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LA TASSATIVIZZAZIONE DELLA CONFISCA ALLARGATA IN FASE ESECUTIVA – (NOTA A SEZIONI UNITE N. 27421 DEL 25.02.2021) – DI ROSARIO PIOMBINO

LA TASSATIVIZZAZIONE DELLA CONFISCA ALLARGATA IN FASE ESECUTIVA – (NOTA A SEZIONI UNITE N. 27421 DEL 25.02.2021) – DI ROSARIO PIOMBINO

PIOMBINO – LA TASSATIVIZZAZIONE DELLA CONFISCA ALLARGATA IN FASE ESECUTIVA – NOTA A SU 27421-2021.PDF

di Rosario Piombino*

Nel 2022 la confisca allargata ex art. 240 bis c.p. compirà trent’anni anni, vissuti dapprima nell’anonimato per poi emergere, nell’ultimo decennio, come tutte le misure di aggressione al patrimonio agli onori della interpretazione giurisprudenziale della Suprema Corte di cassazione a Sezioni Unite. Con la sentenza n. 27421 del 25.02.2021 il giudice di legittimità continua nella sua opera di tassativizzazione delle norme allorquando le stesse presentano deficit di chiarezza sia sul piano dell’ambito di applicazione, sia in termini di tassatività processuale.

L’istituto nasceva per ostacolare le utilità prodotte dalla commissione di determinati tipi di reati (di criminalità organizzata, droga, usura ecc) che per la loro intrinseca natura vengono realizzati con professionalità e continuità dagli autori. Da qui la presunzione di arricchimento illecito, basata sulla sproporzione tra reddito e patrimonio, anche non direttamente derivante dal reato-spia ma presumibilmente legato ad ulteriori attività illecite di analoga natura rispetto al reato per il quale viene pronunciata la condanna.

Oggi l’elenco dei reati spia/matrice ha subito una dilatazione che non sembra conciliarsi con la ratio e le finalità della misura di sicurezza che fondava la propria ragion d’essere sulla pericolosità sociale di persone che, in ragione di reati lucro-genetici che l’esperienza giudiziaria insegnava non realizzati in modo isolato, erano chiamati a giustificare la disponibilità diretta o indiretta dei beni sulla base della presunzione relativa di una loro ingiustificata accumulazione da (altri) reati.

Inutile, sino ad ora è risultato l’intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza nr. 33 del 2018, auspicava una rivisitazione dei reati spia. La funzione tassativizzante per via interpretativa viene preferita agli incidenti di costituzionalità in presenza di norme prive di chiarezza nei presupposti applicativi. Nel solco di tale alveo si inserisce la sentenza in commento che tenta di restringere l’ambito di applicazione oggettivo della confisca allargata applicata in fase esecutiva confermando il trend giurisprudenziale per una maggiore attenzione al diritto di proprietà e di iniziativa economica.

Sommario: 1– La funzione tassativizzante della giurisprudenza della confisca allargata. 2 – Le tematiche affrontate dalla sentenza n. 27421 del 2021. 2.1 – Il procedimento di applicazione in fase esecutiva. 2.2 – Il divieto probatorio dell’evasione fiscale nella giustificazione della sproporzione. 2.3 – Lo standard probatorio nei confronti del terzo interessato. 2.4 – Diritto alla prova nel procedimento di esecuzione e differenze della confisca allargata con la misura di prevenzione patrimoniale. 2.5 – Lo sbarramento temporale nel procedimento di esecuzione costituito dalla sentenza di condanna. 3 – Conclusioni.

 

  1. La funzione tassativizzante della giurisprudenza della confisca allargata.

La Suprema Corte di cassazione con la sentenza n. 27421 del 25.02.2021 ha realizzato un apprezzabile sforzo volto a operare un’interpretazione costituzionalmente orientata della confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p. Dinanzi ad istituti non sufficientemente delineati si assiste sempre più spesso all’intervento tassativizzante della giurisprudenza, che rivendica la funzione para-legislativa evidenziandone l’ausilio rispetto ai deficit di precisione delle norme. Tanto si è verificato e tutt’ora è riscontrabile in materia di prevenzione, ove il Consiglio di Stato rincorre la Suprema Corte di cassazione nello stabilire i presupposti applicativi e lo standard probatorio della misura dell’interdittiva antimafia (CdS n. 5723/2021 del 29.07.2021); anche la confisca allargata non si sottrae alla funzione tassativizzante della Suprema Corte che a Sezioni Unite non manca di additare la norma di scarsità di dati (presupposti).

La natura proteiforme della confisca allargata[1], la funzione di prevenzione, di sicurezza e anche punitiva di un istituto che condivide parte della struttura e dello scopo con la misura di prevenzione patrimoniale hanno spinto la giurisprudenza ad intervenire in più occasioni al fine di perimetrare l’ambito di applicazione di una misura ablativa della proprietà che viene definita per prassi allargata, atipica, estesa.

L’interpretazione giurisprudenziale ha collocato la confisca ex 240 bis c.p. tra le misure di sicurezza atipiche per la possibilità di confiscare il bene a prescindere dal nesso di pertinenzialità (prezzo, profitto, prodotto o più in generale provento) col reato presupposto[2]. Il legislatore con l’introduzione della legge sulla “riserva di codice” (art. 240 bis c.p.) ha creato una sistematica normativa che non brilla per coerenza poiché la confisca atipica si discosta sotto molteplici profili dalle misure di sicurezza: è una misura che presuppone la condanna per un delitto indipendentemente da ogni relazione pertinenziale con i beni confiscati in cui la pericolosità sociale viene ricostruita presuntivamente rispetto ad un patrimonio non giustificabile anche se non connesso al reato spia.

L’intervento delle Sezioni Unite si inserisce nel solco dell’attività di sostituzione del potere giudiziario a quello legislativo allorquando una norma non raggiunge un accettabile tasso di precisione, descrizione, prevedibilità ed accessibilità. La Suprema Corte al paragrafo 11.2 così scrive: «tra i pochi dati obiettivamente ricavabili dal testo normativo, vi è la necessaria subordinazione della confisca all’accertamento della responsabilità penale per uno dei reati inclusi nella sua elencazione».

E ancora è dato leggere che: «sul piano dell’analisi testuale, la disposizione dell’art. 12 sexies, così come quella dell’art. 240 bis c.p., non contiene indicazioni per la soluzione del quesito devoluto alle Sezioni Unite, dal momento che si limita a stabilire che la confisca va “sempre” disposta, prevedendo così la sua obbligatoria applicazione, quando sia intervenuta la condanna per taluno dei reati previsti. In via interpretativa è pacificamente escluso che la disposizione di legge pretenda che tra i beni del condannato ed il delitto presupposto sussista un collegamento di derivazione quale profitto o provento dello stesso, oppure un nesso pertinenziale (Sez. U, n. 920 del 2004, Montella, cit.; Sez. U, n. 29022 del 2001, Derouach, cit.). La relazione tra “reato-spia” ed elemento patrimoniale non è espressa dal legislatore in termini di produzione causale del secondo ad opera del primo, né di proporzione di valore tra i due elementi, ragione per la quale anche la collocazione temporale dell’incremento della ricchezza del condannato di per sé non assume rilievo quale criterio di selezione dei beni confiscabili. Nel silenzio della norma di riferimento, secondo la lettura offerta dalle Sezioni Unite nella sentenza Montella, “essendo la condanna e la presenza della somma dei beni di valore sproporzionato realtà attuali, la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosità presente, non è certo esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna».

Dinanzi a norme generiche anche sul piano dei presupposti, la Suprema Corte si sforza di delineare un assetto costituzionalmente e convenzionalmente orientato. Con la naturale conseguenza che quanto maggiore è imprecisa la norma tanto più gravi saranno le conseguenze del formarsi giurisprudenziale. Non sempre il diritto vivente in corso di formazione viene applicato correttamente dai giudici di merito visto che la stessa Suprema Corte, in materia di misure di prevenzione, evidenziava la cattiva qualità delle decisioni di merito (Cass. Pen. n. 349/2018) rispetto alla struttura bifasica per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale.

Un primo quesito che qualsiasi interprete dovrebbe porsi, e tanto vale maggiormente per il legislatore, va individuato negli effetti che il diritto vivente produce sulla pelle di coloro che “subiscono” il formarsi giurisprudenziale.

Anche la confisca allargata è passata per tre tappe fondamentali che ne hanno determinato la “precisione” dell’ambito di applicazione, visto che i dati offerti dal testo normativo sono generici e, sotto il profilo della tassatività processuale, inesistenti.

La prima tappa “tassativizzante” si realizzava con la citata sentenza a Sezioni Unite, Derouach del 2001. La Suprema Corte qualificava la confisca allargata come misura di sicurezza atipica applicabile anche nella fase esecutiva della sentenza. La ratio legis ispiratrice della norma è stata individuata nella lotta alla criminalità organizzata con la conseguenza che la confisca ex 12 sexies d.l. 306/92, secondo l’orientamento del 2001, è stata definita affine alla confisca quale misura di prevenzione e nello stesso tempo come misura che si colloca su una linea di confine con la confisca in funzione repressiva, propria delle misure di sicurezza patrimoniali, specificando che tale aspetto si fonde con la funzione di ostacolo preventivo teso ad evitare il proliferare di ricchezza di provenienza non giustificata, immessa nel circuito di realtà economiche a forte influenza criminale.

Una volta privilegiato l’aspetto preventivo su quello repressivo e inquadrata la misura tra quelle di sicurezza atipica non venne condiviso l’orientamento maggiormente garantista che riservava l’applicazione dell’art. 12 sexies L. 356/1992 al giudice della cognizione in ragione della “ontologica complessità della fattispecie procedimentale, che solo il giudice della cognizione può garantire” (tra altre, Cass. Sez. IV, 3/12/97, Montenegro).

La seconda tappa tassativizzante fu quella dagli effetti più devastanti sul patrimonio dei destinatari, che oggi, con le Sezioni Unite del 2021, viene, in parte, rivisitata.

Nel 2004, le Sezioni Unite Montella (Sent. n. 920 del 19-01-2004), nel dirimere la questione circa il rapporto di pertinenzialità tra i beni confiscabili e i reati per i quali si procede, confermavano la natura di misura di sicurezza atipica con funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di prevenzione antimafia introdotta dalla legge 31 maggio 1965, n. 575. In particolare, sostennero che è stato escluso qualsivoglia vincolo di pertinenzialità del bene con il reato per il quale si procede argomentando che «la ragionevolezza in sé della presunzione è stata confermata dalla Corte costituzionale che al riguardo ha ritenuto manifestamente infondato un dubbio sull’arbitrarietà della scelta legislativa (ord. n. 18 del 1996). Essa trova ben radicata base nella nota capacità dei delitti individuati dal legislatore, quali, per indicarne alcuni, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, la riduzione in schiavitù e la tratta e il commercio di schiavi, l’estorsione ed il sequestro di persona a scopo di estorsione, l’usura, la ricettazione, il riciclaggio nelle sue varie forme o il traffico di stupefacenti, ad essere perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza». Le Sezioni Unite del 2004 richiamarono una sintetica ordinanza del Giudice delle Leggi (n. 18 del 1996) con la quale doveva essere valutato il solo rapporto funzionale tra sequestro e confisca ex art. 12 sexies; la Corte costituzionale non fu chiamata a pronunciarsi sul tema della presunzione semplice di derivazione del bene da un’attività illecita analoga a quella del reato matrice. La ragionevolezza della presunzione di accumulazione illecita di beni si giustificherebbe – è dato leggere in Sezioni Unite Montella – dalla scelta del legislatore di individuare alcuni reati che vengono perpetrati in forma quasi professionale. Nel frattempo, l’art. 240 bis c.p. ha ampliato il suo ambito di applicazione con diverse e successive leggi che individuano tra i reati spia anche lo stalking o i reati contro la pubblica amministrazione. La presunzione tra reato presupposto e consumazione ‘‘con professionalità’’ di altri reati commessi in passato o realizzabili in futuro, non è, allo stato, intrinsecamente coerente con la ratio dell’istituto poiché l’ambito di applicazione della norma non è più limitato a contesti di organizzazioni criminali o a reati intrinsecamente espressione di professionalità nell’illecito. Secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 33 del 2018) la previsione normativa dovrebbe essere rivisitata sul piano della ragionevolezza dell’elenco dei reati matrice; nella parte conclusiva della sentenza il Giudice delle Leggi auspica: «che la selezione dei “delitti matrice” da parte del legislatore avvenga, fin tanto che l’istituto conservi la sua attuale fisionomia, secondo criteri ad essa strettamente coesi e, dunque, ragionevolmente restrittivi. Ad evitare, infatti, evidenti tensioni sul piano delle garanzie che devono assistere misure tanto invasive sul piano patrimoniale, non può non sottolinearsi l’esigenza che la rassegna dei reati presupposto si fondi su tipologie e modalità di fatti in sé sintomatiche di un illecito arricchimento del loro autore, che trascenda la singola vicenda giudizialmente accertata, così da poter veramente annettere il patrimonio “sproporzionato” e “ingiustificato” di cui l’agente dispone ad una ulteriore attività criminosa rimasta “sommersa”». La Corte è consapevole che l’istituto può mutare la fisionomia assegnatale dalla interpretazione giurisprudenziale. All’auspicio non è seguita alcuna modifica normativa, né sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale nelle ipotesi di reati matrice non connotati da intrinseca professionalità. L’intervento del legislatore sul punto appare necessario oltre che invocato.

La terza tappa che possiamo definire tassativizzante è rinvenibile nella sentenza a Sezioni Unite in commento (n. 27421 del 25.02.2021).

  1. Le tematiche affrontate dalla sentenza n. 27421 del 2021.

In questa sede non ci limiteremo all’analisi del quesito di diritto sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi (il limite temporale della confiscabilità dei beni connesso alla sentenza di condanna o alla irrevocabilità della sentenza) ma saranno scandagliati anche i temi sollevati dalla difesa con le relative risposte della Suprema Corte.

La questione di diritto sottoposta all’esame delle Sezioni Unite è stata formulata nei seguenti termini: «Se la confisca di cui all’art. 240-bis c.p., disposta in fase esecutiva, possa avere ad oggetto beni riferibili al soggetto condannato ed acquisiti alla sua disponibilità fino al momento della pronuncia di condanna per il c.d. reato “spia” ovvero successivamente, salva comunque la possibilità di confisca di beni acquistati anche in epoca posteriore alla sentenza ma con risorse finanziarie possedute prima».

 

2.1Il procedimento di applicazione in fase esecutiva.

È interessante l’esame della requisitoria scritta del Procuratore Generale che, forte dei principi delle Sezioni Unite Montella del 2004, ha osservato che la confisca può riguardare beni acquisiti prima della commissione del “reato spia” e la relativa condanna integra solo il fatto che fonda la presunzione di illecito arricchimento. Secondo la Procura Generale pertanto, né la decisione, né la data della sua irrevocabilità, costituiscono uno sbarramento temporale alla confiscabilità dei beni, dovendosi considerare quale unico limite la ragionevolezza temporale corrente tra la commissione del reato-spia e l’incremento patrimoniale sproporzionato, limite da verificare caso per caso. La pubblica accusa condivide gli indirizzi giurisprudenziali che, nell’applicazione della confisca in fase esecutiva, negano rilevanza temporale alla sentenza di condanna del reato spia invocando il generico e fluido criterio della ragionevolezza temporale caso per caso.

Interessante appare anche la decisione con cui le Sezioni Unite rigettano l’eccezione di nullità del provvedimento di confisca per violazione del principio della domanda, poiché l’iniziativa del pubblico ministero per l’attivazione del procedimento esecutivo ex art. 666 c.p.p. differisce dall’esercizio dell’azione penale nel processo di cognizione, di cui all’art. 405 c.p.p., ed è priva di formalità, potendo essere affidata anche alle conclusioni rassegnate nel contesto dell’udienza camerale (Sez. 1, n. 19998 del 12/02/2013, Morabito ed altro, Rv. 257008; Sez. 3, n. 6901 del 18/11/2008, dep. 2009, Favato, Rv. 242734). La Suprema Corte ricorda che “Il sequestro non è indissolubilmente correlato alla confisca (arg. ex art. 12 sexies, comma 1 e 4) come un passaggio necessario dell’iter procedimentale conducente al provvedimento ablativo” e, comunque, “non costituisce principio assoluto (arg. ex art. 676 c.p.p., comma 3) che il giudice dell’esecuzione non possa mai procedere di ufficio” (Sez. U, n. 29022 del 30/05/2001, Derouach, Rv. 219221). Il petitum del pubblico ministero finalizzato alla richiesta di sequestro (e non anche alla confisca) non integra alcuna nullità della vocatio in iudicium sul piano della informazione dell’oggetto della procedura camerale, sia perché la richiesta di sequestro costituisce un’anticipazione di un successivo provvedimento di confisca idoneo a garantire il contradittorio delle parti, sia perché in riferimento alla confisca applicata in esecuzione, non è riproducibile la dicotomia tra procedimento cautelare e procedimento principale, propria del giudizio di cognizione, e non è pretesa una specifica e distinta richiesta del soggetto legittimato.

Pertanto, il contenitore processuale previsto dalla fase esecutiva si pone al di fuori del sistema accusatorio che vede le parti attivarsi e il giudice decidere in funzione di terzietà nell’ambito del petitum devoluto dalla pubblica accusa. Il giudice, nella fase esecutiva, può procedere anche d’ufficio e la procedura di opposizione al decreto di confisca da celebrarsi dinanzi al medesimo magistrato che ha emesso il provvedimento de plano (eventualmente anche di iniziativa) non realizza alcuna ipotesi di incompatibilità.

Difatti, si precisa in sentenza che alcuna condizione di incompatibilità si realizza nel giudizio di opposizione, che non ha natura di impugnazione e non rappresenta una fase distinta ed autonoma, ma integra un segmento, nell’ambito di un procedimento unitario, attraverso il quale si attua, in via eventuale e su iniziativa della parte stessa, il contraddittorio pieno. Per tale ragione, l’adozione della decisione sull’opposizione da parte dello stesso giudice non contrasta con le esigenze di imparzialità e di terzietà del giudice (Sez. 1, n. 35580 del 25/11/2020, Rabeschi, non mass.; Sez. 1, n. 30638 del 14/02/2017, Lombardo, Rv. 270959; Sez. 1, n. 52058 del 10/06/2014, Bimbola, Rv. 261604).

A nostro avviso, l’assenza di incompatibilità va relazionata non già alla classificazione formale del giudizio di opposizione ma al contenuto della precedente valutazione ancorché emessa con provvedimento giurisdizionale de plano che può essere opposto anche solo con argomentazioni diverse da quelle sostenute dal giudicante senza alcuna integrazione istruttoria; argomentazioni che l’opponente può dedurre solo dinanzi stesso giudice che ha già emesso il decreto di confisca. In tema di incompatibilità la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza nr. 183 del 2013),  ha fissato i seguenti principi: I) le norme in materia di incompatibilità sono funzionali ad evitare che la decisione sul merito possa essere o apparire condizionata dalla “forza della prevenzione” – ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda (Corte Cost., sentenza n. 183 del 9/7/2013, p. 4); II) la situazione pregiudicante non è determinata dalla mera “conoscenza” degli atti, ma dalla valutazione contenutistica su aspetti che riguardano il merito dell’ipotesi di accusa; III) non sono pregiudicanti le determinazioni assunte in ordine allo svolgimento del processo, sia pure in seguito a una valutazione delle risultanze processuali; IV) le valutazioni di merito pregiudicanti devono appartenere a fasi diverse del processo.

Al di là delle etichette che si intendono attribuire all’opposizione al decreto di confisca emesso dal giudice dell’esecuzione, è oggettivamente innegabile che si è al cospetto di una decisione di merito determinata dalla valutazione di documenti che realizza quella “forza della prevenzione” che l’opponente è chiamato a vincere dinanzi allo stesso giudice che ha manifestato il proprio convincimento. Che l’opposizione venga qualificata come un segmento eventuale di un procedimento unitario mediante il quale si realizza il contraddittorio – e non una impugnazione o una fase autonoma – è definizione che dovrebbe confrontarsi, sul piano della coerenza, con la forza del pregiudizio insito nella decisione adottata dal giudice disponente il sequestro.

2.2. – Il divieto probatorio dell’evasione fiscale nella giustificazione della sproporzione.

Un tema di grande rilievo viene affrontato solo in via incidentale dalla Suprema Corte: trattasi della rilevanza dell’evasione fiscale nella giustificazione della sproporzione[3]. La difesa, nel caso in commento, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 31 L. n. 161 del 2017 per il quale il condannato per un reato spia “non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale”.

Viene ribadita, in sentenza, la natura processuale della disposizione (“In linea generale risponde al vero che la disposizione, di natura processuale, non può disciplinare un caso, come quello presente, in cui gli accertamenti patrimoniali hanno riguardato annualità antecedenti alla sua entrata in vigore”). La questione viene dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza perché non è stata applicata dal giudice di merito la norma censurata. In questa sede giova evidenziare che l’impossibilità di giustificare il carattere proporzionato del valore del bene al momento dell’acquisto attraverso i proventi dell’evasione fiscale (la tassa risparmiata) e secondo un’interpretazione più restrittiva anche attraverso quella parte del proprio reddito imponibile di fonte lecita, sottratta alla tassazione (Cass., Sez. I, sent. 11 ottobre 2019 (dep. 17 gennaio 2020), n. 1778, Pres. Rocchi, Est. Magi, ric. Ruggieri), rileva sul piano del principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione e sul principio di legalità che deve sottendere una misura così dirompente sul patrimonio delle persone.

Se è vero che l’art. 31 L. 161 del 2017 risponde ad una scelta di politica criminale è altrettanto vero che le scelte devono essere compatibili coi principi costituzionali anche sotto il profilo della coerenza e della ragionevolezza.

Col citato divieto probatorio il preposto non può giustificare la sproporzione attraverso l’omesso versamento di tasse quando la condotta non costituisce reato (si pensi a tutte le violazioni tributarie sotto la soglia penale). L’assurdo sul piano della ragionevolezza si raggiunge quando si ritiene che persino la base imponibile lecitamente prodotta sarebbe sottoposta al medesimo divieto probatorio, con la conseguenza di una vera e propria espropriazione forzata di beni lecitamente prodotti, non connessi neppure presuntivamente al reato spia, né connessi ad un reato in genere che si presume realizzato in ragione della condanna per un reato spia.

Si è giunti a creare una misura per la quale un commerciante condannato per un solo reato di ricettazione di beni alimentari (reato presupposto), che lavora lecitamente nel campo della ristorazione e che omette di versare parzialmente l’iva o dichiara meno di quanto ricavato senza mai commettere reato, si vede impossibilitato a provare la proporzione tra il reddito lecitamente prodotto e il valore dei beni acquistati attraverso la propria attività lavorativa svolta lecitamente per diversi anni (ragionevolezza temporale).

E, poiché il divieto probatorio si traduce in impossibilità di provare anche il reddito lecito, i sacrifici di una vita vengono confiscati in nome di una misura che non svolge funzione di sicurezza atipica e preventiva rispetto a beni prodotti lecitamente che insistono nel circuito economico privi del contagio dovuto alla presunzione di illecita accumulazione.

Rispetto all’evasore non condannato per un reato spia, quello condannato non commette (presuntivamente) alcun reato intrinsecamente lucro-genetico limitandosi ad una violazione tributaria penalmente irrilevante.

Il divieto probatorio deve confrontarsi con la ratio dell’istituto. La sentenza in commento, nel delineare il presupposto soggettivo per l’applicazione della misura, precisa che il giudizio di colpevolezza in ordine al reato commesso e la natura particolare di questo, idoneo ad essere realizzato in forma continuativa e professionale ed a procurare illecita ricchezza, fanno ritenere l’origine criminosa di cespiti, di cui si sia titolari in valore sproporzionato rispetto a redditi ed attività, in base alla presunzione relativa della loro derivazione da condotte delittuose ulteriori rispetto a quelle riscontrate nel processo penale, che, comunque, costituiscono la base della presunzione stessa. Nella considerazione del legislatore, quindi, l’attribuzione al soggetto della commissione di uno dei “reati-spia” costituisce indicatore dell’acquisizione dei beni, sia pure non per derivazione da quel reato specifico.

Se tale è la funzione della confisca allargata risulta del tutto incoerente l’impossibilità di provare la sproporzione con l’evasione fiscale non di origine criminosa. La preclusione probatoria dell’evasione fiscale conduce applicazione di un’actio in rem del tutto avulsa dal concetto di pericolosità sociale tipico delle misure di sicurezza. Per come strutturato il divieto di provare la proporzione del reddito, la misura svolge finalità espropriative (sanzionatorie) non legittimate dalla funzione preventiva della misura laddove il diritto tributario disciplina strumenti specifici contro gli illeciti tributari come i sequestri conservativi funzionali alla confisca.

Se il presupposto di operatività dell’istituto è la presunzione di illiceità della provenienza delle risorse patrimoniali, i fatti giuridici penalmente irrilevanti non possono rilevare neanche sotto il profilo processuale del divieto probatorio.

Difatti un siffatto divieto, sebbene di natura processuale, amplia e produce effetti sostanziali (in modo irragionevole) sull’ambito di applicazione dell’art. 240 bis c.p. Il presupposto oggettivo della sproporzione, attraverso la norma processuale, viene esteso a tutti i casi di reddito lecitamente prodotto in ipotesi di evasioni fiscale non penalmente rilevanti. Nel perimetro del non penalmente rilevante, per ragioni di sistematicità e coerenza, deve rientrare anche il provento dell’evasione fiscale perché esso non ha alcuna connessione con una fattispecie delittuosa.

Il quantum dell’imposta evasa costituisce la base per l’applicazione delle sanzioni tributarie laddove il legislatore del 2017 ha costruito un sistema ibrido fortemente irragionevole e incoerente rispetto alla natura, alla struttura e alla funzione della confisca allargata. La previsione dell’art. 31 L. 161/2017 appare incostituzionale.

2.3 – Lo standard probatorio nei confronti del terzo interessato.

La Suprema Corte ribadisce che la posizione del terzo rispetto al diretto interessato differisce e non poco sul piano probatorio. La presunzione relativa fondata sulla sproporzione dei valori non opera nei confronti del terzo. Spetta al giudice che disponga la misura ablativa illustrare efficacemente le ragioni della ritenuta interposizione, reale o fittizia, valorizzando allo scopo circostanze sintomatiche ed elementi fattuali, dotati dei crismi della gravità, precisione e concordanza, idonei a sostenere, anche in chiave indiretta, l’assunto accusatorio secondo lo schema tipico del ragionamento indiziario. Pertanto, le Sezioni Unite precisano che lo schema del ragionamento probatorio ex art. 192, co. 2, cpp è pienamente applicabile con le conseguenze che ne derivano in termini di coesistenza degli indizi e dei requisiti che essi devono avere (giurisprudenza costante; cfr. comunque, per tutte: Cass. Sez. 5, n. 13084 del 6 marzo 2017, Carlucci, Rv. 269711; Cass. Sez. 1, n. 6137 del 11 dicembre 2013, dep. 2014, Soriano, Rv. 259308; Cass. Sez. 1, n. 44534 del 24 ottobre 2012, Ascone, Rv. 254699; Cass. Sez. 1, n. 27556 del 27 maggio 2010, Buompane, Rv. 247722; Cass. sez. 6, n. 42717 del 5 novembre 2010, Noviello, Rv. 248929).

Il terzo inoltre non è onerato della positiva dimostrazione della lecita origine del proprio patrimonio ma della sola allegazione di circostanze contrarie all’assunto dell’accusa, che il giudice, secondo il principio del libero convincimento, è tenuto a vagliare (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella, Rv. 226491). Le giustificazioni, tuttavia, devono essere serie, intrinsecamente credibili e suscettibili di verifica. A nostro avviso la distinzione tra onere di dimostrazione e onere di allegazione si traduce in un sottile formalismo poiché se tra gli elementi di interposizione, reale o fittizia, viene richiamata la sproporzione del reddito del terzo (come avviene sempre nella prassi), questi è tenuto a dimostrare l’origine e la ricostruzione del proprio patrimonio. Allegare significa produrre documenti e pertanto dimostrare. La distinzione delle Sezioni Unite Montella tra onere di allegazione e onere probatorio appare un artifizio formale avulso dalla fenomenologia probatoria.

Infine, per concludere sul rapporto tra la confisca allargata e la posizione del terzo interessato, rappresentiamo, sebbene il tema non sia stato affrontato dalle Sezioni Unite, che la presunzione di fittizietà degli atti di trasferimento compiuti – a titolo oneroso o gratuito – dal proposto in favore di determinate categorie di persone (familiari in particolare), prevista in tema di misure di prevenzione patrimoniale dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 26, non si applica al sequestro penale finalizzato alla confisca prevista dall’art. 240 bis c.p.

La Suprema Corte (Cass. Sez. 2, n. 3620 del 12 dicembre 2013, dep. 2014, Patanè, Rv. 258790) ha evidenziato che: «l’intestazione fittizia, da parte del terzo, di un bene in realtà appartenente al condannato per uno dei reati indicati dall’art. 12 sexies, L. cit., deve essere invece accertata per fatti concludenti concreti, anche in presenza di intestazioni a favore del coniuge del condannato/imputato (cfr., Cass., Sez. 1, n. 31663 dell’08/07/2004 dep. 20/07/2004, Pettograsso, rv. 229300)»; con la precisazione secondo cui «se può assumere valenza probatoria anche la sproporzione di valore tra il bene formalmente intestato e il reddito effettivamente percepito, è altrettanto vero come occorra sempre che la sproporzione, confrontata con le altre circostanze che caratterizzano il fatto concreto, appaia sicuramente dimostrativa della natura simulata dell’intestazione»; con ciò affermando, in buona sostanza, che anche la proporzione fra reddito del terzo e valore del bene da lui acquistato è solo uno degli indizi da prendere in considerazione per affermare che il suo acquisto sia in effetti simulato, nel senso ampio sopra precisato, sì da ricondurre la titolarità del bene al condannato, in quanto avente valore sproporzionato anche al suo reddito.

2.4 – Diritto alla prova nel procedimento di esecuzione e differenze della confisca allargata con la misura di prevenzione patrimoniale.

La Suprema Corte nel dichiarare inammissibile le questioni di legittimità costituzionali sollevate dalla difesa dei terzi interessati in ordine al modello applicativo in fase esecutiva ribadisce principi di indubbia rilevanza. Innanzitutto quello di “inesistenti limitazioni alle facoltà probatorie in sede di incidente di esecuzione”. Vengono a tal fine richiamati l’art. 185 disp.ni att.ne al cpp e 666, co. 5, c.p.p.

Il diritto alla prova è pertanto garantito senza alcuna limitazione sebbene ancora una volta si deve constatare la mancata regolazione delle modalità di esercizio.

Viene ribadita la compatibilità costituzionale dell’applicazione della misura in fase esecutiva poiché la trattazione da parte dello stesso giudice, pronunciatosi inizialmente de plano, non costituirebbe motivo di compromissione dell’effettività del diritto di difesa e del diritto ad ottenere una pronuncia a cognizione piena sui temi proposti dal condannato o dal terzo, ai quali, in conformità ai canoni del giusto processo ed ai principi costituzionali, è comunque riconosciuta la possibilità di impugnazione mediante ricorso per cassazione per far valere l’insussistenza dei presupposti applicativi della confisca.

In disparte la citata questione sulla incompatibilità del giudice che si è già pronunciato de plano, rilevanti appaiono le censure da muovere a un siffatto procedimento, tanto più se comparato con quello applicativo della misura di prevenzione patrimoniale.

Il decreto di sequestro deve essere impugnato entro 15 giorni. Termine del tutto inadeguato dinanzi ad indagini patrimoniali complesse che spesso richiedono allegazioni difensive di difficile reperimento.

L’opposizione viene decisa dinanzi allo stesso giudice che si è pronunciato nel merito e il proposto ha come unico giudice dell’impugnazione la Suprema Corte di Cassazione con i noti limiti di deducibilità. Se è vero che il ricorso per cassazione può essere proposto anche ai sensi dell’art. 606, lett. e), c.p.p., nella giurisprudenza di legittimità, il motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., è considerato proponibile soltanto per il processo di cognizione a rito dibattimentale, non anche per i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio e che sono regolati da differenti disposizioni con riferimento all’attività istruttoria (Sez. 1, n. 32116 del 10/09/2020, Gaita; Sez. 1, n. 49180 del 6/07/2016, Barberio ed altro, rv. 268652; sez. 1, n. 8641 del 10/02/2009, Giuliana, rv. 242887; Sez. 1, n. 38947 del 01/10/2008, Greco, Rv. 241309; Sez. 1, n. 15605 del 28/03/2008, Locci, rv. 242148).

In effetti, la legittimità del contenitore processuale della fase esecutiva è stata declinata per via interpretativa. Il legislatore ha semplicemente ratificato la giurisprudenza meno garantista rispetto a quella che delegava unicamente al giudice della cognizione l’applicazione della misura. Con l’introduzione dell’art. 183 quater disp. att. c.p.p., ad opera del d.lgs. n. 21 del 2018, si sono tradotti in disposizione di legge i principi affermati dalle Sezioni Unite con la pronuncia Derouach, costantemente ribaditi dalle pronunce di legittimità successive (ex multis: Sez. 1, n. 16122 del 28/02/2018, Spaziante, Rv. 276183; Sez. 6, n. 5018 del 17/11/2011, dep. 2012, Chafìk, Rv. 251792; Sez. 1, n. 19516 dell’1/04/2010, Barilari, Rv. 247205; Sez. 1, n. 22752 del 09/03/2007, Billeci, Rv. 236876) e si è stabilito che: «competente ad emettere i provvedimenti di confisca in casi particolari previsti dall’art. 240 bis c.p., o da altre disposizioni di legge che a questo articolo rinviano, dopo l’irrevocabilità della sentenza è il giudice di cui all’art. 666, commi 1, 2 e 3 del codice».

Le Sezioni Unite, se da una parte difendono la compatibilità costituzionale della procedura in fase esecutiva, non mancano di evidenziare come, in base a molteplici disposizioni normative espressamente indicate, la sede naturale per l’applicazione della misura dovrebbe essere il processo in cui viene emessa la sentenza per il reato-spia. Sostengono altresì che nella considerazione del legislatore, l’attribuzione al soggetto della commissione di uno dei “reati-spia” costituisce indicatore dell’acquisizione dei beni, sia pure non per derivazione da quel reato specifico. E pertanto è la previsione di tale imprescindibile condizione a dare ragione del fatto che il processo di cognizione costituisce la sede naturale ed ordinaria per imporre la confisca, unitamente alle altre statuizioni penali, in un unico contesto deliberativo.

La Suprema Corte – per risolvere il quesito circa il limite temporale della confisca in fase esecutiva connesso alla rilevanza della sentenza di condanna o alla sua irrevocabilità – non manca di evidenziare per l’ennesima volta le affinità di struttura e di effetti con la confisca di prevenzione patrimoniale poiché «il legislatore utilizza (…) la condotta illecita formalizzata (il reato-spia) come indice rivelatore di una particolare pericolosità soggettiva ed adotta un modello descrittivo dell’analisi patrimoniale (disponibilità anche indiretta dei beni, mancata giustificazione della provenienza, sproporzione di valore con il reddito dichiarato o con i risultati dell’attività economica svolta) del tutto coincidente con quello elaborato nel settore della prevenzione patrimoniale».

La giurisprudenza costituzionale ha evidenziato marcati profili di assonanza, individuati nel requisito della pericolosità sociale del destinatario, nell’assenza del nesso di derivazione dal reato dell’utilità confiscata e nella comune finalità di contrasto alla criminalità lucrogenetica (Corte Cost., sent. n. 33 del 2018 e sent. n. 24 del 2019). Le due forme di confisca costituiscono «altrettante species di un unico genus (…) identificato nella confisca dei beni di sospetta origine illecita» (Corte Cost., n. 24 del 2019, punto 10.3).

Nonostante le affinità tra i due istituti, la Suprema Corte si discosta dall’orientamento giurisprudenziale che nega alla sentenza di condanna l’effetto di uno sbarramento temporale per procedere alla confisca dei beni quando essa avviene in fase esecutiva;  secondo le Sezioni Unite Montella, anche dopo la pronuncia di condanna, a prescindere dalla data della decisione o della irrevocabilità, i beni sarebbero confiscabili se viene rispettato il criterio della ragionevolezza temporale corrente tra reato spia e acquisizione degli stessi.

Tale orientamento – secondo le Sezioni Unite in commento – condurrebbe ad una duplicazione inutile di istituti perché se fosse consentita la conduzione sine die di indagini patrimoniali per l’individuazione dei beni pervenuti al condannato anche in tempi successivi al pronunciamento della sentenza, si consentirebbe un’esplorazione continua ed illimitata, analoga a quella che il d.lgs. n. 159 del 2011, art. 19, prevede per la formulazione della proposta di applicazione della misura di prevenzione reale. La rilevanza della sentenza penale si desume altresì dal principale elemento differenziale tra le due misure, identificabile nella superfluità dell’instaurazione di un processo penale nei confronti del soggetto e del giudicato sulla responsabilità penale, quale presupposto soggettivo per imporre la confisca di prevenzione, che pretende piuttosto l’inquadramento in una delle categorie di pericolosità tipizzate dal D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. 1 e 4, oltre che nella ben più ampia piattaforma probatoria attingibile per il giudizio prevenzionale.

Affermazione che a nostro avviso, in materia di prevenzione patrimoniale, pone oggettivi problemi circa la compatibilità costituzionale di una norma che viene intrepretata consentendo al giudice della prevenzione di individuare il preposto nella categoria di chi vive abitualmente anche in parte di proventi delittuosi senza l’accertamento del delitto, in forma abituale e con lo standard probatorio del processo penale di accertamento del fatto delittuoso.

2.5 – Lo sbarramento temporale nel procedimento di esecuzione costituito dalla sentenza di condanna.

Le Sezioni Unite con la sentenza n. 27421 del 25.02.2021 superano finalmente l’orientamento delle Sezioni Unite Montella circa il limite temporale a valle della sentenza di condanna per il reato spia. Il giudice di legittimità muove dalla costruzione dogmatica dell’istituto che non richiede alcun vincolo di pertinenzialità tra reato matrice e beni da confiscare. Tale presupposto normativo renderebbe in astratto irrilevante il momento di acquisizione del bene rispetto alla commissione del reato spia. Tuttavia, l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite Montella e seguito dalla giurisprudenza di legittimità che consente la confisca di acquisizioni antecedenti e successive alla commissione del reato spia in ragione della irrilevanza della pertinenzialità tra bene e reato, consentirebbe applicazioni illimitate della misura ablativa con effetti fortemente pregiudicanti i diritti di proprietà e di iniziativa economica del destinatario, oltre a rendergli molto difficoltosa, se non impossibile, la dimostrazione della legittima provenienza degli incrementi patrimoniali distanziati dal reato, specie se ad esso di molti anni antecedenti.

Le Sezioni Unite invocano il diritto di proprietà, di iniziativa economica e il diritto di difesa per delimitare temporalmente gli effetti della confisca allargata precisando che il criterio di “ragionevolezza temporale” sta a significare che il momento di acquisto del bene non deve essere talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato-spia” da determinare l’irragionevolezza della presunzione di derivazione da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella giudicata. In tal senso, viene richiamata testualmente la sentenza nr. 33 del 2018 della Corte costituzionale. Consentiteci un ritorno sulla rilevanza probatoria del reddito da evasione fiscale per ribadire che basterebbero tali principi – espressamente indicati dalle Sezioni Unite – per dichiarare incostituzionale la norma che impedisce di giustificare la proporzione del reddito con l’evasione fiscale non derivante da reato, che non può essere parificata (attraverso un semplice divieto probatorio) ad un bene illecito proveniente da attività illecita diversa dal reato matrice.

La Suprema Corte richiama anche la Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 2014/42/CE del 3 aprile 2014 nella parte in cui consente agli stati membri di fissare un periodo di tempo entro il quale si può ritenere che i beni siano derivati da condotte criminose, per evidenziare l’opportunità della delimitazione temporale della presunzione, che autorizza la confisca, quale strumento per assicurare il rispetto del principio di necessità e proporzionalità del sacrificio imposto al destinatario della misura, riconosciuto dall’art. 42 della Convenzione EDU e 1 del Protocollo addizionale, e per contenere il potere statuale di espropriare ricchezza di origine illecita, cui si ispira anche il criterio di ragionevolezza temporale, elaborato dalla giurisprudenza italiana.

Principi di legalità, necessità e proporzionalità previsti anche dal Regolamento n. 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di sequestro e confisca, emessi in procedimenti in materia penale, adottato il 14 novembre 2018 dal Parlamento Europeo e dal Consiglio.

In sostanza, le Sezioni Unite attraverso una ricognizione giurisprudenziale interna, di legittimità e costituzionale, e attraverso il richiamo alla normativa sovranazionale, hanno motivato l’interpretazione più garantista della confisca allargata precisando che il criterio di ragionevolezza temporale, con analoghi effetti e finalità, deve essere riferito anche alle situazioni in cui l’acquisizione patrimoniale si collochi in un momento successivo alla perpetrazione del “reato-spia” e l’intervento ablatorio sia richiesto al giudice dell’esecuzione.

La Suprema Corte dichiara espressamente superato il principio affermato dalle Sezioni Unite Montella. Viene ribadita la natura non pertinenziale della relazione tra cosa e reato e l’assenza del nesso di derivazione della prima dal secondo per sostenere che vanno ritenuti confiscabili anche gli elementi patrimoniali acquisiti dopo la perpetrazione del reato, purché non distaccati da questo da un lungo lasso temporale che renda irragionevole la ablazione e, comunque, non successivi alla pronuncia della sentenza di condanna o di patteggiamento e non già alla irrevocabilità della decisione, che nella prassi si realizza a distanza di molti anni dal tempo del commesso reato spia con una dilatazione temporale del presupposto oggettivo per l’applicazione della misura incompatibile con i principi costituzionali. La ragionevolezza temporale è criterio che deve sottendere l’acquisizione del bene prima e dopo la commissione del reato spia col limite invalicabile, anche in sede di confisca in fase esecutiva, della data di decisione della sentenza di condanna o di patteggiamento.

A tali principi la Suprema Corte fa seguire precisazioni circa il significato di sentenza di condanna, che pongono, a nostro avviso, alcune problematiche. Per sentenza di condanna deve intendersi quella emessa dal giudice di merito in primo grado se nei gradi successivi sia confermata o riformata soltanto in punto di pena.

In mancanza di una precisa disposizione normativa, pertanto, l’eventuale errore del giudice di primo grado che dovesse comportare una riqualificazione del fatto si tradurrebbe in un pregiudizio per il condannato in termini di dilatazione temporale per la confisca dei beni. Non si comprende la ratio della precisazione rispetto alla necessità di contenere l’ambito temporale della confisca, che dovrebbe essere connesso all’accertamento del fatto e non alla qualificazione formale del reato che potrebbe verificarsi in appello o in cassazione.

Per sentenza di condanna si intende anche quella emessa in grado di appello o di rinvio in ipotesi di riforma di una precedente pronuncia assolutoria.

La Corte di cassazione precisa altresì che in situazioni di processi cumulativi sul piano oggettivo o soggettivo la medesima osservazione va riferita alla statuizione adottata per ciascun reato presupposto e nei confronti di ognuno degli imputati chiamati a risponderne. Pertanto, il momento finale di aggredibilità a fini di confisca del loro patrimonio potrebbe variare – pur nell’ambito dello stesso, unico processo – in dipendenza delle vicende riguardanti i singoli capi della sentenza. Da tale precisazione dovrebbe derivare che gli eventuali stralci o annullamenti di sentenza, per reato o per soggetto, se riguardanti delitti rientranti nell’elenco di cui all’art. 240 bis c.p., comportano diversi momenti di aggredibilità dei beni dipendenti dal requisito formale della data della sentenza di condanna.

  1. Conclusioni

Anche in materia di confisca allargata l’imprecisione normativa ha rappresentato il presupposto per una costante funzione tassativizzante dell’interprete sia sul piano processuale che su quello sostanziale.

Nel 2001 la sentenza Derouach stabiliva per via interpretativa la legittimità dell’irrogazione della misura nella fase esecutiva, cui solo nel 2017 ha fatto seguito la ratifica normativa.

Con la medesima sentenza la confisca allargata veniva definita misura di sicurezza atipica, categoria sconosciuta al diritto penale classico, per poi essere sistematicamente inserita nel 2018 tra le misure di sicurezza con l’art. 240 bis c.p.

Nel 2004, tra il silenzio normativo, le Sezioni Unite Montella ribadivano la funzione di misura di sicurezza atipica con la quale il legislatore non richiede alcun vincolo pertinenziale tra il bene e il reato presupposto.

Nel 2018, con la sentenza nr. 33, la Corte costituzionale investita per la prima volta dopo le citate interpretazioni della Suprema Corte si pronuncia in modo incisivo dando rilevanza al criterio di ragionevolezza temporale e auspicando un intervento del legislatore nella elencazione dei reati matrice, affinché siano effettivamente circoscritti a quelli intrinsecamente lucro-genetici e realizzati con professionalità.

Nel 2021 la Suprema Corte con la sentenza in commento tassativizza ulteriormente, nell’ambito di una norma che non brilla per chiarezza di elementi costitutivi, l’ambito di applicazione oggettivo della confisca allargata disposta in fase esecutiva mediante la delimitazione temporale.

In questa sede non possiamo che osservare come dinanzi alla imprecisione normativa, la giurisprudenza privilegia interpretazioni tassativizzanti anziché investire il Giudice delle leggi della compatibilità costituzionale e convenzionale delle norme, in una materia come quella delle confische che costituisce ormai il banco di prova privilegiato per creare il diritto vivente a scapito della funzione legislativa e indirettamente di coloro che subiscono la progressiva funzione tassativizzante.

Provocatoriamente, sarebbe interessante conoscere l’opinione delle persone che si sono viste confiscare in fase esecutiva i beni di una vita acquisiti dopo la sentenza di primo grado in base all’interpretazione delle Sezioni Unite Montella sulla funzione tassativizzante della Magistratura, che sostituisce il legislatore nella emanazione di norme chiare ed accessibili.

La tassativizzazione per via interpretativa non è prevista dalla Costituzione e realizza incertezze e disuguaglianze oltre che il sospetto verso un potere dello Stato di accentramento decisionale.

*Avvocato del Foro di Napoli – Componente dell’Osservatorio “Misure Patrimoniali e di Prevenzione” U.C.P.I., della Commissione “Misure di Prevenzione” COA Napoli e del Comitato di Redazione della Rivista UCPI “Diritto di Difesa”

[1] La Corte costituzionale, sin dagli anni sessanta (cfr. sentenze 25/5/1961 n. 29 e 4/6/1964 n. 46), sosteneva che ‘‘la confisca puo` presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica’’ e che ‘‘il suo contenuto…è sempre la…privazione di beni economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità`, sì` da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa’’, con l’effetto che viene in rilievo ‘‘non una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così` come risulta da una determinata legge’’.

[2] È dato leggere nella sentenza Derouach (Sezioni Unite con la sentenza 30/05/2001 dep. Il 17/07/2001 nr. 29022) che ‘‘la norma in esame innesta, dunque, nel sistema una misura di sicurezza atipica che, sulla base di predeterminati presupposti, aggredisce entità patrimoniali evocando una presunzione relativa d’ingiustificata locupletazione, rispetto alla quale la tutela del bene-patrimonio si affievolisce nel bilanciamento di valori che privilegiano esigenze di soddisfacimento di istanze diffuse, tese all’espropriazione di beni sottratti in maniera illecita alla collettività`, cui vanno restituiti, salvo giustificazione, una volta eliminata con la condanna l’apparenza della disponibilità legittima (Cass. Sez. I, 10/3/93 Carnana)’’.

[3] Per approfondimento: Sistema Penale nr. 4/2020 di Anna Maria Maugeri.