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LA POLTRONA DEL DAP. TANTO SCOMODA QUANTO DESIDERATA. – DI RICCARDO POLIDORO

LA POLTRONA DEL DAP. TANTO SCOMODA QUANTO DESIDERATA. – DI RICCARDO POLIDORO

POLIDORO – LA POLTRONA DEL DAP. TANTO SCOMODA QUANTO DESIDERATA.PDF

di Riccardo Polidoro*

Dal 1975 l’Esecuzione Penale in Italia attende risposte legali.  Un breve excursus sulla storia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La poltrona del desiderio. I motivi dello scontro per la nomina a direttore. Le scelte irragionevoli dei ministri della giustizia. La recente nomina.

 

  1. Breve storia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

L’art. 30 della Legge 15 dicembre 1990, n. 395 istituisce il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria – in sostituzione della Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Vengono indicate nuove competenze. Oltre all’ordine e alla sicurezza degli istituti, il nuovo Ente dovrà occuparsi anche del trattamento dei detenuti. La Legge sostituisce anche il Corpo degli Agenti di Custodia, con quello della Polizia Penitenziaria.  Obiettivo del Legislatore è quello di adeguare gli istituti di pena alle norme dell’Ordinamento Penitenziario del 1975, ispirato ai principi indicati nella Costituzione.Non più solo ordine e disciplina, ma anche attuazione del fine di rieducazione e del reinserimento sociale del condannato. Vengono assegnati alla Polizia Penitenziaria, oltre ai tradizionali compiti di assicurare la sicurezza all’interno degli istituti, anche la partecipazione al trattamento rieducativo. Per la Direzione del Dipartimento viene creata la figura del Direttore   Generale dell’Amministrazione penitenziaria, scelto tra i magistrati di Cassazione con funzioni direttive superiori o tra i dirigenti generali di pari qualifica. Ma a capo del Dipartimento vi è sempre stato un magistrato. Mai un appartenente all’amministrazione penitenziaria. Ad iniziare da Nicolò Amato, già alla Direzione Generale degli istituti di prevenzione e pena dal 1983 e fino al 1993, Capo del nuovo D.A.P. A lui sono succeduti Adalberto Capriotti (1993-1995), Salvatore Cianci (1995-1996), Michele Coiro (1996-1997), Alessandro Margara (1997-1999), Giancarlo Caselli (1999-2000), Paolo Mancuso (2000-2001), Giovanni Tinebra (2001-2006), Ettore Ferrara (2006-2008), Franco Ionta (2008-2012), Giovanni Tamburrino (2012-2014), Santi Consolo (2014-2018), Francesco Basentini (2018-2020). Con la nomina di Bernardo Petralia di alcuni giorni fa, si conferma questa consuetudine, che, tra l’altro, vede, nella maggior parte dei casi, alla guida del Dipartimento un rappresentante della magistratura inquirente. Uniche eccezioni: Alessandro Margara, Giovanni Tamburrino e Ettore Ferrara. Tra questi, solo i primi due con esperienze presso i Tribunali di Sorveglianza di cui sono stati presidenti.

  1. La poltrona del desiderio.

Lo scontro istituzionale – avvenuto incredibilmente in diretta nel corso di una trasmissione televisiva – tra un componente del Consiglio Superiore della Magistratura e il Ministro della Giustizia, sfociato nella mozione di sfiducia di quest’ultimo promossa da alcuni partiti, ha confermato che la nomina a Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è un obiettivo a cui molti magistrati aspirano. Eppure non è un incarico strettamente giudiziario, tant’è vero che per ricoprirlo occorre essere messi fuori ruolo, sospendere, cioè, il percorso lavorativo per una destinazione diversa. Completamente diversa! Per la quale l’esperienza maturata in tanti anni di indagini ovvero di processi serve relativamente. Né l’aver diretto una Procura ovvero un Tribunale può essere paragonato alla nuova funzione, perché la direzione del Dipartimento comporta problematiche nuove, non affrontate in precedenza. In Italia vi sono più di 200 istituti e un organico di Polizia Penitenziaria previsto in 45.000 unità, di recente ridotto a 41.000. Ad esso va ad aggiungersi quello degli amministrativi, del personale dei Provveditorati Regionali, dei singoli istituti e i ruoli di tutte le altre figure previste dall’Ordinamento, come gli educatori. A questa enorme quantità di persone si aggiunge il mondo del volontariato che ogni giorno è attivo per consentire l’effettivo trattamento, a cui lo Stato, nella maggior parte dei casi, non provvede di sua iniziativa. Inoltre, vi è un numero di detenuti, che si attesta generalmente intorno alle 60.000 unità. Le difficoltà di una corretta gestione dell’Amministrazione Penitenziaria stanno proprio in questi numeri che richiedono una competenza specifica e non solo la conoscenza di norme e procedimenti. Ed allora perché molti magistrati aspirano a tale incarico? Sarà il piacere di una nuova sfida? Può darsi! Ma certamente ci sono anche l’enorme potere espresso a livello nazionale e uno speciale trattamento economico, tra i più elevati dell’intero apparato statale, con benefit che lo fanno lievitare ancora più in alto. La poltrona del desiderio, però, in questi anni si è rilevata fallimentare, in quanto chi ne ha beneficiato è stato solo il diretto interessato. Certamente non l’amministrazione penitenziaria che è sempre stata in affanno e non ha mai visto il suo Dirigente manifestare apertamente, nei confronti del Ministro che lo aveva nominato, il disagio organizzativo e i trattamenti inumani e degradanti a cui sono sottoposti i detenuti. Una complicità indotta dalla nomina che pregiudica la presunta voglia di una nova sfida.

  

  1. Le irragionevoli scelte dei Ministri della Giustizia.

 In tutti questi anni, l’Italia non ha mai avuto un’esecuzione penale degna di un Paese civile. Il cronico sopraffollamento, e la mancanza di risorse, sono state le principali spine nel fianco di un’Amministrazione che non ha saputo reagire promuovendo iniziative che potessero fare fronte a scelte politiche mirate ciecamente alla sola sicurezza, imponendo un sistema carcerogeno che non guarda al domani, ma solo al facile e inutile – per la nazione – consenso popolare. Si contano sulle dita di una mano gli esempi virtuosi di quei pochi istituti che, grazie alla visione illuminata dei loro Direttori o Direttrici, hanno saputo coniugare a pieno la detenzione così come descritta nell’art. 27 della Costituzione, riconsegnando alla libertà persone migliori e facendo effettiva opera di prevenzione del crimine. I motivi che hanno indotto i vari Ministri della Giustizia ad ignorare l’indicazione di un dirigente della stessa amministrazione penitenziaria a Capo del Dipartimento, risiedono nella evidente mancanza di fiducia in quei ruoli, che pure garantivano e garantiscono una conoscenza certamente superiore della complessa articolazione del mondo penitenziario. Non si può dire, dunque, che le scelte fatte sino ad ora siano state efficaci, né possiamo sapere se un dirigente dell’amministrazione penitenziaria avrebbe potuto fare meglio. Possiamo, però, senz’altro affermare che per dirigere una così ampia organizzazione occorrono doti che difficilmente fanno parte del curriculum di un magistrato. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è paragonabile alle più grandi aziende italiane. Ha una sede centrale a Roma, undici sedi periferiche (i Provveditorati), più di duecento stabilimenti (gli istituti) sparsi sull’intero territorio nazionale. Gestisce oltre al proprio innumerevole personale, un numero che si attesta intorno alle sessantamila unità (i detenuti) che vogliono lavorare così come, tra l’altro, previsto dalle norme vigenti. Accanto alle ragioni di sicurezza – le sole a cui sembra interessata la politica – vi sono ragioni, ovvero obblighi, di far funzionare un apparato virtuoso, già presente sulla carta, che possa consentire il lavoro di tali persone, con un enorme vantaggio per l’Amministrazione e per la comunità tutta. L’impiego dei detenuti in attività lavorative, inoltre, garantirebbe – se gestito oculatamente – introiti, non solo per loro, ma anche per il Ministero, sempre alla ricerca di risorse. Inoltre si darebbe applicazione al principio costituzionale del “trattamento”, in gran parte oggi ignorato.  Su quella “scomoda”, ma desiderata poltrona, vada, dunque, a sedersi un manager che possa davvero stravolgere l’attuale sistema penitenziario, ormai obsoleto e che, in questi anni, si è dimostrato non solo fallimentare, ma ha provocato danni irreparabili alla civiltà del nostro Paese, come più volte sentenziato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le ragioni di sicurezza saranno ugualmente garantite, in quanto il neo-dirigente saprà adeguare il nuovo indirizzo anche ad esse, dando le giuste direttive alla Polizia Penitenziaria, che dovrà retare sotto il suo potere. Non vi è dubbio, infatti, che il Corpo della Polizia Penitenziaria non può essere paragonato ad altri, come i Carabinieri o la Polizia di Stato, svolgendo un’attività del tutto diversa che deve essere circoscritta agli istituti penitenziari. La Magistratura, soprattutto quella di Sorveglianza – che pure andrebbe riformata – avrà, come del resto già previsto dall’Ordinamento, il compito di vigilare sugli istituti di pena al fine di valutare non solo i percorsi trattamentali, ma anche eventuali rischi per la sicurezza interna ed esterna.  Occorre, dunque, una rivoluzione culturale. Un rovesciamento dell’attuale pensiero, che possa aderire pienamente alla nostra Costituzione.

 

  1. La recente nomina.

 Intanto, seguendo la tradizionale prassi, pochi giorni fa si è insediato, sulla poltrona del desiderio, il nuovo Capo del Dipartimento.  Gli auguriamo un percorso degno della sua brillante carriera. Sono auguri sinceri quanto “interessati”, perché, se prima la strada da percorrere era impervia e faticosa, oggi, in piena emergenza sanitaria, giudiziaria e politica, tutto sarà ancora più complicato. Da Procuratore Generale di Reggio Calabria, con un passato da Procuratore della Repubblica e un’esperienza al Consiglio Superiore della Magistratura, egli è chiamato ad un compito arduo, per il quale la sua esperienza professionale sarà utile solo in parte.  Governare un distretto di Corte di Appello non equivale a dirigere, su tutto il territorio nazionale, un complicatissimo mondo in cui conta non solo la sicurezza, ma anche il recupero sociale dei detenuti, le condizioni igienico-sanitarie degli istituti, l’uso delle misure alternative al carcere, propedeutiche al ritorno in libertà. È una sfida importante che dovrà fare i conti anche con un clima politico sfavorevole per il raggiungimento di tali obiettivi, con le condanne che il nostro Paese ha subito in passato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e con le attuali censure mosse al nostro sistema penitenziario. Come è avvenuto per le altre nomine, l’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere, è pronta ad offrire il suo contributo per agevolare la difficile missione del neo-capo dipartimento, come siamo certi faranno le altre istituzioni e associazioni, da sempre impegnate nel rispetto dei diritti dei detenuti.

*co-Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane