Enter your keyword

LA POSIZIONE DELLA DIFESA RISPETTO AL FATTO DA PROVARE. PRESUNZIONE D’INNOCENZA, ONERE DELLA PROVA, ONERE DI ALLEGAZIONE – DI GIULIO GAROFALO

LA POSIZIONE DELLA DIFESA RISPETTO AL FATTO DA PROVARE. PRESUNZIONE D’INNOCENZA, ONERE DELLA PROVA, ONERE DI ALLEGAZIONE – DI GIULIO GAROFALO

GAROFALO-LA POSIZIONE DELLA DIFESA RISPETTO AL FATTO DA PROVARE.PDF

LA POSIZIONE DELLA DIFESA RISPETTO AL FATTO DA PROVARE. PRESUNZIONE D’INNOCENZA, ONERE DELLA PROVA, ONERE DI ALLEGAZIONE

di Giulio Garofalo

Sul ruolo della difesa nel processo penale occorre sfatare il luogo comune secondo cui la stessa sarebbe indifferente alla ricerca della verità, concentrandosi solo sugli interessi dell’assistito. In realtà, la difesa partecipa attivamente al confronto dialettico con l’accusa, contribuendo all’accertamento dei fatti attraverso il contraddittorio. Il compito di “dire la verità” spetta al giudice, mentre sia accusa che difesa presentano tesi e antitesi.

Sommario: 1. La colpevolezza come tema del processo. – 2. Onere della prova e distribuzione del rischio della mancata prova. – 3. La ‘verità interinale’ dell’art. 27, comma 2, Cost.: il carattere assiomatico dell’innocenza. – 4. ‘Giustificazioni’ e ‘alibi’. Onere della prova e onere di allegazione.

  1. La colpevolezza come tema del processo

Sul tema dei rapporti fra verità e contributo delle parti all’accertamento si registra, in ambito giudiziario, un diffuso luogo comune. La difesa non si cura della ricerca della verità, perché concentrata a proteggere gli interessi del proprio assistito.

È appena il caso di notare che simili argomenti non promanano, tanto, da una considerazione critica dei doveri deontologici dell’avvocato o dalla struttura della prova e delle regole del processo, quanto, dalla convinzione – tutta inquisitoria – che la ricerca della verità sia prerogativa di esclusiva spettanza del Pubblico Ministero e del Giudice.

Seppur parzialmente confermata da alcune derive dell’attuale modello processuale, che garantisce all’imputazione inedite chance di successo[1], tale visione risulta affetta da una molteplicità di errori prospettici.

In primo luogo, non si può fondatamente sostenere che l’accusa abbia il compito di ricercare la verità. Se con tale locuzione si vuole intendere la funzione di ‘dire la verità’ sui fatti oggetto dell’imputazione, si tratta di una mansione che spetta, propriamente, al Giudice[2]. Il Pubblico Ministero può, semmai, contribuire a tale accertamento adducendo prove e argomenti a sostegno della propria ipotesi, allo stesso modo in cui può fare la difesa: partecipando, cioè, «a quel confronto tra tesi (accusa) e antitesi (difesa) che in dibattimento si esprime nel contraddittorio come strumento epistemologicamente ‘forte’»[3].

In secondo luogo, appare frutto di un paralogismo la pretesa di ricavare una presunta noncuranza della difesa nei confronti della verità argomentando dalle prerogative costituzionali dell’imputato o dalla sua posizione rispetto al fatto da provare. Dal principio nemo tenetur se detegere e dalla considerazione che l’onere della prova incombe sull’accusa è dato solo ricavare un diritto della parte privata alla passività processuale[4], ma non anche un’analoga indifferenza funzionale per una strategia difensiva maggiormente intraprendente, sia in chiave demolitoria della tesi d’accusa, sia rivolta alla costruzione di una plausibile tesi alternativa.

Non è colpa della difesa, in sostanza, se non si pone in capo all’imputato un obbligo di verità, né si pretende da lui un onere di dimostrare la propria innocenza. è piuttosto il sistema ad essere interamente costruito in funzione del positivo accertamento della sola verità dell’enunciato fattuale espresso nell’imputazione.

Ciò per diverse ragioni.

Sul piano processuale, l’inclinazione del sistema verso la verifica della tesi accusatoria dipende dalla «struttura stessa del verdetto di colpevolezza, e prima ancora, [dal] rapporto che la legge istituisce tra imputazione e sentenza»[5]. Dichiarando l’imputato colpevole, il giudice considera ‘vera’ la proposizione che costituisce il contenuto astratto dell’enunciato d’accusa. Perché pronunci l’assoluzione, non è invece tenuto a verificare «che i fatti posti a fondamento dell’imputazione si siano rivelati inesistenti, né che sia emersa la verità delle proposizioni corrispondenti alle formule legali dell’art. 530, comma 1, c.p.p.»[6]; egli è autorizzato – per così dire – ad argomentare ad ignorantiam[7], prendendo per vera la proposizione che sorregge l’enunciato assolutorio pur quando non vi siano prove della sua falsità.

Che sia la «triste verità»[8] della colpevolezza la sola a dover essere accertata nel processo – e non anche quella dell’innocenza o, peggio, l’alternativa fra l’una e l’altra – discende, più in generale, dall’embrionale carattere di strumentalità del processo rispetto al diritto penale sostanziale[9]. È quest’ultimo, infatti, a fornire al processo «il criterio di comparazione della verità»[10], ritagliando dalla realtà i comportamenti ritenuti meritevoli di sanzione e, conseguentemente, i fatti che il giudizio si incaricherà di sottoporre a verifica.

Del tutto connaturale ad una simile funzione, allora, che il processo non si curi dell’accertamento dell’innocenza – che, da quest’angolo visuale, riflette «una scelta di tipo ideologico» e presenta dunque «carattere assiomatico»[11] – preoccupandosi piuttosto di accertare se l’imputato sia colpevole del reato ascrittogli.

  1. Onere della prova e distribuzione del rischio della mancata prova

Fare esclusivo affidamento sulla struttura della fattispecie rischia, tuttavia, di ingenerare il dubbio che le disposizioni sostanziali siano anche in grado di orientare la relativa ripartizione degli oneri fra le parti, affidando all’accusa l’onere di dimostrare che, ad esempio, ‘Tizio ha cagionato la morte di Caio’ oppure ‘si è impossessato della cosa mobile di Mevio, sottraendogliela, al fine di trarne profitto per sé o per altri’, e alla difesa l’onere di dimostrare che, ad esempio, ‘il fatto non sussiste’, che ‘l’imputato non lo ha commesso’ o che ‘ha agito in presenza di una causa di giustificazione’, secondo il noto brocardo onus incumbit ei qui dicit.

Occorre, tuttavia, sgombrare il campo da qualche equivoco.

Così impostato il problema, parrebbe che ogni parte sia chiamata a fornire la prova di determinati fatti, e non di altri, in funzione della propria posizione rispetto alla fattispecie sostanziale. Sicché, come avviene nel processo civile, chi esercita l’azione «deve»[12] (art. 2697 c.c.) provare l’esistenza del diritto vantato, mentre la controparte «deve» provare l’esistenza dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi di quel diritto, pena la sconfitta in giudizio.

Le cose, però, non stanno esattamente in questi termini.

La concezione soggettiva dell’onere della prova, collegata ‘a doppio filo’ ai sistemi sorretti dal principio dispositivo[13], non sembra trovare pacifico riconoscimento nello stesso settore di provenienza, né convinte adesioni da parte della dottrina processualistica[14].

Del resto, in virtù del principio di acquisizione processuale[15], i fatti dedotti in giudizio possono essere dimostrati a prescindere dalla parte che li abbia introdotti e indipendentemente dal fine per il quale siano stati allegati. Il giudice, cioè, non è vincolato alla provenienza della prova, ma alla sua utilità, ben potendo accadere che i fatti costitutivi siano dimostrati da una prova dedotta dal convenuto o che quelli estintivi, impeditivi o modificativi siano dimostrati da una prova dedotta dall’attore o disposta d’ufficio dal giudice.

Sembra pertanto più corretto intendere il principio dell’onere della prova in un’accezione oggettiva, che indica la parte nei cui confronti si produce l’effetto negativo nel caso di mancato raggiungimento della prova. È solo nel momento in cui si devono ripartire le conseguenze negative della mancata prova, infatti, ad emergere la rilevanza delle relative posizioni soggettive: alla mancata prova del fatto costitutivo conseguirà la soccombenza dell’attore; alla mancata prova del fatto estintivo, impeditivo o modificativo conseguirà la soccombenza del convenuto[16].

In questo senso, allora, si giustifica la definizione dell’onere della prova come «regola di giudizio»[17], ossia come criterio risolutivo di una impasse decisoria, che indica al giudice come deve decidere; id est, a quale parte addossare le conseguenze negative dell’infruttuosa prova del fatto[18]. Sotto tale profilo, l’art. 2697 c.c. «non si limita a ripartire l’onere dello svolgimento dell’attività probatoria delle parti, ma implicitamente distribuisce il rischio del mancato convincimento del giudice»[19].

Tale rilievo vale, ovviamente, finché non intervenga un meccanismo presuntivo a prevedere un diverso progetto di distribuzione degli oneri o ad accollare su una sola parte l’intero rischio della mancata prova.

  1. La ‘verità interinale’ dell’art. 27, comma 2, Cost.: il carattere assiomatico dell’innocenza

È quanto avviene nel processo penale, dove l’art. 27, comma 2, Cost., nel prevedere che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», fissa pure la regola di giudizio da applicare in caso di dubbio sulla colpevolezza, imponendo al giudice di dichiarare il proscioglimento secondo una delle formule contenute nell’art. 530 c.p.p. Per usare una terminologia invalsa in ambito processualcivilistico, la disposizione costituzionale precostituisce una «verità interinale»[20] (Interimswahrheit), prescrivendo di considerare ‘vero’ un determinato fatto finché non venga data la prova del contrario. In tale prospettiva, come segnalato dalla dottrina[21], «sembrerebbe realizzarsi, nei fatti, la sostituzione di una figura convenzionale di conoscenza ‘legale’ ad uno stato cognitivo ‘reale’, cioè il dubbio».

Tuttavia, difficilmente tale fenomeno può venire spiegato in termini epistemologici. Conformemente al normale funzionamento delle regole di giudizio[22], esso rinviene, piuttosto, il proprio fondamento in ragioni puramente politico-ideologiche, «in ossequio ad una scala di valori dove la tutela dell’innocente riveste una posizione assiomaticamente prioritaria»[23].

La presunzione d’innocenza attribuisce, pertanto, all’imputato una posizione di vantaggio assiologico rispetto al Pubblico Ministero, ponendolo al riparo dal rischio che l’incertezza sul fatto da provare possa risolversi a suo danno. Si tratta, com’è evidente, di una regola dalla forte connotazione etica[24], ispirata dall’intento di proteggere la libertà dell’individuo dinanzi alla pretesa punitiva statuale.

Quanto alte, poi, debbano essere le ‘mura’ a protezione di tale interesse è questione che involge il problema della soglia probatoria considerata sufficiente per l’emanazione del verdetto di colpevolezza.

Sul piano della legge ordinaria, com’è noto, la questione trova ormai una soluzione pacifica grazie all’innesto, nel corpo del codice di rito, dell’art. 533, comma 1, secondo cui il giudice «pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato ascrittogli al di là di ogni ragionevole dubbio»[25]. Occorre tuttavia domandarsi se tale standard, oltre a rappresentare la soglia più esigente fra quelle proposte nel panorama dottrinario e normativo[26], sia anche quello costituzionalmente imposto.

Rinviando ad altra sede per una più approfondita disamina del tema[27], ciò che in qui preme evidenziare è la pretesa insensibilità dell’art. 27, comma 2, Cost. rispetto al grado di sufficienza probatoria richiesto per il superamento della presunzione d’innocenza. è infatti opinione assai diffusa che la disposizione costituzionale «non precisi né l’entità della prova né il momento in cui la stessa può dirsi integrata»[28].

Sul piano formale non v’è dubbio che la norma eviti esplicitamente di indicare quale debba essere lo standard probatorio ‘minimo’ per ritenere superato il dubbio in ordine agli elementi costitutivi del fatto di reato. Pur tuttavia, se si conviene sul carattere assiomatico dell’innocenza e sulla assoluta rilevanza del bene tutelato dalla presunzione scolpita nell’art. 27, comma, 2 Cost., non pare impossibile ricavare tale soglia in via esegetica[29].

Elementari ragioni logiche impediscono, anzitutto, di considerare rispettata la disposizione costituzionale in presenza di uno standard che si limiti a parificare il peso degli elementi a supporto dell’ipotesi di colpevolezza con quelli che sorreggono l’enunciato assolutorio. Appare infatti evidente che, in una simile ipotesi, il rischio della mancata prova sarebbe sostanzialmente distribuito in modo uniforme fra le parti, con evidente svuotamento del significato veicolato dal principio in parola.

Del pari, non in linea con il precetto costituzionale sarebbe altresì l’applicazione in sede penale di un canone di prevalenza debole, quale, ad esempio, quello comunemente applicato in sede civile del ‘più probabile che no’[30]. Simili criteri sembrano attagliarsi maggiormente a contesti processuali connotati da uno strutturale equilibrio fra le parti e in cui gli interessi in conflitto si collochino sul medesimo piano[31]. Ciò non può dirsi, com’è evidente, per il processo penale.

Anzi, sembra lecito sostenere che la «base ideologica ‘forte’»[32] che ispira l’art. 27, comma 2, Cost. – garanzia di libertà e quindi argine all’erroneo esercizio della potestà punitiva – non possa trovare adeguata protezione se non attraverso la predisposizione di standard probatori dotati della massima solidità. Affinché le differenze fra condanna e innocenza siano rimarcate nel modo più pregnante possibile, è quindi costituzionalmente doveroso assicurare alla seconda «non già una forma di tutela purchessia, ma la miglior tutela possibile»[33].

La presunzione costituzionale svolge, inoltre, due importanti funzioni. Per un verso, impegna il legislatore «a non costruire fattispecie basate su sospetti o illazioni, dove di fatto la colpevolezza verrebbe a consistere nell’impossibilità di giustificare l’innocenza»[34]; per altro verso, vieta di «alterare in malam partem le regole sull’onere della prova, ad esempio istituendo presunzioni sui fatti costitutivi della colpevolezza»[35].

Tali considerazioni portano, pertanto, a non ritenere condivisibili quei tentativi del legislatore o della prassi[36] – che sovente si traducono in prospettive de jure condendo[37] – di superare le difficoltà probatorie, determinate ‘a valle’ da uno standard tanto esigente, attraverso la predisposizione ‘a monte’ di meccanismi sostanziali idonei a facilitare la dimostrazione di un determinato elemento della fattispecie. È il caso dei cosiddetti ‘reati di sospetto’ (artt. 707, 707-bis e 708 c.p.), ma anche di quel fenomeno – tributario della risalente costruzione della colpa quale sospetto di dolo[38] – che, in un’ottica general-preventiva, mira ad evitare il pericolo che «dietro una colpa pretestuosa si celino fatti dolosi»[39], giungendo all’affermazione di responsabilità anche in quei casi in cui «i presupposti della responsabilità soggettiva possano supporsi esistenti, ma non si riesca a darne la piena prova»[40].

  1. ‘Giustificazioni’ e ‘alibi’. Onere della prova e onere di allegazione

Il contenuto precettivo dell’art. 27, comma 2, Cost., impedendo una totale libertà di manovra sulla costruzione delle fattispecie sostanziali da accertare nel processo, produce evidenti ricadute sul piano del riparto degli oneri.

La presunzione d’innocenza comporta, senza dubbio, che sul Pubblico Ministero gravi l’intero rischio della mancata prova dei fatti costitutivi della colpevolezza. Non si deve tuttavia pensare che egli sia anche inderogabilmente onerato dal provare positivamente anche l’assenza dei fatti impeditivi. Un sistema che prevedesse una simile rigidità probatoria, sebbene rispettoso del principio costituzionale in parola, esigerebbe dall’accusa un improbo onere dimostrativo.

L’ordinamento penale non è, invero, del tutto insensibile all’esigenza di ‘semplificazione analitica della fattispecie’, particolarmente sentita in altri rami dell’ordinamento.

Com’è noto, tale meccanismo agisce sotto un duplice profilo: sul piano quantitativo, comporta la riduzione dell’onere probatorio gravante sull’attore, il quale sarà perciò chiamato a fornire la prova dei soli fatti costitutivi e non anche la prova della mancanza di quelli estintivi, modificativi e impeditivi; sul piano qualitativo, conduce ad affidare l’onere al soggetto, generalmente[41], considerato più in grado di soddisfarlo, o in virtù della sua vicinanza alla prova o perché meglio attrezzato a reperirla.

Ispirato dalla necessità di garantire, ora, i diritti di azione e difesa in giudizio, ora, interessi di «spiccata rilevanza politica, sociale ed economica»[42], il sistema della ‘semplificazione’ offre, nel processo civile, un progetto di distribuzione degli oneri ‘a geometria variabile’.

Il sistema penale, ove pure un simile schema probatorio non è acriticamente trasferibile, propone, da par suo, un meccanismo in parte analogo per quanto attiene alla prova del fatto impeditivo.

Si pensi al tema delle cause di giustificazione[43].

Come detto, una disposizione che qualificasse il fatto impeditivo come elemento negativo della fattispecie[44], imponendo all’accusa la positiva prova della sua inesistenza – per di più, ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ – sarebbe sì pienamente conforme alla presunzione d’innocenza, eppure accollerebbe all’accusa un onere probatorio di arduo assolvimento. Per converso, costruire le cause di giustificazione come elemento impeditivo ‘esterno’ alla fattispecie[45] – secondo lo schema: ‘non è punibile chi ha commesso il fatto X in presenza del fatto Y’ – rischia di addossare l’onere della loro dimostrazione interamente sulla difesa. Si tratterebbe, a ben vedere, di una norma in aperto contrasto con l’art. 27, comma 2, Cost., il quale impedisce redistribuzioni o inversioni dell’onere della prova basati su criteri empirici, quali, ad esempio, la vicinanza alla prova o la ‘normalità’ del fatto allegato[46].

Sul punto, opportunamente, l’art. 530, comma 3, c.p.p. mira a scongiurare un simile rischio, equiparando l’incertezza sulla sussistenza di tali elementi alla prova positiva della loro esistenza e salvaguardando, in tal modo, la regola di giudizio «che impone di risolvere sempre le situazioni di incertezza a vantaggio dell’imputato, anche quando il dubbio cade sui fatti che escludono l’antigiuridicità»[47].

Sembra, dunque, più corretto ricondurre le cause di giustificazione entro una categoria intermedia fra quella degli elementi costitutivi e quella degli elementi impeditivi[48], dal momento che un dubbio ragionevole in ordine alla loro esistenza conduce – deve condurre – ad un esito liberatorio, mentre la completa mancanza della relativa prova non appare, di per sé, idonea ad impedire la pronuncia di una condanna.

Ne deriva, da un lato, che l’accusa non è tenuta a dimostrare l’inesistenza delle esimenti – le quali sono perciò escluse dagli elementi costitutivi della fattispecie –; dall’altro, che la difesa, pur non gravata dall’onere di dimostrarne la sussistenza, ha tuttavia l’interesse ad allegare elementi concreti da cui possa sorgere almeno il dubbio ragionevole della loro presenza.

Conformemente al normale funzionamento degli ordinamenti provvisti di una presunzione del fatto costitutivo, il nostro sistema penale dispensa quindi la difesa, sia da un ‘obbligo di chiarimento’ della situazione di fatto dedotta nel processo, sia dall’onere di dimostrare la sussistenza del fatto impeditivo. Si registra, pertanto, uno iato fra la parte gravata – per usare una terminologia anglosassone – del burden of persuasion, figura equivalente all’onere della prova in senso oggettivo, e la parte a cui si chiede un meno esigente burden of producing evidence (o burden of going forward with evidence).

Nella prospettiva di esigere un contegno attivo dalla parte che generalmente si trova nella migliore posizione per dimostrare l’esistenza di un certo fatto, si richiede talvolta la necessaria attivazione dell’interessato, «che definisce e allega una circostanza a proprio vantaggio, nella prospettiva dell’esperimento gnoseologico e a prescindere dalla concreta e attuale disponibilità del mezzo di prova funzionale allo scopo»[49].

Emblematico il caso dell’alibi. E non solo perché assai difficilmente tale circostanza può venire alla luce a prescindere da un’allegazione della difesa[50], ma anche perché tale allegazione dovrebbe, nel normale funzionamento di un processo di parti, stimolare l’accusa ad una verifica circa la sua sussistenza e, se del caso, spingerla ad abbandonare la propria iniziativa se non vuole incorrere in una pronuncia assolutoria. Strutturalmente, infatti, l’alibi si configura quale «prova contraria indiretta»[51], risultando idoneo a dimostrare l’inesistenza del fatto dedotto nell’imputazione o, quantomeno, la non attribuibilità del fatto all’imputato.

 

[1] Il riferimento è al modello consegnatoci dalla riforma portata a termine dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari (22G00159) (G.U. Serie Generale n. 243 del 17-10-2022 – Suppl. Ordinario n. 38), che per tale motivo è stato icasticamente definito come «neo-inquisitorio» da L. Marafioti, Nel cantiere delle riforme: controlli sul giudizio, in D. Castronuovo-D. Negri (a cura di), Forme, riforme e valori per la giustizia penale futura, Napoli, 2023, p. 514, o «post-accusatorio» da O. Mazza, L’efficientismo del processo post-accusatorio, in Arch. n. proc. pen., 2022, p. 499. Cfr., altresì, con accenti critici, E. Marzaduri, Il declino del paradigma accusatorio ed il ritorno all’istruzione sommaria, in E.M. Catalano-P. Ferrua (a cura di), Corderiana. Sulle orme di un maestro del rito penale, Torino, 2023, p. 19.

[2] È infatti il giudice, come ricorda F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2/2013, p. 611 ss. (ora in G. Forti-G. Varraso-M. Caputo (a cura di), Verità del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, Napoli, 2014, p. 202, nonché in Revista brasileira de direito processual penal, vol. 3, n. 1, 2017, pp. 321-322), ad «affermare la verità dell’enunciato fattuale contenuto nell’imputazione o, per meglio dire, della proposizione che di quell’enunciato costituisce il contenuto astratto». Sono quindi le proposizioni che descrivono i fatti – e non i fatti stessi – a poter essere predicati come veri o falsi. Si tratta della celebre «intuizione» (così, F. Caprioli, op. loc. cit.) di A. Tarsky, La concezione semantica della verità e i fondamenti della semantica, in L. Linsky (a cura di), Semantica e filosofia del linguaggio, Milano, 1969, p. 31, secondo cui il termine ‘vero’ collega un linguaggio e un metalinguaggio, piuttosto che un linguaggio e la realtà. Sull’adeguatezza di tale impostazione in ambito giudiziario, per tutti, G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, 2ª ed., Milano, 2021, p. 15; Id., Conoscenza fattuale e razionalità della decisione giudiziale, in Argomenti di procedura penale, Milano, 2002, p. 82; Id., Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, p. 91. In una diversa prospettiva, di stampo corrispondentista, v., invece, P. Ferrua, La prova nel processo penale, Volume I, Struttura e procedimento, 2ª ed., Torino, 2017, p. 24 ss.

[3] Così, R.E. Kostoris, Una grave mistificazione inquisitoria: la pretesa fede privilegiata del responso del consulente tecnico dell’accusa, in Sist. pen., 28 settembre 2020. Altro conto è chiedersi quanta cura abbiano legislatore e giurisprudenza per l’attuazione di tali princìpi.

[4] Passività che si esprime fino al punto di non difendersi affatto, come proiezione di un diritto fondamentale della persona, ricavabile da una lettura coordinata degli artt. 2, 24, comma 2 e 21 Cost. Sul tema, per tutti, G. Riccio, Autodifesa dell’imputato e Costituzione, in Giust. pen., III, 1977, c. 372, ora in Id., Studi sul processo penale, Napoli, 1988, p. 60 ss.; Id., Nota in margine ad un dibattito su «difesa tecnica e autodifesa» (1979), ivi, p. 79. Cfr., nel medesimo senso, L. Marafioti, Scelte autodifensive dell’indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000, p. 57 ss. Per una recente riproposizione del tema, volendo, G. Garofalo, Rinuncia ad impugnare e processo penale. Controllo, disinteresse, abdicazione, Torino, 2025, p. 170 ss.

[5] Così, F. Caprioli, Verità e giustificazione nel processo penale, cit., p. 611.

[6] F. Caprioli, op. loc. cit.

[7] F. Caprioli, op. loc. cit.

[8] F. Caprioli, op. loc. cit., che riprende l’espressione di P. Tuozzi, Principii del procedimento penale italiano, Napoli, 1909, p. 4. Come ricorda lo stesso Autore, anche L. Lucchini, Elementi di procedura penale, Siena, 1920, p. 14, giunge alla medesima conclusione, affermando che «l’assunto da dimostrarsi vero è quello soltanto che concerne la colpabilità»

[9] In questo senso, P. Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 5.

[10] La citazione, che si deve a D. Krauss, Das Prinzip der materiellen Wahrheit im Strafprozess, in Festschrift für F. Schaffstein, Göttingen, 1975, p., 424, ora in H. Jäger (Hrsg.), Kriminologie im Strafprozess, Frankfurt am Main, 1980, p. 78, è tratta da K. Volk, Verità, diritto penale sostanziale e processo penale, trad. it. di L. Marafioti, in Il Giusto processo, 1990, 8, p. 394.

[11] Così, P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, 2ª ed., Torino, 2009, p. 187.

[12] Ma leggi «ha l’onere». Per tutti, E. Betti, voce Dovere giuridico (cenni storici e teoria generale), in Enc. dir., vol. XIV, Milano, 1965, p. 53 ss., spec. p. 57.

[13] Si veda S. Patti, Le prove. Parte generale, 2ª ed., in G. Iudica-P. Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Milano, 2021, p. 82.

[14] Cfr. L.P. Comoglio, Le prove civili, 3ª ed., Torino, 2010, p. 245; L. Passanante, Introduzione – L’onere della prova nel processo civile, in F. Anelli-A. Briguglio-A. Chizzini-M. De Poli-E. Gragnoli-M. Orlandi-L. Tosi (a cura di), L’onere della prova, Milano, 2024, p. 3 ss.; S. Patti, Le prove. Parte generale, cit., p. 77 ss.

[15] V, in particolare, V. Andrioli, voce Prova (diritto processuale civile), in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1968, p. 299; B. Cavallone, Principio dispositivo, fatti secondari e fatti «rilevabili ex officio» (1968), in Il giudice e la prova nel processo civile, Padova, 1991, p. 132 ss.; G.A. Micheli, L’onere della prova (1942), Padova, 1966, p. 148; M. Taruffo, Studi sulla rilevanza della prova (1970), Roma TrE-Press, 2023, p. 14 ss. Per una recente rivitalizzazione del tema, v. G. Ubertis, Dovere di prova del pubblico ministero ed epistemologia giudiziaria, in F. Anelli-A. Briguglio-A. Chizzini-M. De Poli-E. Gragnoli-M. Orlandi-L. Tosi (a cura di), L’onere della prova, cit., p. 185.

[16] Volendo, cfr. G. Garofalo, La diversificazione degli standard di prova nel processo penale e nel rapporto fra giurisdizioni, in Cass. pen., 10/2020, p. 3882 ss.

[17] Valorizza tale accezione dell’onere, specialmente, L. Rosenberg, Die Beweislast auf der Grundlage des Bürgerlichen Gesetzbuches und der Zivilprozessordnung, Monaco di Baviera, 1965, p. 19.

[18] Questa funzione dell’art. 2697 c.c. è particolarmente rimarcata da G.A. Micheli, L’onere della prova, cit., p. 177.

[19] Così, S. Patti, Delle prove. Art. 2697-2739, in G. De Nova (a cura di), Commentario del codice civile e codici collegati Scialoja-Branca-Galgano, Bologna, 2015, p. 6.

[20] Secondo la tradizionale definizione di J. Unger, System des österreichischen allgemeinen Privatsrecht, Lipsia, 1879, p. 598. Per la differenza fra verità interinali e presunzioni, cfr. S. Pugliatti, voce Conoscenza, in Enc. dir., vol. IX, Milano, 1965, p. 104; G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, p. 120.

[21] P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, cit., p. 183.

[22] Per una sintesi del tema, G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, cit., p. 159 ss.

[23] P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, cit., p. 184. Si intende, pertanto, qui ribadire quanto già espresso in G. Garofalo, La diversificazione degli standard di prova nel processo penale e nel rapporto fra giurisdizioni, cit., p. 3897 ss.

[24] Per tutti, G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Bologna, 1979, p. 83.

[25] Sul tema cfr., pur con varietà di accenti, F. Caprioli, L’accertamento della responsabilità penale “oltre ogni ragionevole dubbio”, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1/2009, p. 51 ss.; E.M. Catalano, Ragionevole dubbio e logica della decisione, Milano, 2016; P. Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 87 ss.; G. Pierro, Accertamento del fatto e colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, Roma, 2011.

[26] Una delle più compiute opere di differenziazione e sistemazione degli standard probatori si deve, com’è noto, a J. Ferrer Beltrán, Prueba sin convicción. Estándares de prueba y debido proceso, Madrid, 2021. Si veda, però, la particolare posizione – recentemente ribadita – di P. Ferrua, Il concetto di “provare” e di “provato”, in Dir. pen. proc., 5/2021, p. 557 ss., il quale muove dal presupposto che il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio sia anche l’unico compatibile con il concetto stesso di ‘provare’.

[27] G. Garofalo, La diversificazione degli standard di prova nel processo penale e nel rapporto fra giurisdizioni, cit., p. 3882 ss.

[28] Così, G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, 7ª ed., Torino, 2007, p. 479. In senso analogo, F. Peroni, La sentenza di patteggiamento, Padova, 1999, p. 15 ss. e 36.

[29] Come, in modo del tutto condivisibile, fa P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, cit., p. 188.

[30] Sugli standard probatori nel processo civile, per tutti, R. Poli, Prova e convincimento giudiziale del fatto, Torino, 2023, p. 243 ss.

[31] Non è un caso che P. Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 6, affermi che, se il tema del processo fosse l’alternativa fra colpevolezza ed innocenza come ipotesi probatorie equipollenti, sarebbe sufficiente una maggiore probabilità della prima rispetto alla seconda a giustificare la condanna.

[32] Così, ancora, P.P. Paulesu, op. loc. cit.

[33] P.P. Paulesu, op. loc. cit. Sul legame fra principio della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, presunzione d’innocenza e giusto processo si veda, diffusamente, G. Carlizzi, Libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale. Storia prassi teoria, Bologna, 2018, p. 79 ss.

[34] P. Ferrua, La prova nel processo penale, cit., p. 102.

[35] P. Ferrua, op. loc.cit.

[36] V., in particolare, le «Prime linee guida per l’applicazione della legge n. 69/2019 (cd. Codice Rosso), Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere» adottate dalla Procura della Repubblica di Tivoli, che favoriscono un largo impiego di presunzioni di veridicità delle dichiarazioni provenienti dalla (presunta) persona offesa.

[37] Specialmente, J. Ferrer Beltrán-G. Tuzet, Sulla necessità degli standard di prova per la giustificazione delle decisioni giudiziali, in Diritto e questioni pubbliche, 2/2018, p. 461, secondo i quali, nel caso, ad esempio, dei delitti sessuali o contro la Pubblica Amministrazione «le difficoltà probatorie operano dà ragione per la diminuzione del livello di sufficienza dello standard, così da evitare impunità e, con ciò, che la figura di reato divenga inutile perché inapplicabile». Contra, in modo condivisibile, G. Carlizzi, I due principi costituzionali del giudizio probatorio penale. Repliche a G. Tuzet, Libero convincimento e ragionevole dubbio secondo Gaetano Carlizzi, ivi, 2/2019 p. 29.

[38] Su cui, G. Carmignani, Elementi di diritto criminale (traduzione italiana sulla quinta edizione di Pisa), Milano, 1863, p. 33 ss.

[39] Così, A. Gargani, Processualizzazione del fatto e strumenti di garanzia: la prova della tipicità ‘oltre ogni ragionevole dubbio’, in L. Foffani-R. Orlandi (a cura di), Diritto e processo penale fra separazione accademica e dialettica applicativa, Bologna, 2016, p. 108. Cfr., altresì, F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019, p. 70.

[40] D. Pulitanò, Responsabilità oggettiva e politica criminale, in A.M. Stile (a cura di), Responsabilità oggettiva e giudizio di colpevolezza, Napoli, 1989, p. 79. Si tratta di un fenomeno che ha assunto particolare rilievo in ambito penale economico. Sul tema, cfr. K. Volk, Diritto penale ed economia, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, p. 479 ss.

[41] In ordine ai criteri celati dietro una simile generalizzazione, M. Daniele, voce Proscioglimento (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Annali II, t. 1, Milano, 2008, p. 904.

[42] Così, L.P. Comoglio, Le prove civili, cit., p. 245.

[43] In tema, per tutti, D. Siracusano, Studio sulla prova delle esimenti, Milano, 1959.

[44] Cioè, l’inverso del fatto costitutivo, ma con segno invertito o capovolto. V., in tema, R. Sacco, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto, onere della prova, in Riv. dir. civ., 1957, p. 405; P. Senofonte, Il fatto impeditivo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, p. 1525.

[45] Identificandolo, quindi, con l’inefficacia di un presupposto di efficacia del fatto costitutivo. V. E. Grasso, La pronuncia d’ufficio. I – La pronuncia di merito, Milano, 1963, p. 252.

[46] Su tale fenomeno, rapportabile allo schema tedesco della Anscheinsbeweis (o prova prima facie), v. criticamente M. Taruffo, La semplice verità. Il giudice e la costruzione dei fatti, Roma-Bari, 2009, p. 234.

[47] In questi termini, P.P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, cit., p. 237.

[48] Così anche M. Daniele, voce Proscioglimento (dir. proc. pen.), cit., p. 904.

[49] E.M. Mancuso, Il regime probatorio dibattimentale, in G. Ubertis-G.P. Voena (diretto da), Trattato di procedura penale, vol. XXXIII.1, Milano, 2017, p. 33.

[50] In tema, per tutti, E.M. Catalano, La prova d’alibi, Milano, 1998, p. 67, che parla, in questo caso, addirittura di onere ‘perfetto’, poiché l’esito favorevole per la parte può sostanzialmente derivare solo dalla condotta dell’interessato.

[51] E.M. Catalano, La prova d’alibi, cit., p. 24.