LA TORRE DI BABELE – OSSERVAZIONI SU CORTE COSTITUZIONALE N. 178 DEL 2021 – DI MARCELLO FATTORE
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LA TORRE DI BABELE[1]
(Osservazioni su Corte costituzionale n. 178 del 6 luglio 2021, sentenza, depositata il 31 luglio 2021)
di Marcello Fattore*
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, codice antimafia, nella parte in cui equipara gli effetti interdittivi previsti per la condanna di un reato previsto nella classe di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p. o per l’applicazione di una misura di prevenzione personale, alla condanna per i reati di truffa aggravata ai danni dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
È stato velato dall’interesse dominante per l’approvazione della riforma sulla giustizia il deposito – avvenuto il 31 luglio u.s. – della Sentenza della Corte costituzionale 178/21 inerente alla legittimità o meno dell’art. 67, comma 8, codice antimafia, come modificato dal decreto legge 113/18, convertito nella legge 132/18[2].
Tale, ennesimo decreto sicurezza o decreto Salvini aveva esteso automaticamente gli effetti interdittivi previsti dai commi 1, 2 e 4 dell’articolo 67 stesso alle condanne – confermate in grado di appello – per i delitti di truffa aggravata ai danni dello Stato e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, affiancandole alle ipotesi-presupposto già presenti, costituite dall’applicazione con provvedimento definitivo di una misura di prevenzione personale qualificata e dalla condanna nel doppio grado di merito per uno dei delitti previsti nel catalogo dell’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
La questione era stata sollevata in sede di rinvio dal T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, originariamente adito in via cautelare per l’annullamento di un provvedimento interdittivo, emesso dal Prefetto di Udine ex 67, codice antimafia, nei confronti di una persona alla quale era stata applicata per il delitto di cui al 640-bis c.p. la pena di tre mesi e diciotto giorni di reclusione, convertita nella multa di ventisettemila euro, concordata a seguito di patteggiamento.
All’esito della discussione all’udienza pubblica, il T.A.R. friulano, facendo proprie le osservazioni del Consiglio di Stato, aveva dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 67, comma 8, d.lgs. 159/2011, ove parifica, in via automatica, gli effetti interdittivi derivanti dall’applicazione di una misura di prevenzione personale qualificata, o dalla condanna per uno dei reati di cui al 51, comma 3-bis, c.p.p., alla diversa situazione relativa alla condanna non irrevocabile in sede penale per il delitto previsto dal 640-bis c.p., il quale «non ha struttura associativa, risulta punito con sanzioni molto inferiori e, nella sua configurazione normativa, non è necessariamente correlato ad attività della criminalità organizzata (come, del resto, risulta in concreto accertato dalla sentenza di condanna patteggiata subita dall’appellante)».
La Corte costituzionale, nella sentenza appena depositata, evidenzia che gli effetti interdittivi della comunicazione antimafia derivano dall’applicazione di una misura di prevenzione personale – alla cui base v’è, come noto, una prognosi di pericolosità sociale – e dalla condanna, pur non definitiva, per uno dei reati inseriti nel contenitore del 51, comma 3-bis, c.p.p., i quali «hanno una specifica valenza nel contrasto alla mafia», tant’è che essi attribuiscono «le funzioni di pubblico ministero ai magistrati addetti alla direzione distrettuale antimafia», in ragione della complessità di accertamento di fattispecie che «hanno in gran parte natura associativa oppure presentano una forma di organizzazione di base (come per il sequestro di persona ex art. 630 cod. pen.) o comunque richiedono condotte plurime (come per il traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452-quaterdecies cod. pen.), oltre a prevedere pene che possono essere anche molto alte».
Gli stessi connotati – prosegue la Corte – non costituiscono il corredo genetico del 640-bis c.p., il quale «non ha natura associativa e non richiede neppure la presenza di un’organizzazione volta alla commissione del reato. Esso ha dimensione individuale, può riguardare anche condotte di minore rilievo – quale risulta essere quella del giudizio a quo – ed è punito con pene più lievi … senza che vi siano tantomeno deroghe al regime processuale ordinario».
Far dunque derivare automaticamente effetti di incapacitazione giuridica dalla condanna per il delitto in esame appare “non proporzionato” ai caratteri del reato e allo scopo di contrasto delle associazioni criminali, da cui il conflitto con l’articolo 3 della Carta.
Inoltre, la estensione di tali effetti interdittivi «provoca danni irragionevolmente elevati alla libertà d’iniziativa economica, sia sul piano patrimoniale, sia della “reputazione” imprenditoriale, specie per chi svolge attività lavorative e professionali in rapporto con la pubblica amministrazione», derivandone altresì il contrasto con l’articolo 41 della Costituzione.
La Corte avverte poi l’esigenza di sottolineare che la tenuta del fronte antimafia non patirà cedimenti attraverso la pronuncia di incostituzionalità, posto che l’art. 640-bis c.p., già è considerato dall’art. 4, comma 1, lettera i-bis, d.lgs. 159/11, un “reato-spia” per l’applicazione di una misura di prevenzione qualificata; inoltre, l’applicazione di misura cautelare, l’emissione del decreto che dispone il giudizio e, naturalmente, la sentenza di condanna per il delitto medesimo risultano elementi che – assieme ad altri – possono consentire al prefetto di desumere un tentativo di infiltrazione mafiosa volto all’adozione di un’informazione antimafia interdittiva.
Evidenzia, infine, la Corte l’esistenza nel nostro ordinamento delle pene accessorie previste dagli articoli 32-ter e 32-quater c.p., applicabili a seguito della condanna per il 640-bis c.p., i cui effetti sono in parte sovrapponibili alle conseguenze interdittive del 67, commi, 1, 2 e 4, codice antimafia.
Come conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale del delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche discende quella del delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato, per il quale i profili di irragionevolezza e sproporzione – evidenzia la Corte – risultano ancora più enfatizzati, considerato il limite edittale di pena sensibilmente più basso di quello del 640-bis c.p.
Anche in questo caso, la Corte ritiene di dover spendere le poche osservazioni eccedenti quelle già poste nell’analisi dell’altra fattispecie ricordando come «l’esigenza di prevenire l’infiltrazione mafiosa nel tessuto socio-economico rimane coperta da altre previsioni legislative».
Difatti, la condanna per il reato di truffa aggravata ai danni dello Stato può integrare un’ipotesi di pericolosità generica ex art. 1, comma 1, lettera b), codice antimafia, identificativa del cosiddetto truffatore seriale o abituale, ai fini dell’applicazione di una misura di prevenzione «con i conseguenti effetti interdittivi», oltre all’applicazione, come nel caso del 640-bis c.p., delle pene accessorie dell’incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione.
Alcuni rilievi.
Dalle argomentazioni con le quali la stessa Corte si preoccupa di chiarire la sostanziale assenza di ricadute della decisione sul fronte della difesa sociale da fatti di criminalità organizzata, è lecito trarre la conferma di come la legislazione di eccezione costituisca una sorta di minerale radioattivo da osservare stupefatti dietro una teca ma da non toccare, pena l’innesco di sistemi multipli di allarme.
Per questi presupposti, che rinviano alla complessità del momento politico-criminale in essere nel nostro Paese, la Sentenza va accolta con favore: in materia di antimafia nessun esito di razionalizzazione delle cuspidi dell’avanguardia repressiva appare scontato.
Va sottolineato comunque che la ricostruzione della Corte è affatto lineare nelle sue progressioni argomentative e mette in evidenza diversi aspetti sui quali non mancheranno osservazioni ben più dotte e ponderate delle embrionali qui dispiegate in modo affastellato.
Innanzitutto, la sovrapponibilità eterogenetica delle norme in materia di prevenzione antimafia – misure di prevenzione personali e patrimoniali, confisca allargata, comunicazioni e informazioni interdittive, pene accessorie, misure inibitorie in materia di appalti – a mente delle quali dall’eliminazione di un tassello quasi sempre non si ha l’eliminazione dell’effetto, che rifluisce da altro campo di materia.
La stratificazione intersecata tra settori ordinamentali differenti e la conseguente promiscuità tra logiche ordinanti calibrate su strutture e finalità eccentriche tra loro, non ha rafforzato la capacità di interpretazione di un “sistema” che oggi si vuole tale, ma – all’esatto opposto – ha contaminato i diversi ambiti creando un melting pot frammentato, incoerente, asistematico, nel quale, ad esempio, il settore amministrativo viene riletto alla luce di quello penalistico, quest’ultimo viene integrato dalle logiche preventive e di controllo tipiche della pubblica amministrazione, entrambi penetrano con la rispettiva idea di scopo nel settore della contrattualistica pubblica, e via dicendo.
In questa babele di linguaggi, continuano a moltiplicarsi gli interventi additivi di esclusiva portata simbolico-repressiva, che, come nel caso in esame, non hanno quasi mai alcun significato in termini di funzionalità politico-criminale.
A tacer del manifesto profilo di incostituzionalità, il caso in esame conferma che l’effetto inabilitante della riforma del 2018 era già previsto dalla possibilità di applicare per i delitti di truffa misure di prevenzione personali e patrimoniali, ovvero – nel caso del 640-bis c.p. – desumere da quel fatto il tentativo di infiltrazione mafiosa ai fini dell’applicazione di misure interdittive, oltre alla possibilità di recuperare la portata incapacitante attraverso le sanzioni accessorie del 32-ter e 32-quater c.p.
La decisione della Corte riafferma, inoltre, la logica sottesa alla originaria costituzione del catalogo previsto dal 51, comma 3-bis, c.p. e ne impermeabilizza la trama rispetto a eventuali, ulteriori innesti di fattispecie dai caratteri distonici.
Il legame tra la competenza distrettuale della Procura antimafia e la complessità di accertamento di reati a struttura associativa o organizzata, puniti con quadri edittali assai severi ed inseriti nei circuiti procedimentali derogatori al regime ordinario, costituiscono caratteri che in futuro impediranno – dovrebbero impedire – operazioni di facciata come quella regolata dalla Corte.
*Avvocato del Foro di Napoli, componente dell’Osservatorio UCPI sulle misure patrimoniali e di prevenzione
[1] “Non vi fermate. Dovete costruire la vostra torre. La torre di Babele. Sempre più grande. Sempre più alta e bella. Siete o non siete i padroni della terra?”, Edoardo Bennato, La torre di Babele, 1976, Ricordi, Milano.
[2] Per una ricostruzione della vicenda, volendo, Fattore, Il rumore sordo e prolungato della battaglia, in dirittodidifesa.eu, 6 maggio 2021,