben diverso da quello, basato sulla “paura”, sussumibile sotto il paradigma della mafia e sanzionato con pene particolarmente severe; il sentimento della “paura” viene considerato tuttora essenziale per identificare il fenomeno mafioso, come cristallizzato nella fattispecie punitiva di cui all’art. 416 bis c.p., da FALCINELLI, Della Mafia e di altri demoni, cit..
[25] Nella sentenza in commento si precisa che “anche per le nuove mafie, è necessario che il gruppo manifesti la propria capacità d’intimidazione, la propria – non quella del singolo associato – fama criminale e che detta capacità produca assoggettamento omertoso (pag. 295). La Corte ribadisce poi il requisito dell’impersonalità dell’intimidazione, così motivando l’annullamento della sentenza d’appello: “si è preteso di far derivare la capacità intimidatrice dell’associazione dal prestigio criminale non mafioso di uno degli associati e non da quello impersonalmente riferibile al gruppo” (pag. 325). In dottrina, sul carattere impersonale dell’intimidazione cfr. RONCO, L’art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in AA.VV., Il diritto penale della criminalità organizzata, a cura di ROMANO-TINEBRA, Milano, 2013, 74.
[26] La Corte di Cassazione ha in più occasioni affermato che “a qualificare o ad escludere la configurabilità di un’associazione di tipo mafioso è essenziale che questa si avvalga o meno della forza di pressione derivante dal vincolo associativo in se stesso nel senso che, anche se venissero individuati, perseguiti ed isolati gli autori delle singole manifestazioni di minaccia o di danno, resterebbe pur sempre l’incombente pericolo del permanere della società criminale costituita anche da altri affiliati rimasti liberi” (sez. I, n. 6330 dell’11.10.1986, Musacco, Rv. 176087); nello stesso senso ex plurimis, sez. I, n. 9604 del 12.12.2003, dep. 2004, Marnaro, Rv. 228479; sez. VI, n. 2812 del 12.10.2017, dep. 2018, Barallo, Rv. 273537; sez, V, n. 56596 del 3.09. 2018, Balsebre, Rv. 274753; sez. I, n. 22242 del 16.05.2011, Baratto, Rv. 250704.
[27] La Corte afferma che la cd. mafia capitale costituisce “un ‘sistema’ gravemente inquinato, non dalla paura, ma dal mercimonio della pubblica funzione”; precisa inoltre che “la criminalità organizzata mafiosa si fonda sostanzialmente sul metus che deriva dalla violenza, dall’intimidazione, dalla costrizione, laddove, invece, “la corruzione è un reato che si fonda sull’accordo illecito e paritario tra due persone”; “nella corruzione l’omertà è fondata … sulla convenienza reciproca” (pag. 326).
[28] Sono stati esclusi episodi di intimidazione, come si legge a pag. 321 della sentenza annotata: “quanto alle presunte condotte intimidatorie nei confronti dei pubblici amministratori, vicende prospettate dall’accusa al primo giudice che, al riguardo, aveva tuttavia largamente motivato per rilevarne l’assoluta inconsistenza – trattandosi generalmente di casi di forzatura nella interpretazione di espressioni gergali e di violenza verbale (senza mai individuare un caso di minaccia diretta) – la Corte di appello ha interpretato e valutato … diversamente il dato probatorio senza, tuttavia, alcun serio raffronto con la motivazione del primo giudice”.
[29] Cfr. nota 27
[30] Il criterio del “vantaggio” illecito è quello che distingue il fatto del pubblico ufficiale qualificabile come concussione, nel quale il soggetto agente non prospetta alcun vantaggio, dal meno grave qualificabile come induzione indebita, nel quale l’uno prospetta un vantaggio accettato dall’altro. Il criterio discretivo è considerato decisivo nei casi dubbi dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, 24.10.2013, n. 12228, Maldera. Cfr. ex multis GAMBARDELLA, La linea di demarcazione tra concussione e induzione indebita: i requisiti impliciti del ‘danno ingiusto’ e ‘vantaggio indebito’, i casi ambigui, le vicende intertemporali, in Cass. pen., 6/2014, 2018 ss.; GATTA, Dalle sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e induzione indebita: minaccia di un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio indebito, in Dir. pen. cont., 17 marzo 2014; SEMINARA, Concussione e induzione indebita al vaglio delle Sezioni Unire – Il commento, in Dir. pen. e processo, 2014, 5, 546 ss..
[30] Il criterio discretivo è considerato decisivo nei casi dubbi dalle Sezioni unite della Suprema Corte, 24.10.2013, n. 12228, Maldera. Cfr. ex multis Gambardella, La linea di demarcazione tra concussione e induzione indebita: i requisiti impliciti del ‘danno ingiusto’ e ‘vantaggio indebito’, i casi ambigui, le vicende intertemporali, in Cass. pen., 6/2014, 2018 ss.; Gatta, Dalle sezioni Unite il criterio per distinguere concussione e induzione indebita: minaccia di un danno ingiusto vs. prospettazione di un vantaggio indebito, in Dir. pen. cont., 17 marzo 2014; Seminara, Concussione e induzione indebita al vaglio delle Sezioni Unire – Il commento, in Dir. pen. e processo, 2014, 5, 546 ss. Sul punto sia consentito rinviare a noi stessi: ABUKAR HAYO, la determinatezza degli “atti di concorrenza” ex art. 513 bis c.p. alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 13178/2019, in Arch. Pen. n. 2/2020, 16.
[31] Laddove si instaurano relazioni economiche, non fondate sul metus, ancorché illecite e caratterizzate da un grande squilibrio nelle prestazioni dei contraenti, non è rinvenibile il metodo mafioso. Dello stesso avviso Merenda e Visconti, i quali ammoniscono l’interprete sulle possibili iniquità derivanti dall’inquadramento della fattispecie nel paradigma del reato associativo ’puro’: “così una comune associazione per delinquere composta magari da criminali incalliti di estrazione meridionale dediti all’usura e al recupero crediti verrebbe agevolmente inquadrata nel paradigma mafioso; viceversa, se composta da criminali di estrazione regionale diversa, andrebbe incontro all’applicazione del solo art. 416 c.p.. In altre parole, il metodo mafioso oggettivamente inteso, richiedendo una sua esteriorizzazione per essere accertato processualmente, favorisce un giudizio sulle persone per quel fanno e non per quel che sono” (MERENDA-VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., 5).
[32] Si legge a pag. 299 della sentenza: “sul tema si è fatto peraltro autorevolmente rilevare come, pur essendo articolato l’intero sistema processuale penale sulla distinzione tra ‘l’ordine dei fatti e l’ordine del diritto’, si sia tuttavia progressivamente giunti a riconoscere la sostanziale impossibilità di separare, nella conoscenza umana, la componente valoristica da quella fattuale: ‘tutte le verità sono tali sia in forza del linguaggio che le esprime, sia in forza dei fatti”; e ancora: ”l’accertamento che consegue al giudizio in diritto (la condotta di cui all’imputazione è sussumibile o meno nella fattispecie giuridica contestata) non si concreta solo in un’operazione di raffronto semantico tra entità linguistiche, in quanto, anche in detta attività di raffronto, il giudizio giuridico è intriso di valutazioni di fatto”.
[33] Poiché il Giudice di secondo grado ha interpretato il dato probatorio diversamente dal Giudice di primo grado, la Corte di Cassazione ha valorizzato le convincenti motivazioni del Tribunale e l’assenza, nella sentenza d’appello, di “alcun serio raffronto con la motivazione del primo giudice” (pag. 321 della sentenza); cfr. nota 28.