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“LA GUERRA DEI ‘PARADIGMI’ FRA LIBERTÀ E ILLIBERTÀ”. LETTERA DI GAETANO INSOLERA A FRANCESCO PETRELLI

“LA GUERRA DEI ‘PARADIGMI’ FRA LIBERTÀ E ILLIBERTÀ”. LETTERA DI GAETANO INSOLERA A FRANCESCO PETRELLI

 

 

 

Caro Francesco,
è per me un grande piacere dialogare con te dopo aver letto le tue osservazioni in “La guerra dei ‘paradigmi’ fra libertà e illibertà”.
 
Mi scrivi che si tratta di riflessioni dopo la lettura del mio libercolo: e questo non può che lusingarmi, in un’epoca smart, di messaggi short (che orrore!) che schiva anzitutto la noia del confronto con le parole stampate.
 
1. Tu prendi anzitutto atto del tramonto di quanto pensavamo si fosse consolidato a proposito dell’arte abbietta del punire: il “nuovo ordine” vuole smantellare i “miti” dell’illuminismo, e ci sta riuscendo. Riprendo un intervento in un recente convegno svoltosi a Bologna[1], nel quale ricordavo anche una penalistica, oggi à la page, che, da una parte, rimprovera alla politica una legislazione penale scadente, irrazionale, compulsiva, dall’altra, tuttavia si acquieta, in un disincanto ritenuto necessario, nei confronti di una penalità, come scienza dei limiti, come diritto negativo, ritenuta solo ideale: un modello liberale che persisterebbe solo nell’anacronistico immaginario dei penalisti. Mi chiedo, e non sono mai stato incantato, confondendo l’essere con il dover essere: se il modello liberale è scienza dei limiti rispetto alla coercizione, la sua cifra politica è una bagatella?
 
Questa antiquata fantasia liberale, poi, non sarebbe al passo con le società postmoderne.
 
Mi chiedo se i sempre evocati antesignani del liberalismo penale avessero di fronte società pacificate ispirate ad umanitarismo e scevre da rancori e paure, o, piuttosto, vivessero in un rapporto difficile con il consenso e le pulsioni popolari, da un lato, e la ragion di Stato, dall’ altro. Questo si può esprimere in quella idea di “penalistica civile” coniata da Mario Sbricoli.
 
Più complesso e stimolante l’appello al disvelamento di una verità che, comprendendo la imprescindibile violenza del penale, si sottragga dal fornirgli una legittimazione, legittimazione già rinvenibile nei padri nobili del liberalismo penale, dovendo noi aspirare a qualcosa di meglio e di diverso.
 
Mi sembra che si riproponga una novecentesca critica all’ illuminismo[2], che non tiene conto del nuovo ordine e di nuovi rischi per autonomia e libertà individuali. Quando penso, oggi, al ruolo dei penalisti di fronte ai populismi, mi riferisco a compiti, nel discorso pubblico forse meno ambiziosi, ma ai quali penso che, da parte nostra non vi si possa rinunciare.
 
In definitiva in tutte le esperienze politiche, storiche e contemporanee, in diversi modi e misure, paure, pene, processi, sono state ingredienti indefettibili nella ricerca di consensi, hanno sollecitato passioni feroci, mai sopite.
 
Quando si affermano ideologie “negative”, esse si differenziano da quelle “positive” solo perché non selezionano i nemici nel contesto di narrazioni di emancipazione, nella “tradizione degli oppressi”, ma scelgono i bersagli – la razza, gli stranieri etc. – facendo leva sui diversi rancori di una società frammentata, fatta di particolarismi, corporazioni, osservanze feudali.
 
Ancora, se si vuole dire che quel modello non ha mai trovato piena realizzazione: sono d’accordo.  Tuttavia tenere i piedi fermi nella difesa dei principi di un Diritto penale liberale, permetterà, oggi più che mai, di cogliere il loro tradimento, dicendoci della qualità della nostra democrazia, che, inutile dirlo, non ha mai potuto e, fortunatamente, non ha mai ambito alla perfezione, ad essere il migliore dei mondi possibili!
 
Nel centenario della nascita di Leonardo Sciascia mi piace concludere: come lui, a Rousseau continuo a preferire Voltaire.
 
Cogli perfettamente nel segno quando parli del paradigma della “nuova legalità” come “legalità dei principi”, contrapposta alla legge.
 
E individui anche gli snodi fondamentali.
 
A questo proposito mi sembra che ci aiuti la scelta delle parole e l’individuazione del loro significato.
Al “costituzionalismo penale”, stagione proficua di nostri maestri, che elaborarono, nel dialogo con il legislatore e la Corte Costituzionale, non sempre facile, soprattutto agli inizi, l’adeguamento del sistema all’ethos della Costituzione repubblicana, è subentrato, anche nel diritto punitivo il precipitato delle idee del “neocostituzionalismo”.
 
La prima fase fu orientata a definire uno Stato costituzionale di diritto che, in penale, desse attuazione anzitutto a norme, qualificabili come vere e proprie regole, positivizzate nella legge fondamentale, quindi vincolanti e “giustiziabili” in caso di violazione da parte del legislatore ordinario.
 
Il cosiddetto “nuovo costituzionalismo”, con la sua enfasi sui diritti e la loro tutela, trasforma la Costituzione da tavola delle regole a officina (“deposito”) di valori, alimenta un’ideologia creativa del momento interpretativo che, come una cascata attraversa e “dice” il diritto in  tutte le giurisdizioni, azionando il proliferare di sempre nuovi diritti da porre sulla bilancia [che si vuole sostituita al sillogismo], ma che, necessariamente, va a detrimento di altri diritti: con il diritto penale a detrimento di diritti fondamentali delle persone sottoposte alla macchina penale.
 
E veniamo al primo snodo: gli ultimi decenni hanno visto una forte espansione del potere giudiziario. Si tratta di un fenomeno comune a molti paesi democratici, ma che ha mostrato una particolare accentuazione in Italia, soprattutto nel settore penale. Si sono fatte più influenti nuove concezioni, che riconoscono più o meno apertamente il carattere creativo dell’attività giurisprudenziale. Alcune di queste concezioni mantengono un profilo prudenziale, in quanto invitano il giudice a considerarsi innanzitutto come una sorta di delegato del potere legislativo e comunque a tenere aperto un continuo dialogo con gli altri poteri dello Stato. Altre invece, sempre più influenti, di tipo maggiormente attivista, vedono il giudice – e sempre più spesso lo stesso pubblico ministero – come un guardiano dei diritti, posto non tanto sullo stesso piano quanto al di sopra degli altri “poteri”: un giudice – o anche un pubblico ministero – sempre più spesso considerato la vera “bocca della Costituzione”. Costituzione usata come un deposito inesauribile di sempre nuovi diritti da presidiare anche [o sempre?] con il penale.
I limiti all’interpretazione delle leggi sostanziali e processuali, quando non sono travolti dal legislatore, devono essere sottoposti ad un continuo stress test per proteggere anche diritti di vittime già definite nel racconto delle incriminazioni o colte in dimensione collettiva, spalancando loro le porte del processo penale.
E così cogli ancora nel segno quando dici che “si tratta di una redistribuzione del kratos all’interno dei poteri dello Stato”.
È il “potere penale” sul quale abbiamo lavorato nel Centro Marongiu, anche con te, negli ultimi anni per cercare di ricostruire i vari e reali meccanismi che contribuiscono a formare le concezioni del ruolo giudiziario che prevalgono nel nostro corpo giudiziario e che stanno in buona parte alla base del suo potere nelle soluzioni giurisprudenziali e nel confronto con la politica[3].
Ma in questa epoca in cui gli scenari mutano senza sosta, si è precisato e realizzato quanto già si poteva cogliere: ed ecco un altro snodo che metti in evidenza. Quello del rapporto tra le ideologie “populiste” e il “potere penale” della magistratura[4].
La legge screditata deve essere sostituita da una fonte più prossima al popolo e alle sue esigenze. Il giudice che non è e non può essere ‘bocca della legge’ sarà d’ ora in poi ‘orecchio del popolo’ e dei suoi nuovi valori dominanti” dici, e descrivi gli effetti del “diritto penale dell’istinto”.
Ma non è finita.
Come è possibile trascurare, nella nuova allocazione dei poteri e del “potere penale”, quanto giochi la comunicazione digitale, in apparenza disintermediata, nel cogliere, parte del magistrato aruspice, la lettura di ciò che il popolo vuole?
È possibile distinguere emotività e intuizioni del decisore dalle costruzioni veicolate dai nuovi media?
Si può confidare sulla impermeabilità alla pervasiva verità somministrata dei social network, potenziata all’ infinito dalla ubiquitaria connessione degli smartphone, al momento della ricostruzione storico-ricostruttiva da parte del giudice?
 
Si possono immaginare decisori indenni dalla macchina dei consensi formatisi nei social network e nei processi paralleli celebrati nelle reti televisive, a colpi di sondaggi pret à porter?
 
La sofferenza e l’ansia di ristoro delle vittime, sempre più al centro di ogni dettagliato racconto mediatico, può sfuggire a processi di identificazione compassionevole tali da alimentare la componente emotiva del decidere?
 
Così concludevo in proposito in uno scritto recente[5].
 
L’era della comunicazione digitale e dei suoi effetti dirompenti sulla formazione del consenso, a cominciare dall’influenza sulla sovranità politica in democrazia[6], non consente di continuare ad immaginare una componente neutrale nella empatica emotività del giudicante: ricostruzioni del fatto, colpevoli, necessità punitive oltre la Legge, trovano artefici che non sono in un convincimento “libero” del giudice.
 
Si è inaugurata una svolta epocale che impone di ripensare ad un bagaglio concettuale sul quale si è costruito il sapere sulla giustizia penale[7].
 
E non è proprio detto che il futuro ci riservi qualcosa di migliore e più giusto.
 
2. Caro Francesco le tue osservazioni esordiscono menzionando questi tempi epidemici che devono farci interrogare sulla fragilità e reversibilità dei principi che governano la nostra esistenza e quella della nostra collettività.
 
La pandemia che ci ha chiuso in casa contribuisce a definire un ulteriore scenario. Ha molto a che vedere con quanto ci siamo detti fino ad ora. Lo colgo anche nelle tue conclusioni.
 
È uno scenario gelido e monocromo che ci immerge nel pathos del Settimo Sigillo. In un’epoca che, da noi, sembrava aver dimenticato la morte, come ci ricordava Leonardo Sciascia, ci troviamo davanti il suo volto bianco e abbacinante: come il cavaliere Antonius Blok siamo invitati ad una partita a scacchi. Però senza aver conosciuto le regole del gioco.
 
Il buon senso ci spinge a seguire regole, ad averne urgente bisogno, con la forza persuasiva della loro provenienza autoritaria.
 
Dopo alcuni anni di rissosa faziosità elettoralistica, a guida populista, per la conquista del quartier generale, si invocano, unità, solidarietà, si riscoprono nazionalismi da ogni parte: che tacciano le polemiche. Sono gli slogan che ci vengono da tutta la macchina della comunicazione.
 
Ma tant’ è. E non ho le traveggole, non vedo “il chiodo di Hindemburg sull’ elmetto prussiano a tre punte della pochette gagà dell’avvocato Conte”, è l’immagine, come sempre divertente, con cui Ferrara stigmatizza certe Cassandre.
 
Però, un però c’ è.
 
Penso che occorre avere presente altri virus, oltre al Covid-19: con la consapevolezza e la preparazione che forse è mancata invece – certo non solo in Italia – per prepararsi a combattere quel mostro invisibile.
 
Caro Francesco, quello che ci siamo detti da tempo rispetto allo stato di salute della nostra democrazia, alle vittorie del populismo penale e al nuovo paradigma della giustizia penale, rivela quanto siano carenti le difese immunitarie contro virus illiberali portati da questa emergenza epidemica, come per il tifo esantematico dai pidocchi, in Firenze, all’ inizio del XVII secolo, nel racconto di C. M. Cipolla, “I pidocchi e il Granduca”.
 
Penso allora che valga la pena continuare nel nostro lavoro, certo osservando, con devota obbedienza, le precauzioni imposte: porsi cioè qualche interrogativo. Un impegno nella riflessione che fa parte del nostro mestiere di penalisti.
 
Qual è il ceto politico al quale sono affidate le decisioni?
 
Difficile negare che, in prevalenza, si tratta di un ceto che ha costruito la propria grande fortuna elettorale sulla negazione delle competenze, delle élites tecnico-scientifiche, sulla stessa funzione mediatoria delle decisioni politiche. Ancora le simpatie per regimi autoritari: e oggi, più che mai, “la Cina è vicina”.
 
Nella pandemia il ritorno delle competenze ha però fatto sentire molti sospiri di sollievo. Quasi una nemesi, che avrebbe messo nel dimenticatoio anni di No vax, fake news ed altre amenità, che hanno costruito il grande consenso elettorale del 2018.
 
Il potere sarebbe oggi nelle mani dei più buoni, o, quanto meno, di chi d’un colpo tale è diventato: richiamando il bel pamphlet del nostro amico Lorenzo Zilletti[8].
 
Il dialogo con le competenze è indispensabile alla politica, sempre. Ci mancherebbe!
 
Ma non può tradursi in scientismo tecnocratico con la capacità di garantire la univoca correttezza del decisore politico. Non deve stupire la babele dei virologi in corso. Aiuta l’esperienza giudiziaria nei processi basati sul necessario riferimento alla scienza per individuare le sequenze causali.
 
La personalizzazione della politica in quella che ormai conosciamo come “democrazia del leader”, in una prima fase è volata sulle ali della televisione, poi del suo intreccio con la bolla digitale, oggi sta lanciando nel firmamento la stella di un capo di governo fino a due anni fa ignoto e di indecifrabile sentire politico.
 
E allora come non riflettere alle precauzioni consigliate dal segretario fiorentino (capitolo XXV del Principe) su “Quanto possa nelle umane cose la fortuna, e in che modo se gli possa ostare”.
 
Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi. Ed assomiglio quella ad un fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici, lieva da questa parte terreno, ponendolo a quell’ altra; ciascuno gli fugge davanti, ognuno cede al suo furore, senza potervi ostare; e benché sia così fatto, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possano fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodochè crescendo poi, o egli andrebbe per un canale, o l’ impeto suo non sarebbe sì licenzioso, né sì dannoso”. 
 
Bisogna essere pronti affinché nell’organismo della giustizia penale il virus dell’eccezione portato dalla pandemia – e non scomodiamo Shmitt – non si insedi in modo permanente come un èrpes. Sappiamo che ciò è avvenuto progressivamente, quanto meno negli ultimi trenta anni.
 
Si è giustamente segnalato come la torrenziale legiferazione adottata, nell’intreccio dei rinvii tra Decreti legge e provvedimenti eccezionali dell’esecutivo – decreti del Presidente del consiglio dei ministri – si presti a rilievi sia di diritto costituzionale, sia di diritto penale[9]. Meno condivisibile l’idea, da realizzare, nel rispetto della riserva di legge – ma la pandemia mi sembra che stia portando all’eutanasia un Parlamento da tempo morente – una tutela penale rafforzata (una figura delittuosa ad hoc, con pene più severe di quelle ipotizzabili per i reati ad oggi contestati a fronte di migliaia di denunce già inoltrate), delle misure di contenimento del Covid-19: pena detentiva unita a pena pecuniaria, in caso di violazione commessa con un l’uso di un veicolo confisca e sospensione della patente, pena tuttavia suscettibile di sospensione condizionale e senza arresto in flagranza per non aggravare il sovraffollamento carcerario. Uno scrupolo, quest’ ultimo, che richiama la tua idea di “codice spaventapasseri”. Né mi rassicurerebbe troppo il ricorso a leggi eccezionali o temporanee: non solo perché ho timori per proroghe, di cui già abbiamo avuto esperienza, vi è poi la deroga in punto di ultrattività prevista dall’art. 2, 5° comma, ma soprattutto, c’ è preoccupazione per l’introduzione di uno strumento che potrà costituire un precedente, in occasione di altre calamità, anche di minore portata.
 
I notiziari televisivi inoltre nel dare notizie del costante aumento delle denunce a carico di disobbedienti, riferiscono di contestazioni dell’art. 452 c.p. – 12 anni di pena.
 
Il diritto penale totale, raccontato, con la capacità di efficace sintesi da Filippo Sgubbi[10], può aprirsi alle sconfinate prestazioni della punizione della mera disobbedienza: un altro limite fatto crollare dai nuovi paradigmi, insieme ai miti illuministici.
 
Tante altre cose vorrei dire sulla giustizia penale di questa emergenza e mi aspetto già l’accusa di avere le traveggole, nel migliore dei casi.
 
Per concludere solo qualche domanda che ti rivolgo, considerando che anche tu, chiuso in casa, segui la quotidiana dose di informazioni, meglio sarebbe dire di “intrattenimento”, passato dai media: in prima fila quelli del servizio pubblico che, in questa temperie, si carica della maggiore forza che gli attribuisce l’aggettivo.
 
Anche tu cogli l’eccesso di retorica nazionalista nell’invocazione un patriottico unanimismo incondizionato? Quella atavica paura dell’isolamento che, sperimentando una necessità reale che lo impone, addestra al conformismo descritto dalla teoria dell’opinione pubblica da E.N. Neuman[11]?
 
Cogli il riproporsi di nuovi capri espiatori, secondo la lezione di R. Girard[12]?
 
Sono ad esempio i giovani, che, dopo la stagione nella quale non era più un mondo per vecchi, con l’edonismo dissipato dei loro costumi cosmopoliti, sono oggi i nuovi untori.
 
La loro disobbedienza gli farà fare la fine in faccia alla maschera della morte rossa.
 
Un abbraccio digitale.
 
Gaetano  
 
 
 
 


[1] Il testo riveduto, La giustizia penale nel nuovo [dis]ordine mondiale, in www.discrimen.it
[2] Per una recente, istruttiva, rivisitazione V. Ferrone, Il mondo dell’illuminismo. Storia di una rivoluzione culturale, Mondadori, Milano, 2019
 
[3] Lavoro che ha prodotto i tre volumi curati da C. Guarnieri – G. Insolera – L. Zilletti, editi da Carocci, Roma: Anatomia del potere giudiziario (2016); Giurisdizioni europee e sistemi nazionali (2018); Anatomia del potere giudiziario (2019).
[4] Sul tema, tra le tante voci, ottimo il lavoro di E. Amati, L enigma penale. L’affermazione politica dei populismi nelle democrazie liberali, Giappichelli, Torino, 2020, di imminente uscita.
 
[5] Legge ragione ed emozione nella giustizia penale in www.discrimen.it
[6] M. Barberis, Populismo digitale. Come internet sta uccidendo la democrazia, Chiarelettere, Milano, 2020 e M. Calise-Fortunato Musella, Il principe digitale, Laterza, Bari, 2019.M. Barberis, op.cit.; M. Calise-F. Musella, op.cit;
[7] Mi sembra significativo ad esempio, che, all’entrata in vigore di un codice accusatorio, si sia posta, da più parti, la questione della incompatibilità del nuovo sistema con il mantenimento della giuria popolare ereditata dal Fascismo. Vero è infatti che il legislatore fascista riformò la precedente disciplina temendone “tratti troppo democratici”, “Ciò che il Regime non può in alcun modo ‘salvare’ è il fondamentale ruolo costituzionale dell’opinione pubblica che opera un controllo sull’ amministrazione della giustizia e sui governanti ed è un pilastro dell’ordine liberale…”, M. Stronati, La grazia e la giustizia durante il Fascismo, in Il Diritto del Duce. Giustizia e repressione nell’ Italia fascista (a cura di L. Lacchè, Donzelli, 2015, Roma, 143; Analogamente F. Colao, Processo penale e pubblica opinione dall’ età liberale al regime fascista, in L’ inconscio inquisitorio. L’ eredità del Codice Rocco nella cultura processualpenalistica italiana, (a cura di L. Garlati), Giuffrè, Milano, p. 252 ss. Ha senso oggi riproporre la “vera” giuria popolare per i suoi tratti democratici e liberali e per la sua coerenza con il rito accusatorio? Posto che di rito accusatorio ancora si possa parlare. E cosa possiamo oggi intendere per “opinione pubblica”. Ma questa è un’altra storia.
 
[8] Il potere dei più buoni e altre sconvenienze, Mimesis, Milano, 2020.
 
[9] G. Gatta, Coronavirus, limitazioni di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in www.sistemapenale.it, 16.3.2020.
[10] Il Mulino, Bologna, 2019.
 
[11] In La spirale del silenzio, Meltemi,Milano, 2017, 347. “La teoria della spirale del silenzio parte dal presupposto che la società –non solo i gruppi che si conoscono – minacci di isolamento e di espulsione gli individui che deviano dal consenso e che d’ altro canto gli individui abbiano un timore dell’isolamento il più delle volte inconscio, probabilmente geneticamente radicato. Questa paura dell’isolamento li predispone ad accertarsi di quali opinioni e modelli di comportamento vengono approvati e quali disapprovati nell’ ambiente circostante, e quali opinioni e quali comportamenti perdono o guadagnano terreno”
[12] Si veda la recensione di Giulio Meotti alla pubblicazione postuma de Conversations with René Girard, in Il Foglio, 29 febbraio e domenica 1 marzo 2020.