VISTO DI CENSURA DELLA CORRISPONDENZA E DIRITTO DI DIFESA. UN ESITO NELLA SOSTANZA CONDIVISIBILE, RAGGIUNTO CON UNA DISCUTIBILE TECNICA DECISORIA – DI MARCO RUOTOLO
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VISTO DI CENSURA DELLA CORRISPONDENZA E DIRITTO DI DIFESA. UN ESITO NELLA SOSTANZA CONDIVISIBILE, RAGGIUNTO CON UNA DISCUTIBILE TECNICA DECISORIA
di Marco Ruotolo*
Sommario: 1. Per una piena garanzia del diritto di difesa – 2. Le perplessità sulla tecnica decisoria impiegata – 3. Alcune necessarie puntualizzazioni.
- Per una piena garanzia del diritto di difesa.
Con la sent. n. 18 del 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2, lett. e), della legge n. 354 del 1975 (ordinamento penitenziario, d’ora in poi o.p.), «nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori».
La pronuncia costituisce naturale “seguito” della sent. n. 143 del 2013, con la quale la Corte rimosse il limite quantitativo previsto per i colloqui con i difensori dei detenuti in regime di 41-bis o.p.
Come allora affermato – e ora in sostanza ribadito – sia le restrizioni riguardanti la durata dei colloqui sia il controllo indiscriminato sulla corrispondenza con i difensori si traducono «in un vulnus del diritto di difesa incompatibile con la garanzia di inviolabilità sancita dall’art. 24, secondo comma, Cost.». Anche l’argomentazione è in larga parte sovrapponibile con quella ora proposta, concentrandosi sulla circostanza che all’eventuale decremento di tutela di un diritto fondamentale deve corrispondere un «incremento di tutela di un altro interesse di pari rango». Come ebbi a sottolineare in sede di commento al “precedente” del 2013 questo è un passaggio fondamentale che permette di andare oltre la ricorrente affermazione per cui nelle operazioni di bilanciamento non si può mai superare il limite che produca il totale sacrificio di uno dei valori confliggenti (M. Ruotolo, Le irragionevoli restrizioni al diritto di difesa dei detenuti in regime di 41-bis, in Giur. Cost., 2013, 2176 ss., reperibile anche in Consulta OnLine, www.giurcost.org). Se pure quel limite non fosse superato, si dovrebbe, infatti, verificare la congruità del mezzo prescelto (la compressione di un diritto) rispetto al fine che si propone di raggiungere (l’incremento della tutela di altro interesse di rango costituzionale). Il che significa compiere una valutazione circa la ragionevolezza delle restrizioni di volta in volta operate, che in entrambe le decisioni si traduce nella rilevazione della violazione del diritto di difesa del detenuto, la cui compressione non trova “adeguata” giustificazione in nome del soddisfacimento delle pur presenti esigenze di sicurezza.
Si potrebbe peraltro sostenere che nel caso del visto di censura il sacrificio del diritto di difesa sia assai più rilevante (forse persino “totale”) rispetto a quello derivante dalla limitazione quantitativa dei colloqui, in quanto preclusivo della necessaria riservatezza circa i contenuti della comunicazione, che invece è comunque preservata nell’altra ipotesi dal divieto di controllo auditivo e di registrazione. Tant’è vero che la Corte rileva rispetto all’attuale caso una «vistosa limitazione», in quanto la procedura di visto comporta «l’apertura della corrispondenza da parte dell’autorità giudiziaria o dell’amministrazione delegata, la sua integrale lettura e il suo eventuale “trattenimento”».
Ad ogni modo, il sacrificio del diritto di difesa sarebbe incongruo rispetto al fine che la disciplina censurata si propone, che è sempre quello di preservare le esigenze di sicurezza impedendo che il detenuto o l’internato possa continuare a intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza; proprio perché – come aggiunge la Corte – il temuto passaggio di messaggi (nella forma dello «scambio di informazioni tra difensori e detenuti») potrebbe «comunque avvenire nel contesto dei colloqui visivi o telefonici, oggi consentiti con il difensore in numero illimitato, e rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo». Senza dimenticare che la corrispondenza epistolare può essere il principale mezzo a disposizione per comunicare con il difensore per i detenuti meno abbienti i quali, ove trasferiti in struttura penitenziaria distante dalla città in cui ha sede l’avvocato di fiducia, potrebbero avere maggiori difficoltà a sostenere costi e onorari connessi ai viaggi per lo svolgimento dei colloqui.
Insomma, a venire in rilievo sono anche argomenti “pratici”, simili a quelli impiegati nella sent. n. 143 del 2013, che condizionano la valutazione sulla ragionevolezza dell’operazione normativa censurata e che, opportunamente, sono accompagnati dalla sottolineatura circa «l’insostenibile presunzione (…) di collusione del difensore con il sodalizio criminale», normativamente gravato del sospetto di porsi come illecito canale di comunicazione.
Sono tutti argomenti condivisibili, che ruotano attorno all’esigenza di garantire il diritto di difesa – «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale, comprensivo del «diritto di conferire con il difensore», ampiamente riconosciuto anche nel «diritto internazionale dei diritti umani» (diverse sono le pronunce della Corte Edu, citate nella decisione, così come i richiami alle Regole penitenziarie europee e alle Mandela Rules, che è poco utile qui riprodurre, potendo il lettore ritrovarli direttamente nel testo della sentenza).
- Le perplessità sulla tecnica decisoria impiegata.
Vi sono due punti che credo meritino di essere ulteriormente sviluppati: il primo attiene alla tecnica decisoria impiegata, il secondo ad alcune necessarie puntualizzazioni di merito sulle conseguenze di questa decisione.
Siamo certi che l’accoglimento della questione (nella forma della sentenza additiva) fosse l’unico modo per arrivare ad un esito nella sostanza senz’altro condivisibile? Per rispondere occorre valutare una serie di elementi, che proverò di seguito a sintetizzare.
La Corte ricostruisce puntualmente l’evoluzione del quadro normativo nel quale si colloca la disposizione censurata in un modo talmente dettagliato (sia pure con una dimenticanza riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018) da suggerirmi, di nuovo, il rinvio alla lettura della decisione piuttosto che la riproposizione della stessa in forma sintetica (o di mera parafrasi). Ciò che in sede di commento preme rilevare è che l’attuale formulazione (risultante, anzitutto, dalle modifiche introdotte con legge n. 95 del 2004) dell’art. 18-ter, comma 1, lett. b), o.p. consente all’autorità giudiziaria competente (ora specificata per effetto di intervento operato sul comma 3 dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123) di disporre, nei confronti dei detenuti e degli internati, «la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo», in presenza di «esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto». Tale misura, che può essere disposta per periodi non superiori a sei mesi, prorogabili per successivi periodi non superiori a tre mesi, non si applica, per espressa previsione del comma 2 dello stesso articolo, alla corrispondenza epistolare o telegrafica indirizzata, tra gli altri, ai difensori, agli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, ai consulenti tecnici e ai loro ausiliari (ossia alle persone indicate nell’art. 103, comma 5, c.p.p.). Con riguardo ai detenuti in regime di 41-bis o.p., l’attuale formulazione prevede «la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia» (ciò per effetto delle modifiche operate con la legge n. 94 del 2009, che ha inciso sull’attuale formulazione dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e, o.p.).
Di là dalla diversa terminologia impiegata nelle due disposizioni richiamate («visto di controllo», «visto di censura»), il problema interpretativo di maggiore consistenza concerne il rapporto tra la previsione di cui all’art. 18-ter, che riguarda la generalità dei detenuti e degli internati, e quella di cui all’art. 41-bis. Se non si dubita riguardo al fatto che anche in quest’ultima ipotesi – ancorché sia assente una previsione esplicita – la sottoposizione a visto richieda un provvedimento dell’autorità giudiziaria, da adottare nella ricorrenza dei casi indicati nell’art. 18-ter, non si comprende se tale disciplina debba o meno trovare applicazione nei confronti dei detenuti in regime di 41-bis con riguardo all’esclusione delle comunicazioni destinate ai difensori.
Qualora si ritenesse che l’esclusione prevista dall’art. 18-ter (come detto ritenuto applicabile per la parte in cui richiede il provvedimento del giudice) valga anche per i detenuti in regime di 41-bis (in assenza di esplicita previsione che lo impedisca) la questione dovrebbe ritenersi o inammissibile, per erroneo presupposto interpretativo nel quale sarebbe incorso il giudice a quo (anche se talora la Corte discutibilmente considera questa ragione motivo di rigetto), o infondata, proprio perché è possibile dare alla disposizione censurata un’interpretazione conforme a Costituzione.
Al riguardo, la Corte ricorda i contenuti di una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria che, dalla lettura delle disposizioni prima richiamate, ha ricavato il «tassativo divieto di sottoporre a limitazioni e/o controlli la corrispondenza c.d. “per giustizia”, ovvero la corrispondenza indirizzata a soggetti indicati nel comma 5 dell’art. 103 del codice di procedura penale» (DAP, circolare n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017). Si tratta di un’interpretazione plausibile e senz’altro conforme a Costituzione, che la Corte ritiene aver «implicitamente» orientato anche alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sezione prima penale, sent. 22 giugno 2020, n. 23820; sezione prima penale, 28 febbraio 2019, n. 27571; sezione prima penale, sent. 20 febbraio 2019, n. 21737).
Ma il giudice rimettente (Cassazione, sezione prima penale) muove da un diverso presupposto interpretativo: poiché la disposizione censurata esclude espressamente dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza con «i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia», allora non potrebbe trovare applicazione l’esclusione riguardante i difensori prevista dall’art. 18-ter o.p. Ciò in quanto la previsione dell’art. 41-bis si porrebbe quale lex specialis sia rispetto al comma 2 dell’art. 18-ter, sia rispetto all’art. 103, comma 6, c.p.p.
Ciò basta alla Corte costituzionale per ritenere ammissibile e fondata la questione, sia in quanto mancherebbe un orientamento giurisprudenziale di segno contrario sufficientemente consolidato da poter assurgere a diritto vivente sia in ragione del fatto che la soluzione interpretativa offerta dal giudice a quo sarebbe la «più conforme al dato letterale della disposizione censurata».
È un’affermazione discutibile non con riguardo all’ammissibilità della questione, ma alla decisione di merito. La Corte ha infatti da qualche anno superato l’orientamento in base al quale la mera possibilità di interpretazione conforme a Costituzione sia ragione di inammissibilità, ove non considerata dal giudice a quo (si veda, già, sentt. n. 235 del 2014 e n. 51 del 2015, prima della sent. n. 221 del 2015, citata ora nella decisione), non per questo affermando la necessità di ricorrere all’accoglimento della questione per contraddire l’interpretazione seguita nell’ordinanza di rimessione. Lo si comprende chiaramente leggendo la sent. n. 42 del 2017: «ai fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il giudice a quo esplori la possibilità di un’interpretazione conforme alla Carta fondamentale e (…) la escluda consapevolmente». È quanto accaduto nel caso di specie, il che – ripeto – vale ai fini dell’ammissibilità e non già dell’accoglimento della questione.
Troppo stringata appare, sul punto, la motivazione della Corte, che rischia di contraddire il consolidato orientamento per cui l’incostituzionalità è sempre extrema ratio, espressiva del fallimento dell’interpretazione, da riservare all’ipotesi in cui la “lettera” o il “diritto vivente” oppongano una resistenza davvero insuperabile ad una lettura conforme a Costituzione, impedendo il ricorso alla decisione interpretativa di rigetto.
Ribaltando il ragionamento offerto nella decisione, si potrebbe facilmente affermare che l’interpretazione seguita dal giudice a quo per sostenere le ragioni dell’incostituzionalità della disciplina non è certo “diritto vivente” (vi è, anzi, un “implicito” orientamento giurisprudenziale di segno opposto, nonché una circolare del DAP che indica la direzione conforme a Costituzione) e che l’applicazione dell’art. 18-ter o.p. per operare una “giurisdizionalizzazione” del prescritto controllo nei confronti dei detenuti in regime di 41-bis ben potrebbe dimostrare l’assenza di una resistenza insuperabile opposta dalla “lettera” della disposizione censurata.
Anche l’argomento della lex specialis potrebbe essere superato, se si ritiene che nel caso di specie non vi sia propriamente un’antinomia, bensì una lacuna da colmare ricorrendo alla disposizione che regola un caso simile (l’art. 18-ter, appunto), come si è ritenuto nella circolare DAP e in quello che la Corte definisce l’orientamento “implicito” maturato nella precedente giurisprudenza. Né pare decisivo l’argomento – invero non speso – per cui l’attuale disciplina del regime di cui all’art. 41-bis, per la parte che interessa, è l’esito di una riforma intervenuta nel 2009, dunque non solo speciale ma anche successiva alla revisione dell’art. 18-ter compiuta nel 2004. Ciò in quanto il legislatore, in realtà, è di nuovo intervenuto sull’art. 18 o.p. con il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, tra l’altro prevedendo «che i detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’articolo 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena» e poi anche sull’art. 18-ter o.p., per precisare quale sia il giudice competente per i provvedimenti di cui al comma 1, a seconda che si tratti di condannato e internato o imputato. E qui si potrebbe persino sostenere che, alla stregua dell’intenzione del legislatore (ribadita con l’intervento del 2018), la legge generale successiva presenti sul punto una latitudine tale «da non tollerare eccezioni, neppure da leggi speciali» (come affermato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 95 del 2020, che ha così attribuito all’interprete un ruolo decisivo nella valutazione della “portata” della legge successiva, consentendo nella specie l’applicazione del criterio cronologico in luogo di quello della specialità). Ma a prescindere dalla successione nel tempo delle norme considerate, pare decisivo il rilievo che interessa la ratio della prevista non applicazione del visto di controllo alla corrispondenza con i difensori, la quale risponde all’esigenza di attuare una disposizione costituzionale espressiva di un principio supremo (art. 24), non suscettibile di deroga in alcuna circostanza.
Ad ogni modo, quel che mi pare difficilmente contestabile è che non basti l’isolata opinione del giudice a quo, per quanto autorevole, a mutare i termini del problema. È sufficiente per l’ammissibilità della questione che il rimettente scarti, consapevolmente, la possibile soluzione conforme a Costituzione; non è sufficiente, per l’accoglimento, sostenere che l’interpretazione contraria è la «più conforme al dato letterale», dovendosi piuttosto dimostrare che la “lettera” (o il “diritto vivente”) si opponga irrimediabilmente ad un esito ermeneutico conforme a Costituzione.
Si mette altrimenti in discussione non solo l’adagio per cui «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne)» (sent. n. 356 del 1996), ma anche la più recente “correzione” dello stesso che induce a preferire il ricorso alla decisione interpretativa di rigetto ove l’esito interpretativo conforme a Costituzione, per quanto difficile o improbabile, sia pur sempre possibile.
- Alcune necessarie puntualizzazioni.
Di là dai rilievi appena formulati, resta la condivisione di un esito – al quale si sarebbe potuti giungere con altra tecnica decisoria – che intende garantire il rispetto del diritto del detenuto o internato a corrispondere in modo riservato con il suo difensore.
Proprio riguardo ad esso possono risultare utili alcune puntualizzazioni, che rispondono all’esigenza, sottesa alla sottoposizione al regime di 41-bis, di adottare ogni cautela al dichiarato fine della rescissione dei rapporti tra il recluso e il consesso criminale di appartenenza.
La prima puntualizzazione concerne il riferimento al difensore, da intendersi quale avvocato che sia stato formalmente nominato con riguardo a specifico procedimento. La ricorrenza di questa circostanza deve essere puntualmente verificata con idonee forme di controllo.
Per la corrispondenza in uscita la verifica potrebbe essere compiuta dalla direzione dell’istituto, controllando che le indicazioni relative alla destinazione della missiva corrispondano nelle generalità e nel luogo a quelle che risultano dall’atto formale di nomina. Già la citata circolare DAP del 2017 fornisce in tale direzione utili regole, sia pure dettate per la consegna di atti e documenti processuali che siano consegnati brevi manu, richiedendosi apposita dichiarazione che si tratta di corrispondenza per ragioni di giustizia ex art. 103 c.p.p. e 35 disp. att. c.p.p., con indicazione del numero del procedimento e conferma del Direttore dell’istituto che il difensore è regolarmente nominato nel relativo procedimento.
Quanto alla corrispondenza in entrata si pongono dubbi ulteriori, certamente non sciolti dalla formula impiegata nel dispositivo della sentenza, che genericamente si riferisce alla «corrispondenza intrattenuta con i difensori». Non sono certo, infatti, che nella corrispondenza sottratta a controllo possa rientrare anche quella in ingresso, almeno stando alla formulazione del comma 2 dell’art. 18-ter che si riferisce, propriamente, alla corrispondenza «indirizzata» ai difensori. Ove la si ammettesse, bisognerebbe immaginare opportune cautele non bastando, evidentemente, la formale dicitura del mittente riportata sulla busta e comprensiva della qualifica di avvocato, dovendo in qualche forma esserne assicurata l’identificazione, ad esempio mediante attestazione del Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati del foro di appartenenza o di suo delegato.
Misure come quelle indicate, o analoghe che si volessero introdurre, non sarebbero certo così invasive da determinare un significativo decremento di tutela del diritto di difesa, essendo sicuramente idonee ad assicurare un incremento di tutela di un interesse costituzionalmente rilevante, qual è quello della sicurezza, declinato nella specifica forma del contrasto al crimine organizzato. E forse anche a tale fine, piuttosto che ricorrere a una pronuncia additiva, contenente una formula così generica quale quella di «corrispondenza intrattenuta con i difensori», sarebbe stato meglio utilizzare una decisione interpretativa di rigetto, dichiarando infondata la questione in quanto la disposizione censurata ben poteva essere letta in modo sistematico (alla luce dell’art. 18-ter o.p., in quanto attuativo dell’art. 24 Cost.) come inidonea ad escludere il divieto di sottoposizione a visto di controllo o di censura della corrispondenza telefonica o telegrafica indirizzata ai soggetti indicati nel comma 5 dell’art. 103 c.p.p. Si sarebbero così evitati o prevenuti i dubbi che si sono ora adombrati, riconducendoli nell’alveo dell’art. 18-ter o.p., oggetto di interpretazione della giurisprudenza e persino di una esplicitazione amministrativa, senz’altro conforme a Costituzione, già estesa alla specifica situazione dei detenuti e degli internati in regime di 41-bis.
*Ordinario di «Diritto costituzionale» presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre