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INAMMISSIBILITÀ VERSUS IMPROCEDIBILITÀ:  NUOVI SCENARI DI DIRITTO GIURISPRUDENZIALE – DI OLIVIERO MAZZA

INAMMISSIBILITÀ VERSUS IMPROCEDIBILITÀ: NUOVI SCENARI DI DIRITTO GIURISPRUDENZIALE – DI OLIVIERO MAZZA

MAZZA – INAMMISSIBILITÀ VERSUS IMPROCEDIBILITÀ NUOVI SCENARI DI DIRITTO GIURISPRUDENZIALE.pdf

INAMMISSIBILITÀ VERSUS IMPROCEDIBILITÀ: NUOVI SCENARI DI DIRITTO GIURISPRUDENZIALE

di Oliviero Mazza*

L’autore riflette sui rapporti fra inammissibilità del ricorso e improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. Una volta decorso il termine di durata del grado di impugnazione, deve prevalere la declaratoria d’inammissibilità, sul modello dei rapporti con la prescrizione del reato definiti dalla consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite, o, invece, la nuova improcedibilità per eccessiva durata da dichiarare anche a fronte di una impugnazione originariamente inammissibile? Prima che il diritto giurisprudenziale faccia il suo corso, per l’autore è importante che la dottrina e l’avvocatura penalistica intervengano nel dibattito, scongiurando il rischio di una discussione autoreferenziale confinata in seno alla magistratura di legittimità. Il contributo è stato già pubblicato sulla rivista disCrimen, e gentilmente concesso per la pubblicazione anche sulla nostra rivista.

Sommario: 1. Il sondaggio. – 2. La common law all’italiana. – 3. Le ragioni della prevalenza dell’improcedibilità cronologica sull’inammissibilità dell’impugnazione – 4. Improcedibilità e diritto al giudizio di innocenza.

1. Il sondaggio. – Nel corso di un riuscito convegno organizzato dall’UCPI e dalla Scuola nazionale di alta formazione[1], si è appresa la notizia dello svolgimento di un sondaggio fra tutti i magistrati della Cassazione penale riguardante la questione dei rapporti fra inammissibilità del ricorso e improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. Lo scopo del sondaggio è quello di stabilire se, una volta decorso il termine di durata del grado di impugnazione, debba prevalere la declaratoria d’inammissibilità, sul modello dei rapporti con la prescrizione del reato definiti dalla consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite[2], o se, invece, la nuova improcedibilità per eccessiva durata vada dichiarata anche a fronte di una impugnazione originariamente inammissibile.

La questione nasce, per una sorta di contrappasso, dalla dimensione abnorme che ha assunto la “cultura dell’inammissibilità”[3] nella dinamica delle decisioni della Cassazione.

Se, infatti, la declaratoria di inammissibilità fosse circoscritta alla mera rilevazione di invalidità formali del ricorso in seno all’apposita sezione settima, non vi sarebbe nemmeno il presupposto cronologico per la concorrenza delle due cause di decisione in rito. L’ordinanza di inammissibilità sopraggiungerebbe sempre nel termine annuale stabilito dall’art. 344-bis c.p.p. Al contrario, avendo l’inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi assunto nella prassi la dimensione di un vero e proprio giudizio, è facilmente pronosticabile che, ben presto, la Cassazione sarà chiamata a prendere posizione in ordine alla prevalenza di una causa sull’altra. Da qui l’esigenza del sondaggio preventivo in cui tutti i giudici di legittimità sono stati chiamati, proprio in questi giorni, ad esprimersi, in modo tale da formare una communis opinio destinata a confluire in una ineludibile decisione delle Sezioni Unite.

In questo inconsueto scenario si colloca l’ordinanza della settima sezione penale[4] che sembra aver anticipato la soluzione, richiamando anche per la improcedibilità cronologica gli approdi raggiunti in tema di rapporti fra giudicato sostanziale e declaratoria di estinzione del reato dovuta alla prescrizione.

L’estensione alla nuova causa di improcedibilità dei principi enunciati per la prescrizione del reato, apprezzabile nell’ottica del diritto intertemporale[5], determina la prevalenza anche su di essa della inammissibilità, ancorché dichiarata oltre il termine di durata massima del grado di impugnazione. Così, però, si finisce per vanificare del tutto la ratio dell’art. 344-bis c.p.p., ossia il contenimento dei tempi del grado di giudizio in attuazione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo.

Un “fuga in avanti”, quella della settima sezione, che, nonostante la composizione trasversale della “apposita” sezione, non sembra destinata a pesare sull’esito della consultazione né sul principio di diritto che verrà ben presto enunciato dalle Sezioni Unite.

2. La common law all’italiana. – Prima che il diritto giurisprudenziale faccia il suo corso, è importante che la dottrina e l’avvocatura penalistica intervengano nel dibattito, scongiurando il rischio di una discussione autoreferenziale confinata in seno alla magistratura di legittimità. L’ambizione, forse utopistica, è quella di costruire una sorta di nomofilachia condivisa[6] fra giurisprudenza e dottrina da cui scaturisca l’enunciazione di un principio di diritto che varrà, in termini di impatto pratico, quanto la stessa riforma dell’art. 344-bis c.p.p.

Non ci si può nascondere che accordare la prevalenza all’inammissibilità del ricorso, magari dettata dalla manifesta infondatezza dei motivi, significa vanificare la portata garantistica della “prescrizione processuale” che finirebbe per non trovare mai concreta applicazione. La Cassazione potrebbe, infatti, sterilizzare il superamento del termine annuale di durata del grado di giudizio semplicemente spostando l’ago della bilancia che segna l’impercettibile differenza fra infondatezza e manifesta infondatezza dei motivi.

La sopravvivenza dell’art. 344-bis c.p.p. nel giudizio di cassazione dipende, dunque, dalla risposta che la stessa giurisprudenza darà al quesito relativo ai rapporti fra inammissibilità e improcedibilità.

A conclusioni analoghe, ma non identiche, si deve giungere anche con riferimento al giudizio d’appello. La variabile, almeno per il momento, è rappresentata dall’assenza di una specifica causa di inammissibilità dell’impugnazione fondata sulla manifesta infondatezza dei motivi. Ciò nondimeno, la tentazione di vanificare la portata garantistica della improcedibilità cronologica potrebbe forzare i giudici d’appello a interpretare in modo estensivo il requisito della specificità estrinseca dei motivi, per non parlare dell’ulteriore attributo della puntualità previsto nella legge delega (art. 1 comma 13 lett. i l. n. 134 del 2021) e in attesa di attuazione attraverso i decreti delegati. La specificità estrinseca del motivo d’appello o la non meglio definita puntualità dello stesso potrebbero diventare gli strumenti per una abnorme estensione applicativa della inammissibilità dell’appello finalizzata a superare l’improcedibilità eventualmente maturata per eccessiva durata del grado di giudizio.

Queste scarne considerazioni dimostrano la rilevanza della partita che vede contrapposte inammissibilità e improcedibilità.

Ma vi è un dato di fondo sul quale occorre riflettere. L’introduzione nel sistema processuale dell’art. 344-bis c.p.p. è stata il frutto di una scelta politica sofferta e ampiamente dibattuta. Vi era l’esigenza di contenere gli effetti del blocco della prescrizione voluta dall’allora Ministro Bonafede, divenuta una sorta di manifesto politico del giustizialismo populista che pervade il partito di maggioranza relativa[7]. Non si poteva, perciò, ripristinare il decorso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado senza sconfessare la politica giudiziaria di quel partito. La mediazione politica ha così prodotto il compromesso della “prescrizione processuale dell’azione” che avrebbe dovuto almeno mitigare gli effetti del blocco della prescrizione sostanziale e della conseguente situazione di un imputato eterno giudicabile, non solo palesemente incostituzionale, ma anche, se non soprattutto, immorale. Dunque, mediazione, compromesso, dialettica partitica, nel bene e nel male una scelta schiettamente politica del Governo e del Parlamento sulla quale l’attuale Ministro della Giustizia ha puntato gran parte della sua credibilità, insieme all’obiettivo PNRR di contenere i tempi della giustizia penale.

Come è possibile, allora, che la riforma dell’art. 344-bis c.p.p., costata uno sforzo immane a livello politico-parlamentare, sia oggi di fatto consegnata, nella sua pratica possibilità di operare, alla scelta autocratica della magistratura? Non è forse il segno tangibile di una profonda crisi dei valori costituzionali che imporrebbero la soggezione del giudice alla legge (art. 101 comma 2 Cost.)?

La domanda è retorica perché da tempo il sistema delle fonti del diritto processuale penale è stato sovvertito e sul gradino più alto della scala ideale si è collocata, per sua stessa mano, la giurisprudenza di legittimità. La disciplina del processo è sottratta al dominio della legge, pur imposto dalla negletta formula costituzionale per cui il giusto processo è (dovrebbe essere) regolato dalla legge (art. 111 comma 1 Cost.), confinata in una dimensione autonoma governata dai dicta della Cassazione. Epifenomeno è proprio il giudicato sostanziale, creato dal nulla per vincere la battaglia della pretesa punitiva sul tempori cedere.

Il dibattito e l’inedito sondaggio in seno alla Cassazione mandano però un segnale in controtendenza. Non è difficile scorgere dietro a questa iniziativa l’imbarazzo che creerebbe nella stessa magistratura la pura e semplice disapplicazione dell’art. 344-bis c.p.p. determinata dalla pedissequa applicazione dei principi fin qui enunciati sui rapporti fra inammissibilità e prescrizione. L’impressione è quella della consapevolezza che una soluzione ermeneutica in linea di continuità con il passato finirebbe per tradire lo spirito oltre che la lettera della nuova improcedibilità, ma soprattutto appare evidente la percezione di una intollerabile ingerenza in una scelta politica che, come detto, ha impegnato la credibilità di Governo e Parlamento.

3. Le ragioni della prevalenza dell’improcedibilità cronologica sull’inammissibilità dell’impugnazione – I dubbi della Cassazione dimostrano che, una volta tanto, vi è spazio per una ricostruzione dei rapporti fra inammissibilità e improcedibilità che rompa gli schemi giurisprudenziali consolidati e torni nel solco della legge.

La questione può essere affrontata da due distinti punti di vista: il primo, esterno ai principi giurisprudenziali, ispirato all’interpretazione letterale dell’art. 648 c.p.p., alla teoria generale del processo e delle invalidità; il secondo, interno alla elaborazione della Cassazione e teso a valorizzare la peculiare natura della nuova improcedibilità cronologica. Ovviamente è più fecondo quest’ultimo approccio, almeno nell’ottica pragmatica dell’ottenimento di un risultato utile e concreto. Ciò nondimeno, appare preferibile partire da una ermeneutica processualmente ortodossa per poi dimostrare come anche nelle pieghe della giurisprudenza consolidata in tema di rapporti fra inammissibilità e proscioglimento ex art. 129 c.p.p. si possano rinvenire solidi argomenti per patrocinare la prevalenza della improcedibilità.

Occorre, anzitutto, ricordare che ogni atto processuale invalido produce i suoi effetti in via precaria fino a quando l’invalidità non venga dichiarata dal giudice con efficacia ex tunc. Peraltro, in assenza della rilevazione dell’invalidità, l’atto invalido è destinato a consolidare la sua efficacia precaria che, quindi, si stabilizza con il sopraggiungere del giudicato. Fa eccezione a questa regola solo l’inesistenza, trattandosi una forma patologica così radicale da rendere l’atto processuale tanquam non esset, ossia improduttivo di effetti anche solo in via precaria.

Nel caso dell’inammissibilità, la dichiarazione del vizio (art. 591 commi 2 e 4 c.p.p.) comporta il tipico effetto sanzionatorio rappresentato dalla preclusione all’esame del merito[8].

Anche l’impugnazione inammissibile, dunque, produce il suo effetto tipico di dare avvio alla sequenza procedimentale del relativo grado di giudizio. Sarà, infatti, il giudice dell’impugnazione a dover dichiarare l’inammissibilità dell’atto introduttivo, così dimostrando che l’atto ha prodotto, sia pure in via precaria, l’effetto di dare avvio alla nuova sequenza procedimentale. È chiaro che il giudice è investito di una cognizione non di merito, limitata alla sola declaratoria d’inammissibilità, ma ciò non toglie che un’attività giurisdizionale debba svolgersi anche solo al fine di dichiarare l’invalidità dell’atto introduttivo.

Il fenomeno appare chiaramente nella sua esatta dimensione se si abbandona la superata teoria del rapporto giuridico processuale per abbracciare la ricostruzione del processo in termini di concatenazione di atti[9] e di situazioni soggettive[10] da tempo accolta in dottrina. L’atto di impugnazione, ancorché viziato per inammissibilità, è comunque capace di dare avvio alla nuova sequenza di atti rappresentata dal grado eventuale di impugnazione che sfocia nella pronuncia giurisdizionale con cui viene rilevata la stessa inammissibilità. In altri termini, il grado di giudizio si svolge e si chiude con una decisione non di merito (absolutio ab instantia) che dichiara l’inammissibilità dell’atto introduttivo, il quale, dunque, ha prodotto in via precaria i suoi effetti.

L’ottica del rapporto giuridico processuale è invece distorcente: la giurisprudenza sostiene che l’impugnazione inammissibile non è in grado di instaurare un valido rapporto giuridico processuale, ma questa affermazione non spiega il fatto che comunque una sequenza di atti processuali si compie per effetto dell’impugnazione inammissibile[11]. Si pensi anche solo all’assegnazione del ricorso alla settima sezione penale e all’emissione dell’ordinanza che ne dichiari l’inammissibilità. Si tratta di un procedimento che rappresenta proprio il modulo di impugnazione introdotto dal ricorso poi dichiarato inammissibile.

Ragionando diversamente, ossia in termini di inefficacia originaria e totale dell’impugnazione viziata, non avrebbe giustificazione logica e giuridica il fatto che comunque si debba celebrare un procedimento, ancorché semplificato, per dichiarare l’inammissibilità dell’atto introduttivo

Il fenomeno è ancora più evidente quando l’inammissibilità per manifesta infondatezza dei motivi è dichiarata dalla Cassazione all’esito di una udienza pubblica partecipata. Il procedimento si svolge esattamente con le stesse forme conseguenti a un’impugnazione valida, salvo poi concludersi con una decisione che limita ex tunc l’efficacia dell’atto di impugnazione, escludendo il merito dalla cognizione del giudice. La declaratoria d’inammissibilità ora per allora non cancella, tuttavia, il fatto “procedimentale” che un giudizio si è svolto, per di più con le forme ordinarie.

Ciò dimostra come le invalidità processuali, eccetto l’inesistenza, sono trattate alla stregua dell’annullabilità civilistica: l’atto invalido produce effetti provvisori fino a quando non ne vengano dichiarate l’invalidità e la conseguente sanzione.

Se, dunque, un grado di giudizio si celebra, anche solo nelle forme semplificate previste per attestare l’inammissibilità dell’impugnazione, non si può negare l’applicabilità della improcedibilità che maturi prima della declaratoria di inammissibilità. Il processo si sta svolgendo e su di esso non può che operare l’improcedibilità legata al decorso del tempo.

È una priorità logica e cronologica: il grado di giudizio è in corso e il suo esito, ossia la declaratoria di inammissibilità, non può essere raggiunto se medio tempore maturi la causa di improcedibilità. Priorità cronologica, perché l’improcedibilità interviene prima che sia stata dichiarata l’inammissibilità, e priorità logica, in quanto l’inammissibilità dell’impugnazione assume giuridica esistenza solo con la pronuncia che la dichiari, ma tale pronuncia è impedita proprio dal fatto che prima di essa l’azione è divenuta improcedibile (o meglio, non proseguibile). Improcedibilità e inammissibilità determinano due decisioni di absolutio ab instantia, ma l’improcedibilità legata al decorso del tempo ha necessariamente la priorità logica e cronologica.

Come detto, l’inammissibilità non è un tratto originario e ontologico della impugnazione sussistente a prescindere dal suo accertamento. Secondo lo schema dell’annullabilità, fino a quando non è dichiarata inammissibile, l’impugnazione produce in via precaria i suoi effetti e consente l’avvio di una sequenza procedimentale. Questa concatenazione di atti, ancorché destinata a sfociare nell’accertamento della inammissibilità, deve svolgersi nei tempi stabiliti dal legislatore. Se ciò non avviene, matura la causa di improcedibilità che impedisce al giudice di esercitare la giurisdizione anche nei ristretti limiti richiesti dalla declaratoria di inammissibilità.

Del resto, l’improcedibilità blocca l’azione che regge la giurisdizione anche nel giudizio in cassazione, e senza una valida azione al giudice è impedito di pronunciarsi ancorché nei ristretti limiti della declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione. Nessuno può dubitare che tale pronuncia sia comunque un’attività giurisdizionale che presuppone indefettibilmente la validità dell’azione.

La ricostruzione di teoria generale è ulteriormente confermata dal tenore letterale dell’art. 648 c.p.p. per il quale è irrevocabile la sentenza non più soggetta a impugnazione diversa dalla revisione (comma 1), ma «se l’impugnazione è ammessa, la sentenza è irrevocabile quando è inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l’ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso» (comma 2). Identica disposizione è contenuta nel comma 3 per il decreto penale di condanna.

Dal dato testuale emerge l’esigenza che l’inammissibilità dell’impugnazione irritualmente proposta sia dichiarata e che tale dichiarazione, soprattutto quando riguardi cause diverse dalla tardività o dalla mancata previsione dell’impugnazione, presupponga un’attività cognitiva di tipo giurisdizionale che si colloca prima del formarsi del giudicato.

Come detto in premessa, la prevalenza dell’improcedibilità cronologica sulla inammissibilità può essere affermata anche rimanendo nel solco dei principi giurisprudenziali e senza la necessità di abbandonare la pur criticabile costruzione del giudicato sostanziale che ha definito, negli orientamenti di legittimità, i rapporti tra il ricorso inammissibile e le cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p.[12]

Nella logica stessa del giudicato sostanziale, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che «la porzione di processo che si svolge tra il momento in cui si sollecita l’instaurazione del grado superiore di giudizio e quello in cui tale sollecitazione è dichiarata inammissibile rimane circoscritta al solo accertamento della questione processuale relativa alla sussistenza del presupposto di ammissibilità e, in difetto di questo, non riserva spazio ad altre decisioni»[13]. Questa affermazione, volta ad escludere lo spazio cognitivo per la declaratoria d’ufficio delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p., non si oppone, però, alla presa d’atto che l’attività processuale, sia pure rivolta esclusivamente alla declaratoria d’inammissibilità, debba rispettare il termine di durata ragionevole imposto dall’art. 344-bis c.p.p. Qui non viene in rilievo la finalità o la natura della cognizione, limitata o estesa che sia, ma il puro e semplice dato di fatto che si sta svolgendo un grado di giudizio, ancorché a cognizione limitata alla sola rilevazione dell’inammissibilità dell’impugnazione. L’art. 344-bis c.p.p. non distingue in funzione della natura o dell’esito dell’attività giurisdizionale, ma prende in considerazione solo il dato empirico e giuridico della pendenza del procedimento nel grado di impugnazione. Volendo utilizzare le categorie dogmatiche enucleate dalla Cassazione, non conta il giudicato sostanziale, ma quello formale ricalcato su quanto disposto dall’art. 648 c.p.p. In questa direzione, d’altronde, si sono già mosse le Sezioni Unite quando hanno affermato la prevalenza della causa estintiva del reato dovuta a remissione di querela rispetto all’inammissibilità del ricorso. Affermando tale principio, il supremo consesso ha sottolineato «le connotazioni peculiari di tale causa estintiva rispetto alle altre cause di estinzione; collegandosi essa direttamente all’esercizio dell’azione penale, per di più, in forza dell’esercizio di un diritto potestativo del querelante, diretto, attraverso un contrarius actus, a porre nel nulla la condizione per l’inizio dell’azione penale»[14]. Una causa estintiva incidente sull’azione deve, quindi, prevalere rispetto alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione.

La conclusione che afferma il primato dell’improcedibilità sull’inammissibilità sembra, infine, rispondere anche alla ratio che ha ispirato l’equilibrio di rapporti fra giudicato sostanziale e art. 129 c.p.p. Le Sezioni Unite non hanno fatto mistero di aver optato per una “politica del diritto” diretta ad assecondare «fondamentali esigenze di funzionalità e di efficienza del processo, che devono garantire – nel rispetto delle regole normativamente previste e in tempi ragionevoli – l’effettivo esercizio della giurisdizione e che non possono soccombere di fronte ad un uso non corretto, spesso strumentale e pretestuoso, dell’impugnazione»[15]. Se l’impugnazione inammissibile non può lasciare spazio all’uso strumentale dell’atto diretto a lucrare la declaratoria di non punibilità ex art. 129 c.p.p., non altrettanto può dirsi per la nuova causa di improcedibilità che misura il tempo dell’attività giurisdizionale anche quando la stessa debba limitarsi alla rilevazione dell’invalidità dell’atto introduttivo del grado di giudizio. La garanzia della ragionevole durata del processo copre inevitabilmente anche tale attività.

4. Improcedibilità e diritto al giudizio di innocenza. – A margine della questione relativa alle interferenze fra cause di inammissibilità e cause di improcedibilità rimane aperto l’ulteriore versante dei rapporti fra improcedibilità cronologica e cause di non punibilità ex art. 129 comma 2 c.p.p. riferite all’ipotesi in cui l’imputato sia già stato assolto nel precedente grado di giudizio.

Si tratta del caso in cui l’impugnazione ammissibile del pubblico ministero (o della parte civile) instauri validamente il grado di giudizio nel corso del quale maturi il superamento del termine imposto dall’art. 344-bis c.p.p.[16]. Tale evenienza non è stata disciplinata dal legislatore che avrebbe dovuto opportunamente fare salva l’applicazione del secondo comma dell’art. 129 c.p.p., garantendo così l’assoluzione nel merito in presenza della già accertata infondatezza dell’accusa[17]. Si pensi, ad esempio, all’imputato assolto in primo grado che vedrebbe chiudersi il suo processo con una sentenza “in rito” di improcedibilità per eccessiva durata del grado d’appello introdotto dall’impugnazione del pubblico ministero. Chiaramente l’absolutio ab instantia non farebbe venir meno la sentenza di assoluzione nel merito pronunciata nel grado precedente, ma si è sottolineato come la pronuncia in rito sarebbe comunque quella destinata a passare in giudicato.

Il difetto di coordinamento della nuova disciplina con la sistematica codicistica è incontestabile e si sarebbe potuto mitigare escludendo in radice almeno l’appello contro le sentenze di assoluzione, ma la lacuna legislativa può agevolmente essere colmata da una interpretazione analogica in bonam partem ammessa in un sistema di legalità processuale volto alla tutela dei valori costituzionali. Il favor innocentiae, sotto forma di diritto al giudizio d’innocenza, discende direttamente dall’art. 27 comma 2 Cost.[18] e ha una portata precettiva tale da superare anche il limite imposto dall’improcedibilità cronologica. Del resto, se l’imputato è presunto innocente e al giudice risulta evidente che tale presunzione trova riscontro negli atti processuali, essendo già consacrata nella sentenza assolutoria di primo o di secondo grado, il dato formale dell’improcedibilità per eccessiva durata del procedimento di impugnazione non può essere ostativo alla conferma di una pronuncia di merito più ampiamente liberatoria che venga deliberata allo stato degli atti, ossia senza procedere oltre e senza scalfire il bene giuridico del contenimento dei tempi processuali tutelato dall’art. 344-bis c.p.p. Quando matura l’improcedibilità cronologica il procedimento deve arrestarsi, ma se in quel momento vi sono già tutti i presupposti per una sentenza di assoluzione nel merito, il giudice, nello scegliere la formula terminativa, deve preferire quella più ampiamente liberatoria, senza che questa scelta possa dirsi impedita dall’improcedibilità. Del resto, anche la causa di improcedibilità cronologica sopravvenuta deve essere dichiarata con una sentenza, si tratta solo di far prevalere la formula più favorevole.

A differenza della declaratoria d’inammissibilità, che comunque comporta un accertamento giurisdizionale reso impossibile proprio dalla improcedibilità maturata medio tempore, ragion per cui il giudice deve arrestarsi al sorgere dell’improcedibilità e dichiarare immediatamente il superamento del termine di legge prima ancora di poter affrontare il tema dell’inammissibilità della impugnazione, la scelta della formula più ampiamente liberatoria è un’alternativa che si pone al momento stesso in cui matura l’improcedibilità: le due soluzioni sono già “sul tavolo” del giudice e la decisione non implica un ulteriore accertamento, ma solo la riaffermazione di quanto stabilito dalla sentenza di assoluzione impugnata, in ossequio all’art. 27 comma 2 Cost.

Chi esclude tale possibilità non coglie la diversa e originale natura della improcedibilità cronologica rispetto alle condizioni classiche di procedibilità (querela, istanza, richiesta e autorizzazione) che rappresentano i presupposti per giungere a una decisione di merito, in assenza dei quali è consentita solo la pronuncia di una sentenza meramente processuale che constata l’impossibilità di una indagine sul merito. L’improcedibilità cronologica, invece, non postula una limitazione della cognizione del giudice, ma richiede solo che non si proceda oltre, senza quindi impedire la mera rilevazione, allo stato degli atti, di una causa prevalente di proscioglimento nel merito rappresentata dall’assoluzione emessa nel precedente grado di giudizio.

* Professore ordinario di diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca

[1] Gli incerti approdi della riforma del processo penale: irretroattività e regime transitorio della declaratoria di improcedibilità, seminario su piattaforma telematica, 21 dicembre 2021.

[2] Cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 12602 del 17/12/2015 Ud.  (dep. 25/03/2016) Rv. 266818.

[3] Riprendendo la felice definizione di L. MARAFIOTI, Selezione dei ricorsi penali e verifica d’inammissibilità, Torino, 2004, p. 159 ss., al quale si rinvia per l’approfondita analisi del fenomeno

[4] Cass., sez. VII, ord. 26 novembre 2021 (cc. 19 novembre 2021), – Vessichelli, Presidente – Miccoli, Relatore – Cusma’ Piccione, ricorrente, in Arch. pen., 2021, con nota di O. MAZZA.

[5] Si rinvia alle considerazioni già svolte in O. MAZZA, Prasseologia dell’inammissibilità (brevi note a margine della prima pronuncia di legittimità sulla disciplina intertemporale dell’art. 344-bis c.p.p.), in Arch. pen., 2021.

[6] G. CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pen. contemp., 2017, p. 5, il quale parla di nomofilachia “orizzontale”, frutto di tutto il ceto dei giuristi, in cui è «fondamentale è il ruolo critico della dottrina, alla quale compete l’analisi delle soluzioni e l’elaborazione delle alternative».

[7] Sulla ideologia populista e giustizialista del Movimento 5 stelle, v. la recente e lucida analisi di F. PETRELLI, Critica della retorica giustizialista, Milano, 2021, p. 69 ss.

[8] R. FONTI, L’inammissibilità degli atti processuali penali, Padova, 2008, p. 172.

[9] G. CONSO, I fatti giuridici processuali penali. Perfezione ed efficacia, Milano, 1955, p. 131 ss.

[10] F. CORDERO, Le situazioni soggettive nel processo penale, Torino, 1956, p. 19 ss.

[11] Al riguardo, v. le difficoltà ricostruttive evidenziate da G. CONSO, Il concetto e le specie d’invalidità. Introduzione alla teoria dei vizi degli atti processuali penali, Milano, 1955, p. 93-95.

[12] Tale problematica è stata oggetto, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, di ripetuti interventi della giurisprudenza delle Sezioni Unite, al cui esito si è definitivamente riconosciuta, salvo alcune specifiche deroghe, l’efficacia preclusiva dell’inammissibilità dell’impugnazione rispetto alla possibilità di dichiarare eventuali cause di non punibilità: cfr. Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164; Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, Cavalera, Rv. 219531; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv. 217266; Sez. U, n. 30 del 30/06/1999, Piepoli, Rv. 213981; Sez. U, n. 11493 del 24/06/1998, Verga, Rv. 211469; Sez. U, n. 21 del 11/11/1994, dep. 1995, Cresci, Rv.199903.

[13] Cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 12602 del 17/12/2015 Ud.  (dep. 25/03/2016) Rv. 266818, in motivazione.

[14] Cass., Sez. U, Sentenza n. 24246 del 25/02/2004 Ud.  (dep. 27/05/2004) Rv. 227681, in motivazione, decisione che ha enunciato il seguente principio di diritto: «la remissione di querela, intervenuta in pendenza del ricorso per cassazione e ritualmente accettata, determina l’estinzione del reato che prevale su eventuali cause di inammissibilità e va rilevata e dichiarata dal giudice di legittimità, purché il ricorso sia stato tempestivamente proposto».

[15] V. ancora Cass., Sez. U, Sentenza n. 12602 del 17/12/2015 Ud.  (dep. 25/03/2016) Rv. 266818, in motivazione.

[16] La stessa questione si porrebbe, mutatis mutandis, anche nel caso di impugnazione inammissibile, accogliendo l’impostazione della prevalenza dell’improcedibilità sull’inammissibilità.

[17] Per una serrata critica delle omissioni legislative, v., per tutti, P. FERRUA, La singolare vicenda della “improcedibilità”, Il Penalista, 27 agosto 2021; G. SPANGHER, Questioni in tema di sistema bifasico (prescrizione/improcedibilità), in Dir. pen. proc., 2021, p. 1444 ss.

[18] V., fra gli altri, O. DOMINIONI, Le parti nel processo penale, Milano, 1985, p. 258 ss.