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LA STORIA DEL DIRITTO PENALE “GIURISPRUDENZIALE” – DI ADELMO MANNA

LA STORIA DEL DIRITTO PENALE “GIURISPRUDENZIALE” – DI ADELMO MANNA

MANNA – LA STORIA DEL DIRITTO PENALE GIURISPRUDENZIALE.PDF (*)

di Adelmo Manna

L’Autore ritiene ormai necessario affrontare la tematica del diritto penale “giurisprudenziale” in una prospettiva storica, perché, a suo avviso, solo così è possibile individuare l’evoluzione dalla law in the books alla law in action. Sotto questo profilo, l’Autore inizia con il periodo fascista, ove il potere governativo, tipico di uno Stato dittatoriale, aveva indubbiamente schiacciato, tranne rarissime eccezioni, al proprio volere, il potere giudiziario. A ciò segue un periodo intermedio, che sbocca negli anni ’60 dello scorso secolo con la creazione delle correnti in magistratura ed inoltre di associazioni, peraltro di alto rilievo, come, ad esempio, Magistratura democratica. Da qua la presa di coscienza del giudice dell’influenza sul contesto sociale della propria decisione giudiziaria, anticamera dello sviluppo della law in action, che, nel diritto penale post moderno è ormai diventata una fonte di diritto pari alla law in the books. Il problema nuovo che, tuttavia, emerge è quello per cui il potere giudiziario addirittura diventa un protagonista anche nelle scelte di politica criminale, ma ciò non è ammissibile, non solo perché contrasta con l’art. 101 Cost. – nel senso che il giudice non è più soggetto soltanto alla legge, ma anzi la travalica – e, conseguentemente, ad avviso di alcuni autorevoli esponenti della Dottrina e del Foro, dà luogo a conflitti di attribuzione tra il potere legislativo e quello giudiziario.

1.

Si è ormai scritto a iosa sulla contrapposizione fra law in the books e law in action[1] per cui, non tanto al fine di tentare un approccio originale, quanto per meglio comprendere l’evoluzione e/o involuzione di questa fondamentale problematica, crediamo sia utile guardare al problema in una prospettiva storica, iniziando il nostro approccio con l’entrata in vigore del codice penale del 1930.

Va da sé che in quell’epoca, con uno Stato già dittatoriale, divenuto uno Stato totalitario a seguito della emanazione delle leggi razziali del ‘38, il potere esecutivo non solo prevalesse sul potere legislativo del Parlamento, trasformato nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, ma avesse naturalmente il sopravvento anche sul potere giudiziario.

Quest’ultimo, infatti, sebbene fosse composto da magistrati che si erano formati durante il periodo liberale, si uniformò, in linea generale, ai diktat del fascismo, anche perché nel 1926, con la legge Acerbo, era stato istituito il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, dinanzi al quale si celebrò il famoso “processone” a carico soprattutto dei principali esponenti del Partito Comunista d’Italia[2]. A ciò si aggiunga che nel 1931 fu varato il famigerato TULPS, ove fu introdotta la misura di prevenzione del confino di polizia[3],  cui si aggiunse nel 1941 il regolamento di pubblica sicurezza, con il quale vennero introdotte ulteriori restrizioni per gli avversari politici confinati.

In questo quadro, pertanto, risalta veramente come una rara avis (tanto da indurre un grande scrittore come Leonardo Sciascia a dedicare un libro alla sua vicenda) un magistrato siciliano, anomalo per quei tempi, che emetteva le sue decisioni con la propria “testa” e non con quella del regime[4].

2.

Terminato il secondo conflitto mondiale ed entrata in vigore la Costituzione, la Magistratura italiana, soprattutto quella di Legittimità, dal 1945 al 1950 cercò anche di salvare, ove possibile, la sorte di alcuni gerarchi fascisti che, evidentemente costretti a ciò per evitare pericoli per la propria vita e per quella dei loro familiari, avevano collaborato con le forze di occupazione tedesche[5]. Tra questi magistrati val la pena di ricordare la figura del cons. De Ficchy. Nei successivi anni ’50 la giurisprudenza, come d’altro canto la dottrina, risultavano ancora influenzate dal “tecnicismo giuridico” ed il giudice si riteneva pertanto ancora rinchiuso nella sua «turris eburnea», esercitando la sua funzione “nel chiuso del suo ufficio”, senza un’avveduta consapevolezza dei riflessi esterni del suo ius dicere.

Con l’eccezione, alla fine degli anni ‘50, della figura del consigliere Giallombardo, che per primo propose di creare un’Associazione tra magistrati e avvocati, i “Comitati di azione per la giustizia”, onde scambiarsi i propri, rispettivi saperi giuridici. Questa associazione fu davvero antesignana, tant’è che fu ripresa, parecchi lustri dopo, dal Ministro della giustizia pro-tempore, prof. Giovanni Maria Flick[6], con l’istituzione delle Scuole per le Professioni legali post-universitarie, che avrebbero dovuto creare una formazione comune nel campo del diritto fra avvocati, magistrati e notai.

Purtroppo, questa poco fortunata soluzione è ormai destinata ad una lenta agonia, tanto è vero che il CSM ha istituito la Scuola della Magistratura a Scandicci, vicino Firenze, così implicitamente distaccandosi dall’idea, invece proficua, della formazione comune.

 

3.

A partire dagli anni ’60 del “secolo breve”, con la formazione delle correnti della magistratura e della conseguente fioritura di diverse associazioni fu creata, dai consiglieri Ramat e Governatori in particolare, “Magistratura Democratica”, che possedeva essenzialmente un duplice programma operativo: in linea teorica, quello di trasformare il codice penale fascista in un diritto penale attento ai principi costituzionali, ponendosi sulle orme di Bricola[7] e di un’importante rivista come la “Questione criminale[8]. Per quanto riguardava, invece, la prassi, l’obiettivo era quello di rendere edotto il magistrato della funzione sociale della propria decisione giudiziaria, rendendolo consapevole sia del fatto che la sua decisione influiva sull’intero corpo sociale, che della connessa modifica interclassista.

Da questo momento inizia, dunque, un’opera di progressiva presa di coscienza del potere giudiziario che la lex scripta non è più il moloch cui rimanere asserviti «sine glossa», bensì un’opera progressivamente “aperta”[9], nel senso che il giudice non deve rimanere prigioniero della disposizione legislativa ma anzi deve inverare quest’ultima nella norma e ciò è possibile soltanto laddove la norma stessa venga integrata con il fatto (di reato)[10]. In tal modo, però, la norma penale, paradossalmente, va alla ricerca del fatto (di reato) per concretizzarsi e ciò dà luogo, inevitabilmente, allo sviluppo della c.d. giurisprudenza giuscreativa, nel senso che il fatto, alla fine, diventa l’elemento cui piegare il significato della norma e, quindi, della disposizione di legge.

4.

Naturalmente questa evoluzione e/o involuzione, a seconda dei punti di vista, della giurisprudenza ha subìto una notevole spinta durante il periodo di Tangentopoli, cioè tra gli anni ’90 e ’95-‘96 dello scorso secolo, periodo in cui la Magistratura, in particolare inquirente, ha trovato per la prima volta, dopo il periodo dell’assemblea costituente, al proprio fianco un grande consenso dell’opinione pubblica, stanca del fenomeno della corruzione a livello imprenditoriale e della pubblica Amministrazione, produttivo di gravissimi danni all’economia del Paese che, infatti, aveva provocato un allarmante crescita del debito pubblico. Il consenso popolare ha, quindi, consentito alla Magistratura di sviluppare ancor di più tale fenomeno di giurisprudenza giuscreativa, anche perché una parte della dottrina aveva mostrato di aderire a questa evoluzione, rilevando, in particolare, come l’opera del giudice non è più soltanto di sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta, secondo l’opinione tradizionale[11], ma, appunto, la norma penale deve inverarsi nel fatto di reato, alla continua recherche di quest’ultima.

5.

Coloro che hanno teoricamente sostenuto, non senza, peraltro, qualche accento critico, tale evoluzione giurisprudenziale[12] hanno infatti sostenuto che la decisione giudiziaria è sostanzialmente di natura analogica, perché il giudice penale, sussumendo la fattispecie concreta nella fattispecie astratta, utilizza l’argomento del tertium comparationis, cioè dei precedenti giurisprudenziali, che rendono, appunto, l’interpretazione di tipo analogico, perché circolare, ovverosia dalla norma al fatto e, mediante i precedenti giurisprudenziali, di nuovo il ritorno alla norma. Ragionando in tal modo bisognava, tuttavia, porre in qualche modo un limite a tale interpretazione analogica, un limite che è stato rinvenuto nel seguente sillogismo: se l’analogia opera “all’interno” della fattispecie incriminatrice, allora è legittima: se invece sconfina, diventa illegittima. Abbiamo, però, già rilevato, di contro, come in tal modo si dia per dimostrato ciò che ancora non lo è, ovverosia se l’analogia è intra o extra moenia[13].

6.

Ciò nonostante, il filone della law in action risulta oramai ampiamente sviluppato, anche mediante l’ulteriore elaborazione della c.d. precomprensione, nel senso che il giudice, nell’interpretare la norma, fa inevitabilmente prevalere la sua «concezione del mondo», così che l’interpretazione medesima contiene sempre un quid di carattere subiettivo[14]. Sussistono quindi, ormai, tutti i presupposti per ritenere fonte del diritto penale non solo la lex scripta, ma anche il diritto giurisprudenziale, il che, tuttavia, mette inevitabilmente in tensione il principio di stretta legalità che invece era, come noto, costruito – ma siamo nel 1948 – sul primato della lex scripta. Il discorso si complica ulteriormente con l’entrata in campo del diritto sovranazionale e, cioè, della giurisprudenza della CEDU e della CGCE, che si muovono secondo prospettive alquanto diverse già fra loro. In un diritto come quello europeo, infatti, «senza codice»[15], da un lato la CEDU si preoccupa dei diritti fondamentali della persona, mentre, dall’altro, la Corte di Lussemburgo segue la logica della lex mercatoria. A ciò si contrappone, a livello nazionale, la Corte di cassazione, notoriamente più attenta alle esigenze di prevenzione generale, cui fa da contraltare la Corte costituzionale, invece, similmente alla CEDU, più orientata ai diritti dei cives. In questa situazione, riprendendo il titolo di una nota opera monografica, inevitabilmente il giudice si trova in un “labirinto”[16], giacché la giurisprudenza sovranazionale appare più simile ai sistemi di common law, che si basano, però, sulla vincolatività del precedente, rispetto ai sistemi continentali, che invece, essendo in genere caratterizzati dal modello codicistico, contengono per lo più il principio di stretta legalità. Tanto ciò è vero che, con la riforma dell’art. 618 c.p.p., di cui alla Legge n. 103 del 2017, si è voluta introdurre una forma, seppur parziale, di vincolatività del precedente, con riferimento soltanto alle SS.UU. penali della Cassazione ma trattasi, appunto, di un rimedio ancora del tutto parziale e, fra l’altro, scarsamente utilizzato nella concreta prassi giurisprudenziale. Pur tuttavia, proprio il diritto penale sovranazionale ed in particolare l’art. 7 CEDU ha, in determinate pronunce, contestato il modello della giurisprudenza giuscreativa, nel senso di far prevalere il principio di stretta legalità, seppure sub specie “prevedibilità” delle decisioni giudiziarie[17]. Ciò è avvenuto, in particolare, nel caso Contrada, ove si è condannata l’Italia proprio perché si è ritenuto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso fosse un istituto di création prétorienne, che, quindi, necessitasse di almeno un intervento delle SS.UU. penali in chiava nomofilattica, proprio per rispettare il principio di prevedibilità della decisione giudiziaria[18], non a caso versante soggettivo del principio di stretta legalità.

7.

Naturalmente c’era da aspettarsi che, laddove si fosse posto il problema dei c.d. fratelli minori di Contrada, proprio perché, in sostanza, la Cassazione non ha mai accettato il dictum della CEDU, la Cassazione medesima a SS.UU. penali rigettasse tale eventualità, sul presupposto formale che la sentenza Contrada non desse luogo ad una “sentenza pilota”, non tenendo conto però, almeno a nostro avviso, che è orientamento generale delle Corti sovranazionali il fatto che si applichino in tutti gli ordinamenti giuridici degli Stati aderenti[19] e che, quindi, la ragione di fondo fosse “altra” e, cioè, il dissidio sul fondamento giurisprudenziale o legalistico del c.d. concorso esterno.

Più in generale, ci sembra quindi che, nonostante le inevitabili asperità e contraddizioni, non possa più sostenersi il primato della lex scripta, perché, lo ribadiamo, ormai, sarebbe frutto di una visione retrograda quella di negare che anche il diritto vivente, nel nostro settore, costituisca anch’essa fonte di diritto.

Di recente affronta, da par suo, questa tematica anche il presidente dell’UCPI, avv. Gian Domenico Caiazza, che, nella prospettiva da ultimo indicata, aggiunge un ulteriore, fondamentale tassello, e cioè che la giurisprudenza penale giunga ad operare persino scelte di politica criminale[20], ed a questa prospettiva fa eco autorevolmente il collega Tullio Padovani[21].

In tal modo, la giurisprudenza penale non solo approfondisce il solco che la separa da un ossequio, almeno formale, all’art. 25, co. 2, Cost., ma, soprattutto, mette in netta crisi il principio della divisione dei poteri dello Stato, di montesquieuiana memoria, sulle cui fondamenta, dalla Rivoluzione francese in poi, si regge lo Stato moderno[22]. Quindi, le giuste osservazioni di Padovani e di Caiazza rivelano, ad un più attento esame, una netta “invasione di campo” della giurisprudenza, tanto da profilare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto laddove la giurisprudenza arrivi ad operare persino scelte di politica criminale, si viola in maniera patente l’art. 101 Cost., che afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, mentre qui è il potere giudiziario che si mette, paradossalmente, al di sopra della legge, invadendo il campo del potere legislativo e nonostante che la stessa Carta costituzionale avesse usato, ma nel 1948, la definizione, meno significativa e pregnante, di “ordine giudiziario”. Ecco perché appare  condivisibile quanto di recente affermato, ovverosia che è “forse più … realisticamente auspicabile ormai una certezza del diritto concepita in un senso molto relativo e limitato: cioè quale riflesso di una cultura del precedente che riesce soltanto a dar vita a fasi di temporanea stabilità ed uniformità interpretativo/applicativa all’interno, però, di un complessivo universo ordinamentale che tende pur sempre al movimento, in un orizzonte dinamico assimilabile più ad una realtà caotica che a un sistema ordinato»[23].

Per tutto questo complesso di ragioni, appare ormai evidente che il diritto vigente sopravanzi addirittura il diritto scritto nella materia penale e nonostante i vincoli costituzionali, rappresentati soprattutto dall’art. 25, comma 2: l’unico rimedio che, allo stato, si può utilizzare onde arginare questo fiume di lava incandescente, che attribuisce alla Magistratura in sede penale un potere del tutto estraneo ai padri costituenti, è, pertanto, quello del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, nel senso che il Parlamento dovrebbe agire in questa direzione almeno nei casi più evidenti ed eclatanti soprattutto a livello di massmedia.

*Ordinario di Diritto penale nell’Università di Foggia

(*) Trattasi della versione, ampiamente modificata e con l’aggiunta di ulteriori note, della Prefazione al volume di Andrea De Lia, Rassegna giurisprudenziale in tema di diritto penale sostanziale nel triennio 2018-2020, di prossima pubblicazione.

[1] Cfr. in argomento, da ultimo, CADOPPI (a cura di), Cassazione e legalità penale, Roma, 2017; nonché già ID., Il valore del precedente nel diritto penale: uno studio sulla dimensione in action della legalità, 2ᵃ, Torino, 2014.

[2] D’ALESSANDRO L.P., Giustizia fascista. Storia del Tribunale speciale (1926-1943), Bologna, 2020, 96 ss.

[3] MANNA, Misure di prevenzione e diritto penale: una relazione difficile, Pisa, 2019, 41 ss.

[4] SCIASCIA, Porte aperte, Milano, 1987.

[5] In argomento, VASSALLI G., La collaborazione col tedesco invasore nella giurisprudenza della Cassazione, apparsa a puntate in Giust. pen., L, 1945, II, ed in ibid, LI, 1946, II, completata in Vassalli G., Sabatini G., Il collaborazionismo e l’amnistia politica nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Diritto materiale. Diritto processuale. Testi legislativi, Roma, 1947. Dello stesso cfr., anche, VASSALLI G., La confisca dei beni, Padova, 1951.

[6] Di cui cfr. ora FLICK, Giustizia in crisi (salvo intese). Leggi, giudici, processi e carcere di fronte alla pandemia, Milano, 2020.

[7] BRICOLA, voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIX, 1973, 7 ss., come è noto, teorizzatore di un diritto penale i cui beni giuridici avrebbe dovuto trovare una collocazione esplicita o anche soltanto implicita nella Carta costituzionale.

[8]Edita da Il Mulino di Bologna in quel torno di tempo e diretta, come noto, da Baratta e Bricola. Durò un certo periodo e si sciolse per un dissidio interno fra i due direttori, di cui il primo intendeva far prevalere la sociologia, considerando il diritto, nell’ottica marxiana, una mera “sovrastruttura”, mentre il secondo considerava, in modo più convincente, il diritto come una vera e propria “struttura”, con sue proprie regole nell’ambito del contesto sociale.

[9] Nell’ottica di ECO, Opera aperta, Milano, 1980.

[10] In tal senso FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari, 2017, spec. 144 ss.

[11] Nella fattispecie, cioè, tracciata a suo tempo da ENGISCH, Introduzione al pensiero giuridico, Milano, 1970.

[12] FIANDACA, Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2006; DI GIOVINE O., L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla legge, Roma, 2006.

[13] MANNA, “L’interpretazione analogica” nel pensiero di Giuliano Vassalli e nelle correnti post-moderne del diritto penale, in Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli, 2013, 219 ss.

[14] ESSER, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli, 1983.

[15] Cfr. SOTIS C., Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007.

[16] MANES, Il giudice nel labirinto, Roma, 2012.

[17] Cfr. POMANTI, La «riconoscibilità» della norma penale. Tra conformità al tipo e prevedibilità, Napoli, 2019, 199 ss.

[18] Sia consentito, sul punto, il rinvio a MANNA, La sentenza Contrada ed i suoi effetti sull’ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, in ID (a cura di), Il principio di stretta legalità tra giurisprudenza nazionale e comunitaria, Pisa, 2016, 97 ss.; nonché, più di recente, sul caso Contrada ed anche sulla “saga Taricco” cfr. Manna, De Lia, I principi di legalità, offensività e colpevolezza in prospettiva europea, in Rivista DPG, 2020, 5 ss.

[19] MANNA, PICCARDI, Sezioni Unite penali versus CEDU sui fratelli minori di Contrada: problema dogmatico o scelta di politica criminale?, in dirittodidifesa.eu, 10 dicembre 2020.

[20] CAIAZZA, Il vecchio del “nuovo” e il nuovo del “vecchio” – A proposito di legalità penale, in dirittodidifesa.eu, 27 gennaio 2021.

[21] Cfr. l’intervista rilasciata da Tullio Padovani a Valentina Stella ne Il dubbio, 30 gennaio 2021, ove lo stesso Padovani afferma testualmente: “La politica giudiziaria non la fa il Parlamento, la fa qualcun altro contro il Parlamento stesso…

[22] Sull’illuminismo penale, nella manualistica, per tutti FIANDACA, MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 7ᵃ, Bologna-Roma, 2014, XIV ss.

[23] FIANDACA, Ancora sul diritto penale giurisprudenziale e sul ruolo della Cassazione, in MANNA-ALONZI (a cura di), L’ufficio del Massimario e la forza dei precedenti, Milano, 2020, 183 ss. e, quivi, 192.