LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE È DAVVERO CAUSA DELL’INSODDISFACENTE FUNZIONAMENTO DELLA GIUSTIZIA PENALE? – DI GIANFRANCO IADECOLA
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LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE È DAVVERO CAUSA DELL’INSODDISFACENTE FUNZIONAMENTO DELLA GIUSTIZIA PENALE?
di Gianfranco Iadecola*
Celeres “dolenti note” sulla separazione delle carriere dei magistrati.
1. La questione della separazione delle carriere -come via/strumento per una più ortodossa e corretta amministrazione della giustizia penale– appare mal posta, se non fuorviante, somigliando anzi assai ad un falso problema.
Non si vede invero come dalla introduzione di due diversi percorsi di ingresso e progressione in carriera nella Magistratura, o di due distinti Organi di Autogoverno (CSM), per Giudici e Pubblici Ministeri, possa derivare un esercizio della giurisdizione penale più efficiente o, soprattutto, più “esatto” e credibile, immutata rimanendo la disciplina del codice di rito.
Persisterebbero infatti, pur sempre, un esercizio obbligatorio dell’azione penale da parte del PM (come costituzionalmente previsto) ed un processo di stampo accusatorio (ossia tendenzialmente tale), nel quale, rimanendone quale oggetto irrinunciabile la ricerca della verità, il Giudice potrà ricorrere ai propri poteri di integrazione della prova ex art. 507 cpp, anche a fronte dell’inerzia o dello scarso “attivismo”delle parti; né, ragionevolmente, per il sol fatto di percorsi distinti di carriera, il Giudice diventerebbe, ipso facto, maggiormente terzo ed imparziale, o, per altro verso, sparirebbe il censurato andazzo odierno per cui riscuotano più centralità nell’attenzione collettiva le attività delle indagini preliminari, o l’ordinanza cautelare e la richiesta di rinvio a giudizio, che non la fase del giudizio e la sentenza (che pure rappresentano il cuore del procedimento penale).
Può, anzi, piuttosto prefigurarsi che la separazione delle carriere, con la creazione di un distinto Ufficio dell’Accusa, possa implicare il rischio del distacco (anche formale e definitivo) del PM da quella cd. (talvolta irrisa) cultura della giurisdizione (che è cultura del dubbio) che trova, per lo meno sul piano dei princìpi, la sua nobile sintesi nell’attuale previsione dell’obbligo (per il PM medesimo) di svolgere attività di indagine anche in senso favorevole alla posizione dell’indagato. Con la conseguenza del consolidarsi di una facies di accusatore che sposerà irreversibilmente la tesi della imputazione, e la perdita di quel ruolo di parte pubblica (alias parte imparziale, secondo la -“ossimorica” ma fortemente caratterizzante- qualificazione della Corte Costituzionale) che sinora gli è stato riconosciuto (e che, alla fine, principalmente ne giustifica la titolarità delle potestà autoritative che nel procedimento penale gli sono attribuite).
La riduzione del PM ad una sorta di irriducibile postulatore dell’ipotesi accusatoria, e quindi l’acquisizione della posizione di parte in senso stretto, oltre ad implicare la sostanziale perdita del tasso di equidistanza ed imparzialità che oggi (almeno nominalmente) ne costituisce prerogativa e privilegio, determinerà prevedibilmente un suo più ridotto impegno (se non un disimpegno) rispetto all’accertamento del vero, con pregiudizio di quello che si è già detto essere il permanente fine del processo penale.
Da tali sintetiche notazioni già si può dedurre che l’effettivo movente dell’iniziativa legislativa pro separazione delle carriere (al di là delle ricorrenti, retoriche e declamatorie, enunciazioni di principio) possa essere in realtà rappresentato dalla intenzionalità punitiva di ridimensionare in qualche modo l’organo dell’Accusa, in quanto ritenuto responsabile dell’attivazione e della coltivazione di azioni penali considerate strumentali e di disturbo per taluni soggetti o parti politiche.
2. Le riserve che si sono appena poste sul disegno divisorio tra PM e Giudici, non possono però, per franchezza di ragionamento, obliterare l’aspetto di criticità della progressiva instaurazione, all’interno della conduzione del procedimento penale, di generalizzate -quanto irrefutabilmente irrituali– derive prasseologiche, che materializzano la inosservanza di regole nevralgiche e fondanti del processo penale, sì da profilare un inusitato atteggiamento di vera e propria disobbedienza giurisprudenziale rispetto a pur precisi ed univoci precetti normativi.
Ci si intende riferire, essenzialmente (anche se non esaustivamente), ad una duplice fenomenologia, che, lungi dal possedere implicazioni puramente formali ed “estetizzanti”, si va riverberando nocivamente sulla capacità del processo penale di attingere il vero e sull’economia complessiva del suo funzionamento, producendo, in primis, i deprecati effetti della saturazione della fase dibattimentale e della stessa oggettiva agevolazione di esiti prescrizionali.
3. La prima espressione di tale “eterodossa” operatività procedimentale è costituita dall’ormai pressoché ordinario modus agendi del PM, che non ottempera all’obbligo di procedere agli “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” (ex 358 c.p.p.: la norma che qualifica il rango “superiore” ed imparziale dell’Ufficio dell’Accusa).
Lo stesso interrogatorio dell’indagato (primo momento di difesa e di indicazione di circostanze a discolpa), divenuto abituale e tralaticio appannaggio della polizia giudiziaria (abitualmente delegata all’esecuzione dell’atto e quasi sempre “non conoscitrice” dei temi rilevanti di causa), costituisce, per percezione comune, uno stanco quanto inutile adempimento da assolvere per mero obbligo di rito (al quale, come è risaputo, solo assai raramente fanno seguito le necessarie indagini di riscontro).
Non sfugge come un siffatto (per così dire, non fisiologico) atteggiamento dell’Organo dell’Accusa volga ad incrinare l’essenza stessa del ruolo “aulico”, di curatore degli interessi della legge, ad esso attribuito dal legislatore, sì da persino indurre (e ragionevolmente) a metterne in discussione le prerogative ordinamentali, che in effetti sono previste in quanto, e solo in quanto, direttamente funzionali all’assolvimento dei compiti che ex lege gli sono assegnati.
4. Ma deve essere anche segnalata una ulteriore, e forse più evidente, criticità, che investe il criterio decisorio previsto dal codice di rito ai fini del rinvio a giudizio dell’imputato.
Si assiste, in merito, nella prassi giurisprudenziale, alla abituale, serafica pretermissione, del tutto ingiustificata, della previsione normativa che disciplina tale cruciale passaggio procedimentale. Per cui, con buona pace della funzione essenziale di filtro ad esso riservata dal legislatore del 1989, viene nella più assoluta ordinarietà richiesto il rinvio a giudizio, o disposta la celebrazione del processo (anche ex art. 554 bis c.p.p.), a prescindere da ogni effettiva analisi circa la ricorrenza di elementi probatori che risultino idonei a sostenere l’accusa in giudizio, ovvero oggi, post riforma Cartabia, anche quando detti elementi non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna.
A nulla è valsa insomma, come l’esperienza forense quotidiana insegna, l’adozione, da parte di un legislatore deluso dall’elusivo contegno giudiziale, di un canone valutativo più selettivo e stringente in chiave garantista: salvo le poche eccezioni, i tempi dell’udienza preliminare (e della stessa udienza di comparizione predibattimentale) continuano ad essere rapidi, con i ricorrenti, spicciativi inviti a rassegnare le conclusioni rivolti ai difensori (i quali, ancora illudendosi, studiano e discutono il processo, incrollabilmente confidando nel rispetto dell’impegno discretivo espressamente richiesto al giudicante -ed invero prima allo stesso PM- dalla nuova e significativa formula adottata da un legislatore, fino a prova del contrario, consapevole.
Ad una tale stregua, che fondatamente esigerebbe il deciso correttivo di un (certo calibrato) obbligo di motivazione del decreto che dispone il giudizio, l’udienza preliminare -e quella predibattimentale, dalla omologa natura- rappresentano sempre di più un passaggio vano ed inutile, che mostra i tratti di una ritualità defatigante ed asettica, che davvero la assimila ad una fictio iuris.
È del resto noto che la stessa giustificatezza della permanenza dell’udienza preliminare nel sistema processuale venga ormai ad essere posta in discussione: dato che, allo stato, essa (snaturata nella sua destinazione e ridotta al mero passaggio di atti al giudice del processo), lungi dall’essere proficua risulta (anzi) dannosa per l’amministrazione della giustizia penale, poiché riversa sul banco del dibattimento, “ingolfandolo” (con i denunciati, deplorati esiti), una profluvie di procedimenti che non lo meriterebbero ad una disamina preventiva adeguatamente attenta (a parte il fatto che le sue attuali -sbrigative e sommarie- cadenze, ed i suoi -scontati- risultati, sviliscono la dignità dello stesso esercizio dei compiti defensionali).
In conclusione, e fondatamente: più che ventilare lo spauracchio della separazione delle carriere, il legislatore dovrebbe preoccuparsi di affrontare (certo, tra gli altri) i profili di aperta devianza processuale appena evidenziati (su cui le stesse componenti penalistiche dell’avvocatura dovrebbero più vigorosamente far sentire la propria voce) ed impegnarsi ad approntare per essi gli efficaci, ormai indifferibili, rimedi.
*Magistrato in pensione, avvocato del Foro di Teramo