LE RAGIONI GIURIDICHE CHE IMPONGONO DI SEPARARE LE CARRIERE DEI MAGISTRATI – DI NICO D’ASCOLA
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LE RAGIONI GIURIDICHE CHE IMPONGONO DI SEPARARE LE CARRIERE DEI MAGISTRATI
di Nico D’Ascola*
La separazione delle carriere dei magistrati è patrimonio esclusivo della Unione delle camere penali. Non è una iniziativa con finalità punitive. I fondamenti della separazione delle carriere dei magistrati sono di natura giuridica. Consistono nella necessità di coordinare l’ordinamento giudiziario al vigente codice di procedura penale e ai principi espressi dall’art. 111 Cost. In particolare al principio di terzietà del giudice e a quello del contraddittorio come unico strumento di formazione della prova. Autonomia e indipendenza della magistratura non subiscono limitazioni. Al contrario risultano esaltate dalla separazione che consente di declinarle, non solo all’esterno, ma anche all’interno ossia con riferimento alle relazioni tra giudici e pubblici ministeri.
The separation of careers of magistrates is an exclusive property of Union of Criminal Chambers. It is not an initiative with punitive purposes. The foundations of the separation of careers of magistrates have legal nature. They consist in the need to coordinate the judicial system with the current code of criminal procedure and principles expressed in art. 111 of the Constitution. In particular, the principle of third-party status of the judge and that of adversarial proceedings as the only instrument for the formation of evidence. The autonomy and independence of the judiciary are not subject to limitations. On the contrary, they are enhanced by the separation that allows them to be declined, not only externally, but also internally, with reference to the relations between judges and public prosecutors.
Sommario. 1. Quando sorge la questione. 2. Cosa apparve urgente proporre. 3. Autonomia e indipendenza come principi da declinare, non solo all’esterno, ma anche all’interno. Il ruolo “politico” dell’Unione. 4. La separazione delle carriere è già in Costituzione. 5. La imparzialità del giudice. 6. Carriere unitarie compatibili con il codice del ’30, non con quello dell’88. 7. Gli attuali pubblici ministeri sarebbero ottimi giudici? 8. Il pericolo di una opposizione strumentale. 9. L’unica opinione contraria con la quale confrontarsi. 10. I rischi connessi alle scelte sin qui adottate dalla magistratura.
- Quando sorge la questione.
Inizio con una rivendicazione. La separazione delle carriere è patrimonio intellettuale e di cultura giuridica esclusivamente riferibile all’Unione delle Camere Penali.
Si deve, infatti, a quello straordinario e irripetibile laboratorio di idee che fu l’Unione nel corso degli anni ’90, il merito di averne compreso la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, al solo fine di realizzare un processo penale davvero giusto. Ciò perché era apparso evidente che le riforme ordinamentali costituivano l’imprescindibile presupposto di quelle processuali, altrimenti destinate al fallimento. A quel progetto non fu nemmeno estranea una lucida analisi di natura politica, generata dalle strette relazioni che legano la politica stessa al diritto in generale e al diritto penale in particolare. Non pare dubitabile, infatti, che individuare il punto di equilibrio del conflitto tra autorità e libertà, questione cruciale per noi avvocati penalisti, è questione di competenza esclusivamente politica. Punto di equilibrio che contribuisce a delineare il tasso di effettiva democrazia di una Nazione.
Della separazione delle carriere dei magistrati, se ne era parlato intorno alla seconda metà degli anni ’80, a margine di un congresso, mi pare fosse quello di Bari, in previsione della riforma del codice di procedura penale. All’epoca, per le ragioni che spiegherò in seguito, non se ne poteva percepire tutta l’importanza, che fu evidente dopo la riforma del codice di procedura penale.
Gli anni ’90 si conclusero con la storica approvazione del nostro art. 111 Costituzione, alla quale, però, non seguì alcuna seria riforma ordinamentale, data l’ostinata opposizione della magistratura e il disinteresse, all’epoca, della politica. A quelle giunte io ho avuto l’onore di partecipare, insieme a indimenticabili amici, molti dei quali ci hanno lasciato. Pertanto, posso testimoniare e scrivere dando voce anche a loro.
Prima di farlo, ricordo a tutti ancora una volta che bisogna completare quel percorso. Percorso che comprendeva sin da allora la necessità di una tutela costituzionale per il nuovo codice, iniziativa che ci costò una battaglia durissima e l’accusa di essere peggiori dei terroristi, nonché un adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo sistema processuale.
- Cosa apparve urgente proporre.
In quegli anni capimmo velocemente diverse cose. In primo luogo, che il codice dell’88 si reggeva su basi fragili e malferme. Era particolarmente indifesa la linea di confine che separava il sapere investigativo del pubblico ministero, dal sapere a formazione progressiva del giudice, fondato sul contraddittorio. Più precisamente il codice difettava di un ombrello di protezione costituzionale rispetto ai prevedibili aggiramenti e alle manomissioni delle quali sarebbe stato oggetto. I rischi già si profilavano. Il sospetto fu poi confermato dalla sentenza n°254/92 della Corte costituzionale la quale aveva rovesciato la struttura del codice, frantumando la indispensabile separazione tra indagini e giudizio. Capimmo pure, per come ho già ricordato, che l’ulteriore e indispensabile passaggio era costituito dalla separazione delle carriere, senza la quale il principio del contraddittorio sarebbe stato inevitabilmente svuotato di significato. Il giudice, infatti, non sarebbe mai stato terzo ed equidistante nel suo rapporto con la difesa e l’accusa, anzi sarebbe stato attratto in questa ultima orbita. La necessità di un giudice super partes sarebbe rimasta inattuata se giudice e pubblico ministero avessero continuato ad avere interessi comuni, carriere altrettanto comuni e interscambiabili. Insomma, fu chiara la incoerenza tra il nuovo codice e l’assetto dell’ordinamento giudiziario che metteva insieme giudice e pubblico ministero. La separazione tra le due storiche articolazioni della magistratura ci sembrò necessaria proprio per garantire il funzionamento di un sistema processuale, sia pure solo tendenzialmente accusatorio e misto. Proprio per questa ragione nessuno pensò a una riforma punitiva, per come oggi si dice, né tantomeno limitativa delle prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza.
- Autonomia e indipendenza come principi da declinare, non solo all’esterno, ma anche all’interno. Il ruolo “politico” dell’Unione.
Capimmo pure che autonomia e indipendenza della magistratura erano garanzie irrinunciabili per la stessa difesa penale.
Nessuno di noi avrebbe voluto misurarsi con un pubblico ministero in grado di spendere, oltre ai suoi tradizionali e ampi poteri, anche quelli propri dell’esecutivo.
Valutando oggi la questione in modo distaccato e non corporativo, bisogna ammettere che la separazione delle carriere estende il campo di applicazione dei principi di autonomia e indipendenza, anziché limitarli. Li declina, infatti, non solo all’esterno, ossia nelle relazioni tra il potere giudiziario e i restanti poteri dello Stato, ma anche all’interno. Affermandoli pure riguardo alle relazioni tra giudici e pubblici ministeri. Circostanza, questa, che semmai incrementa e di certo non riduce le prerogative della intera categoria, scolpendone con precisione le differenze non solo funzionali.
Tuttavia sbagliammo previsione, come ho già anticipato, quando pensammo che la separazione delle carriere, anche se accompagnata dalla estensione, al pubblico ministero separato, delle garanzie di autonomia e indipendenza, per come noi sin dall’inizio avevamo pensato, avrebbe eliminato ogni resistenza della magistratura. In altri termini, la mancanza di tutela costituzionale per il nuovo codice e l’evidente disallineamento tra quest’ultimo e l’assetto dell’ordinamento giudiziario, proprio perché fatali per il codice e per la stessa sua sopravvivenza, ci sembrarono punti talmente condivisibili da meritare un generalizzato consenso. Ma così non avvenne. Fu buona fede avere pensato che tutti avessero interesse a un sistema processuale effettivo e coerente. Le resistenze all’epoca incontrate (ed oggi manifestate con maggiore forza) ci persuasero del contrario. Le battaglie di quegli anni furono precedute dal maturare della convinzione che per l’Unione fosse necessario attribuirsi una funzione politica, reclamando per l’avvocatura penale, strumento insostituibile per la difesa dei diritti dei cittadini, il ruolo di interlocutrice nei processi di trasformazione del sistema penale. Difesa dei diritti da intendersi come limite all’uso del potere punitivo del quale è titolare la magistratura, nel solco di uno storico ruolo limitativo della punibilità attribuito al diritto penale da una altrettanto storica concezione dogmatica d’oltralpe. All’Unione toccava quindi il compito di individuare le questioni fondamentali della legislazione penale, al fine di divulgarle nella società civile per il tramite un articolato sistema di informazione, sollecitandone la soluzione alla politica attraverso concrete proposte di riforma. Così collettivizzando, estendendole alla intera società, le questioni basilari del diritto penale che entrarono, così, nelle case degli italiani, riscuotendo successo. Del tutto al contrario pretendevano si facesse i nostri contraddittori di allora, per i quali quelle stesse questioni non andavano nemmeno considerate.
- La separazione delle carriere è già in Costituzione.
Tornando alle forti opposizioni già all’epoca registrate e a quelle attuali, devo ammettere che l’abbandono delle aule dove si celebrava l’inaugurazione dell’anno giudiziario, mostrando la Costituzione in segno di protesta, ha generato amarezza, anche all’interno della stessa magistratura, per una esibizione eccessiva e inopportuna, che non si addice all’indiscutibile ruolo e alla tradizione della stessa magistratura. L’iniziativa è sembrata semmai sintomatica della incapacità di taluni di confrontarsi con le opposte ragioni, apparendo, quindi, autoreferenziale e per gli stessi motivi priva di lungimiranza. Ciò in quanto la frattura con il Parlamento, al quale il giudice, ma anche il pubblico ministero, sono soggetti per il tramite della legge, non solo appare priva di senso, ma per di più segna un punto di crisi dal quale sarà difficile, ancorché necessario, tornare indietro. L’impressione è quella di una istituzione dello Stato che incomprensibilmente ha scelto di agire come ogni altra componente del conflitto sociale, così dandosi torto e autoridimensionandosi.
Non si capisce poi il senso della esibizione della Costituzione, con l’intento di lamentarne la violazione. Procedure di cui all’art. 138 a parte, quindi al netto della scontata modificabilità della legge fondamentale, è noto che uno dei più solidi argomenti giuridici a favore della separazione tra le due storiche articolazioni della magistratura, risiede proprio nel nostro art. 111 Cost.
Da tempo, infatti, fondatamente si sostiene che la separazione delle carriere sia già nella Costituzione, precisamente nell’art. 111 e, in particolare, nel suo comma quattro. Un giudice terzo, quindi equidistante dalla difesa penale e dalla pubblica accusa, non può stare nel C.S.M. insieme al pubblico ministero e nemmeno nei consigli giudiziari, ossia nelle articolazioni territoriali del primo. Analogamente deve dirsi per il contraddittorio, unico mezzo di formazione della prova nel processo penale (salvi i tre casi di eccezione), nonché riguardo allo stesso concetto di giurisdizione che si attua solo attraverso le regole del giusto processo (art. 111 Cost. comma uno).
Tuttavia, disagi a parte, il dialogo con la magistratura, componente imprescindibile della giurisdizione, deve riprendere al più presto, se si vuole evitare una grave e imprevedibile, quanto agli esiti, crisi istituzionale che la minaccia dello sciopero, purtroppo mantenuta, rischia di far deflagrare.
- La imparzialità del giudice.
Si diceva che il principio costituzionale della terzietà comporta la inevitabile equidistanza del giudice rispetto al pubblico ministero e alla difesa. In assenza del rispetto di questi principi costituzionali non è assicurata la imparzialità del giudice, il presupposto della quale è proprio la terzietà. Imparzialità senza la quale la giurisdizione è negata (Cass. SS. UU. n° 21951/22). È chiaro, d’altra parte, che la terzietà del giudice è resa impossibile da carriere unitarie, da una medesima struttura e medesimi interessi associativi, nonché da comuni organi disciplinari. D’altra parte, è facile immaginare come, del tutto comprensibilmente, reagirebbero le procure se a condividere gli stessi interessi fossero gli avvocati e i giudici.
Vi è poi da aggiungere che la separazione delle carriere dei magistrati conferisce effettività al diritto costituzionale di difesa e attribuisce maggiore dignità al giudizio. Posto che il procedimento è nelle mani del pubblico accusatore, posto anche che, in questa fase, il controllo del G.I.P. risulta molto debole, il tentativo di riequilibrare i rapporti di forza, pena un permanente squilibrio, non può che avvenire nel giudizio. Stupisce, quindi, che la protesta non abbia riflettuto sui fondamenti giuridici della separazione.
- Carriere unitarie compatibili con il codice del ’30, non con quello dell’88.
Dicevo che ciò che maggiormente sorprende, tra gli argomenti esposti a difesa di carriere unitarie, è la mancanza di riferimenti al diritto. È proprio il mutato volto del sistema a rendere evidente la necessità delle riforme ordinamentali. Sono pure evidenti, ragionando a contrario, le ragioni per le quali le gravi disarmonie tra ordinamento giudiziario, codice e Costituzione, non si avvertivano sotto il codice del ’30.
Sul punto si deve ripetere che la configurazione unitaria della magistratura era compatibile con l’assetto del codice del ’30, ma non con l’architettura di quello del 1988 e con la Costituzione, dopo l’introduzione del rinnovato art. 111. Questo articolo, per come sopra ho già ricordato, nel delineare le relazioni tra giudice, Procuratore della Repubblica e difesa penale, descrive un rapporto perfettamente triangolare, che senza dubbio esprime l’esigenza di una netta e inequivoca separazione tra gli attori del giudizio.
Separazione senza la quale lo stesso contraddittorio per la prova, unico metodo per la sua stessa formazione (salve le eccezioni), è impedito.
Il nodo al quale faccio riferimento è cruciale. Il concetto di verità del codice è di matrice popperiana, si esprime attraverso i delicati meccanismi dell’esame e del controesame. In particolare, dipende dall’equilibrio e dalla equidistanza con la quale il giudice regola questo conflitto. Tant’è che nei Paesi che adottano un sistema integralmente accusatorio, a chi disciplina quel confronto è vietato giudicare, dato che da quella attività può trasparire una anticipata e preconcetta presa di posizione del giudice. Non è un mistero che ogni buon difensore, dalla terzietà manifestata o negata dal giudice, nel regolare esame e controesame, è già in grado di ipotizzare l’esito del giudizio. I nostri grandi maestri ci avevano insegnato – e noi abbiamo pure verificato, con la prassi, l’insegnamento – che basta assistere a un esame e a un controesame per conoscere l’esito di un giudizio. Quanto precede rende evidente la distanza che bisogna frapporre tra chi giudica e chi accusa. Distanza che è assicurata tra giudice e difensore, ma che ci si ostina a negare sul versante opposto. È di tutta evidenza che da questi stessi meccanismi derivano le prove e, quindi, le sentenze (condanna o assoluzione, ma anche un proporzionato trattamento sanzionatorio). Non si comprende, pertanto, come si possa, se non assumendo anacronistiche posizioni autoritarie e autoreferenziali, sostenere che chi regola il dibattimento possa trovarsi in comunione di interessi con una delle parti in conflitto.
Equidistanza e terzietà che non solo devono essere assicurate nella fase della formazione della prova, ma anche in quella della sua valutazione. La prassi, peraltro, registra casi di squilibri non più tollerabili.
Nel contesto di bilanciamenti così delicati, non va poi trascurata la enorme crescita, negli ultimi decenni, delle procure, sia sul piano delle strutture, sia su quello delle risorse. Circostanza che, però, segnala ulteriori disallineamenti interni alla stessa magistratura.
Direzioni distrettuali, Procura nazionale, netta prevalenza sul giudice quanto alla distribuzione delle risorse finanziarie. Crescita, questa, sia chiaro, del tutto comprensibile e giustificata, dato lo stato dell’ordine pubblico. Crescita che però impone di attualizzare la questione, ponendo al centro il recupero della figura di un giudice oggi divenuto timido, nonché la tutela della sua stessa autonomia e indipendenza rispetto a un pubblico ministero che sembra sovrastarlo. Né si può dimenticare che l’equilibrio del giudizio, e di conseguenza il suo esito, dipendono pur sempre dal ruolo attribuito al difensore, nonché dalla effettività del diritto di difendere, oggi molto oscurato e talvolta soltanto formalisticamente evocato. È indubitabile che l’avvocato penalista, del tutto marginalizzato e privo di reali poteri, sia già in partenza sconfitto dalla atroce sensazione di trovarsi dinanzi a uno schieramento altrettanto unitario, così come unitarie sono ancora oggi le carriere dei magistrati. Sul punto mi permetto una pessimistica profezia. La doverosa iniziativa di separare le carriere potrà costituire, se varata, solo un punto di partenza per un radicale cambio di cultura della giustizia penale. Temo però che, realizzata la separazione, le prassi tenderanno alla restaurazione. Occorrerà implementare con i fatti la riforma e vigilare.
A questo punto, però, malgrado le apparenze, la esposizione delle questioni rilevanti è ancora incompleta. Avevo premesso che le carriere unitarie dei magistrati erano in linea con il codice fascista. Ma di questa opinione bisogna ancora dar conto.
In effetti, nel codice del ’30 la figura centrale era quella del giudice. Il pubblico ministero occupava una posizione del tutto marginale. Per accorgersene basterà leggere gli artt. 389, 391 e 392-bis di quel codice, dedicati alla istruzione sommaria (ossia quella svolta dal pubblico ministero, laddove quella rimessa al giudice istruttore era denominata formale). Si scoprirà subito che la istruzione sommaria poteva essere compiuta solo in casi tassativi, che nei cinque giorni successivi al suo inizio, con una semplice istanza, anche orale, poteva essere formalizzata, ossia trasferita al giudice istruttore; che la sua durata era rigidamente predeterminata per legge e che il suo svolgimento era controllato dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, dotato di ampi poteri di avocazione.
A me sembra chiaro che, nel contesto di una simile architettura processuale, mettere insieme giudice e pubblico ministero fosse del tutto ininfluente. Il sistema delle letture, poi, impediva del tutto di separare dal giudizio la istruzione (sommaria o formale che fosse). Il contraddittorio era contratto, perché di natura soltanto cartolare (contraddittorio sulla prova). L’esame veniva condotto dal giudice (era indiretto), il difensore poteva solo proporre domande con il rischio di vedersele negare. Non esisteva il diritto alla prova, né quello di difendersi provando. Assetto, questo, che però risulta del tutto capovolto se attualizzato – per come è obbligatorio fare – alla luce del complessivo sistema vigente. In altri termini, la separazione delle carriere, se correttamente intesa, svela soltanto la necessità di adeguare l’ordinamento giudiziario al diritto attuale. A proposito di principi costituzionali, dei quali si lamenta la violazione, occorre osservare che anche il legislatore costituzionale del ’48, nel delineare le garanzie, la struttura e l’organo di autogoverno della magistratura, si è inevitabilmente ispirato al codice all’epoca vigente e ai principi da questo espressi.
Pertanto, l’attuale disciplina costituzionale della magistratura, altro non è che il riflesso di quel codice abrogato. Né si può parlare di principi costituzionali con riferimento all’organo di autogoverno e di giustizia disciplinare. A ben vedere, gli unici principi contenuti negli articoli che la Costituzione dedica alla magistratura, sono quelli di autonomia e indipendenza. Analogamente può dirsi per il C.S.M. riformato e per l’Alta Corte Disciplinare che non sono oggetto di principi costituzionali. Di questi ultimi, tali organi possono divenire espressione se, mutate le quote dei componenti, la rappresentanza dei magistrati dovesse risultare minoritaria. Cosa che, però, la riforma non ha fatto. I passaggi che precedono suggeriscono già una conclusione. L’unitarietà delle carriere dei magistrati non è un principio costituzionale. Certo si tratta di un dato contenuto in disposizioni della Costituzione la quale, sul punto, si limita a disciplinare unitariamente, con modalità che, per come prima si è osservato, sono tratte dalla cultura e dal codice dell’epoca, l’organo di autogoverno della magistratura. Dire che i magistrati fanno parte di un’unica carriera non contribuisce, infatti, a conferire all’esercizio di quelle alte funzioni, alcuna tutela o garanzia.
Considerazioni analoghe valgono per la disposizione secondo la quale i magistrati si distinguono solo per le funzioni esercitate. Espressione conciliabile con entrambi i regimi e non a caso ignorata dalla riforma. Anche in caso di separazione, cosa che non elimina certo la categoria generalista della magistratura, i magistrati giudicanti e quelli requirenti eserciteranno funzioni diverse. I veri principi costituzionali sono invece quelli dell’autonomia e della indipendenza. Ma la riforma non li modifica, attribuendoli, indifferentemente, ai magistrati giudicanti e a quelli requirenti.
- Gli attuali pubblici ministeri sarebbero ottimi giudici?
Quasi mai, nei dibattiti sulla separazione delle carriere, si affronta il tema della diversità di formazione tra giudice e pubblico ministero. È, quindi, ignorato il tema di specializzazioni del tutto diverse. Tanto quanto è diverso il compito di chi giudica, da quello di chi accusa, nonché le relative culture.
Questo argomento ne introduce un altro, che al riguardo aggiunge una più approfondita riflessione. Se ci interrogassimo circa la esistenza di un obbligo, in capo al pubblico ministero, quanto all’automatismo della richiesta di condanna dell’imputato, o di un trattamento punitivo il più possibile sfavorevole (si pensi, ad esempio, al tema delle qualificazioni giuridiche e alle circostanze aggravanti), l’interrogativo si esporrebbe a una risposta certamente negativa. Infatti non esiste, nel nostro ordinamento, la figura di una sorta di ottuso avvocato dell’accusa, testardamente votato alle peggiori soluzioni punitive, anche contro l’evidenza dei fatti. Laddove il difensore è una parte privata che, nei limiti consentiti dalla legge, deve fare sentire la voce di un soggetto svantaggiato, un ufficio pubblico non può perseguire strategie diverse rispetto al raggiungimento della giustizia. Ossia la condanna dei colpevoli, l’assoluzione degli innocenti (da intendersi anche come coloro nei confronti dei quali il percorso probatorio risulti incompleto o contraddittorio). L’ufficio di procura è poi sempre tenuto a chiedere l’irrogazione di pene proporzionate alla effettiva gravità del fatto. Nella fase delle indagini è poi tenuto a verificare gli elementi di prova anche in senso favorevole per l’indagato. Esposte così le cose, tutto sembrerebbe facile. Ma la realtà è profondamente diversa. La stessa ANM ha diffuso una statistica secondo la quale i giudici di primo grado nel 48% dei casi assolvono imputati per i quali i pubblici ministeri avevano chiesto o disposto il giudizio, reclamandone anche la condanna. Esattezza delle statistiche a parte, queste stesse ci comunicano, poi, che le Corti d’Appello riformano le rimanenti condanne in misura non trascurabile. Non sono stati diffusi dati statistici concernenti il giudizio di legittimità, che non di rado annulla con o senza rinvio le sentenze. Ovviamente le statistiche vanno interpretate e prima ancora verificate. Sono però convinto del fatto che, data l’importanza della questione, che genera anche un inutile carico di processi, sul punto si dovrebbe avviare un dibattito aperto alla società civile che ha il diritto di sapere. Un punto, però, mi sembra chiaro. Tra le richieste delle procure e le decisioni dei giudici vi è un notevole divario. Sintomo inequivocabile del fatto che qualcosa non funziona dentro il mondo della pubblica accusa. Un dato sembra, però, incontestabile, le due articolazioni della magistratura già oggi esprimono due culture della giurisdizione diverse e non assimilabili.
Circostanza, questa, che da sola consiglierebbe la separazione, non solo come presa d’atto di una volontaria diversità, cosa che già sarebbe sufficiente a decidere in senso favorevole, ma che si segnalerebbe anche come responsabile iniziativa volta a tutelare i valori della giurisdizione, preservandola da inquinamenti generati dalla esaltazione della difesa sociale. È innegabile, poi, che valori della giurisdizione e valori della difesa sociale costituiscono due anime contrapposte della giustizia penale, la convivenza tra le quali appare impossibile, dato il rischio, ripeto, di reciproche e nocive contaminazioni.
Non nego, per quel che vale la mia personale esperienza, di avere conosciuto e anche ammirato magistrati capaci di interpretare i due opposti ruoli con analogo equilibrio. Ma si è trattato di casi di personalità di notevole livello di cultura, dotate di umiltà, senso della misura e di grandi capacità intellettuali. Qualità, queste, se non rare, certamente non diffuse, dato anche il rischio di rigidità e di adattamenti difficili. Né le qualità di uno possono essere scambiate per le qualità di tutti. Le statistiche cui si è fatto cenno ci suggeriscono che i pubblici ministeri adottano criteri di valutazione dei fatti del tutto propri e diversi rispetto a quelli tipici della giurisdizione. In termini ancora più espliciti, posso dire che tutto dimostra come molti degli attuali pubblici ministeri potrebbero non essere ottimi giudici.
- Il pericolo di una opposizione strumentale.
Le riflessioni sin qui sviluppate convergono nel legittimare il sospetto che la opposizione alla separazione delle carriere dei magistrati costituisca una iniziativa legittima, dato il diritto di ogni categoria di tutelare il proprio status giuridico, ma priva di un serio fondamento. Tra l’altro anche contraria, per le modalità con le quali si è espressa, alla posizione che il magistrato occupa nell’immaginario collettivo. Immagine fatta di rigore, riservatezza, moderazione, rinuncia a pubbliche esibizioni, soprattutto se arricchite da proteste e cartelloni. Al punto che non sono state poche le qualificatissime prese di distanza di chi, dall’interno, non ha voluto che la istituzione di appartenenza assomigliasse troppo a una delle tante sigle sindacali. A tale riguardo sembra che i sostenitori di simili iniziative, forse non abbiano sufficientemente riflettuto sui danni che, sul piano della serietà e compostezza, quindi della complessiva immagine, sarebbero potuti derivare.
Segni, questi, di una magistratura disomogenea e in realtà divisa perché diversa al suo interno. Proprio per queste diversità la separazione delle carriere sembra cosa del tutto opportuna.
A proposito delle proteste, taluni hanno suggerito il sospetto che la opposizione non sia in realtà motivata dal rischio di un ridimensionamento dei principi di autonomia e indipendenza, visto che la riforma li riconosce ad entrambe le articolazioni. Il nodo vero sarebbe costituito, al contrario, dai mutati criteri di elezione dei membri del C.S.M. e dalla neo introdotta Alta Corte Disciplinare (organi che però conservano una distribuzione delle quote, rappresentative delle diverse componenti, invariate rispetto al passato). Riforme, queste, però, entrambe finalizzate a impedire il malcostume delle correnti che, non lo si può tacere, discrimina i magistrati bravi, ma politicamente deboli, rispetto a quelli solo politicamente forti.
Sul punto mi limito ad augurare a tutti che simili sospetti siano radicalmente infondati.
- L’unica opinione contraria con la quale confrontarsi.
È venuto il momento, dato che ci si avvicina alla conclusione, di confrontarsi con una tesi notoriamente contraria alla separazione delle carriere, ma per ragioni che potremmo definire di difesa e conservazione dei valori della giurisdizione. La tesi si segnala in primo luogo perché sostenuta da autorevolissimi magistrati e merita oltretutto grande rispetto, per come già si osservava, anche sul versante dei contenuti. Occorre preliminarmente osservare che si tratta di opinioni pacate e realistiche, prive di eccessi corporativi che, per la intelligenza e la cultura di chi le ha diffuse, intenzionalmente non usano (evidentemente non condividendoli) i deboli, controproducenti, o soltanto profetici temi della perdita di prestigio e potere, nonché del rischio di una futura sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo. Si dice, invece, con estrema lucidità, che è interesse di tutti tenere il pubblico ministero all’interno del perimetro della giurisdizione, così evitando che diventi una sorta di incontrollabile capo della polizia giudiziaria. Affermazione, questa, ineccepibile che, come tale, risulta condivisibile. Non può però negarsi che essa, sia pure con eleganza, sottenda una presa di distanza, se non addirittura una critica, nei confronti di taluni eccessi delle procure.
Il richiamo alla giurisdizione, sostantivo letteralmente riferibile soltanto ai giudici, ma non ai pubblici ministeri (altrimenti della giurisdizione dovrebbero far parte anche gli avvocati), ha infatti il senso di un recupero dei principi e soprattutto di quelli cardine dai quali nessuno dovrebbe allontanarsi. Ossia i principi fondamentali del diritto, che dovrebbero reggere ogni comunità di giuristi, ben al di là delle inevitabili distinzioni. Richiamo alla giurisdizione significa anche riscoperta del perimetro costituzionale del diritto penale sostanziale e processuale, ossequio alle sentenze della Corte costituzionale, rispetto per la Cassazione nei confronti della quale si può dissentire, ma a condizione che si disponga di seri e fondati argomenti adeguati a giustificare il dissenso stesso.
Pertanto, non vi è dubbio che tutti auspicano un pubblico ministero legato ai valori della giurisdizione dalla quale, però, giova sottolinearlo, nessuno lo ha escluso, né i giudici, né tantomeno gli avvocati, né la politica.
Infatti, se è vero che taluni pubblici ministeri si sono posti al di fuori della giurisdizione, ciò hanno fatto per loro libera scelta. Per giunta in un periodo in cui – e questo è il punto decisivo della questione – le due carriere risultavano unitarie. Prova evidente del fatto che non potrebbe imputarsi alla riforma di là da venire, ciò che già oggi si è verificato nel contesto legislativo ancora vigente. In altri termini, il senso di appartenenza ai valori della giurisdizione non è servito a tenere tutta la magistratura sotto la stessa bandiera. La peculiarità dei ruoli, purtroppo anche l’indottrinamento compiuto da pessimi maestri nel corso di molti decenni, potremmo dire pure la diversa formazione e cultura, soprattutto quelle acquisite sul campo, devono aver avuto la meglio. La separazione delle carriere, non solo è già in Costituzione, ma è pure nei fatti. Mi permetto, però, di aggiungere un ulteriore argomento. L’eventuale separazione delle carriere non impedirà a nessun pubblico ministero di conformarsi ai valori della giurisdizione. Scelta, questa, di natura culturale e personale alla quale chiunque si potrà conformare, con o senza la separazione. Per completezza giova osservare che l’opinione qui esaminata è la più autorevole, ma non l’unica. Sul punto, infatti, a quella prima illustrata se ne affiancano altre, tutte componenti un quadro, però, addirittura contraddittorio nel prospettare i rischi della separazione. Ad esempio, taluno sostiene che la riforma indebolirà soltanto il pubblico ministero, altri l’intera magistratura.
Altri, infine, sostengono che il pubblico ministero ne uscirà rafforzato. Ciò a testimonianza di un panorama profetico, confuso e difficile da ridurre a unità.
- I rischi connessi alle scelte sin qui adottate dalla magistratura.
In conclusione penso che se pericoli possono intravedersi in conseguenza del disegno di legge del governo, questi potranno derivare soltanto dalla tardività con la quale la riforma stessa sarà attuata (sempre che giunga a compimento). In realtà la riforma avrebbe dovuto accompagnare l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale o, al più tardi, la successiva introduzione dell’art. 111 Costituzione. Nel frattempo, prassi illegittime ma consolidate, ideologie estreme, asimmetrie processuali, nocive rappresentazioni dei ruoli degli attori del giudizio, interventi legislativi contrari ai principi, hanno generato incrostazioni che nessuna riforma potrà cancellare. Né si può negare che le prassi quotidiane frequentemente risultano insensibili alle riforme.
Concludo, permettendomi una riflessione che ha il sapore di un pacato consiglio. La vicenda legislativa generatasi in seguito al disegno di legge n°1353 S., non dà luogo a un ordinario percorso di formazione della legge. L’art. 138 Costituzione impone maggioranze qualificate, difficilmente raggiungibili, affinché l’iter si concluda all’interno delle sole aule parlamentari, con doppia votazione. Nel caso, molto probabile, in cui la maggioranza richiesta non sia raggiunta, si dovrà attivare la procedura del referendum popolare. Referendum che nel caso di successo della proposta di legge del governo segnerebbe una radicale (perché a quel punto popolare) delegittimazione della magistratura italiana. Ancor più radicale nel caso in cui persistesse l’attuale irriducibile opposizione che le esibite proteste hanno estremizzato, portando il conflitto a un livello eccessivo. In altri termini la magistratura italiana rischia di pagare un prezzo che non può permettersi di pagare. Ossia il prezzo di pronunciarsi in nome di un popolo italiano che, però, potrebbe averla sfiduciata.
Non vi è motivo di scomodare al riguardo la teoria del contratto sociale per rendersi conto che l’uso del potere punitivo non può essere giustificato dal mero superamento di un concorso oggi, peraltro, eccessivamente facilitato. In un Paese davvero democratico, l’esercizio di funzioni o poteri pubblici, soprattutto di quelli che incidono su diritti fondamentali dei cittadini (come la libertà e il patrimonio), non può essere scollegato dall’assenso popolare. Né questo potere può essere svuotato da situazioni che manifestamente lo escludano. Ci si può illudere di ogni cosa in un circuito chiuso e autoreferenziale, fatto di comizi e applausi. Ma i lineamenti di una società sono decisi dalla politica, non dalla magistratura. Un minimo di realpolitik e di lungimiranza di weberiana memoria, dovrebbe insegnare che prima di imboccare una strada, se ne dovrebbero valutare percorso e possibili sbocchi.
*Avvocato del Foro di Reggio Calabria