LA CORTE DI STRASBURGO SULLA VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA – DI CARLOTTA FRASSONI
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LA CORTE DI STRASBURGO SULLA VITTIMIZZAZIONE SECONDARIA
THE STRASBOURG COURT ON SECONDARY VICTIMIZATION
Corte EDU, J.L. c. Italia, ricorso n. 5671/16, sentenza 21 maggio 2021
di Carlotta Frassoni*
Sommario: 1. Riflessioni introduttive. 2. Legislazione in tema di violenza di genere 3. La violenza di genere nella Cedu ed i precedenti della Corte di Strasburgo. 4. Il caso J.L. e la sentenza fiorentina. 5. La decisione della Corte di Strasburgo e la condanna dell’Italia. 6. Osservazioni conclusive.
Scopo del presente contributo è l’analisi della decisione della Corte Edu J.L. c. Italia in tema di vittimizzazione secondaria, con particolare attenzione alle motivazioni sottese al giudizio critico della Corte, che si sofferma sulla definizione degli obblighi positivi imposti dall’art. 8 Cedu nei casi di violenza di genere per ricomprendervi anche i diritti della vittima a non essere violata una seconda volta nella sua dignità (cd. vittimizzazione secondaria) per poi aggiungere che tali obblighi si debbano estendere anche al processo penale, e, in esso, al linguaggio utilizzato nelle motivazioni delle sentenze, all’esito di un bilanciamento tra diritto di difesa e garanzie offerte alla vittima in cui il primo cede il passo in funzione delle seconde.
The aim of this article is the analysis of the decisions of the ECtHR J.L. v. Italy, in the matter of secondary victimization, with particular attention to the reasons underlying the critical judgment of the Court, which focuses on the definition of the positive obligations imposed by art. 8 ECHR in cases of gender-based violence among which includes the rights of the victim not to be violated a second time in his dignity (so-called secondary victimization) and which also extends to the criminal trial, and, in it, to the language used in the motivations of the sentences, doing a balance between the right of defense and the guarantees offered to the victim in which the first gives way according to the second.
- Riflessioni introduttive.
La Corte di Strasburgo, con la nota sentenza J. L. c. Italia[1], ha fatto un importante passo avanti nella lotta alla violenza di genere, prendendo posizione sul delicato problema della vittimizzazione secondaria[2] cui è, spesso, sottoposta la persona offesa vittima di violenza, in una prospettiva nuova e tutt’altro che scontata.
La sentenza, tra le molte cose, si connota per la particolare attenzione che dedica non tanto al contesto normativo o alla completezza delle indagini, entrambi elementi comunque necessari ai fini di valutare l’adeguatezza della tutela offerta alla vittima secondo gli standard imposti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e tradizionalmente oggetto del suo scrutinio, ma per l’appunto si sofferma soprattutto sulla “gestione” del processo di merito da parte del giudice e sulla necessità che, anche in esso, venga offerta una tutela adeguata alla vittima e rispettati i diritti ad essa garantiti. Come si vedrà, nella motivazione della condanna dell’Italia vi è un passaggio logico innovativo, grazie al quale la Corte di Strasburgo opera un delicato bilanciamento tra libertà di espressione e diritto di difesa dell’imputato, da un lato, e tutela dell’onore e dell’immagine della persona offesa dall’altro, stabilendo che i primi non possano spingersi fino a consacrare in verbali d’udienza, atti di causa e sentenze affermazioni offensive sulle vittime, ancorché motivate da esigenze di difesa o coperte da principi quali libertà e indipendenza del giudice.
La Corte, in chiusura, pur affermando la correttezza del quadro normativo nazionale italiano e la completezza e tempestività dell’indagine, spende un giudizio molto severo sulla società italiana e si preoccupa di ricordare che anche una sola battuta d’arresto può produrre effetti devastanti, come quello di disincentivare le vittime di violenza a denunciare tali fatti di reato.
La sentenza, come si vedrà a breve, tratta un tema non nuovo ma sotto un aspetto del tutto innovativo ed al medesimo tempo tocca temi delicati e dotati di rilevanza costituzionale come il diritto di difesa e la libertà dei giudici ed offre spunti di riflessione che sicuramente verranno approfonditi dalla giurisprudenza interna.
- Legislazione in tema di violenza di genere.
Prima di procede all’analisi nel merito del caso oggetto della decisione dalla Corte Edu, occorre brevemente ricostruire il quadro normativo nazionale e sovranazionale in tema di violenza di genere, per poi ripercorrere gli ultimi apporti offerti dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo nel cui solco s’inserisce la pronuncia in esame, ancorché con aspetti parzialmente innovativi.
Ed invero, non è lontano il tempo in cui il Codice civile recava al suo interno l’art. 144 rubricato “potestà maritale”, che sanciva:
“Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”[3].
Nemmeno è passato molto da quanto il Codice penale contemplava fattispecie quali l’articolo 544, che prevedeva il c.d. matrimonio riparatore, una causa di estinzione del reato per i delitti di violenza carnale ed altri, o l’articolo 587, che introduceva il cd. delitto d’onore, che prevedeva pene più lievi, tra le altre, per chi cagionava la morte o lesioni al proprio coniuge, alla propria figlia o sorella perché ne aveva scoperto una illegittima relazione carnale, mosso quindi dallo “stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia”.
La prima significativa legislazione in materia di violenza di genere in Italia si è avuta con l’approvazione della Legge 15 febbraio 1996, n. 66, le cui novità sono state il portato del cambio di mentalità della società, che ha iniziato a considerare la violenza sessuale come un delitto contro la libertà personale della vittima e non più come un delitto lesivo di beni giuridici collettivi come la moralità pubblica ed il buon costume. Tra le varie modifiche, per quel che qui ci interessa, la citata legge, com’è noto, ha anche abrogato il delitto di “violenza carnale” e quello di “atti di libidine violenti” e introdotto la fattispecie unitaria della violenza sessuale di cui all’articolo 609 bis c.p. con lo scopo dichiarato di risparmiare alla vittima l’ulteriore umiliazione e la profonda interferenza nella sua sfera intima connesse alle indagini degli investigatori e dei magistrati, volte ad accettare quale dei due reati fosse ravvisabile nei fatti denunziati ovvero a verificare se vi fosse stata consumazione o solo tentativo[4].
Poco dopo, la Legge 4 aprile 2001, n. 154, nell’ottica di anticipare l’intervento dell’Autorità Giudiziaria in tema di violenza di genere, ha introdotto all’art. 282 bis c.p.p. la misura dell’allontanamento dalla casa familiare del coniuge violento e, pochi anni dopo, l’art. 9 del D.L. 23.02.2009, n. 11 ha introdotto all’art. 282 ter c.p.p. la misura del divieto di avvicinarsi a luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa stessa applicabile sempre al medesimo soggetto. Nella scia degli interventi volti a reprimere questa forma di criminalità insidiosa, spesso nell’ombra per anni, va certamente richiamata la Legge 23 aprile 2009, n. 38 che ha inasprito le pene per la violenza sessuale e introdotto il reato di atti persecutori comunemente noto come stalking.
Senza dubbio, un passo fondamentale nel contrasto alla violenza di genere in Italia si è avuto con la Legge 27 giugno 2013 n. 77 di ratifica della Convenzione di Istanbul, redatta l’11 maggio 2011, cui è seguita la nota legge sul Femminicidio (d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119, in materia di contrasto alla violenza di genere) in cui le influenze della convenzione sono estremamente evidenti. Da ultimo, è recentemente intervenuta la Legge 19 luglio 2019, n. 69, cd. Codice Rosso recante una serie di modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, che ha anche comportato l’introduzione di nuovi reati e il tentativo di accelerare l’intervento dell’Autorità Giudiziaria, ritenuto spesso tardivo e insufficiente.
Tanto detto circa le fonti interne, a livello sovranazionale la Convenzione di Istanbul[5] rappresenta sicuramente la fonte principale che ha stimolato la legislazione nazionale in materia di violenza di genere[6]. Essa è entrata in vigore il 1 agosto 2014 e la sua importanza e innovazione è data dall’aver introdotto una nuova impostazione a livello europeo, inquadrando il fenomeno della violenza contro le donne all’interno della tutela dei diritti umani e distinguendola da altre forme di violenza non basate sul genere. Si tratta del primo strumento internazionale giuridicamente vincolante in questa materia, da cui sono derivati, per gli Stati che hanno aderito alla convenzione, degli obblighi di conformarsi alla stessa. Tra le tante disposizioni rilevanti, la Convenzione stabilisce standard minimi in tema di prevenzione, protezione e condanna della violenza contro le donne e della violenza domestica; individua l’obbligo per gli Stati di introdurre servizi di protezione e supporto per contrastare questi reati, come un adeguato numero di rifugi, di centri antiviolenza, di linee telefoniche gratuite per offrire consulenza psicologica e assistenza medica per vittime di violenza e, infine, invita le autorità a garantire l’educazione all’uguaglianza di genere, alla sessualità e alle relazioni sane.
Per quel che riguarda il caso di specie, essa sancisce e riconosce tra le proprie finalità quella di evitare il fenomeno della vittimizzazione secondaria[7] e quella di evitare che si crei uno spazio per situazioni che possano giustificare la violenza[8]; e, dunque, si comprende pienamente, l’importanza della fonte in parola, che degna di rilevanza sovranazionale e vincolante il fenomeno della vittimizzazione secondaria, fino ad allora ritenuto un problema più psicologico che giuridico[9].
Altre tappe da segnalare in questo lungo e delicato percorso sono poi la Convenzione di Lanzarote del Consiglio d’Europa del 25 ottobre 2007, ratificata dall’Italia con Legge 172/2012 e la Direttiva 2012/29/UE attuata con d.lgs. 15 dicembre 2015 n. 212.
Infine, rivestono ruolo di primaria importanza le disposizioni contenute gli articoli 7, 8 e 21 della Carta dei Diritti dell’Unione europea che sanciscono, rispettivamente, il rispetto della vita privata e familiare, la tutela dei dati personali e il divieto di discriminazione basato, tra le altre, sul sesso, oltre che le convinzioni personali, le opinioni e l’orientamento sessuale[10].
3. La violenza di genere nella Cedu e le pronunce della Corte di Strasburgo[11].
I principi sanciti a livello nazionale e, soprattutto, sovranazionale in tema di violenza di genere sono consacrati anche nella Cedu, in particolare all’art. 8 che, al primo paragrafo, sancisce:
“Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza”.
La Corte Edu, com’è noto, con le proprie pronunce nel corso degli anni, ha dato applicazione al citato articolo 8, anche in combinato disposto con altre norme della Convenzione[12], per delineare un ampio concetto di vita privata, idoneo a comprendere l’integrità fisica e psicologica della persona e, per il suo tramite, numerosi aspetti afferenti all’identità della stessa come il genere, l’orientamento sessuale, i dati personali, l’immagine ecc. Dall’articolo 8 ha fatto discendere, in capo agli Stati, innanzitutto obblighi negativi di non ingerenza nel godimento di questi diritti, salvo che sussistano alcune condizioni previste e tipizzate dalla legge che lo rendono assolutamente necessario e previa una valutazione comparativa degli interessi contrapposti[13]. Inoltre, dall’interpretazione offerta dalla Corte dell’art. 8 discendono una serie di obblighi positivi che concernenti il dovere dello Stato di garantire ai propri cittadini l’effettivo e pieno godimento dei diritti garantiti dall’articolo 8 medesimo, sempre seguendo il criterio del giusto bilanciamento tra interessi contrapposti. Tali doveri positivi sono stati poi specificati e dettagliati nel corso del tempo e, con riguardo al tema della violenza di genere, si possono citare le sentenze X e Y c. Peaesi Bassi[14] e C.A.S. e C.S. c. Romania[15] nelle quali, rispettivamente, la Corte ha fatto discendere dall’art. 8 il dovere di predisporre adeguate norme penali e svolgere indagini efficaci oltre che adeguati strumenti riparativi e risarcitori in favore delle vittime. Leading case dell’applicazione di detti principi è la nota sentenza Opuz c. Turchia[16]: in essa si discute di una donna, vittima di svariate violenze e abusi da parte del compagno e del patrigno, che, pur avendo presentato più volte denunce ed esposti, è stata ignorata dalle autorità nazionali. Tale atteggiamento ha favorito l’escalation di violenze e minacce culminate, poi, nell’uccisione della vittima e, dunque, l’autorità è stata condannata per non aver rispettato gli obblighi su di essa gravanti di predisporre strumenti atti ad intervenire tempestivamente ed efficacemente[17]. Con la sentenza Y c. Slovenia[18] la Corte ha poi aggiunto, tra gli obblighi gravanti sugli Stati membri ex art. 8 Cedu, anche il rispetto di una serie di cautele durante il processo penale quando si tratta di audizione delle vittime di violenza sessuale[19].
Per il tramite delle menzionate pronunce si giunge, dunque, a pretendere che il rispetto della vita privata, come interpretata dalla Corte Edu, venga garantito anche all’interno del processo penale, ancorché con tutte le cautele derivanti dal dover rapportare tale diritto con uno altrettanto rilevante, vale a dire le garanzie di difesa dell’imputato. Bilanciamento tutt’altro che semplice e che, come vedremo, viene ripreso anche nella sentenza in commento.
Altra norma oggetto di svariate applicazioni in tema di violenza di genere e diritti riconosciuti alle vittime, pure rilevante nel caso di specie, è l’art. 14 Cedu, che sancisce:
“Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
Che la mancata protezione delle vittime di violenza domestica costituisca, al contempo, una forma di discriminazione nei confronti delle donne era già stato riconosciuto, per la prima volta, nella citata sentenza Opuz[20], che la definisce una discriminazione indiretta, vale a dire commessa attraverso l’adozione di una normativa non discriminatoria di per sé stessa ma che lo diviene in quanto idonea a colpire in maniera sproporzionatamente negativa un certo gruppo sociale[21].
Nella prospettiva della Corte, da tale norma discende l’obbligo, in capo alle autorità nazionali, di trattare in maniera diversa soggetti che, in relazione alle particolari circostanze del caso di specie, si trovano in situazioni sensibilmente differenti[22]. Obbligo che diviene ancora più rilevante con riguardo alle vittime di violenza di genere e violenza domestica, soggetti vulnerabili ed esposti ad un rischio maggiore per la propria incolumità, che necessitano di una particolare protezione da parte delle Autorità[23]. Non potendosi analizzare singolarmente ogni pronuncia, ci si limita a segnalare che la Corte, in diverse occasioni[24], ha ritenuto violato il divieto di discriminazione in presenza di tre elementi: ripetute inadempienze delle Autorità, la presenza di un generale atteggiamento di disinteresse delle stesse o il tentativo di minimizzare l’accaduto nonché un volontario mancato adeguamento agli standard internazionali relativamente alla protezione di donne vittime di violenza domestica. In alcune pronunce, il secondo requisito è stato parzialmente disatteso sul presupposto che, pur mantenendo una sua importanza, esso può comunque essere desunto dalle ripetute inadempienze delle autorità idonee a dimostrare come le autorità non abbiano avuto la capacità e la sensibilità di comprendere la serietà della questione[25].
Infine, nel percorso evolutivo dell’interpretazione dell’art. 8 Cedu nella giurisprudenza della omonima Corte vanno menzionate la sentenza Talpis c. Italia[26], in cui lo stato italiano è stato condannato per essere stato inerte e per non aver preso le misure necessarie al fin di proteggere una donna, vittima dalla violenza del marito, così favorendo un aumento dell’aggressività sfociato nel tentato omicidio della donna e nell’omicidio del figlio appena maggiorenne[27]. Ancora, la sentenza Mraovic c. Croazia[28] in cui, a prospettiva invertita, il condannato aveva lamentato la violazione dell’art. 6 della Cedu[29] perché il dibattimento si era svolto a porte chiuse nonostante la vittima avesse concesso delle interviste ai media sulla vicenda oggetto del processo. La Corte ha però respinto il ricorso, ritenendo che la presenza di dichiarazioni pubbliche rese dalla persona offesa non esonerano comunque lo Stato dal suo obbligo positivo di proteggere la vita privata della stessa e di prevenire il rischio di una vittimizzazione secondaria. La Corte ha, infatti, ribadito che, mentre le informazioni comunicate spontaneamente al pubblico sono nel pieno controllo della vittima che sceglie di renderle, diversa è la sua posizione in udienza, in cui vi è il contrapposto interesse di difesa dell’imputato ed i difensori chiamati a tutelarlo, ed in cui non vi è sempre totale controllo di quanto viene affermato. In particolare, secondo la Corte, il contro-interrogatorio della vittima di violenza sessuale ha caratteristiche che lo rendono uno strumento particolarmente delicato poiché può far emergere degli aspetti intimi della vita privata che la persona offesa non ha interesse alcuno a rivelare pubblicamente. Infine, nella sentenza N.Ҫ. c. Turchia[30] la Corte ha censurato non solo che non vi fosse stata alcuna forma di tutela in occasione delle audizioni della vittima da parte di polizia giudiziaria, pubblico ministero e giudice del dibattimento, in cui la stessa non è mai stata affiancata da un’assistente sociale o sostenuta da un esperto, ma soprattutto oggetto di censura è stata la gestione delle udienze, in cui la vittima è stata costretta a dei comportamenti umilianti ed esposta agli insulti dei familiari dell’imputato[31].
Tali pronunce delineano un quadro ben definito di tutela delle vittime di violenza di genere e, soprattutto, una serie di obblighi che la Corte Edu ritiene gravino sugli Stati membri in queste situazioni; tutti obblighi che la sentenza in commento richiama e riapplica, ma arricchendoli con una prospettiva nuova e con specifica attenzione alla vittimizzazione secondaria.
4. Il caso J.L. e la sentenza fiorentina.
Tanto detto rispetto ad alcune delle più significative pronunce della Corte Edu in materia di violenza di genere, occorre soffermarsi sulla sentenza impugnata innanzi alla Corte per poter comprendere gli aspetti maggiormente significativi che distinguono la pronuncia dai suoi precedenti.
Riassumendo i fatti da cui è scaturito il processo penale innanzi ai Tribunali Fiorentini[32], nel 2008 sette ragazzi sono stati accusati di violenza sessuale di gruppo ai danni di J.L., una ragazza di ventidue anni, di cui avrebbero abusato approfittando del grave stato di ubriachezza in cui versava durante una festa in una nota località della zona.
Il Tribunale di Firenze, in un processo connotato da molti momenti emotivi anche dati dalla presenza della persona offesa costituita parte civile[33], dopo aver assolto gli imputati dai reati di cui agli artt. 609-octies e 609-bis, primo comma, c.p., ritenendo che non vi fosse stata manifestazione di violenza o minaccia, ha ritenuto sussistente l’ipotesi di reato di violenza sessuale ex art. 609-bis, comma secondo, n. 1, c.p. commessa mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, condannando sei dei sette imputati, valutando credibili le dichiarazioni della vittima, unica testimone del fatto, ancorché le stesse avessero presentato, in alcuni momenti, delle incongruenze[34].
La Corte d’Appello di Firenze[35], invece, ha ribaltato completamente la prospettiva seguita dal Giudice di primo grado e, tra le altre cose, non ha ritenuto credibili proprio le dichiarazioni della vittima a causa delle numerose incongruenze, ritenendo che non fossero idonee a dimostrare il dissenso al rapporto sessuale né le sue condizioni di inferiorità psico-fisica.
Nel motivare la non credibilità delle dichiarazioni la sentenza impugnata afferma che:
«Nessuno ha parlato di carenze psicologiche della ragazza, che pur attraversava un momento non particolarmente facile della propria vita, con la madre ammalata, il padre assente, un convivente da cui era stata lasciata ed un altro appena approcciato: certo un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta, come quello per strada con l’amico X e quello in caso con lo Y, appena conosciuto, entrambi cronologicamente antecedenti a quello orale con quest’ultimo nel bagno della Fortezza la sera del fatto, prima dei balli e del gioco sul toro meccanico»[36].
I giudici d’appello proseguono affermando che:
«[…] vi è da chiedersi quale fosse mai la situazione di inferiorità psichica o fisica in cui la ragazza versava, posto che tutti avevano bevuto alcuni shottini e tutti erano evidentemente disinibiti o su di giri, in un clima definito goliardico: e, si badi bene, fino ad ora in nessun conto sono state tenute le dichiarazioni dei sei imputati, perché di clima godereccio parlano esplicitamente le ragazze amiche di costoro che erano nel gruppo e sono andate via dalla Fortezza in un momento precedente, non senza aver descritto gli atteggiamenti particolarmente disinvolti e provocatori della [giovane] che aveva ballato strusciandosi con alcuni di loro ed aveva mostrato gli slip rossi mentre cavalcava sul toro meccanico, tutto questo dopo il rapporto orale con lo Y in bagno, da costui subito comunicato agli altri»[37].
In ordine al mancato consenso ai rapporti sessuali, la Corte d’Appello sostiene che:
«se fino all’uscita appunto la [giovane] non aveva palesato particolare fastidio per le avances ricevute (strusciamenti e palpeggiamenti durante il ballo), e si era fatta condurre o sorreggere fino all’auto, se poi, come racconta espressamente, era rimasta come in trance, “inerme”, “come un qualcosa in balia della corrente”, mentre gli altri effettuavano diverse e ripetute manovre lascive ed invasive su di lei, e si erano anche mostrati “quasi stupiti” quando lei riprendendosi aveva detto basta, recuperando borsa e scarpe e uscendo dall’auto, allora non può che dedursi che tutti avevano male interpretato la sua disponibilità precedente, orientandola ad un rapporto di gruppo che alla fine nel suo squallore non aveva soddisfatto nessuno, nemmeno coloro che nell’impresa su erano cimentati. E qui davvero non vi è alcuna cesura apprezzabile tra il precedente consenso ed il presunto dissenso della ragazza che era poi rimasta “in balia” del gruppo (“ho proprio staccato la testa, ho pensato di essere morta… non pensavo più, non guardavo più”)»[38].
I Giudici della Corte d’Appello si soffermano anche sul comportamento di J.L. prima e dopo i fatti ed osservano che:
«Sicuramente apprezzabile è stata la volontà della [ragazza] di stigmatizzare quella iniziativa di gruppo comunque non ostacolata, volontà che si è estrinsecata in una serie di comportamenti successivi ai fatti espressione di una presa di coscienza e di una energica reazione, con ricorso al Centro Antiviolenza dell’ospedale Careggi, all’associazione Artemisia e quant’altro, evidentemente per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e di fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere»[39].
Concludono infine con un giudizio sulla sua personalità:
“Il racconto della ragazza configura un atteggiamento sicuramente ambivalente nei confronti del sesso, che evidentemente l’aveva condotta a scelte da lei stessa non pacificamente condivise e vissute traumaticamente o contraddittoriamente, come quella di partecipare dopo il fatto ad un “workshop” estivo nella zona di Z denominato “Sex in Transition” o prima del fatto quella di interpretare uno dei films “splatter” del regista amatoriale X intriso di scene di sesso e di violenza che aveva mostrato di “reggere” senza problemi»[40].
All’esito di tali considerazioni, come anticipato, la Corte d’Appello ha ritenuto non dimostrato il dissenso e non credibili le dichiarazioni della vittima, viene ribaltata pertanto la sentenza di primo grado ed assolti con formula piena i sei imputati.
A seguito della sentenza, e posta la mancata proposizione di ricorso in Cassazione da parte del Pubblico Ministero[41], la parte civile, esauriti i rimedi interni, ha presentato ricorso ex artt. 8 e 14 Cedu, lamentando che l’Italia fosse venuta meno al suo obbligo positivo di proteggerla ed affermando di essere stata lesa nella propria dignità a causa degli attacchi personali frutto di giudizi morali slegati dalla dinamica dei fatti contenuti nella sentenza della Corte d’Appello. In particolare, lamenta la ricorrente, la valutazione delle proprie dichiarazioni (ritenute non credibili) è stata influenzata da aspetti quali la sua condotta sessuale, definita ‘disinibita’, vagliata dalla Corte d’Appello alla luce di elementi afferenti alla sfera personale tra cui l’assunzione di sostanze alcooliche e stupefacenti, la condotta di vita precedente ai fatti di causa, il suo orientamento sessuale e perfino la biancheria intima che indossava la notte dei fatti oggetto di censura. Tali elementi, del tutto irrilevanti quanto all’accertamento dei fatti, hanno determinato inutili giudizi vittimizzanti da parte della difesa e dell’autorità giudiziaria[42].
5. La decisione della Corte di Strasburgo e la condanna dell’Italia.
Venendo all’analisi della pronuncia in esame[43], si osserva che, preliminarmente, la Corte si è dovuta occupare di alcuni profili di ammissibilità/ricevibilità prospettati dal Governo italiano, ritenendoli superabili e dichiarando il ricorso ammissibile[44].
Nel merito, posto che la violazione dell’art. 14 Cedu è stata ritenuta assorbita nella motivazione relativa all’art. 8, è quest’ultimo il centro d’interesse oggetto delle osservazioni svolte dalla Corte.
Nella sentenza la Corte muove proprio dai propri precedenti in materia di cui si è parlato e, in particolare, dall’enunciazione degli obblighi gravanti sugli Stati membri ai sensi del citato art. 8 ribadendo che non sono solo obblighi negativi di non interferenza ma anche obblighi positivi e che tali obblighi comprendono tanto l’adozione di disposizioni penali in grado di perseguire e sanzionare efficacemente ogni forma di violenza di genere quanto, in attuazione delle medesime, svolgere indagini e giudizi penali altrettanto efficaci; all’interno del processo penale devono del pari essere tutelati quei beni giuridici di primaria importanza quali l’integrità psico-fisica, l’immagine, la sicurezza e la vita privata delle vittime soprattutto se vulnerabili come nel caso delle donne che subiscono abusi e violenze[45]. Certo si prende atto che si tratta di una obbligazione di mezzi e non di risultato e che non tutti i procedimenti penali devono concludersi con una condanna perché possa dirsi effettivamente rispettata la norma in parola, ma si identifica quale fine ultimo, cui deve mirare l’Autorità nazionale, quello di non tollerare o lasciare impunito nessun fatto di reato concernente la violenza di genere, quella domestica e tutte le forme di violenza ad esse affini ancorché, poi, nel corso del giudizio, si accerti che i fatti sono andati diversamente da come inizialmente prospettati[46].
Una volta esaurite le premesse, i Giudici europei ritengono sussistente la violazione della sfera privata, della dignità e della personalità di J.L. e che essa è stata perpetrata attraverso la motivazione della sentenza di secondo grado, in tutte quelle parti in cui vi sono riferimenti alla vita e alle abitudini personali non giustificate né utili ai fini dell’accertamento dei fatti. Sono considerate tali le parti in viene valorizzata la sua partecipazione alle riprese di un cortometraggio a sfondo sessuale, o quando il Collegio si riferisce al suo orientamento sessuale e al suo abbigliamento intimo, addirittura attenzionando il colore rosso della sua biancheria. Ancora, la Corte si riferisce a quando i giudici, nella motivazione della sentenza, hanno richiamato alcuni dei comportamenti tenuti dalla vittima durante la serata, come la “cavalcata” del toro meccanico e quando vengono citate le sue relazioni sentimentali omosessuali e i rapporti sessuali consenzienti intrattenuti durante quella stessa serata e prima dei fatti. Secondo la sentenza in commento, tutti questi aspetti su cui si è pronunciata la Corte fiorentina non erano in alcun modo pertinenti rispetto alla decisione; inoltre, continua la Corte, la sentenza ha utilizzato, per le proprie argomentazioni, affermazioni lesive della personalità e della sfera psichica della denunciante, tali da determinare una sua vittimizzazione secondaria, che si è aggiunta alla vittimizzazione primaria data dalla condotta tenuta dagli autori del reato.
Approfondendo i passaggi logici più rilevanti di questa parte della sentenza, si può osservare che la Corte si preoccupa di analizzare alcuni momenti distinti che richiamano i vari passaggi che, in passato, sono stati fatti per tipizzare gli obblighi discendenti dall’art. 8 Cedu: il momento delle indagini, quello del processo e quello della sentenza.
Dopo aver ritenuto adeguata la legislazione nazionale in materia di contrasto alla violenza di genere[47], la Corte Edu rende un’acuta osservazione secondo la quale le autorità nazionali, nell’amministrare un procedimento penale come quello in esame in cui i fatti sono controversi, le versioni di accusa e difesa nettamente opposte e in cui la vittima è il testimone principale devono essere bilanciati due interessi: quello della vittima a non vedersi trascinata in momenti processuali che mettano a repentaglio la sua integrità e dignità personale e quello degli imputati a un processo equo, entro cui poter esercitare il diritto alla difesa e, con esso, la facoltà di controinterrogare i testimoni a carico[48]. Pertanto, vi è consapevolezza delle due posizioni di accusa e difesa, portatrici entrambe di interessi contrapposti e meritevoli di tutela; come si vedrà, la conclusione a cui giunge la Corte Edu è che le esigenze di difesa, per quanto tutelate, non possono spingersi sino a ledere quelle di riservatezza e dignità della vittima, che evidentemente ritiene prevalenti.
Successivamente, richiamati anche i verbali d’udienza, la Corte Edu giudica tempestivo l’intervento dell’Autorità Giudiziaria e adeguato lo svolgimento delle indagini[49]; invero, l’Autorità Giudiziaria, da un lato, non ha tenuto atteggiamenti irrispettosi o intimidatori e, dall’altro, le ha posto domande pertinenti e volte al fine di ricostruire i fatti, per quanto inevitabilmente trattassero temi delicati[50]. Vi è consapevolezza della difficoltà cui è andata incontro la ricorrente, che ha vissuto l’intero procedimento come un momento particolarmente doloroso, soprattutto perché́ le è stato chiesto di ripetere la propria versione dei fatti in numerose occasioni dovendo rispondere alle domande degli investigatori, in fase d’indagine, dell’accusa e degli otto avvocati della difesa, durante il processo. Aggiunge poi che, nonostante talvolta durante l’istruttoria dibattimentale la difesa degli imputati ha formulato domande su aspetti afferenti alla vita personale della vittima, dovendone contestare la credibilità poiché unica testimone dei fatti, di tale condotta, in parte comprensibile nella dinamica accusa-difesa, non può in ogni caso essere chiamata a rispondere l’Autorità Giudiziaria che, invece, ha offerto tutte le più adeguate garanzie di tutela alla vittima[51].
Successivamente, nel passare dall’analisi del piano del processo a quello della sentenza, parte certamente più significativa della pronuncia, vi è una preliminare presa di consapevolezza da parte della Corte dei propri limiti, riconoscendo di non potersi sostituire al giudice nazionale nel valutare i fatti sottesi al ricorso o la responsabilità penale dell’imputato ma dovendo solamente verificare l’adeguatezza delle garanzie offerte nel giudizio ai diritti sanciti nella Cedu. Tanto detto, la Corte afferma l’importanza delle pronunce dell’Autorità Giudiziaria, capaci di incidere sulla fiducia delle vittime nell’istituzione che le emana e, così, assorbe nel proprio oggetto di valutazione anche il sindacato sul linguaggio in esse utilizzato. Ed invero, si sottolinea che anche la facoltà dei Giudici di esprimersi liberamente nelle proprie decisioni, manifestazione del loro potere discrezionale e della loro indipendenza, deve cedere il passo al rispetto dell’immagine e della riservatezza, specie se non sorretto da stringenti necessità relative all’accertamento dei fatti[52].
Affermato il proprio sindacato sulla sentenza impugnata quanto al linguaggio utilizzato nella motivazione, vi è il cuore della sentenza in esame, che si pronuncia con una severa critica alle parole utilizzate dalla Corte d’Appello di Firenze nella motivazione della sentenza impugnata: vengono definiti “ingiustificati” i riferimenti fatti alla lingerie rossa mostrata dalla ricorrente durante la serata, così come i commenti riguardanti la sua bisessualità, le sue relazioni romantiche e quelle sessuali occasionali avute prima dei fatti. Vengono giudicate “inappropriate” le considerazioni relative ad un suo atteggiamento nei confronti del sesso definito “ambivalente” e, infine, vengono giudicate “deplorevoli e irrilevanti”, “scritte a sproposito” e “senza un nesso di necessità con l’esigenza probatoria di vagliare la credibilità̀ della vittima” le valutazioni che svolge la Corte d’Appello sulla decisione della ricorrente di denunciare i fatti, che definisce il risultato di una volontà̀ di “stigmatizzare” e sopprimere un “discutibile momento di fragilità̀ e debolezza”, così come il riferimento alla sua “vita non lineare” [53].
In chiusura, la Corte va oltre il caso sottoposto alla propria analisi e afferma che, lungi dal trattarsi di un episodio occasionale o isolato, la sentenza evidenzia un problema non solamente giuridico ma culturale e sociale e ritiene che le espressioni oggetto di censura siano la dimostrazione di “pregiudizi sul ruolo delle donne che esistono nella società̀ italiana” suscettibili di “impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente”[54].
Secondo la Corte, l’azione penale e la punizione hanno un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza e alla disuguaglianza di genere ed è, quindi, essenziale che le autorità giudiziarie dei paesi membri evitino di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni dei tribunali, minimizzando la violenza ed esponendo le donne alla vittimizzazione secondaria, utilizzando un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario[55]. Pertanto, nel caso di specie, pur ammettendo che le autorità nazionali hanno condotto l’indagine e il procedimento nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8, i diritti e gli interessi della ricorrente non sono stati adeguatamente protetti alla luce del contenuto della sentenza della Corte d’appello di Firenze. Da ciò deriva che le autorità nazionali non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la sentenza costituisce una parte integrante della massima importanza, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico.
6. Osservazioni conclusive.
Traendo le fila del discorso, le osservazioni svolte in chiusura della sentenza in esame rappresentano il punto di maggiore interesse, non tanto perché ribadiscono principi già parte del patrimonio giuridico della Corte quanto agli obblighi gravanti sugli Stati membri ex articolo 8 Cedu ma perché ad essi viene aggiunto il dovere di impedire che gli stessi giudici, pur se liberi e indipendenti nel pensare e nell’agire, ledano con le proprie parole gli interessi della vittima. Un sindacato sul linguaggio del tutto innovativo, che riconosce alla sentenza un ruolo fondamentale come parte integrante del processo e, quindi, tenuta a rispettarne i principi. Con questa pronuncia si sposta l’ambito di applicazione di principi tradizionali in contesti del tutto nuovi e delicati, arrivando a porre al libero potere decisionale del giudice un limite dato dalle garanzie dei soggetti coinvolti, in un complesso e delicato bilanciamento. Essa ha il pregio di ricondurre per la prima volta in modo espresso tra le garanzie offerte dall’articolo 8 anche quella di non subire una vittimizzazione secondaria, che talvolta può produrre effetti ancora più pregiudizievoli di quella primaria, tra i quali, in particolare, la perdita di fiducia nelle istituzioni. Se ne riconosce quindi espressamente la rilevanza sovranazionale, ancorché con una insolita applicazione come dimostra anche il richiamo allo stesso codice deontologico della magistratura quale limite alla libertà di espressione del giudice.
Non può lasciare indifferenti che tematiche ormai superate, come giustificazioni di qualunque genere della violenza, trovino ancora spazio in provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria; ancor più grave è che nel panorama internazionale, anziché essere considerate un episodio isolato, affermazioni di tal guisa vengono ritenute emblematiche di pregiudizi radicati all’interno nella cultura italiana. Per farlo, la Corte richiama il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (“GREVIO”) ed il suo primo rapporto di valutazione sull’Italia del 13 gennaio 2020, citando il passaggio secondo cui:
“Pur riconoscendo i progressi fatti nella promozione dell’uguaglianza di genere e dei diritti delle donne, il rapporto rileva che la causa dell’uguaglianza di genere incontra resistenze in Italia. Il GREVIO esprime la sua preoccupazione per i segni emergenti di una tendenza a reinterpretare e riorientare le politiche di uguaglianza di genere in termini di politiche familiari e di maternità. Per superare queste sfide, GREVIO ritiene essenziale che le autorità continuino a progettare e ad attuare efficacemente politiche di uguaglianza di genere e di empowerment delle donne che riconoscano chiaramente la natura strutturale della violenza contro le donne come manifestazione di relazioni di potere storicamente ineguali tra donne e uomini”[56].
La sentenza in esame fa anche sorgere interessanti interrogativi sul rapporto tra dignità della vittima e diritto di difesa, che nonostante sembri, in questo caso, prevalere la prima in luogo della seconda, non si può escludere che, in futuro, se ne torni a discutere. Emblematiche, in questo senso, le parole del giudice dissenziente Wojtyczek, il quale ha rilevato una contraddittorietà logica nella decisione della Corte[57] e ha evidenziato come, a suo dire, i giudici nazionali abbiano dovuto stabilire circostanze di fatto di grande complessità che, per loro natura, sono di natura privata, al fine di valutare la presenza del consenso della presunta vittima, dovendo definire, prima di tutto, il perimetro delle circostanze rilevanti del caso. Secondo il giudice, la Corte d’Appello di Firenze, per esaminare la causa penale, doveva stabilire alcuni elementi di fatto appartenenti a un contesto più ampio, comprendente eventi precedenti o successivi ai fatti e doveva valutare tali fatti nel loro specifico contesto culturale, quello della società italiana contemporanea. Infine, afferma criticamente che l’approccio adottato dalla maggioranza rischia di pregiudicare il diritto di difesa dell’imputato, specie in situazioni come quella del caso J.L. in cui egli, per evitare condanne fortemente “infamanti”, può dover approfondire elementi di fatto molto sensibili e relativi alla vita privata delle parti e che tali elementi possono poi essere utilizzati nella motivazione della sentenza pronunciata, al fine di confermare la prova dell’innocenza del reo.
Anche per quanto riguarda il giudizio critico sul tipo di linguaggio utilizzato nella sentenza il giudice Wojtyczek non condivide la decisione del collegio, ritenendo che le dichiarazioni censurate sono proposizioni di fatto e non giudizi di valore e, afferma, sono invece le parole della Corte stessa di per sé dichiarazioni colpevolizzanti e moralizzatrici, questa volta rivolte ai giudici italiani e inidonee a favorire la fiducia nella giustizia. Polemicamente, il giudice conclude nel senso che con la sentenza J.L. si finisce per inserire l’azione penale nel contesto di una lotta culturale contro la discriminazione e la violenza di genere, mentre invece lo strumento penale dovrebbe esserne lasciato ai margini. In una democrazia liberale, il diritto penale dovrebbe essere l’ultima ratio e se esso è uno strumento essenziale per combattere la violenza, il suo ruolo nell’affrontare la disuguaglianza non dovrebbe essere sopravvalutato. La Corte continua ad esprimere una scelta a favore della “cultura della pena” come strumento principale per combattere le violazioni dei diritti umani, con un approccio che amplifica il “vento illiberale che soffia a Strasburgo”[58].
Si tratta di affermazioni forti e resta da vedere se il monito del giudice Wojtyczek sarà o meno ascoltato, posto che, in un contesto come quello su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Corte Edu, per la ontologica delicatezza che lo contraddistingue, vi è una propensione alla tutela della vittima di violenza anche a discapito delle garanzie disconosciute all’imputato e non è sempre facile operare un bilanciamento tra i diritti contrapposti non influenzato dalla componente emotiva dei fatti sottesi al giudizio.
*Avvocato del Foro di Verona e operatrice legale della Rete Dafne per l’assistenza alle vittime di reato.
[1] cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, ricorso n. 5671/16, sentenza 21 maggio 2021, consultabile in francese all’indirizzo https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-210299%22]}. Una traduzione italiana è offerta dal Ministero di Giustizia all’indirizzo https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.page?contentId=SDU339116&previsiousPage=mg_1_20.
[2] Si parla di vittimizzazione primaria con riguardo alle conseguenze dannose di natura fisica, psicologica, sociale ed economica immediatamente conseguenti al reato mentre si parla di vittimizzazione secondaria con riguardo alle conseguenze pregiudizievoli subite dalle vittime di violenza in un momento successivo, a causa del comportamento dei soggetti chiamati a vario titolo a interfacciarsi con le stesse dopo il fatto ed ai fini del suo accertamento (personale sanitario, forze dell’ordine, servizi sociali, avvocati, membri dell’Autorità Giudiziaria, ecc.). Trattasi, in particolare, di quelle situazioni in cui le vittime di violenza vengono lasciate prive di aiuti economici e di assistenza psicologica, o quando vengono esposte ad incontri con l’autore del reato privi di adeguate tutele ovvero quando vengono colpevolizzate dall’opinione pubblica e dagli operatori (in specie nel processo) che in vario modo giustificano totalmente o parzialmente la violenza subita valorizzando aspetti afferenti alla sfera personale delle vittime stesse (condizione sociale o culturale, abitudini di vita, orientamento sessuale, ecc.). Sul punto si veda l’approfondimento svolto da Marco Bouchard, La vittimizzazione secondaria all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come le parole dei giudici possono arrecare una seconda offesa alla vittima: il caso J.L. c. Italia 27 maggio 2021, in Diritto Penale e Uomo, consultabile al seguente link: https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2021/06/Vittimizzazione-secondaria.pdf.
Si vedano anche Valentina Bonini, Il sistema di protezione della vittima e i suoi riflessi sulla libertà personale, Wolters Kluwer CEDAM, 2018, pp. 30 ss.; Joyce E. Williams, Secondary victimization: Confronting public attitudes about rape, in Victimology, 9, 1984, p. 67.
[3] Abrogato con la riforma del diritto di famiglia del 1975.
[4] Così si esprime Fiandaca, Musco, Diritto penale, parte speciale, Vol. II Tomo I, Zanichelli.
[5] Consultabile al seguente indirizzo: https://documenti.camera.it/leg17/dossier/testi/ac0173.htm.
[6] Trattasi sicuramente dello strumento più rilevante, ma non l’unico. A tal proposito, si segnalano anche La Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW, 1981), la Dichiarazione sull’eliminazione di ogni violenza contro le donne (DEVAW, 1993) nonché la Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulla protezione delle donne contro la violenza, Rec(2002)5
[7] L’articolo 18 prevede al comma terzo l’obbligo a carico degli stati membri della Convenzione di accertarsi che le misure adottate, tra gli altri, “mirino a evitare la vittimizzazione secondaria”.
[8] L’articolo 12 pone tra gli obblighi generali quello di vigilare affinché “la cultura, gli usi e i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto «onore» non possano essere in alcun modo utilizzati per giustificare nessuno degli atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione” e l’articolo 42 rubricato “Giustificazione inaccettabile dei reati, compresi quelli commessi in nome del cosiddetto «onore»” obbliga le parti ad adottare le misure legislative o di altro tipo “necessarie per garantire che nei procedimenti penali intentati a seguito della commissione di qualsiasi atto di violenza che rientra nel campo di applicazione della presente Convenzione, la cultura, gli usi e costumi, la religione, le tradizioni o il cosiddetto «onore» non possano essere addotti come scusa per giustificare tali atti. Rientrano in tale ambito, in particolare, le accuse secondo le quali la vittima avrebbe trasgredito norme o costumi culturali, religiosi, sociali o tradizionali riguardanti un comportamento appropriato”.
[9] Per la verità, la Convenzione di Istanbul segue il percorso tracciato dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1979 cd. CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) ratificata dall’Italia con l. n. 132 del 1985 e dalla Dichiarazione di Pechino del 1995. La prima può essere consultata al seguente indirizzo: https://cidu.esteri.it/resource/2016/09/48434_f_CEDAWmaterialetraduzione2011.pdf.
La seconda può essere consultata al seguente indirizzo: http://dirittiumani.donne.aidos.it/bibl_2_testi/d_impegni_pol_internaz/a_conf_mondiali_onu/b_conf_pechino/home_pechino.html.
[10] Sebbene la Carta di Nizza sia diventata giuridicamente vincolante con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si ricorda che, secondo la Corte di Giustizia, i diritti in essa garantiti si applicano alle situazioni disciplinate dal diritto dell’unione ma non al di fuori di esse. Per approfondire si veda Corte di Giustizia, Grande Sezione, Causa C-617/10 Åklagaren Frannsons del 26 febbraio 2013, consultabile all’indirizzo https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A62010CJ0617.
[11] Una raccolta delle precedenti pronunce rese dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sul tema è inclusa nel Factsheet sulla violenza domestica preparato dalla Press Unit della Corte, reperibile al sito: https://www.echr.coe.int/Documents/FS_Domestic_violence_SQI.pdf.
[12] In particolare, gli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti umani e degradanti) e 14 (divieto di discriminazione).
[13] In questo senso si veda Corte Edu, Kron e altri c. Paesi Bassi, ric. n. 18535/91, sentenza del 27 ottobre 1994.
[14] Ci si riferisce a Corte Edu, X e Y c. Peaesi Bassi, ricorso n. 8978/80, sentenza 26 marzo 1985.
[15] Ci si riferisce a Corte Edu, C.A.S. e C.S. c. Romania, ricorso n. 26692/05, sentenza 20 marzo 2012.
[16] cfr., Corte EDU, Opuz c. Turchia, ricorso n. 33401/02, sentenza 9 giugno 2009.
[17] La sentenza è rilevante anche perché è considerato il leading case in cui è stato applicato il test Osman al contesto della violenza di genere; il test Osman è stato elaborato da Corte Edu, Grande Camera, Osman v. the United Kingdom, sentenza 28 ottobre 1998 e si tratta di una teoria per verificare se lo Stato ha adottato adeguate misure di protezione per fronteggiare pericoli provenienti da terzi e, secondo tale formula, sorge responsabilità dello Stato qualora “le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere l’esistenza di un rischio reale e immediato alla vita di un individuo determinato e le autorità non hanno fatto quello che potevano fare e quello che si può ragionevolmente aspettarsi da loro per eliminare tale rischio”. Si veda il § 116 della citata sentenza.
[18] cfr., Corte Edu, Y c. Slovenia, ricorso n. 41107/2010, sentenza 28 maggio 2015.
[19] In particolare, ha osservato la Corte, nel caso analizzato l’esame della persona offesa si era prolungato per diverse udienze ed in alcune di esse era stato realizzato con modalità tali da intimidire la vittima e senza le necessarie garanzie. Inoltre, i Giudici, nonostante la richiesta presentata dalla ricorrente, non avevano estromesso dal processo il difensore dell’imputato che in passato aveva prestato la propria attività professionale per la persona offesa proprio nel medesimo caso, con evidenti pregiudizi per la sua difesa.
[20] Vedi nota 17.
[21] Si vedano, sul punto, le osservazioni di Martina Buscemi, La protezione delle vittime di violenza domestica davanti alla corte europea dei diritti dell’uomo, cit., pagg. 10 ss., in particolare nota 42.
[22] cfr., Ex multis, Corte EDU, Thlimmenos c. Grecia, ricorso n. 34369/97, sentenza 6 aprile 2000, §38.
[23] Così, Viviani A., La violenza contro le donne nell’interpretazione della Corte di Strasburgo in Diritti Umani e Diritto Internazionale, 2010, pag. 411. Il legame tra divieto di discriminazione e vulnerabilità è ben esposto in Lourdes Peroni, Alexandra Timmer, Vulnerable groups: The promise of an emerging concept in European Human Rights Convention law, in Int. Journal of Constitutional Law, 2013, vol.11, pp. 1056-1085, in particolare p. 1079, secondo cui la nozione di vulnerabilità «acts as a magnifying glass: the ill treatment caused to the applicant looks bigger through the vulnerability lens».
[24] Cfr. Corte Edu, Eremia c. Moldavia, ricorso n. 3564/11, sentenza 28 maggio 2013; Corte EDU, T.M. e C.M. c. Moldavia, ricorso n. 26608/11, sentenza 28 gennaio 2014.
[25] Cfr., Corte Edu, Mudric c. Moldavia, ricorso n. 74839/10, sentenza 16 luglio 2013.
[26] Cfr., Corte Edu, Talpis c. Italia, ricorso n. 41237/14, sentenza 2 marzo 2017.
[27] Per un commento sulla sentenza della Corte Edu si rinvia a Paola De Franceschi, Violenza domestica: dal caso Rumor al caso Talpis cosa è cambiato nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo?, in Giurisprudenza Penale, 1/2018, e ivi anche l’analisi della partially dissenting opinion del giudice Spano, ritenuta sotto alcuni aspetti più realista e aderente alla realtà dei fatti, consultabile al seguente indirizzo: https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2018/01/DeFranceschi_gp_2018_1.pdf. Si veda anche Martina Buscemi, La protezione delle vittime di violenza domestica davanti alla corte europea dei diritti dell’uomo. Alcune osservazioni a margine del caso talpis c. Italia, in Osservatorio sulle Fonti, n. 3/2017, consultabile all’indirizzo: https://www.osservatoriosullefonti.it/mobile-note-e-commenti/note-e-commenti-n-3-2017/1121-la-protezione-delle-vittime-di-violenza-domestica-davanti-alla-corte-europea-dei-diritti-dell-uomo-alcune-osservazioni-a-margine-del-caso-talpis-c-italia/file.
[28] Cfr., Corte Edu, Mraovic c. Croazia ric. N. 30373/13, sentenza 14 maggio 2020.
[29] In particolare, ritenendo violato il proprio diritto a che la causa sia esaminata equamente, pubblicamente e in tempi ragionevoli da un giudice indipendente e imparziale.
[30] Cfr., Corte Edu, Affaire N.Ç. c. Turchia, ricorso n. 40591/11, sentenza 9 febbraio 2021.
[31] In particolare, alla persona offesa è stato chiesto di riprodurre la posizione assunta in occasione degli atti sessuali, senza che i giudici turchi avessero spiegato la necessità di quella ricostruzione umiliante in rapporto all’accertamento e alla qualificazione giuridica dei fatti. Inoltre, la donna è stata sottoposta ben dieci volte a visita medica su richiesta delle autorità giudiziarie per stabilire esattamente la sua età e le conseguenze delle violenze subite.
[32] Per una analisi dettagliata della sentenza della Corte d’Appello di Firenze e delle riflessioni ivi svolte sulla sentenza in commento si rinvia nuovamente a Marco Bouchard, La vittimizzazione secondaria all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo. cit.
[33] Nonostante la vicenda abbia avuto ampio rilievo mediatico, ai giornalisti non è stato permesso di filmare il dibattimento e il Presidente del collegio è dovuto intervenire più volte durante l’esame della persona offesa per impedire domande non pertinenti e, in alcuni casi, è stato necessario sospendere l’udienza a causa del forte turbamento della medesima.
[34] Nella motivazione della sentenza si dava atto delle molte incoerenze e illogicità della versione della ragazza sia in ordine alle ragioni che l’avevano condotta alla Fortezza da Basso, luogo in cui si è tenuta la festa nel cui contesto poi è stata consumata la violenza, sia, soprattutto, alla parte finale della nottata al suo rientro alla propria abitazione. Il Tribunale ha ritenuto fondata l’accusa perché confermata da altre testimonianze sul segmento temporale dell’allontanamento con il gruppo dei sei giovani poi imputati. In particolare, si ritiene confermato che all’uscita la vittima era completamene sotto l’effetto dell’alcool, che aveva difficoltà a camminare e che, pertanto, la sua capacità di prestare un valido consenso a condividere un rapporto sessuale doveva ritenersi profondamente alterata, da ciò potendo ritenere provato lo stato d’inferiorità sia fisica che psichica, non necessariamente collegato ad una patologia mentale o ad uno stato di sottomissione assoluta.
[35] Corte d’Appello di Firenze, sez. II, 4/03/2015, n. 858.
[36] Cfr., Corte d’Appello di Firenze, sez. II, 4/03/2015, n. 858, pag. 17, punto 21).
[37] Ibidem, pag. 18
[38] Ibidem, pag. 18, punto 22).
[39] Ibidem, pag. 19, punto 23).
[40] Ibidem.
[41] Nonostante la parte civile avesse sollecitato il Pubblico Ministero in tal senso.
[42] Non è la prima volta che vengono mosse simili accuse; si veda, a tal proposito, Fabrizio Filice, Femminicidi di Bologna e Genova: perché quelle sentenze potrebbero sbagliare, in Questionegiusitizia.it reperibile al sito: https://www.questionegiustizia.it/articolo/femminicidi-di-bologna-e-genova-perche-quelle-sentenze-potrebbero-sbagliare_15-04-2019.php.
[43] Una analisi dettagliata della pronuncia è offerta da Linda D’Ancona, Vittimizzazione secondaria: la pronuncia della CEDU. Commento alla pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo, sul sito Questioneustizia.it consultabile al seguente indirizzo: https://www.questionegiustizia.it/articolo/vittimizzazione-secondaria-la-pronuncia-della-cedu.
[44] In particolare: il rispetto del termine di sei mesi dalla data definitiva del processo (§ 73); il previo esaurimento dei mezzi d’impugnazione interni (§ 75-87); la sussistenza della qualità di vittima della ricorrente (§ 88-90) e la non manifesta infondatezza del ricorso.
[45] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 119, di cui si riporta una traduzione in italiano: “La Corte ha già dichiarato che i diritti delle vittime di reati che sono parti di un procedimento penale rientrano generalmente nell’ambito dell’articolo 8 della Convenzione. A questo proposito, la Corte ribadisce che, se lo scopo dell’articolo 8 è essenzialmente quello di proteggere l’individuo da interferenze arbitrarie da parte dei poteri pubblici, esso non impone semplicemente allo Stato di astenersi da tali interferenze: oltre a questo obbligo negativo, ci possono essere obblighi positivi inerenti al rispetto effettivo della vita privata o familiare. Questi obblighi possono comportare l’adozione di misure per garantire il rispetto della vita privata anche nei rapporti tra gli individui (X e Y c. Paesi Bassi, 26 marzo 1985, § 23, serie A n. 91). Ne consegue che gli Stati contraenti devono organizzare i loro procedimenti penali in modo da non mettere indebitamente in pericolo la vita, la libertà e la sicurezza dei testimoni e in particolare delle vittime chiamate a deporre. Gli interessi della difesa devono quindi essere soppesati con quelli dei testimoni o delle vittime chiamati a deporre (Doorson c. Paesi Bassi, 26 marzo 1996, § 70, Reports of Judgments and Decisions 1996 II). Inoltre, i procedimenti penali relativi ai reati sessuali sono spesso vissuti come un calvario dalla vittima, in particolare quando quest’ultima si confronta contro la sua volontà con l’imputato e in un caso che coinvolge un minore (S.N. v. Sweden, no. 34209/96, § 47, CEDU 2002 V, e Aigner v. Austria, no. 28328/03, § 35, 10 maggio 2012). Di conseguenza, nel contesto di tali procedimenti penali, possono essere adottate speciali misure di protezione per proteggere le vittime (vedi Y. v. Slovenia, citata, §§ 103 e 104). Le disposizioni in questione implicano un’assistenza adeguata alla vittima durante il procedimento penale, ciò al fine di proteggerla dalla vittimizzazione secondaria (Y. c. Slovenia, sopra citata, §§ 97 e 101, A e B c. Croazia, n. 7144/15, § 121, 20 giugno 2019, e N.Ç. c. Turchia, sopra citata, § 95)”.
[46] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 117-118. In particolare, la Corte afferma che, sebbene il requisito di efficacia delle indagini non può trasformarsi nella pretesa che tutti i procedimenti penali debbano sfociare in una condanna o nell’imposizione di una pena specifica, esso vuole che le autorità giudiziarie nazionali non debbano mai permettere che le violazioni dell’integrità fisica e morale degli individui rimangano impunite, al fine di preservare la fiducia del pubblico nel rispetto del principio di legalità e di evitare qualsiasi apparenza di complicità o tolleranza degli atti illegali.
[47] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 121.
[48] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 123, che si riporta: “Tuttavia, la Corte deve determinare se le autorità nazionali sono riuscite a trovare un giusto equilibrio tra gli interessi della difesa, in particolare il diritto dell’imputato di chiamare ed esaminare i testimoni ai sensi dell’articolo 6 § 3, e i diritti della presunta vittima ai sensi dell’articolo 8. Il modo in cui la presunta vittima di reati sessuali viene interrogata deve trovare un giusto equilibrio tra l’integrità personale e la dignità della vittima e i diritti della difesa garantiti agli imputati. Mentre l’imputato deve potersi difendere mettendo in dubbio la credibilità della presunta vittima e sottolineando eventuali incongruenze nella sua dichiarazione, il controinterrogatorio non deve essere usato come mezzo per intimidirla o umiliarla (si veda Y. c. Slovenia, sopra citata, § 108).
[49] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 123-124.
[50] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 130.
[51] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 133.
[52] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 139. Interessante è che tale osservazione va letta in relazione con quanto affermato al paragrafo 62, nella parte in cui la Corte annovera, tra il diritto applicabile, anche il codice deontologico dei magistrati ordinari.
[53] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 136, 137 e 138. Vista la loro rilevanza, se ne riporta integralmente la versione tradotta in italiano: “La Corte ha notato diversi passaggi della sentenza della Corte d’appello di Firenze che si riferivano alla vita personale e intima della ricorrente e che violavano i suoi diritti ai sensi dell’articolo 8. In particolare, la Corte ritiene che i riferimenti fatti dalla Corte d’appello alla lingerie rossa “mostrata” dalla ricorrente durante la serata, così come i commenti riguardanti la bisessualità della ricorrente, le relazioni romantiche e le relazioni sessuali occasionali prima degli eventi, sono ingiustificati (vedi paragrafi 41 e 42 sopra). Allo stesso modo, la Corte considera inappropriate le considerazioni relative all'”atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso”, che la Corte d’appello ha dedotto, tra l’altro, dalle sue decisioni in materia artistica. Così, la Corte d’Appello menziona tra queste decisioni dubbie la scelta di partecipare al cortometraggio di L.L. nonostante la sua natura violenta ed esplicitamente sessuale (vedi paragrafo 46 sopra), senza che – e giustamente – il fatto che lei abbia scritto e diretto il suddetto cortometraggio sia in alcun modo commentato o considerato come indicativo dell’attitudine di L.L. al sesso. Inoltre, la Corte ritiene che la valutazione della decisione della ricorrente di denunciare i fatti, che secondo la Corte d’appello era il risultato di una volontà di “stigmatizzare” e sopprimere un “discutibile momento di fragilità e debolezza”, così come il riferimento alla sua “vita non lineare” (ibid.), sono anch’essi deplorevoli e irrilevanti.
La Corte ritiene, a differenza del Governo, che i suddetti argomenti e considerazioni della Corte d’appello non sono stati utili per valutare la credibilità del ricorrente, una questione che avrebbe potuto essere esaminata alla luce delle numerose risultanze oggettive del procedimento, né sono stati decisivi per la risoluzione del caso (si veda, mutatis mutandis, Sanchez Cardenas, citata, § 37).
La Corte riconosce che nel caso in questione la questione della credibilità della ricorrente era particolarmente cruciale, ed è pronta ad accettare che il riferimento alle sue relazioni passate con i singoli imputati o a certi suoi comportamenti durante la serata possa essere stato giustificato. Tuttavia, non vede come la situazione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, il suo orientamento sessuale o anche la sua scelta di abbigliamento, così come lo scopo delle sue attività artistiche e culturali, possano essere rilevanti per la valutazione della sua credibilità e la responsabilità penale degli imputati. Pertanto, non si poteva ritenere che le violazioni della vita privata e dell’immagine del ricorrente fossero giustificate dalla necessità di salvaguardare i diritti di difesa degli imputati”.
[54] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 141. Interessanti le considerazioni svolte da Marco Bouchard, La vittimizzazione secondaria all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit., pag. 14 ss., secondo il quale la Cedu avrebbe “messo in luce – attraverso il ricorso al concetto di vittimizzazione secondaria collegato alla violazione dell’art. 8 della Convenzione – il tema, ampiamente sottovalutato nelle prassi giurisdizionali italiane, dell’incidenza dei cd. biases impliciti nelle operazioni decisorie dei giudici”. Trattasi della problematica per cui, nonostante le motivazioni giudiziarie sembrino ancorate a parametri di logica e razionalità, in realtà, in esse vi è un percorso disseminato di pre-giudizi, che definisce vere e proprie trappole o scorciatoie cognitive che permettono di risparmiare tempo ed energie ma che possono condurre a “distorsioni rispetto alla razionalità olimpica propria del modello decisionale normativo, e quindi ad ottenere una decisione, frutto di una razionalità limitata, in cui vi è un’erronea valutazione del caso giudiziario, che può scaturire in un errore nella motivazione della sentenza”. L’A. cita, a sua volta, Alessandra Callegari, Il giudice tra emozioni, biases ed empatia, Aracne editrice, 2017, p. 109.
[55] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 141.
[55] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 142.
[56] Cfr., Corte Edu, J.L. c. Italia, cit., § 66.
[57] Il giudice ritiene infatti che l’affermazione per cui le Autorità “non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria nel corso del procedimento”, è in contraddizione logica con la “frase, che afferma che le autorità nazionali hanno assicurato in questo caso che l’indagine e il procedimento sono stati condotti nel rispetto degli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione”.
[58] Il Giudice richiama a sua volta le parole del giudice Pinto de Albuquerque nel suo parere separato allegato alla sentenza Chernega e altri c. Ucraina, ricorso n. 74768/10, udienza 18 giugno 2019.